Il segreto è la gioia

Transcript

Il segreto è la gioia
L’OSSERVATORE ROMANO
giovedì-venerdì 20-21 marzo 2014
pagina 5
La tenerezza che avvicina gli esseri umani
mi appare come un dono di Dio
discreto e silenzioso
Forse nascosto agli occhi di coloro che non l’hanno sperimentata
A colloquio con Jean Vanier
Il segreto è la gioia
di GIULIA GALEOTTI
È il mistero, silenzioso e affascinante, della vita e della fede. Due uomini nati in Paesi diversi, con origine,
storie, carismi e vocazioni diverse, si
trovano a scrivere parole simili sul
senso della testimonianza, della fragilità, dell’attenzione a chi sta i margini. Due uomini che ci invitano,
ciascuno con le sue parole e le sue
azioni, a essere, finalmente, cristiani
diversi, nuovi. L’uno, Jorge Mario,
nato a Buenos Aires nel 1936 in una
famiglia emigrata dall’Italia, gesuita,
diventerà Papa; l'altro, Jean, nato nel
1928 a Ginevra, figlio di un generale,
a 36 anni fonderà l’Arca, comunità
di vita con disabili mentali, presente
oggi in tutti i continenti.
Qualche ora prima del colloquio
che avrà in Vaticano con il Papa, incontriamo Jean Vanier, venuto in
Dai sottomarini all’Arca
Jean Vanier nasce nel 1928 a Ginevra, dove il padre,
generale, è consigliere militare presso la Società delle Nazioni. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Vanier fugge da Parigi con la famiglia, raggiungendo Londra su una torpediniera. Sconvolto e
attratto da bombe e sottomarini, a 12 anni decide di
entrare nel Royal Naval College. Nel 1950, però, lascia la Marina. Intendendo diventare sacerdote, va a
vivere nella comunità cristiana del domenicano Thomas Philippe, L’Eau Vive, una comunità di studenti
nella periferia di Parigi, vicino al convento domenicano Le Saulchoir.
Un anno dopo l’arrivo di Vanier, padre Thomas
deve abbandonare la direzione della comunità e
gliela affida. Il cambio provoca una frattura con il
convento: i domenicani non approvano che la direzione sia assunta da un laico, e così le porte di Le
Sauchoir vengono chiuse ai membri della comunità.
Nel frattempo, Vanier viene accettato come candidato al sacerdozio in Quebec. Sta per entrarvi quando
scoppia una nuova crisi a L’Eau Vive: il vescovo è
costretto a chiedergli di dare le dimissioni da direttore. L’espulsione lo lascia in uno stato d’incertezza
simile a quella in cui si era trovato, sette anni prima,
uscendo dalla Marina. Vanier decide di non finire il
suo ultimo anno di preparazione al sacerdozio e trascorre prima un periodo nella trappa di Bellefontaine, poi va a vivere da solo in una piccola fattoria,
infine passa due anni a Fatima.
Conseguita la laurea in filosofia nel 1962, Vanier
accetta la cattedra di Filosofia morale al Saint Michael’s College di Toronto. Solo un anno più tardi,
però, tutto cambia nuovamente: su invito di padre
Thomas (che ora, a Trosly-Breuil, è cappellano della
casa per disabili mentali Val Fleuri) ritorna in Francia. Poco dopo, Vanier compra nel paese un vecchio
rudere, e comincia a visitare istituzioni e ospedali
psichiatrici, rimanendo sconvolto dal caos e dalla
violenza in cui i disabili vengono fatti vivere.
Nell’agosto 1964 la svolta decisiva: Vanier decide
di accogliere nella sua casa due disabili mentali, Raphaël Simi e Philippe Seux. Nasce l’Arca. Il nome
viene scelto perché evoca sia l’arca di Noè che l’arca
dell’alleanza; del resto, così i padri della Chiesa
chiamano Maria. Oggi ci sono 137 comunità dell’Arca nel mondo. Nel 1997 Jean Vanier ha ricevuto il
premio Paolo VI per la sua opera a favore dello sviluppo e del progresso dei popoli.
Italia anche per festeggiare i cinquant’anni di vita dell’Arca, che ha
case a Roma e Bologna. L’età avanza, ma Vanier è sempre lui. Sono
sempre inconfondibilmente suoi gli
occhi dolci e sorridenti: guardandoli,
pensi a quanto amore può comunicare uno sguardo che, incrociandoti,
davvero ti vede. Uno sguardo che è
riuscito a mostrare al mondo quanto
possa essere arricchente ribaltare la
tirannia della normalità.
