RASSEGNA STAMPA FALCRI DEL 21 GENNAIO

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RASSEGNA STAMPA FALCRI DEL 21 GENNAIO
RASSEGNA STAMPA FALCRI DEL 21 GENNAIO 2010
A cura di Manlio Lo Presti
ESERGO
Il giorno irrompe
Il colore del cielo
Si cambia d’abito
Un Haiku di ISSA (poeta giapponese 1762-1826)
In: HAIKU, Rizzoli, 1995, p. 65
Villa Lo Pinos, L’Avana – Cuba – www.tripadvisor.it (mauro2007)
www.corriere.it
MA L'EURIBOR RESTA AI MINIMI.
FINAZIAMENTI ALLE IMPRESE
NEGATIVO
INVECE
IL
TREND
DEI
Abi: a dicembre risalgono i tassi sui mutui
E' la prima volta dall'agosto 2008. A novembre erano al 2,90%, contro il 2,95%
del mese scorso
MILANO - I tassi sui mutui concessi dalle banche italiane tornano a salire nel
dicembre 2009, per la prima volta dall'agosto 2008 (mese in cui erano al 5,95%,
dopo un 5,92% nel luglio 2008). È quanto emerge dal rapporto mensile dell'Abi,
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l'Associazione bancaria italiana. Il dato, che sintetizza l'andamento dei tassi fissi e
variabili ed è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le
erogazioni in base alla tipologia di mutuo, è infatti risalito al 2,95% dal 2,90% di
novembre. Lettura, notano dall'ufficio studi Abi, che tuttavia non segnala
un'inversione di tendenza e riflette di fatto una «sostanziale stabilità» dei tassi. Il
dato sconta infatti l'effetto della composizione tra i diversi tipi di mutuo. Del resto
almeno per quanto riguarda i tassi variabili, l'Euribor, il parametro sul quale si
fonda il tasso della maggior parte dei mutui è rimasto il mese scorso ai minimi.
FINANZIAMENTI ALLE IMPRESE - Resta invece negativo, sempre secondo il
rapporto dell'Abi, il trend dei finanziamenti in Italia alle imprese a novembre. I
tassi d'interesse sul totale dei prestiti a fine 2009 scendono infatti in media al
3,77% (3,82% a fine novembre).
Redazione online
NELLA ZONA EURO PESA LA SITUAZIONE DELLA GRECIA. GIAPPONE: RISCHIO
DI NUOVA RECESSIONE
Fmi: migliorano le prospettive di crescita dell'economia italiana , Pil +1% nel 2010
Fmi: velocità diverse nel mondo, ma migliora congiuntura globale. Bce: ricadute
escluse
MILANO - Il Fondo Monetario Internazionale vede un miglioramento nelle
prospettive di crescita dell'economia italiana. Secondo le stime stilate nell'ultima
bozza del World Economic Outllok il Pil italiano quest'anno crescerà dell'1%,
ovvero 0,8 punti percentuali in più rispetto alle ultime previsioni ufficiali, e nel
2011 segnerà un +1,3% (+0,6 punti rispetto alle stime di ottobre). Il Fondo
Monetario Internazionale rivede al rialzo anche le stime per la congiuntura
globale. L'economia mondiale crescerà quest'anno del 3,9% (0,8 punti percentuali
in più rispetto alle stime di ottobre) e del 4,2% nel 2011 (invariato). Secondo il
Fmi inoltre il Pil degli Usa salirà nel 2010 del 2,7% (+1,2) e nel 2011 del 2,3% (in
questo caso la revisione è invece al ribasso di 0,5 punti percentuali). A trainare la
ripresa sarà come sempre la Cina per cui è previsto nel 2010 una crescita del Pil
del 10%.
STRAUSS-KHAN - «La ripresa globale appare più marcata di quanto previsto»,
aveva affermato in precedenza Dominique Strauss-Kahn, direttore generale
dell'Fondo monetario internazionale (Fmi), in un discorso a Hong Kong. Ma la
situazione resta «fragile» e il recupero «procede a velocità diverse nelle varie
regioni». L'Fmi «prevede che il tasso di crescita globale nel 2010 superi il 3%
della proiezione più recente», tanto che le nuove stime del Fondo che saranno
diffuse il 26 gennaio subiranno un aggiornamento. La crescita globale del 3%
resta un miraggio per l'economia italiana che, secondo quanto affermato martedì
dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, nel 2010 crescerà intorno all'uno per
cento, o di qualche decimale in più o in meno.
ZONA EURO - Per quanto riguarda la zona euro, «probabilmente la prima metà
del 2010 sarà un po' più contenuta della seconda metà del 2009», ha chiarito
Jürgen Stark, membro del comitato esecutivo e capo economista della Banca
centrale europea (Bce), in un discorso all'Università di Lipsia. Stark ha però
escluso la possibilità di una ricaduta: «Non è probabile che ci sia una ricaduta,
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piuttosto ci sono le caratteristiche di una ripresa graduale e accidentata, ma
senza rischi per la stabilità dei prezzi».
GRECIA - A preoccupare la zona euro è però la situazione del deficit della Grecia.
Stark ha reso noto che la Bce non cambierà le proprie regole per aiutare Paesi in
difficoltà come la Grecia. «La Grecia sa che deve mettere ordine in casa propria»,
ha aggiunto Stark. Le priorità assolute del governo greco devono essere «una
svolta radicale nelle proprie politiche economiche e un ampio piano di
consolidamento di bilancio». Intanto l'euro è sceso sotto quota 1,42 sul dollaro, ai
minimi da cinque mesi, a causa della preoccupazione per i conti pubblici greci. La
situazione della Grecia «è un problema serio, ma non credo che porterà a una
frammentazione di Eurolandia», ha affermato Strauss-Kahn in un'intervista a
Bloomberg television. Secondo la stampa di Atene c'è chi specula contro la Grecia
in particolare e l'euro in generale. Secondo il quotidiano si tratterebbe di John
Paulson, il manager americano di hedge fund che ha guadagnato miliardi di dollari
scommettendo sui mutui subprime. Secondo il giornale, l'ex banchiere di Bears &
Stearn avrebbe orchestrato una vasta operazione per speculare contro il debito
greco e contro l'euro. Paulson ha recentemente fatto una grande scommessa
sull'oro, cresciuto del 36% nell'ultimo anno, lanciando un nuovo fondo sui titoli
minerari e altri investimenti correlati.
GIAPPONE - Nubi nere si addensano però anche sul Giappone, già sotto choc per
il fallimento della Japan Airlines che costerà il posto di lavoro a 15.600 persone. Il
ministro delle Finanze Naoto Kan, ribadendo l'impegno del governo a combattere
la deflazione, ha affermato che che in Giappone il rischio di una ricaduta non è
scomparso. Nel proprio rapporto mensile, l'esecutivo ribadisce l'impegno a
lavorare insieme alla Banca centrale per combattere la deflazione e garantire la
ripresa economica. «Si vedono alcuni segnali positivi, ad esempio i mercati
azionario e valutario sono stabili, ma non possiamo essere ottimisti», viene detto
nel rapporto.
Redazione online
www.denaro.it
Ecofin, accordo per il recupero crediti
L'Ecofin ha trovato un accordo sulla direttiva per facilitare il recupero dei crediti
fiscali. Per il ministro Giulio Tremonti "si tratta di un passo avanti» nella buona
direzione.
Ora
si
attende
l'opinione
dell'Europarlamento,
deciderà
successivamente il primo Consiglio Ue utile.
www.milanofinanza.it
Bank of America e Morgan Stanley deludono le attese
20/01/2010 13.40
Bank of America ha deluso le attese. Il colosso bancario Usa ha annunciato per il
2009 un utile netto di 6,3 miliardi di dollari e segnalato per il quarto trimestre una
perdita per azione di 0,60 dollari, incluse le poste straordinarie. La perdita netta
ammonta quindi a 194 milioni di dollari nel quarto trimestre e gli accantonamenti
di perdite su crediti sono risultati pari a 10,1 miliardi di dollari, comunque in calo
rispetto ai 12,8 miliardi del trimestre precedente.
