capitolo 2 - International Journal of Psychoanalysis and Education

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capitolo 2 - International Journal of Psychoanalysis and Education
International Journal of Psychoanalysis and Education - IJPE
2013 vol. V, n° 1
ISSN 2035-4630
(rivista quadrimestrale edita telematicamente su http://www.psychoedu.org)
La prospettiva trans generazionale
Fabiola Fortuna11
Abstract
Questo lavoro passa in rassegna i contributi più significativi sulla prospettiva transgenerazionale, a
cominciare da concetti tipicamente psicoanalitici che sono coerenti con tale prospettiva.
Negli anni più recenti la prospettiva trans generazionale è stata oggetto di una crescente attenzione sia
all’interno che al di fuori del mondo psicoanalitico. La frase “far entrare il tempo nella stanza di
analisi” ha attirato l’interesse di molti terapeuti e stimolati la ricerca di nuove prospettive che sono in
grado di dare risposte appropriate di fronte ai nuovi problemi che la clinica pone. Infine, questo lavoro
si focalizza sui possibili legami fra la psicosomatica e la prospettiva trans generazionale: una ricerca
che sembra essere suscettibile di interessanti sviluppi.
Parole chiave:
trans-generazionale, psicoanalisi, psicosomatica, telescopage, patobiografia
The trans-generational perspective
Abstract
This article reviews the most significant contributions on the trans-generational perspective, starting
from purely psychoanalytic concepts that are consistent with this perspective.
In recent years the trans-generational perspective has been the subject of growing attention both inside
and outside the world of psychoanalysis. The evocative phrase "let the time in the consulting room"
has aroused the interest of many therapists and stimulated the search for new perspectives that are able
to provide appropriate responses, in front of the clinic’s new questions.
11
Psicoanalista, Psicodrammatista, Past president e Didatta Sipsa, Direttore rivista "Quaderni di Psicoanalisi e
Psicodramma Analitico". già Direttore scuola di psicoterapia sede Roma Coirag. Docente Coirag, Membro Scuola dei
Forum del Campo Lacaniano. Membro S.E.P.T., Psicologo Analista Cipa, Membro IAGP
Sponsorizzata dall’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa A.P.R.E.
Iscr. Tribunale di Roma n°142/09 4/9/09 (copyright © APRE 2006) Editor in Chief: R. F. Pergola
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Finally, this work dedicate attention to possible links between the psychosomatic and trans
generational perspective: a search scope susceptible to interesting developments.
Keywords:
Trans-generational, psychoanalytic, psychosomatic, telescopage, patobiography
Negli ultimi decenni si è assistito ad una attenzione crescente della psicoanalisi alla
dimensione trans generazionale, come se una ipotetica macchina fotografica tendesse ad
allargare il campo visivo attorno al soggetto, per includervi aspetti ed elementi che l’analisi
classica ha sempre considerato parzialmente.
Un processo che parte da lontano: già in alcune riflessioni di Freud possiamo cogliere
elementi che, alla luce dei contributi della psicologia contemporanea, acquistano nuovo
significato.
Innanzitutto sembra opportuno soffermarsi sul termine transgenerazionalità: cosa si intende
con questo concetto?
In psicologia la prospettiva trans generazionale sottende che la specificità di un individuo
dipende non solo da caratteristiche proprie e dalle sue relazioni dirette ma anche da retaggi
familiari, miti, segreti, ecc. che, trasmettendosi inconsapevolmente attraverso le generazioni,
ne condizionano lo sviluppo psichico.
Tale prospettiva implica la “trasmissione di contenuti psichici” che, avvenendo attraverso
processi psichici di identificazione inconscia, passa successivamente da una generazione
all’altra.
La trasmissione attraverso le generazioni sembra avvenire soprattutto attraverso i “non
detti”: un insieme di proposizioni date per invariate ed invariabili nel tempo e, quindi,
considerate una sorta di eredità da portare e sopportare nel corso di tutta l’esistenza.
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Ne consegue che la terapia avrebbe il non facile compito di individuare e far emergere
questi “fantasmi” che aleggiano sulla vita di ognuno e ne condizionano lo svolgersi, per
proporne poi un cambiamento, grazie allo sciogliere di questi legami invisibili ma
assolutamente vincolanti. Una ipotesi che contiene indubbiamente forti elementi di rottura
rispetto alla psicoanalisi classica, che già aveva individuato alcune questioni che risultano
coerenti con questa prospettiva.