Sentiamo sempre la responsabilità
dell’intervista, e così, prima di questo nuovo incontro con Vanier, ci
siamo rilette alcuni dei suoi libri.
Nel farlo oggi, dopo aver avuto un
anno per ascoltare e conoscere Papa
Francesco, le pagine di Jean ci si rivelano ancora diverse: è lo stupore
di cui parlavamo in apertura, la vicinanza così forte e radicale tra padre
Jorge, divenuto successore di Pietro,
e il fondatore Vanier che, dopo diverse “vite”, riparato un rudere a
Trosly-Breuil in Piccardia, vi si trasferì con Raphaël e Philippe, conosciuti nel locale manicomio.
L’incontro del 21 marzo sarà davvero
il suo primo con Bergoglio? Avete così
tanti punti in comune che dovete esservi
già conosciuti!
(Ride). Lo sa che non è la prima
persona che me lo dice.
Un primo punto è l'enfasi che date al
valore della gioia nella fede. È il cuore
dell’«Evangelii gaudium»: «Con Gesù
Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».
Lei, Vanier, più volte ha parlato della
gioia dell'evangelizzare.
La prima evangelizzazione non
credo sia tanto quella di annunciare
Gesù. La prima evangelizzazione
consiste nell'offrire a tutti dei luoghi
in cui si ride, si balla, si celebra e in
cui si può vivere un senso di appartenenza. La gioia viene proprio dal
sentirsi appartenere a una comunità,
dal fatto di star bene insieme, di
non essere più soli. Il più grande
mezzo di evangelizzazione lo troviamo oggi in piccole comunità in cui
Nella trilogia su Gesù di Nazaret
Entra in scena il protagonista
di GERHARD L. MÜLLER
Con la trilogia di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI su Gesù di Nazaret non siamo di fronte a un saggio di un teologo
privato, che avanza le proprie ipotesi di
ricerca, né dinanzi a un documento del
Pontefice nel suo servizio magisteriale.
Altresì, ci è offerto, con rigore scientifico
e sapienza spirituale, il frutto di una lunga e intensa «ricerca personale del volto
del Signore» donato umilmente a coloro
che avvicinano la figura di Gesù con onestà intellettuale e sincero spirito di ricer-
Opera omnia
Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento
del cardinale prefetto della Congregazione per
la dottrina della fede alla presentazione — il 20
marzo all’Istituto superiore di scienze religiose
San Roberto Bellarmino di Capua — del sesto
volume, tomo primo, dell’opera omnia
di Joseph Ratzinger Gesù di Nazaret. La figura e
il messaggio (Libreria Editrice
Vaticana) che raccoglie i tre titoli della trilogia
su Gesù di Nazaret.
ca. Dopo aver chiarito il genere letterario
della sua opera — non si tratta di una vita di Gesù né di una cristologia, ma si richiama al trattato sui «misteri della vita
di Gesù» — l’autore afferma di essere
«guidato dall’ermeneutica della fede, ma
al contempo tenendo conto responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede».
Dal punto di vista del metodo, occorre
coniugare continuità e novità a molteplici
livelli: tra l’Antico e il Nuovo Testamento; tra il Gesù del ministero pubblico e il
Signore risorto; tra il Gesù dei Vangeli,
la Chiesa primitiva e le successive generazioni cristiane. Dal punto di vista del
contenuto, si tratta di uno sguardo che si
volge all’incontro personale con Cristo,
nella fede della Chiesa.
Alla luce delle alterne vicende della ricerca storica su Gesù, la nuova impostazione della cristologia dogmatica avverte
l’esigenza irrinunciabile di ricomporre
prospettiva “dall’alto” e prospettiva “dal
basso”, evitando di accettare come punto
di partenza l’alternativa tra Gesù storico
e Cristo della fede. La considerazione
dell’inscindibile nesso tra storia e trascendenza, costitutivo dell’evento di Cristo,
attestato dai Vangeli, permette di sottrarsi ai due estremi: da una parte, a una
concezione oggettivistica della rivelazione; dall’altra, a un soggettivismo trascendentalistico. Solo una riflessione storica
trascendentale rende ragione del superamento dell’opposizione tra soggetto e oggetto, tra storia e dogma, tra Gesù della
storia e Cristo della fede.