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Includendo invece le voci straordinarie rappresentate dai dividendi pagati sulle
azioni privilegiate e l'impatto negativo per 4 miliardi legato alla restituzione dei
fondi Tarp, il passivo è stato di 5,2 miliardi. Le previsioni Thomson Reuters
I/B/E/S indicavano per il quarto trimestre una perdita netta di 0,52 dollari.
"Se è sicuramente deludente riportare una perdita per il quarto trimestre", ha
dichiarato il Ceo di Bank of America, Brian T. Moynihan, "è anche vero che siamo
riusciti a realizzare notevoli passi in avanti. In primo lungo abbiamo risarcito i
contribuenti rifondendo i fondi Tarp con l'aggiunta degli interessi e in secondo
luogo abbiamo rafforzato la nostra base di capitale mediante il collocamento di
successo di nuove quote azionarie".
In terzo luogo "tutte le nostre attività non legate al settore del credito hanno
contribuito positivamente alla generazione degli utili". In chiave prospettica,
Moynihan si è detto "incoraggiato dai segnali di miglioramento dell'economia"
aggiungendo di aver riscontrato "segnali di stabilizzazione nei costi del credito,
soprattutto nel business dei servizi al consumatore".
Detto questo, le condizioni economiche rimangono fragili e gli alti livelli di
disoccupazione per la banca dureranno oltre esercitando un effetto di freno sulle
spese per i consumi e sulla crescita. Il titolo BofA, debole nel pre mercato, ora
sale dello 0,80% a 16,45 dollari.
Anche Morgan Stanley ha deluso le aspettative, colpita nei conti dai costi di
contabilità legati all'apprezzamento del valore del debito societario. L'utile per
azione è stato di 29 centesimi di dollaro, 413 milioni di dollari in totale, a fronte
dei 36 centesimi indicati nel consensus elaborato da Thomson Reuters I/B/E/S.
L'utile delle attività correnti è invece risultato di 14 centesimi per azione e i ricavi
si sono attestati a 6,8 miliardi. Il risultato è da confrontare però con la perdita da
10,5 miliardi, o di 11,35 dollari a azione, negli ultimi tre mesi del 2008.
Miglioramenti si sono notati nel ramo di investment banking, con ricavi da attività
di underwriting a 950 milioni di dollari contro i 245 milioni dell'anno precedente.
Il Ceo, James Gorman, ha chiesto al board dell'istituto di non pagargli per il 2009
alcun bonus in contanti. La stessa richiesta è stata formulata dal presidente ed ex
Ceo, John Mack. Il titolo della banca scivola a Wall Street dell'1,38% a 30,73
dollari. In Europa il comparto bancario viaggia però in rosso allo Stoxx (-1,58%).
Barclays cede il 2,16% a Londra, Ubs il 2,12% a Zurigo e Societe Generale
l'1,89% a Parigi. In calo Bnp (-1,29%) e Bbva (-1,43%), mentre in Piazza Affari
scivola Bpm, che cede il 2,58% dopo la presentazione del piano industriale agli
analisti finanziari. Dalle sale operative fanno notare che il mercato non ha gradito
il fatto che il piano industriale escluda operazioni straordinarie da qui al 2012.
Intesa Sanpaolo cede l'1,67%, Unicredit l'1,64%, mentre perdono il 5% i diritti
per l'aumento di capitale, e Mediobanca lo 0,92%.
Francesca Gerosa
www.ilmessagero.it
Anche la Ue studia tassa sulle banche
Tremonti: nel 2010 crescita pil 1%
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ROMA (19 gennaio) - L'Unione europea studia una tassa sulle banche come quella
varata dall'amministrazione di Barack Obama. L'ipotesi di introdurre nell'Unione
una tassa sulle banche per recuperare gli aiuti dati al settore finanziario - sul
modello della decisione annunciata dall'amministrazione Obama negli Usa approda oggi sul tavolo dell'Ecofin, dove l'Italia presenterà un Programma di
stabilità dove è indicata una crescita del pil 2010 «intorno all'1%».
«Noi per la crescita metteremo l'1%, più o meno», ha detto il ministro
dell'economia, Giulio Tremonti. «Ma potremmo anche mettere un altro numero.
Purtroppo - ha proseguito il ministro - siamo costretti a dover prevedere come
sarà la situazione al 31 dicembre 2010. C'è chi ci crede, e c'è chi è obbligato a
farlo. Io non sono un fanatico. E noi siamo obbligati».
Tremonti ha minacciato poi di porre il veto in Europa sulle questioni fiscali
se Bruxelles non farà chiarezza su come ha funzionato finora il sistema
dell'euroritenuta. «L'Italia - ha spiegato il ministro - ha chiesto alla Commissione
Ue un resoconto su quanto le spetta, perchè non ci sembra ci sia stato
riconosciuto quanto dovuto dai Paesi che ci devono l'euroritenuta. Ho detto alla
Commissione - ha aggiunto - "I want my money back", voglio i miei soldi indietro.
Perché non mi sembra ci sia una simmetria tra l'ammontare dei capitali italiani in
Austria o in Lussemburgo e l'euroritenuta che questi due Paesi ci versano».
La Ue studia tassa sulle banche come quella di Obama. A porre la questione
di una tassa sulle banche il ministro dell'economia svedese, Anders Borg: una
tassa sui bilanci degli istituti di credito, ha detto, ha più logica di una tassa sulle
transazioni. Finora l'ipotesi sul "modello Obama" ha incontrato più scetticismo che
entusiasmo, anche se ha l'appoggio del ministro Tremonti, che in una intervista al
Sole 24Ore ha detto: «La stretta di Obama sulle banche Usa mi ricorda un po'
Robin Hood e io, come si sa almeno dai tempi di Parmalat, sto dalla parte di
Robin Hood». Per il presidente dell'eurogruppo, Jean-Claude Juncker, la tassa è
tuttavia difficile da attuare in Europa, visto che la materia è di competenza dei
singoli Stati.
www.ilsole24ore.com
Abi: rallenta la stretta al credito risalgono i tassi sui mutui
Dopo i minimi storici toccati lo scorso novembre, a dicembre i tassi applicati
dalle banche sui mutui sono tornati a salire, seppur lievemente, attestandosi al
2,95% rispetto al 2,90% registrato il mese precedente. È quanto emerge
dall'ultimo bollettino dell'Abi. Nel dettaglio, il tasso sui prestiti in euro alle famiglie
per l'acquisto di abitazioni - che sintetizza l'andamento dei tassi fissi e variabili ed
è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le erogazioni in base
alla tipologia di mutuo - è risultato pari al 2,95%, +5 punti base rispetto al mese
precedente ma ben -214 punti base rispetto a dicembre 2008. Un aumento del
livello dei tassi non si verificava dall'agosto 2008, quando questi erano saliti al
5,95% rispetto al 5,92% del luglio precedente. Da allora i tassi sono sempre scesi
di mese in mese fino a toccare appunto il minimo storico lo scorso novembre.
L'ultimo bollettino dell'Abi disegna un fine anno in chiaroscuro per le banche
italiane. Se infatti i finanziamenti a famiglie e imprese sono ripartiti a dicembre, a
novembre si segnala un preoccupante aumento delle sofferenze sui crediti. A
novembre le sofferenze lorde sono risultate pari a 58 miliardi di euro, 1,4
miliardi in più rispetto ad ottobre 2009 e 18,4 miliardi in più rispetto a novembre
2008. La variazione annua si è portata così a +46,5%. In rapporto agli impieghi
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le sofferenze risultano pari al 3,25%, con questo indicatore passato dal 2,27% di
novembre 2008 ad oltre il 3,3% di novembre scorso.
Le sofferenze al netto delle svalutazioni, a novembre «secondo le nuove
segnalazioni disponibili per il solo periodo tra dicembre 2008 e novembre 2009»
sono risultate pari a 34,7 miliardi di euro, 1,4 miliardi in più rispetto ad ottobre
2009 e 13 miliardi in più rispetto a fine 2008.