La psicoanalisi, in effetti, ha sempre posto in primo piano la figura del soggetto avulso
dalla relazione, privilegiando soprattutto la realtà intrapsichica ed i conflitti in essa presenti.
Freud stesso, però, in alcune sue opere introduce alcuni elementi che oggi, alla luce della
prospettiva transgenerazionale, assumono un valore particolare.
Ad esempio, in Romanzo familiare dei nevrotici (1908) egli rileva che nel mondo
emozionale del bambino, in una determinata fase dello sviluppo egli inizia a porsi delle
questioni rispetto alle proprie origini; si possono rinvenire una serie di fantasie consce ed
inconsce legate al confronto che egli inizia ad operare fra i propri genitori ed altri con cui
viene a contatto; la caduta delle immagini idealizzate dei genitori è il primo passo verso la
costruzione di una propria soggettività.
Il tema relativo allo sviluppo filogenetico dello psichismo viene ripreso ed approfondito da
Freud in Totem e tabù (1912), dove ipotizza che i processi psichici si trasmettano da una
generazione all’altra e, in particolare, considera che alcuni traumi particolarmente significativi
si replichino più volte nella storia dell’umanità, considerando di fatto possibile una
trasmissione attraverso le generazioni.
Più precisamente egli fa riferimento a ricerche di etnologi ed antropologi, che riscontrano
in numerose civiltà il riproporsi di miti e credenze, in particolare con elementi appartenenti al
complesso edipico, inteso come divieto dell’uccisione del progenitore, e orrore dell’incesto.
Elementi che connotano anche la vita psichica di ogni individuo.
Tali elementi non possono, rileva Freud, rinascere ex-novo con ogni individuo e ad ogni
generazione: la costituzione di questo complesso deve quindi essere condizionata da tracce
ancestrali che risalgono alle origini dell’umanità: “…Se i processi psichici di una generazione
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non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex
novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun
progresso e in sostanza nessuna evoluzione…” (Totem e tabù pp 160-161). Naturalmente,
l’ipotesi della trasmissione delle tracce mnestiche nel corso delle generazioni successive ha
destato non poche perplessità nel mondo psicoanalitico di allora.
In effetti questo è un problema controverso, ma Freud ne ha tenuto sempre conto: egli
infatti, nel distinguere il processo di sviluppo individuale dalla infanzia alla età adulta –
l’ontogenesi – e il processo evolutivo del genere umano, la filogenesi, ritiene che la struttura
della personalità sia influenzata da eventi traumatici accaduti nel corso della storia
dell’umanità. Queste tracce arcaiche le possiamo rinvenire nei sentimenti fortemente
ambivalenti che ogni individuo prova verso il proprio padre e nel senso di colpa inconscio che
pesa su ognuno di noi, da una generazione all’altra: senso di colpa che non sarebbe altro che il
residuo della colpa originaria per il delitto commesso durante un pasto totemico dai fratelli
che, accomunati dall’odio per il padre, lo avrebbero divorato per potergli succedere. Da
questo atto cannibalico ancestrale sarebbero derivati non solo il senso di colpa individuale ma
anche i differenti stadi dell’organizzazione sociale dell’umanità, per arrivare alla morale
collettiva che regola la vita sociale.
In sintesi, Freud chiarisce:” Noi procediamo comunque dall’ipotesi di una psiche collettiva
[…], facciamo sopravvivere per molti millenni il senso di colpa causato da un’azione, e lo
facciamo restare operante per generazioni e generazioni che di questa azione non possono
avere nozione alcuna. Facciamo proseguire un processo emotivo” (Totem e tabù, vol. 7, pag.
160).
L’ipotesi di considerare il soggetto in un contesto più ampio rispetto alla dimensione
individuale lo ritroviamo, seppure con accenti e peculiarità diverse, nel pensiero di Jung, in
cui il concetto di inconscio collettivo ne rappresenta uno dei princìpi.