A partire da questa consapevolezza critica, è possibile volgersi alla confessione
di Gesù come Cristo, che si fonda su un
evento contingente storico non deducibile. L’identificazione del Crocifisso-Risuscitato, quale mediatore del regno escatologico di Dio, procede dal giudizio originario dei discepoli, che riconoscono
nell’evento pasquale la sola via di accesso
alla persona del Gesù storico.
L’unità di Gesù con Dio è il contenuto
della confessione di fede originaria, riconosciuta sia nella forma predicata e vissuta dal Gesù pre-pasquale, sia nella relazione intradivina del Figlio eterno col Padre, cui si accede mediante l’evento pasquale. Tale percezione, tuttavia, rimane
inaccessibile a una conoscenza puramente
naturale dei discepoli, perciò dipende
dall’azione dello Spirito Santo — dono
del Crocifisso-Risorto tornato al Padre.
Con la trilogia abbiamo di fronte la vivida rappresentazione del «protagonista
finalmente apparso» che non corrisponde
al cadavere vivisezionato dell’esegesi
scientifica, quanto piuttosto alla presenza
attuale di Gesù nella vita della Chiesa,
trasmesso dalla tradizione dei testimoni,
nella ininterrotta catena che va da Pietro
ai suoi successori. Tale opera vale dun-
vivono persone felici, gioiose e che
si vogliono bene.
La gioia è esattamente quello che lei
dice essere il cuore dell'Arca.
La gioia è il segreto dell’Arca! Se
qualcuno viene all’Arca e vi resta un
mese, un anno o quaranta, è perché
vi trova felicità e piacere. Nella nostra società nessuno crede che all’Arca la gioia sia possibile. Le persone
pensano che, per restarvi, occorra essere un eroe o un santo. Ma non è
vero: restiamo all’Arca perché ci piace. L’Arca non è solo un posto dove
si fa del bene. È una comunità di
pace che può testimoniare la possibilità, per uomini e donne di cultura e
capacità differenti, di vivere felici insieme, celebrando la comune umanità.
Centrale è, dunque, la comunità...
Nella comunità abbiamo bisogno
gli uni degli altri. Capiamo facilmente che il debole ha bisogno del
forte, ma, forse, quello che facciamo
più fatica a comprendere è che anche il forte ha bisogno del debole.
Abbiamo bisogno di chi
è piccolo, di chi è vulnerabile. Abbiamo bisogno
del povero per scoprire
la nostra povertà. Vivendo con persone ferite
scopriamo le nostre ferite. E forse accogliendo
la ferita degli altri impariamo ad accogliere la
nostra. Perché sono così,
perché sono stato abbandonato? È la stessa domanda di Gesù: Dio
mio, perché mi hai abbandonato? Dobbiamo
cercare di non spiritualizzare troppo questa domanda di Gesù: è il grido della sofferenza ed è
il grido della sofferenza
umana. Gesù non voleva
creare un mondo competitivo, voleva creare un
corpo. Paolo aggiunge:
«Quelle parti del corpo
che sono le più deboli,
le meno presentabili,
quelle parti del corpo
che nascondiamo, sono
necessarie al corpo e devono essere
onorate». Questa è la visione di Gesù: una società in cui il forte e il debole hanno bisogno gli uni degli altri. Quando facciamo delle cose per
gli altri, finiamo spesso per farli sentire piccoli perché io ti sto facendo
qualcosa; quando siamo generosi,
abbiamo un certo potere su quella
persona. All’Arca, invece, entriamo
in relazione, ed è nella relazione che
io mostro all’altro che è importante.
In questo modo, anche io divento
vulnerabile: entrando in relazione
con le persone disabili, noi stessi diventiamo vulnerabili. Ed è così che
si sentiranno compresi e amati.
Un altro punto in comune con il Papa:
la differenza tra potere e autorità.
L’autorità risveglia e sostiene la
coscienza di ciascuno, mentre il potere vi si sostituisce, addormentando
le coscienze. L’autorità vera, luogo
di ascolto reciproco e di dialogo, deve sempre ricordare che la prima
delle leggi è quella dell’amore, della
compassione. Con l’immagine del
buon pastore, Giovanni ci aiuta a discernere ciò che distingue il potere
dall’autorità. La prima caratteristica
del buon pastore sta nel chiamare
ciascuno per nome: chi vive l’autorità conosce le forze, le debolezze e la
missione di ognuno, perché ascolto,
conoscenza e fiducia conducono a
una relazione di comunione. Seconda caratteristica: il pastore dà la vita
per le pecore. Il suo obiettivo è che
ciascuno sviluppi la propria coscienza e possa crescere, diventando sempre più umano.