Il rapporto sofferenze nette/impieghi totali si è collocato a 1,97% (1,24% a
dicembre 2008). Il rapporto sofferenze nette/patrimonio di Vigilanza è risultato
pari a 11,91% a novembre 2009 (7,84% a fine 2008).
I finanziamenti a famiglie e imprese, come accennato, mostrano a dicembre
un incremento tendenziale dell'1,6%. Un dato che se allargato a tutto il settore
privato (ossia anche a investitori istituzionali) scende di un punto decimale
attestandosi all'1,5%. Ma certo è, sottolinea l'Abi, che su base annua i
finanziamenti erogati dalle banche italiane a famiglie e imprese hanno fatto
segnare un aumento dell'1,7% dopo aver raggiunto il tasso minimo di crescita (+
0,5%) a ottobre. Dati che pongono il sistema bancario italiano in netta
controtendenza rispetto all'atteggiamento dimostrato nell'anno della crisi dai
principali competitors dell'area euro, dove il totale degli impieghi ha registrato
una flessione dell'1,03%. Un calo generale che non ha risparmiato gli impieghi in
Germania (-1,3%), Francia (-0,4%), Spagna (-2,1%) e Olanda (-3,2%).
20 gennaio 2010
Wall Street, è sindrome cinese Tensione su hi-tech e banche
di Vittorio Carlini
Giornata di vendite sui mercati finanziari. In Europa Parigi ha perso il 2%,
Francoforte il 2,09% e Londra l'1, 8 per cento. A livello di macrosettori, le
perdite hanno colpito le Materie Prime (DJ Eurostoxx 600 di riferimento: -3,9%),
le Auto (-2,9%) , le Banche (-2,33%) e le Costruzioni (-2,24%). In un simile
scenario Piazza Affari ha sofferto anch'essa: il Ftse Mib e il Ftse All Share hanno
chiuso con una perdita oltre il 2 per cento.
Il «la», alla faccia del tanto decantato "decoupling", alla giornata in rosso
dell'Europa è arrivato da Wall Street che ha aperto in calo e ha chiuso sempre in
calo: il Dow Jones ha ceduto l'1,15% (112 punti, la peggior performance da
metà dicembre scorso), il Nasdaq l'1,26% e l'S&P500 l'1,06 per cento. Quali le
motivazioni per un simile trend delle piazze americane? In primis, bisogna
rilevare lo scenario di fondo di ansia che ha attanagliato gli investitori. Una
preoccupazione che ha un'origine diversificata: da un lato, ci sono stati i dati sul
mercato immobiliare: il numero di nuovi cantieri avviati a dicembre è sceso del
4%, rispetto alle previsioni relative a una flessione dello 0,2 per cento. Le stime
del dipartimento del Commercio, per tutto il 2009, indicano l'avvio della
costruzione di 554.000 nuove case: il calo è del 39% rispetto al 2008, il livello più
basso mai raggiunto. Dall'altro, c'è l'indicazione arrivata dal Pechino, dove le
autorità bancarie cinesi hanno esortato i principali istituti finanziari del paese a
bloccare i prestiti, dopo la fiammata di inizio anno, fino alla fine di gennaio. Una
mossa interpretata da molti come l'indizio del pericolo di una bolla e di un
aumento del costo del credito. Cui non può non aggiungersi il timore per i conti
della Gregia i cui Cds sono balzati verso l'alto.
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All'interno di questo mood, i titoli bancari dei gruppi che hanno pubblicato i dati
trimestrali (non tutti così terrificanti) sono stati venduti senza troppi problemi. Ma
non sono stati solo real estate e finanza. Anche il settore tecnologico ha suscitato
perplessità. Ieri, a mercati chiusi, Ibm ha comunicato i numeri del quarto
trimestre 2009: gli utili sono cresciuti dell'8,7 per cento. Un buon risultato che,
però, è stato oscurato dalle previsioni societarie sul 2010 che sono al ribasso. E
tanto è basttao per far fioccare le vendite sui titoli hi-tech.
Tornando in Europa, tra le blue chip italiane, è salita StM dopo i dati incoraggianti
giunti dal settore tech grazie all'ottima trimestrale di Ibm. Bene Lottomatica dopo
che la controllata Usa Gtech ha vinto la gara per la gestione dei giochi nello stato
del Maryland. Interesse anche su Bulgari, in scia ai dati positivi del luxury brand
Richemont. Male, invece, sulla scia del calo in Europa i cementieri: giù Buzzi
Unicem e Italcementi. Tonfo di Pop Milano (-4,15%). Ma, in generale, i bancari
hanno sofferto: Intesa Sanpaolo (-3,35%), Banco Popolare (-3,07%)
UniCredit (-3,17%), Mediobanca (-2,12%).
Sul fronte delle valute da rilevare che l'euro ha chiuso sui mercati europei sotto
quota 1,41 contro il dollaro. La moneta unica ha ceduto ulteriormente terreno nei
confronti del biglietto verde toccando un minimo di 1,409 e trattando sul finale a
1,4099 (1,4263). Evidentemente, i timori sullo stato dell'economia greca, che
hanno spinto in alto i rendimenti dei titoli di stato di Atene, e le preoccupazioni
seguite alle indiscrezioni sulla volontà della Cina di ridurre gli impieghi bancari
hanno spinto gli operatori a rifugiarsi nel dollaro.
20gennaio 2010
Abi: rallenta la stretta al credito risalgono i tassi sui mutui
Dopo i minimi storici toccati lo scorso novembre, a dicembre i tassi applicati
dalle banche sui mutui sono tornati a salire, seppur lievemente, attestandosi al
2,95% rispetto al 2,90% registrato il mese precedente. È quanto emerge
dall'ultimo bollettino dell'Abi. Nel dettaglio, il tasso sui prestiti in euro alle famiglie
per l'acquisto di abitazioni - che sintetizza l'andamento dei tassi fissi e variabili ed
è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le erogazioni in base
alla tipologia di mutuo - è risultato pari al 2,95%, +5 punti base rispetto al mese
precedente ma ben -214 punti base rispetto a dicembre 2008. Un aumento del
livello dei tassi non si verificava dall'agosto 2008, quando questi erano saliti al
5,95% rispetto al 5,92% del luglio precedente. Da allora i tassi sono sempre scesi
di mese in mese fino a toccare appunto il minimo storico lo scorso novembre.
L'ultimo bollettino dell'Abi disegna un fine anno in chiaroscuro per le banche
italiane. Se infatti i finanziamenti a famiglie e imprese sono ripartiti a dicembre, a
novembre si segnala un preoccupante aumento delle sofferenze sui crediti. A
novembre le sofferenze lorde sono risultate pari a 58 miliardi di euro, 1,4
miliardi in più rispetto ad ottobre 2009 e 18,4 miliardi in più rispetto a novembre
2008. La variazione annua si è portata così a +46,5%. In rapporto agli impieghi
le sofferenze risultano pari al 3,25%, con questo indicatore passato dal 2,27% di
novembre 2008 ad oltre il 3,3% di novembre scorso.
Le sofferenze al netto delle svalutazioni, a novembre «secondo le nuove
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segnalazioni disponibili per il solo periodo tra dicembre 2008 e novembre 2009»
sono risultate pari a 34,7 miliardi di euro, 1,4 miliardi in più rispetto ad ottobre
2009 e 13 miliardi in più rispetto a fine 2008.
Il rapporto sofferenze nette/impieghi totali si è collocato a 1,97% (1,24% a
dicembre 2008). Il rapporto sofferenze nette/patrimonio di Vigilanza è risultato
pari a 11,91% a novembre 2009 (7,84% a fine 2008).