L'osservazione empirica dei contenuti dei sogni, dei deliri di pazienti psicotici e del
vastissimo materiale offerto dalla mitologia e dalla storia delle religioni induce Jung a
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ipotizzare l’esistenza, oltre che di un inconscio individuale, anche di una ulteriore dimensione
dell'inconscio che egli definisce inconscio collettivo.
L’inconscio collettivo si distingue dall’inconscio personale per il fatto che mentre
l’inconscio personale è formato da contenuti che un tempo sono stati coscienti e
successivamente rimossi o dimenticati, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati
nella coscienza e quindi mai acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza
esclusivamente all’ereditarietà. Jung ritiene che il contenuto dell’inconscio personale è
strutturato prevalentemente attraverso i complessi, mentre quello dell’inconscio collettivo
attraverso gli archetipi: è un inconscio che si trasmette da una generazione all’altra e che
accumula le esperienze umane.
Il percorso di individuazione consiste nella capacità del soggetto di differenziarsi da queste
matrici collettive di senso e dagli istinti primordiali, trovando una modalità personale di
attuare ed integrare i valori universali custoditi dalla cultura.
L’esistenza di un inconscio che trascenda l’individuo è stata postulata anche da Jacob Levi
Moreno il terapeuta di origine austriaca, contemporaneo di Freud e Jung, considerato il padre
dello psicodramma classico. Egli infatti teorizza l’esistenza di un co-inconscio familiare e
gruppale, un inconscio formato dagli elementi condivisi in un gruppo, non comunicabili
verbalmente, in quanto non “pensato” ma “sentito”: esso è arricchito dal materiale emotivo
che ognuno porta nel gruppo e che è un retaggio di precedenti esperienze relazionali,
influenzate a loro volta dalle esperienze familiari e dei gruppi di appartenenza. Moreno
inoltre, grazie all’osservazione del comportamento dei pazienti durante le sedute di
psicodramma, approfondisce gli aspetti della comunicazione del singolo con gli altri e con la
propria storia: secondo Moreno, infatti, i soggetti possono comunicare in una modalità che
trascende la coscienza: il tele (letteralmente “a distanza”), che è un legame elementare che
può instaurasi tra persone, tra persone ed oggetti e che nell’uomo si sviluppa con il tempo;
egli lo considererà, in quanto “struttura primaria”, un processo che stimola un’associazione
stabile e relazioni permanenti.
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Da questi brevi cenni si può quindi rilevare come la psicoanalisi da sempre si sia posta
degli interrogativi su come la storia del soggetto si potesse inscrivere in una storia collettiva,
che si dipana non solo orizzontalmente, da soggetto a soggetto, ma anche lungo il tempo.
In questi ultimi decenni, nel momento in cui nella clinica si sono presentate situazioni
inedite, per le quali la psicoanalisi sembrava non potesse dare risposte adeguate, sono stati
ripresi ed arricchiti alcuni di questi spunti di riflessione proposti dalle teorie analitiche
classiche per descrivere in modo più dettagliato la prospettiva transgenerazionale.
Un particolare approfondimento del tema della trasmissione transgenerazionale di
contenuti psichici lo dobbiamo a René Kaes, secondo cui la clinica evidenzia la produzione di
nuove categorie psicopatologiche per le quali il tradizionale modello di funzionamento
psichico, basato sul conflitto intrapsichico, non sembra essere più adeguato. Va quindi
considerata l’influenza dei fenomeni socio-culturali e di gruppo: egli infatti ritiene che la crisi
che ha investito i grandi meccanismi regolatori e di ordinamento, come i miti, le ideologie, le
religioni, si riverbera inevitabilmente sulla formazione ed i processi dello sviluppo psichico.
Kaes parte dal presupposto che esistono spazi distinti nell’inconscio, quello individuale e
quello del legame: egli ritiene che il nucleo del legame nella vita psichica del soggetto si situa
nell’articolazione di tre spazi e all’interno di ciascuno di questi spazi, lo spazio intrapsichico e
soggettivo, lo spazio interpsichico e intersoggettivo e lo spazio trans psichico e transsoggettivo. Kaes colloca il legame nella dimensione inconscia: il legame è la realtà psichica
inconscia specifica, costruita dall’incontro di due o più soggetti, e quindi egli tende a
verificare la consistenza degli spazi intrapsichici ed interpsichici, ed a stabilire la consistenza,
le formazioni e le trasformazioni della realtà psichica inconscia propria dei legami.