Orfeo Vian, «Incredulità di Tommaso» (1949)
que a mostrare che il Verbo di Dio veduto, udito, toccato e contemplato dai discepoli (cfr. 1 Giovanni, 1, 1-4), la cui memoria viva è trasmessa dalla Chiesa, è la
misura per tutti coloro che nutrono speranza che Dio possa incontrarli nella storia, nella loro storia.
C’è poi lo sforzo di porre i margini al
centro. Il Papa denuncia la novità
dell’attuale cultura dello scarto: «Gli
esclusi non sono sfruttati ma rifiuti,
avanzi».
È un sentimento orribile quello di
sentirsi colpevoli di esistere e di non
avere un posto nel mondo. Mangiare alla tavola degli esclusi significa
rifiutare di rinchiudersi nel proprio
clan, tribù, classe sociale, e diventare
loro amico, concorrendo così all'uni-
tà. Il pericolo che vedo è quello della ideologia secondo cui tutti debbono essere uguali. Invece, dobbiamo
tutti crescere nell’amore, aprendoci
al prossimo. La strada è lunga. San
Francesco ha detto di aver vissuto a
lungo con la repulsione per i lebbrosi, ma poi li ha scoperti. Dobbiamo
prenderci il tempo di scoprire la persona dietro la difficoltà. Il mondo
vuole accettare i disabili solo se possono essere reinseriti, solo se possono in qualche modo diventare normali. È il rifiuto di accettare le persone semplicemente per ciò che sono. Perché la normalità o l’anormalità non esistono: ogni persona è diversa.
È un punto, però, che anche tanti sacerdoti ancora non hanno colto...
È qualcosa di molto umano. La
gente ha paura dei disabili, non sanno dove cominciare, cosa fare, quindi li rifiutano. San Francesco lo scrive nel suo testamento: quando mi
sono avvicinato ai lebbrosi, è sgorgata una nuova delicatezza nel mio
spirito e nel mio corpo, e ho iniziato
a servire il Signore. Tendiamo a rifiutare le persone che non comprendiamo, quelle con cui non riusciamo
a comunicare. Viviamo, anche nella
Chiesa, circondati da muri che paiono invalicabili: ma basta un’impercettibile crepa per farci sperare. E la
prima difficoltà, troppe volte, è capire la differenza tra la malattia e la
disabilità mentale.
Debolezza ed errore sono in primis i
nostri.
In una lettera, Carl Jung scrive a
una donna: «Ammiro voi cristiani,
quando vedete qualcuno che ha fame e sete, voi vedete Gesù. Quando
visitate qualcuno che è in prigione o
che è malato voi fate visita a Gesù.
Quando accogliete uno straniero o
vestite quelli che sono nudi, voi vedete Gesù». E aggiunge: «È molto
bello, ma quello che non capisco è
che voi non vedete Gesù nella vostra
stessa povertà. Perché Gesù è sempre nel povero al di fuori di voi,
mentre lo negate nella povertà che è
dentro di voi?». La gente viene
all’Arca per servire i poveri, ma resta
solo se si scopre povera.
Altro punto, meraviglioso e fondante: la
tenerezza. Scrive il Papa: «Il Figlio di
Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza».
La tenerezza è un regalo speciale
dello spirito. Non sono qui per dirti
cosa è giusto, cosa devi fare, ma sono qui per incontrarti. La tenerezza
sta alla base dell’Arca. È un tocco rispettoso, offre sicurezza, rivela l’importanza e il valore sacro dell’altro,
diventa esortazione a crescere.
L’ascolto dell’altro è un fatto di tenerezza. È accoglienza, non giudizio. La tenerezza che avvicina gli esseri umani mi appare come un dono
di Dio, discreto, silenzioso, forse nascosto agli occhi di coloro che non
l’hanno sperimentata, anche se è stata più o meno inconsciamente desiderata. Un giorno domandai a Patrick Mathias, che è stato a lungo
psichiatra a Trosly, cos’è la maturità
umana. Mi rispose: la tenerezza.