I finanziamenti a famiglie e imprese, come accennato, mostrano a dicembre
un incremento tendenziale dell'1,6%. Un dato che se allargato a tutto il settore
privato (ossia anche a investitori istituzionali) scende di un punto decimale
attestandosi all'1,5%. Ma certo è, sottolinea l'Abi, che su base annua i
finanziamenti erogati dalle banche italiane a famiglie e imprese hanno fatto
segnare un aumento dell'1,7% dopo aver raggiunto il tasso minimo di crescita (+
0,5%) a ottobre. Dati che pongono il sistema bancario italiano in netta
controtendenza rispetto all'atteggiamento dimostrato nell'anno della crisi dai
principali competitors dell'area euro, dove il totale degli impieghi ha registrato
una flessione dell'1,03%. Un calo generale che non ha risparmiato gli impieghi in
Germania (-1,3%), Francia (-0,4%), Spagna (-2,1%) e Olanda (-3,2%).
20 gennaio 2010
Bpm: +45% gli utili nel 2012 Ok al nuovo piano industriale
Il cda della Bpm ha approvato all'unanimità il piano industriale 2010-2012.
L'istituto prevede di raggiungere nel 2012 un utile netto di 378 milioni (+45,5%
medio annuo sul 2009). Il Roe (ritorno degli investimenti) punta a passare dal
3,3% al 9,5%. La crescita degli impieghi nel triennio sarà del 7,6% e porterà il
totale dell'aggregato a 40 miliardi di euro. Gli impieghi beneficeranno della
prevista ripresa del ciclo economico, ma anche delle iniziative del Piano volte ad
incrementare l'operatività con le famiglie e la maggior penetrazione commerciale
tra le imprese. La raccolta è prevista a 40 miliardi di euro, contro i 34,6 miliardi
attuali. Il core tier 1 (coefficiente di patrimonializzazione) stimato è al 7,20%.
I proventi operativi sono attesi a 2,2 miliardi (+8,1% medio annuo su fine
2009), con risultato della gestione operativa a un miliardo (+17,7%). Per i costi,
d'altra parte, è atteso un aumento limitato al 2,3% medio annuo. Il risparmio
gestito é visto in crescita del 7,8% a 29 miliardi, mentre l'amministrato é atteso a
26 miliardi (+8,9%).
Il piano prevede una serie di interventi per «migliorare l'efficienza» del gruppo
che comporterà la riduzione degli organici. Nel 2009 l'azienda ha avviato un
piano di prepensionamenti (ma anche di nuove assunzioni) che comporterà una
diminuizione di circa 600 dipendenti. Nel 2012, si legge nel comunicato del
gruppo, saranno 8.628. Gli sportelli del Gruppo saranno 807 (+15 rispetto a fine
2009).
Le tre direttrici principali indicate dall'istituto sono la valorizzazione della
clientela esistente, il rafforzamento delle quote di mercato e il miglioramento
dell'efficienza. Per il segmento small business, l'obiettivo è «migliorare l'offerta
differenziandola per tipologia di clientela (artigiani, commercianti, liberi
professionisti, imprenditori), mentre per il segmento Pmi e imprese è previsto il
rafforzamento della penetrazione commerciale sulla clientela esistente volto ad un
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incremento della marginalità e dell'operatività complessiva». Bpm ricorda inoltre
che nei programmi «sono inoltre comprese iniziative di sviluppo delle attività di
bancassurance».
Per il segmento delle famiglie è previsto l'avvio di una nuova società prodotto per
il credito alle famiglie (ProFamily), il rafforzamento delle attività on line
(Webank) e lo sviluppo della nuova Anima sgr nel risparmio gestito. «Obiettivo
delle azioni di rafforzamento - spiega l'istituto - è l'incremento di circa 250.000
clienti».
www.ilgiornale.it
Apprendisti a 15 anni: l’ultimo anno di scuola si potrà fare a bottega
di Redazione
Approvato l’«emendamento Cazzola» al ddl lavoro Via libera di Confindustria,
contrari Pd e Cgil
L’ultimo anno di scuola si potrà svolgere non in classe ma «a bottega». Lo
stabilisce l’emendamento al ddl collegato alla Finanziaria del relatore Giuliano
Cazzola (Pdl), approvato dalla commissione Lavoro della Camera, dove si legge
che «l’obbligo di istruzione si assolve anche nei percorsi di apprendistato per
l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione». La norma vale per
tutte le scuole: di fatto si potrà cominciare a lavorare come apprendisti già a 15
anni, e questa esperienza varrà come ultimo anno di obbligo scolastico. Il
provvedimento lunedì approderà in Aula a Montecitorio, per poi tornare al Senato
per il via libera definitivo.
Soddisfazione, intanto, è stata espressa da Cazzola per «il lavoro svolto ed il
clima di collaborazione trovato in commissione» sul ddl delega. Secondo Cazzola,
«la norma consente di contrastare l’evasione dell’obbligo scolastico che è molto
diffusa nell’ultimo anno». E in questo senso la legge anche Emma Marcegaglia:
«Chi lascia la scuola deve continuare ad avere formazione», sostiene il numero
uno di Confindustria.
Ma l’apprendistato a 15 anni non piace a tutti. La maggioranza e il ministro
Sacconi «hanno deciso di fare carta straccia dell’obbligo scolastico», afferma
Giuseppe Fioroni, responsabile Pd area Welfare. Diverse le reazioni dei sindacati:
«È l’ultimo atto dello smantellamento di un vero obbligo scolastico», commenta il
segretario della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, mentre il segretario generale della Uil
scuola, Massimo Di Menna, invita il governo a rivedere la norma e il segretario
confederale della Cisl Giorgio Santini parla di misura «frettolosa», da correggere
prima dell’approvazione in aula.
Critiche «ideologiche», replica il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che da
tempo insiste sulla necessità di riscoprire l’apprendistato come strumento
formativo che integra apprendimento e lavoro. «Non si tratta per nulla di
anticipare l’età di lavoro - continua il ministro - , ma di consentire il recupero di
un giovanissimo demotivato a seguire gli altri percorsi educativi attraverso una
più efficace modalità di apprendimento in un contesto lavorativo». E il ministro
dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, si dice «favorevole ad ogni iniziativa che
permetta un rapido inserimento dei giovani nel mondo del lavoro». In particolare
si aprono interessanti prospettive nell’artigianato, dove l’apprendistato
rappresenta, oggi come in passato, il principale strumento di inserimento: nel
2008 un apprendista su tre era occupato in un’impresa artigiana. E proprio
l’apprendistato è stato protagonista dell’ultimo convegno di Confartigianato,
dedicato al piano Italia 2020 per rilanciare l’occupazione giovanile messo a punto
dal ministero del Welfare e da quello dell’Istruzione: «Abbiamo trovato con il
ministro Sacconi una comunanza di vedute - spiega il presidente di
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Confartigianato, Giorgio Guerrini - , che va nella direzione da noi indicata già da
tempo: riportare attenzione su un meccanismo, l’apprendistato, che era stato
“scolarizzato” dai governi precedenti e ora viene rimesso nel luogo dove deve
stare, l’impresa. In un momento economico ancora difficile come quello attuale, la
proposta approvata oggi (ieri ndr) dà speranza a tanti giovani che potranno
trovare qualificazione nel mondo del lavoro, anziché rimanere fuori dal sistema
scolastico. Da sempre l’apprendistato nelle nostre imprese offre sia un’occasione
di formazione dal punto di vista tecnico e non solo, sia prospettive di lavoro
concreto». Secondo i dati dell’Ufficio studi di Confartigianato, infatti, nel 2009,
nonostante la crisi, una impresa artigiana su quattro ha avuto difficoltà a reperire
personale qualificato.
Passera: «Lo zero-virgola non basta: Per salvare i distretti ci vuole di
più»
di Redazione
«Per recuperare occupazione e assorbire capacità produttiva oggi inutilizzata è
necessario che l’economia cresca di più dello “zero virgola” che ad oggi si può
prevedere». Dopo due anni di crisi economica, Corrado Passera non fa il
«buonista» sulla crescita. Il monito dell’amministratore delegato di Intesa
Sanpaolo arriva in occasione della presentazione del secondo rapporto annuale
sui distretti industriali, curato dall’ufficio studi della banca milanese guidato da
Gregorio De Felice. Un quadro che registra la forte caduta dei fatturati e dei
margini nel 2008, a fronte di una strenua difesa delle quote di mercato. E la
ancor peggiore situazione attesa (non essendo ancora a consuntivo) per il 2009,
con un fatturato delle imprese distrettuali in calo, mediamente, del 18,7%. Il
tutto porta a concludere che, all’alba del 2010, le iniziative da mettere in atto a
livello di sistema non possono sottovalutare questa situazione.