Per la comprensione del soggetto è necessario perciò comprendere i legami che raccordano tra
loro i soggetti, e cioè la coppia, la famiglia, il gruppo e le istituzioni,ed arriva a considerare il
soggetto come “soggetto del legame”.
La trasmissione intersoggettiva trova il suo contesto privilegiato nella famiglia e quindi ne
fa parte anche la trasmissione trans generazionale. Rimane comunque aperta la questione delle
modalità con cui si trasmettono i contenuti psichici da una generazione all’altra.
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Al riguardo, in questi ultimi anni numerose sono le ricerche hanno riguardato proprio le
modalità di trasmissione inconscia.
Alla psicoanalista argentina Haidée Faimberg che ha collaborato a lungo con Kaes, si deve
il concetto di telescopage delle generazioni: la comparsa (telescopage inteso come irruzione,
scontro) nel corso della cura di un tipo speciale di identificazione inconscia alienante che
condensa tre generazioni e che si rivela nel transfert. È quindi, sottolinea l’autrice stessa, un
concetto clinico di chiara pertinenza psicoanalitica, che riguarda gli aspetti motivazionali
profondi del soggetto correlati a processi di identificazione
ed alla trasmissione
dell’esperienza.
Secondo la Faimberg la “storia” non viene trasmessa con un messaggio esplicito ma è in
rapporto col detto e non detto dei genitori: tra il soggetto e i genitori interni si crea un legame
di tipo narcisistico che si declina nella funzione di appropriazione (amore narcisistico) che
priva il soggetto di ogni spazio psichico, che viene occupato con il processo di intrusione
(odio narcisistico) che, espellendo tutto ciò che i genitori interni rifiutano, lo definiscono con
la sua “identità negativa”.
I genitori interni, quindi, assoggettano per sempre il bambino alla propria storia di angoscia
e di morte: queste identificazioni costituiscono un “legame tra generazioni” alienanti e che si
oppongono a qualsiasi rappresentazione: soltanto con l’interpretazione è possibile il passaggio
dalla identificazione alla rappresentazione.
Il mondo della psicoanalisi, quindi, ha guardato con crescente interesse alle caratteristiche
ed agli effetti sul soggetto della trasmissione di contenuti psichici tra generazioni.
In particolare numerosi terapeuti, fra cui Boszormenyi- Nagy, Abraham Nicholas e Maria
Torok, hanno tentato di estendere i concetti propri della analisi alla dimensione familiare
partendo da una prospettiva psicoanalitica.
Boszormeny Nagy, uno dei pionieri della terapia familiare, ha portato un contributo
significativo allo studio dell’approccio transgenerazionale. Egli considera l’individuo come
una entità biologica, psicologia e psicosociale, le cui azioni sono condizionate sia dalle
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proprie caratteristiche intrinseche quanto dalle regole del sistema familiare: nel sistema
famiglia c’è infatti un controllo reciproco in quanto le funzioni psichiche di un membro
condizionano quelle degli altri.
In questo sistema acquista significato il tema del mito familiare, inteso come quell’insieme di
regole non esplicite ma che si manifesta attraverso i modelli di funzionamento.
Tali modelli dovrebbero rispondere al principio di “lealtà familiare”, e cioè la lealtà con cui
gli individui, per un debito di riconoscenza, si impegnano a rispettare e riproporre le
aspettative e i valori in cui la propria famiglia si riconosce.
La famiglia, quindi, secondo Boszormeny-Nagy è contraddistinta da un insieme di legami
di lealtà, invisibili ma così forti da condizionare i comportamenti relazionali della famiglia:
sono infatti il risultato di una sorta di “libro contabile” redatto nel tempo, in cui debiti e crediti
vanno a comporre, nel tempo presente, un “rendiconto transgenerazionale”.
Secondo Boszormeny Nagy, quindi, l’aspetto sistemico-familiare va ad incidere
profondamente sullo sviluppo del singolo, proprio perché si dipana da generazione a
generazione.
L’elemento tempo sembra quindi affacciarsi prepotentemente nel mondo della psicoanalisi,
rivelandosi come quella “quarta dimensione” così cara alla fisica di Einstein.