E di certo non può bastare una crescita risicata come quella che si attende per
fine anno (nell’ordine dell’1%, quando va bene) perché del tutto inadeguata a far
recuperare ricavi e occupazione persi nell’ultimo biennio. «È auspicabile - ha
commentato Passera - che si faccia tutto il possibile per premiare le imprese che
investono, che vanno alla conquista di nuovi mercati, che crescono
dimensionalmente attraverso aggregazioni. L’allargamento temporale e
dimensionale delle iniziative fiscali che premiano gli investimenti, la
patrimonializzazione delle imprese e le fusioni tra aziende sarebbero misure a
costo relativamente basso e con benefici molto importanti sia di breve che di
medio periodo». Lo studio, che riguarda 56.100 bilanci d’impresa per un totale di
800 miliardi di ricavi, mostra con chiarezza che utilizzare i valori mediani perde
sempre più di significato, troppe sono le differenze tra le diverse imprese per
poter parlare in termini aggregati. Per esempio, è evidente il miglior andamento
(in alcuni casi in piena controtendenza) delle imprese che: investono in ricerca e
sviluppo; aumentano l’internazionalizzazione; hanno più di 250 dipendenti.
Emergono comunque tre conclusioni di carattere generale, tre possibili tendenze
in atto nei distretti a che fare con la crisi: il consolidamento dimensionale; le
prime politiche di in-sourcing (il ritorno in Italia di processi produttivi); la ricerca
di mercati lontani. Tendenze di cui si deve tenere conto se si vuole tutelare il
tessuto strategico dei distretti italiani.
La Cina e le grandi banche Usa gelano le Borse internazionali
di Massimo Restelli
Pechino si prepara a stringere sul credito e sui tassi di interesse. Delude Morgan
Stanley: conti in utile, ma il 62% del fatturato va in compensi
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La Cina fa saltare il «registratore di cassa» delle Borse mondiali, già in
apprensione per la stagione delle grandi trimestrali americane finora apparse in
larga parte zoppicanti. Ieri sono state Morgan Stanley, Wells Fargo, Bank of
America e Bank of New York a svelare insieme a bilanci spesso sotto alle attese
degli analisti, lo specchio della situazione in cui versa la prima economia al
mondo.
Ad aumentare i timori degli investitori è stata comunque Pechino. Il Paese
asiatico, considerato uno dei traini della ripresa internazionale, intende
costringere le proprie banche a bloccare il credito alle imprese. Con questa misura
la Cina intende arginare il pericolo dell’inflazione e, allo stesso scopo, sta
pensando di mettere mano ai tassi di interesse entro pochi mesi: secondo le
attese, il costo della vita a dicembre è aumentato dell’1,5% tendenziale che
potrebbe salire al 3% a fine anno. Dopo una mattinata sostanzialmente
ingessata, scattato l’allarme a Wall Street, Milano ha così ceduto il 2,45%,
seguita da Francoforte (-2,1%), Parigi (-2%) e Londra (-1,7%). A guidare i
ribassi è stato il settore del credito, appesantito dai big bancari statunitensi. A
partire da Jp Morgan, che pur in utile per 413 milioni di dollari nell’ultimo
trimestre, ha deluso gli analisti per i costi legati al peso del debito, malgrado i
ricavi si siano attestati a 6,8 miliardi e sia migliorato l’andamento dell’investment
banking. Il gruppo ha destinato il 62% dei ricavi ai compensi dei dipendenti per
un totale di 14,4 miliardi di dollari, il massimo dal 1997. Sul dato impatta
l’allargamento del perimetro conseguente all’acquisizione dell’ex Smith Barney,
ma lambisce il tema dei superbonus con cui si sono per anni gratificati i top
banker. Uno dei nervi scoperti di Manhattan dopo la crisi.
Toni cupi anche nel quartier generale di Bank of America, tradita da un rosso
trimestrale da 5,2 miliardi di dollari a causa delle perdite legate ai prestiti e al
rimborso a Washington di 4 miliardi di aiuti ricevuti nell’ambito del Tarp.
Sull’intero 2009 l’utile netto è stato di 6,3 miliardi, ma Bofa ha ammesso che le
condizioni economiche resteranno «fragili». Più fiduciosa, invece, Wells Fargo che
è tornata in attivo (2,82 miliardi), pur avendo rimborsato 25 miliardi di dollari allo
Stato, anche se le perdite sui crediti sono in salita da 3 a 5,9 miliardi.
Numeri a parte, a dominare il mercato è stata la paura per una futura
generalizzata stretta del credito. Visto che anche per Barack Obama potrebbe
essere più difficile mantenere la linea attuale dopo che l’esito delle urne in
Massachusetts ha aumentato il peso dei conservatori in Senato. Intanto, secondo
il Wall Street Journal, il Tesoro avrebbe persuaso i big del credito a pagare un po’
di più i warrant emessi dal governo per salvarle dalla crisi, con possibili vantaggi
per i contribuenti d’Oltreoceano.
www.repubblica.it
I dati nell'ultimo rapporto mensile dell'Associazione bancaria
Banche, volano le sofferenze
In un anno il 46% in più
Segnali di risveglio per il credito: quello alle famiglie sale quasi del 6%,
mentre il trend di quello alle imprese resta negativo (-0,5%), ma
migliora ed è comunque superiore alla media dell'area euro
ROMA - Segnali di risveglio per il credito, almeno quello alle famiglie, mentre
quello alle imprese è ancora in contrazione anche se il dato migliora; ma
soprattutto impennata dei crediti in sofferenza, aumentati nell'anno di oltre il
46%. Sono i dati rilevati dal repporto mensile dell'Abi, l'Associazione bancaria
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italiana.
Peggiora ancora la qualità del credito. A novembre 2009 le sofferenze lorde
delle banche italiane sono risultate pari a 58 miliardi di euro, 1,4 miliardi in più
rispetto ad ottobre 2009 e 18,4 miliardi in più rispetto a novembre 2008. La
variazione annua si è portata così a +46,5%. In rapporto agli impieghi le
sofferenze risultano pari al 3,25%, con questo indicatore passato dal 2,27% di
novembre 2008 ad oltre il 3,3% di novembre scorso. Le sofferenze al netto delle
svalutazioni, a novembre - secondo le nuove segnalazioni disponibili per il solo
periodo tra dicembre 2008 e novembre 2009 - sono risultate pari a 34,7 miliardi
di euro, 1,4 miliardi in più rispetto ad ottobre 2009 e 13 miliardi in più rispetto a
fine 2008. Il rapporto sofferenze nette/impieghi totali si è collocato a 1,97%
(1,24% a dicembre 2008). Il rapporto sofferenze nette/patrimonio di vigilanza è
risultato pari a 11,91% a novembre 2009 (7,84% a fine 2008).
Più prestiti alle famiglie ancora in calo alle imprese. I finanziamenti a
famiglie e imprese sono complessivamente cresciuti, rispetto a dicembre 2008,
dell'1,6% a quota 1.360 miliardi di euro. "E' un tasso contenuto ma comunque
positivo", ha spiegato Gianfranco Torriero, responsabile del Centro studi dell'Abi. I
dati disaggregati evidenziano come "le imprese recuperino dal -1,6% di ottobre
ad un -0,5% di novembre, mentre salgono del 5,6% gli impieghi verso le
famiglie, sostenuti dai finanziamenti sulle abitazioni".
"In Italia la dinamica dei finanziamenti alle imprese ha lievemente recuperato a
novembre - si legge nel rapporto Abi - in controtendenza rispetto alla media
dell'area euro (-2,6 a novembre; -2% ad ottobre) e rispetto agli altri principali
paesi europei, quali la Germania (-3,6% a novembre; -3,2% ad ottobre), la
Francia (-3,4% a novembre; -2,1% ad ottobre), la Spagna (-3,4%; -2,9% ad
ottobre) e l'Olanda (-0,7% a novembre; +1,3% ad ottobre)". I finanziamenti alle
famiglie con il 5,6% tornano sui valori di inizio 2008 e segnano il risultato
migliore nell'area euro, dove sono saliti in media dello 0,5%, (del +0,3% in
Germania, del +2,3% in Francia, del -0,7% in Spagna e del -5,2% in Olanda).
Più mutui ma i tassi tornano a salire. La dinamica dei finanziamenti alle
famiglie è stata trainata principalmente dai mutui per l'acquisto di abitazioni il cui
tasso annuo di crescita è risultato a novembre 2009, in Italia, superiore al +6% e
superiore a quanto registratosi nella media dell'area euro con +0,5% (in
Germania +0,03%, in Francia +3%, in Spagna -0,3% ed in Olanda -5,1%).
I tassi d'interesse sui mutui sono saliti nello scorso dicembre al 2,95% rispetto al
2,90 di novembre. E' la prima crescita dall'agosto del 2008, quando i tassi erano
passati dal 5,92 di luglio al 5,95 di agosto. "Molto probabilmente questo lieve
aumento è dovuto ad una cambiata composizione delle quote di mutui a tasso
fisso e a tasso variabile", ha spiegato Torriero. In ogni caso, secondo le ultime
dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, i
tassi rimarranno sostanzialmente stabili almeno fino a marzo.
E se Tremonti tassasse le banche?
MASSIMO GIANNINI
«Ci riprendiamo i nostri soldi», ha detto il presidente Barack Obama, annunciando
agli americani il varo di una tassa sulle grandi banche. Un piccolo tributo, imposto
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alle prime 50 istituzioni creditizie del paese, che dovrebbe fruttare almeno 117
miliardi di dollari in 12 anni. Comprensibile, dal punto di vista di un leader che ha
vinto le elezioni proponendo di spostare il baricentro politico da Wall Street a Main
Street. Giustificabile, dal punto di vista di un governo che l’anno scorso ha scucito
700 miliardi di dollari per il più colossale bailout pubblico mai varato a sostegno di
un settore privato. Modesta provocazione: perché Tremonti non fa la stessa cosa?
Certo, in un Paese di tartassati e di evasori sarebbe necessario ridurre le tasse a
chi già le paga. Ma se è vero che il premier vuole cominciare ad abbattere la
pressione fiscale sulle famiglie dopo essersi vergognosamente rimangiato in 4
giorni la promessa di una «grande riforma» da qualche parte le risorse bisognerà
pur trovarle. E se è altrettanto vero che il nostro sistema creditizio ha retto
abbastanza bene l’urto della crisi mondiale, arginando la caduta dei margini di
profitto, allora un contributo all’equità gli si potrebbe anche chiedere.
Senza intenzioni punitive (non ce n’è bisogno, perché le banche italiane hanno
mantenuto un profilo prudenziale che le ha messe al riparo dai crac americani).
Senza tentazioni populistiche (non ce n’è motivo, perché i «bonus» dei banchieri
italiani non sono «osceni» come quelli degli americani). Non servono inutili
demagogie in stile «Robin Hood Tax» (tenendo conto del fallimento di
quell’improvvida campagna tremontiana di due anni fa). Non servono pesanti
«stangate» (tenendo conto che già oggi il raffronto europeo del tax rate sulle
banche vede l’Italia ai primi posti con il 31,1%, contro il 27,5 del Regno Unito, il
25,1 della Francia, il 23,7 della Germania). Ma in tempi di carestia un ragionevole
contributo redistributivo a chi ha più fieno in cascina, forse, non sarebbe uno
scandalo. Come non lo sarebbe un ritocco della ritenuta sulle rendite finanziarie.
Se ne può parlare?
[email protected]
La tortura dello yuan L’ANALISI
MARCELLO DE CECCO
Il cambio della moneta cinese è l’argomento più trattato sulla stampa economica
dopo la politica monetaria americana. I due sono tra loro indissolubilmente legati:
nella catena causale la creazione di dollari precede la fissazione del loro valore in
yuan. Se si creano meno dollari senza che i cinesi facciano nulla, il dollaro si
rivaluta. Le autorità monetarie cinesi, tuttavia, una volta creati i dollari, possono
mantenerne fermo il valore in termini di moneta cinese cambiandoli a tasso fisso
quando vengono spesi per comprare gli yuan. Comprano i dollari dagli esportatori
cinesi e li usano per comprare titoli del debito americano. Perché i cinesi insistono
in questa politica invece di permettere la rivalutazione dello yuan? Secondo gli
osservatori stranieri, le autorità cinesi non vogliono che le merci diventino troppo
care per gli stranieri, e proteggono artificialmente il potere di acquisto del dollaro
in Cina perché pensano che una rivalutazione faccia scendere le esportazioni e
quindi la domanda totale di merci in Cina. Il blocco, dicono i critici della politica
cinese, è entrato in funzione a metà 2008 quando la crisi ha fatto precipitare le
esportazioni cinesi, mentre nei tre anni precedenti allo yuan era stato permesso
di rivalutarsi del 20%. E, aggiungono gli stessi critici, il blocco del cambio dello
yuan ha funzionato, perché nel 2009 la Cina ha superato la Germania come primo
paese esportatore.
Aggiungono gli stessi critici che persistendo gli Stati Uniti nella politica di
espansione monetaria e i cinesi in quella di ancoraggio al dollaro, chi ne esce con
le ossa rotte è l’euro, che fluttua liberamente sui mercati ed è l’unica moneta ad
assorbire sul cambio gli effetti della politica monetaria Usa. Con le prevedibili
conseguenze negative sul commercio estero dei paesi dell’Unione monetaria
europea. Ma se l’euro fosse una moneta come le altre, espressione di uno stato
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federale, la Bce potrebbe avere una politica valutaria come l’hanno gli altri. Non è
dunque giusto addossare a cinesi e americani tutta la colpa per la rivalutazione
dell’euro. Alcuni osservatori notano che il dollaro debole fa parte del pacchetto di
misure di rilancio dell’economia americana. Si aggiunge che il fatto che tale
debolezza si esprima nei confronti dell’euro, restando bloccato il cambio dello
yuan in dollari, forse non dispiace ai proprietari delle multinazionali americane che
sono andate a produrre in Cina e sono responsabili per oltre il 60% del valore
dell’export cinesi. Certo, una rivalutazione dello yuan permette loro di cambiare i
propri profitti in Cina in una quantità maggiore di dollari. Ma lo yuan debole
permette alle loro imprese basate in Cina di impadronirsi di sempre maggiori fette
del mercato mondiale dei beni di consumo che producono e alle loro fabbriche
basate negli Stati Uniti di importare parti e componenti cinesi a buon mercato da
usare per i propri prodotti. Dio sa quanto questo pesi per i fabbricanti europei di
prodotti intermedi, come gli italiani ma anche quelli dell’Europa centrorientale che
devono sopportare la concorrenza di prodotti simili ai loro provenienti a costi
sempre più bassi dalla Cina per via del cambio dell’euro che sale continuamente
nei confronti sia del dollaro che dello yuan.
Le obiezioni al mantenimento della parità yuandollaro sono sacrosante. Ma esse
devono riferirsi sia al numeratore che al denominatore di questo rapporto di
cambio. Come ho già detto, la catena causale parte dalle decisioni della banca
centrale americana che crea i dollari e investe le responsabilità delle autorità
cinesi solo quando i dollari vengono spesi in Cina, in forma di acquisti di merci o
investiti in forma di capitali. La stranezza della situazione sta nel gioco delle parti
cui si dedicano i protagonisti di questo rapporto. Gli americani dovrebbero essere
ben felici di sapere che i cinesi sono disposti ad assorbire dollari per un tempo
indefinito comprando titoli del debito in un periodo in cui si prevede un forte
aumento delle emissioni per finanziare il gigantesco deficit. Invece, da parte
americana provengono continui rimbrotti alle autorità cinesi e ferventi esortazioni
a rivalutare lo yuan. Ai tempi in cui la stessa situazione si verificava tra dollaro e
yen o tra dollaro e marco, l’atteggiamento americano non era diverso: anche
allora l’irritazione dei destinatari dei rimbrotti era assai viva e induceva spesso a
commenti pesanti sugli aspetti meno felici della politica economica ma anche della
società americana. Ora quei commenti li fanno i cinesi.
Non c’è dubbio che la pressione sullo yuan e sull’euro sia stata causata dagli
effetti dell’espansione monetaria d’emergenza iniziata dalla Fed dopo gli attacchi
dell’11 settembre 2001 sia sui mercati delle merci che sul sistema finanziario Usa.
Tale politica è durata oltre la fine di tale emergenza: questo ha danneggiato i
paesi dell’euro perchè essi non hanno ritenuto di neutralizzare l’effetto della
gigantesca creazione di dollari sulla loro moneta ma la hanno lasciata liberamente
fluttuare e raggiungere persino il livello di 1,60 per dollaro, provocando una vera
strage nella capacità industriale europea, perchè allo stesso tempo i cinesi per
quattro anni tenevano il cambio fisso a 8 yuan e invadevano i mercati con le loro
merci. Essendosi finalmente convinti a permettere la rivalutazione dello yuan del
20% tra 2005 e 2008, sembravano disposti a seguire la stessa direzione negli
anni successivi, ma la tempesta bancaria scatenatasi proprio a partire dal 2008
ha avuto l’effetto di far loro interrompere tale politica, per non danneggiare le
esportazioni e gli equilibri sociali interni.
Siamo giunti ad un punto delicato delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Il coro di
quelli che chiedono una ripresa della rivalutazione dello yuan, diretto da
Washington, si è fatto assordante. Misure antidumping contro l’acciaio cinese
sono già state adottate negli Usa e in Europa. Se ne minacciano di simili anche
per altri settori. Dal canto loro, i cinesi come gli indiani, hanno iniziato a
considerare gli affari monetari come parte esplicita della politica estera. La
Reserve bank of India ha effettuato pesanti acquisti d’oro avendo percepito
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l’abbandono da parte americana della politica di avvicinamento al paese a favore
al sempre preferito Pakistan. I cinesi dal canto loro si sono irrigiditi sul cambio,
escludendo una rivalutazione e trasformando la visita di Obama in un clamoroso
fallimento, con episodi di mancanza di cortesia da parte cinese, specialmente
perchè gli Usa si sono rifiutati di negoziare la non installazione dei missili Patriot a
Taiwan contro la non attivazione dei missili antimissile cinesi. Tutti insomma
l’hanno buttata in politica e il mescolare politica estera e politica economica è
storicamente frequente ma pericoloso. Riserve e cambi, dopo la globalizzazione di
fine ‘800 cominciarono a far parte dell’armamentario di politica estera nei quindici
anni che terminano col 1914. Una data che evoca persino nei giovani il ricordo
tragico della prima guerra mondiale.
La première dame dell’economia che non teme l’ira dei banchieri Agli
inizi non sembrava molto a suo agio nel ruolo, e il presidente ha dovuto
difenderla più volte, ora invece non sbaglia una mossa e la sua
popolarità è ai massimi
GIAMPIERO MARTINOTTI
Non è la solita tecnocrate francese dal destino tracciato fin dalla culla: infanzia nei
bei quartieri, licei prestigiosi, grandi scuole, gabinetti ministeriali e poi incarichi
manageriali nelle più grandi aziende del paese o responsabilità politiche. Lei non
ha fatto l'Ena e non perché non l'abbia voluto: si è presentata due volte al
concorso di ammissione e per due volte è stata bocciata. Forse per questo
Christine Lagarde, 54 anni appena compiuti, è così atipica nel panorama politico
transalpino. Questa signora snella ed elegante, abituata a lavorare in giro per il
mondo, francese di nascita e di formazione, statunitense di adozione, è diventata
in pochi mesi, quelli della tempesta che ha rischiato di travolgere il capitalismo
occidentale, uno dei personaggi chiave della scena francese e internazionale.
Dimenticate le gaffe del passato, adesso il ministro delle Finanze può
tranquillamente annunciare una sovrattassa di 360 milioni sui bonus dei banchieri
senza suscitare scandalo nemmeno a Londra o a New York, dove è apprezzata più
di qualsiasi uomo politico latino.
Strana e bella storia per questo atipico ministro delle Finanze, unica donna ad
aver mai ricoperto questo incarico in un paese del g8, dove addizioni, sottrazioni
e percentuali sono ancora considerate cose da maschi, malgrado gli uffici studi di
tutte le istituzioni finanziarie internazionali siano pieni di economiste di alto
livello. In fondo, niente destinava questa signora della buona borghesia
transalpina alla politica. Un mondo dove si danno e si pigliano pugnalate alla
schiena, dove si tradisce per poi riappacificarsi, dove l'eleganza non è di casa.
Un mondo che fa a pugni con quello della Lagarde, con le sue buone maniere: «E'
profondamente sana, con lei non hai paura di prenderti una coltellata nella
schiena», dice un sottosegretario. E tutta la sua carriera è atipica. Vicecampione
francese di nuoto sincronizzato, ha imparato dallo sport a darsi una disciplina di
ferro. Figlia di due professori, ha sempre tenuto a lavorare durante le vacanze, a
sgobbare duro sui libri, tanto da ottenere un bel mazzo di diplomi universitari.
Profondamente segnata dalla morte del padre, scomparso quando aveva
diciassette anni, si è specializzata in diritto internazionale e ha spiccato il volo
verso gli Stati Uniti. Ci è rimasta quasi un quarto di secolo. Nel 1981 è entrata nel
più grande studio di avvocati di affari americano, Baker & McKenzie, dove ha
scalato tutti i gradini, fino a diventare, nel 1999, presidente del comitato
strategico. Un incarico che ha conservato per cinque anni: quando lascia, il
fatturato di Baker & McKenzie è salito del 50 per cento a 1,2 miliardi di dollari.
Logico quindi che piaccia agli anglosassoni: il Financial Times l'ha eletta ministro
delle Finanze del 2009, Time l'ha inserita tra le 100 persone più influenti del
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mondo (l'unico altro francese è Nicolas Sarkozy), Forbes l'ha classificata
quattordicesima donna più influente del pianeta.
In quei venticinque anni passati tra Chicago, Parigi e Hong Kong si è impadronita
della mentalità anglosassone, ha rafforzato le proprie idee liberali, ma ha
imparato anche un metodo di lavoro. Non quello spiccio e autoritario, che punta
tutto sullo stress dei propri sottoposti: «Quando hai centinaia di associati
provenienti da trentasei paesi, che pensano di essere tutti uguali e di sapere
meglio di te quel che si deve fare, se vuoi convincerli non puoi utilizzare gli
argomenti della forza. Bisogna capire l'approccio degli altri, definire degli angoli di
attacco e di difesa e negoziare». Un metodo che applica anche a Bercy, sede del
ministero dell'Economia e delle Finanze, e che i suoi collaboratori apprezzano
enormemente.
Non è molto chiaro come le sia venuto il pallino della politica, tanto più che non è
certo il tipo che va a distribuire volantini nei mercati e a stringere le mani degli
elettori. Non che disdegni il prossimo, ma non è nella sua cultura, nella sua
educazione. E' stato Thierry Breton, ex presidente di France Télécom e ministro
delle Finanze tra il 2005 e il 2007, a segnalarla a JeanPierre Raffarin. Ma è stato il
successore di Raffarin all'Hotel Matignon, Dominique de Villepin, a imbarcarla nel
suo governo come ministro del Commercio estero. Il test è positivo, ma la signora
Lagarde sembra confinata in un ruolo tecnico.
Eppure, quell'esperienza non è passata inosservata. Subito dopo la sua elezione,
Sarkozy la nomina ministro dell'Agricoltura, incarico molto delicato Oltralpe e in
apparenza ben lontano dalle sue competenze. Ma ci resta solo un mese: dopo le
elezioni politiche del giugno 2007 c'è bisogno di un nuovo ministro delle Finanze
per rimpiazzare JeanLouis Borloo, responsabile di una gaffe che ha fatto perdere
voti al centrodestra.
E Sarkozy sceglie lei. Contro le aspettative e anche contro il parere di qualche
consigliere. Il presidente, anch'egli avvocato ed estraneo al mondo della
tecnocrazia statale, crede nella donna e nelle sue doti: «La sento bene», confida
ai suoi. Lanciarla in un posto così esposto, lei che non conosce niente dei
meccanismi politicoistituzionali e che è una sconosciuta per i parlamentari, è una
scommessa. Vinta: negli ultimi diciassette anni, è il ministro delle Finanze che ha
resistito più a lungo e adesso è addirittura gettonata come possibile primo
ministro, un incarico per il quale le manca però il peso politico.
I primi tempi non sono stati facili, le gaffe si sono sprecate. Una è rimasta
celebre: di fronte all'aumento del prezzo della benzina ha invitato i francesi ad
andare in bicicletta. Una frase infelice, che gli è stata rimproverata come quella
sul pane e le brioche è stata rimproverata a Maria Antonietta (che peraltro non
l'aveva mai pronunciata). E quando arrivano le prime avvisaglie della crisi, la
Lagarde sembra quasi prendere sottogamba i pericoli che si accumulano
all'orizzonte.
Sarkozy, tuttavia, la difende. L'ha scelta lui e non ama smentirsi. Ma soprattutto
crede nelle sue capacità: «Lasciatele le sue chance».
C'è chi tenta di sgambettarla, chi mette in giro la voce delle sue dimissioni
mentre partecipa a un vertice internazionale. Alcuni interlocutori, a fine estate
2008, chiedono a Sarkozy di nominare a Bercy un politico di razza. Lei mette
subito le cose in chiaro. Va all'Eliseo e parla a quattr'occhi con il capo dello Stato:
«Se vuoi le mie dimissioni, dillo subito».
«Ci mancherebbe solo questo», risponde il presidente, che non vuole una crisi
politica mentre esplode quella finanziaria. Da quel momento, la signora Lagarde
non commette più un solo errore, nei sondaggi la sua popolarità s'impenna.
In quelle settimane terribili in cui il mondo occidentale rischia il naufragio, quella
donna elegante che parla un inglese più che perfetto, capace di discutere con
grande competenza con i responsabili politici e finanziari del pianeta è un ‘atout’
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per la Francia. Timothy Geithner, il segretario al Tesoro statunitense, non lesina i
complimenti: «La sua intelligenza rapida come un lampo, il suo calore e la sua
capacità di superare con accanimento le divisioni, pur restando leale verso gli
interessi francesi, sono stati fonte di ammirazione».
E' stata lei ad aiutare Sarkozy a trovare i compromessi necessari, a convincere i
recalcitranti sull'utilità di certe misure, a fare certe scelte economiche piuttosto
che altre. I risultati sono stati all'altezza delle speranze. E anche se c'è chi dice
che è una semplice subalterna, un esecutore di decisioni prese all'Eliseo, lei non
se la prende: «Dire che la politica economica non è pensata qui, ma solamente
eseguita, mi lascia indifferente. In politica, come in guerra o in amore, tutto sta
nell'arte dell'esecuzione». Una definizione che riassume l'arte di Christine
Lagarde.
Tassi a zero almeno fino a giugno
DI ANTONIO CESARANO*
Nei primi giorni del 2010 vi sono state dichiarazioni di membri Fed
apparentemente contraddittorie. Da un lato Hoenig e Plosser hanno richiamato i
rischi di un ritardo nell’adozione di una politica monetaria restrittiva. Dall’altra
parte altri membri Fed, come Dodley ed Evans, hanno enfatizzato il fatto che, per
almeno i prossimi sei mesi, verrà mantenuto l’impegno formale di mantenere i
tassi bassi per un periodo esteso di tempo. Tali dichiarazioni evidenziano la
divergenza di opinioni all’interno della Fed. Verosimilmente per risolvere la
diatriba occorrerà almeno aspettare di verificare il risultato del tentativo di
rimozione di manovre non convenzionali nel secondo trimestre. Nel frattempo il
tasso di riferimento potrebbe rimanere prossimo a zero almeno fino a giugno. A
metà anno probabilmente Fed e governo saranno chiamati a decidere sulla
proroga o meno delle cospicue manovre espansive fin qui implementate.
* Responsabile Market Strategy MPS Capital Services
Tremonti, le tasse e le banche
«Ci riprendiamo i nostri soldi», ha detto il presidente Barack Obama, annunciando
agli americani il varo di una tassa sulle grandi banche. Un piccolo tributo, imposto
alle prime 50 istituzioni creditizie del paese, che dovrebbe fruttare almeno 117
miliardi di dollari in 12 anni. Comprensibile, dal punto di vista di un leader che ha
vinto le elezioni proponendo di spostare il baricentro politico da Wall Street a Main
Street. Giustificabile, dal punto di vista di un governo che l?anno scorso ha
scucito 700 miliardi di dollari per il più colossale bailout pubblico mai varato a
sostegno di un settore privato. Modesta provocazione: perché Tremonti non fa la
stessa cosa? Certo, in un Paese di tartassati e di evasori sarebbe necessario
ridurre le tasse a chi già le paga. Ma se è vero che il premier vuole cominciare ad
abbattere la pressione fiscale sulle famiglie dopo essersi vergognosamente
rimangiato in 4 giorni la promessa di una «grande riforma» da qualche parte le
risorse bisognerà pur trovarle. E se è altrettanto vero che il nostro sistema
creditizio ha retto abbastanza bene l?urto della crisi mondiale, arginando la
caduta dei margini di profitto, allora un contributo all?equità gli si potrebbe anche
chiedere.
Senza intenzioni punitive (non ce n?è bisogno, perché le banche italiane hanno
mantenuto un profilo prudenziale che le ha messe al riparo dai crac americani).
Senza tentazioni populistiche (non ce n? è motivo, perché i «bonus» dei banchieri
italiani non sono «osceni» come quelli degli americani). Non servono inutili
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demagogie in stile «Robin Hood Tax» (tenendo conto del fallimento di quell?i
mprovvida campagna tremontiana di due anni fa). Non servono pesanti
«stangate» (tenendo conto che già oggi il raffronto europeo del tax rate sulle
banche vede l?Italia ai primi posti con il 31,1%, contro il 27,5 del Regno Unito, il
25,1 della Francia, il 23,7 della Germania). Ma in tempi di carestia un ragionevole
contributo redistributivo a chi ha più fieno in cascina, forse, non sarebbe uno
scandalo. Come non lo sarebbe un ritocco della ritenuta sulle rendite finanziarie.
Se ne può parlare?
http://miaeconomia.leonardo.it
Eventi economici e finanziari del 21 gennaio
(21/01/2010)
La penultima seduta della settimana è ricchissima di dati macroeconomici sia
dall’Europa che dagli Stati Uniti. Naturalmente gli occhi degli operatori saranno
puntati sui dati del pomeriggio provenienti dagli Usa.
Alle 14,30 arrivano le richieste settimanali di sussidi alla disoccupazione.
Alle 16,00 viene diffuso l’indicatore anticipatore a dicembre.
Sempre alle 16,00 e’ la volta dell’Indice FED di Philadelphia di gennaio.
Infine alle 16,30 ci sarà il dato sulle scorte settimanali di petrolio.
In Europa alle 10,00 saranno diffusi i vari Indici Pmi per gennaio: quello
manifatturiero, dei servizi, composito.
In Giappone alle 6,00 sarà diffuso l’Indicatore anticipatore a novembre.
Nel comparto finanziario A Wall Street saranno diffuse tre trimestrali di peso,
quella di Goldman Sachs (4° trimestre 2009), prima dell’apertura di Wall Street e
a Borsa Usa chiusa quelle di American Express (4° trimestre 2009) e di Google
(4° trimestre 2009).
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