A questo proposito risultano significative le riflessioni di Nicholas Abraham, analista
ungherese che ha vissuto e lavorato a Parigi.
Nel suo libro “Le temps, le rytme et l’incoscient” (1962) egli osserva che la psicoanalisi ha
ignorato il tempo e, pur muovendosi in una dimensione temporale, non ne è di fatto cosciente:
in analisi, quindi, l’elemento “tempo” deve essere rivalutato: partendo dal sintomo, è
necessario lavorare per rimettere in circolazione quei desideri o traumi inaccessibili e latenti,
retaggio di un segreto familiare ce si è perpetuato nelle generazioni.
Abraham e Torok, seguendo questo “filo” concettuale, hanno elaborato la “teoria del
fantasma”, indicando con questo termine tutte le situazioni vissute da un soggetto, anche
precedenti la sua individuazione; una esperienza traumatizzante, se non elaborata, può
radicarsi, attraverso un meccanismo di inclusione o incorporazione, come un fantasma in una
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cripta, che può trasmettersi inconsciamente da generazione a generazione. Il fantasma nasce
da un segreto inviolabile di un altro: non sono, però, gli ascendenti ad assillare il soggetto, ma
le lacune lasciate dai loro segreti.
Con il termine “cripta”, invece, Abraham e Torok intendono una sorta di Inconscio artificiale,
collocato nell’Io, che si crea come risultato di una rimozione a carattere conservativo, che, a
differenza della rimozione dinamica propria dell’isteria, è caratterizzata da un desiderio
incapace di emergere nel sintomo ma si presenta come un blocco di realtà.
Sui meccanismi con cui avviene la trasmissione del “fantasma”, il dibattito è però ancora
molto aperto.
Secondo Abraham e Torok (La scorza e il nocciolo, 1993) la trasmissione avviene
attraverso l’unità duale madre – bambino, riproponendo in una nuova prospettiva le
osservazioni di Bowlby sulle interazioni precoci tra madre – bambino, secondo cui le
caratteristiche della personalità della madre, tramite lo stile di accudimento, influenzano le
strutture psichiche del bambino.
Vi sono anche ipotesi suggestive che riferiscono di una trasmissione genetica della memoria.
Ad esempio, un interessante esperimento condotto da Steven Arnold e riportato da Le Doux
ne “Il sé sinaptico” del 2007, sembra dare conferma a questa ipotesi. L’esperimento di Arnold
ha avuto per protagoniste due popolazioni di serpenti giarrettiera, una che vive in zone
paludose, e si ciba prevalentemente di lumache, e una che vive in zone aride, con abitudini
alimentari completamente diverse.
I piccoli, appena schiuse le uova, erano subito isolati dai membri del proprio gruppo e,
dopo qualche giorno, venivano offerte loro delle lumache. I piccoli della nidiata “costiera” si
mostravano molto attratti dalle lumache mentre gli altri non provavano il minimo interesse: si
è verificato quindi che il comportamento alimentare proprio della popolazione di origine
rimanesse inalterato, confermando l’esistenza di una componente innata della memoria che ha
il sopravvento sulla condizione ambientale contingente.
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Anche se tale risultato è estremamente interessante, non risulta ancora del tutto chiarito il
meccanismo di trasmissione delle tracce mnemoniche, ed il dibattito e a la ricerca rimangono
quindi ancora aperti ad ogni ipotesi.
Psicosomatica nella prospettiva transgenerazionale
Ancelin Schutzenberger, allieva e collaboratrice di Jacob Moreno, nel volume “La
sindrome degli antenati” rileva, confortata dalla sua esperienza clinica, una significativa
correlazione tra sintomi somatici e storia familiare del paziente.
Il suo approccio psicogenealogico alla psicoterapia parte dalla osservazione che eventi e
traumi rilevati nei pazienti possono essere una riproposizione attuale di fatti analoghi accaduti
nelle generazioni precedenti.
Ella considera come strumento privilegiato di analisi il genosociogramma, una sorta di
albero genealogico co-costruito da paziente e terapeuta, ideato da Henry Collomb, con cui è
possibile schematizzare le vicende di una famiglia in modo da cogliere eventuali ripetizioni di
situazioni e fatti e di delineare una struttura di base che consente al terapeuta di cogliere più
facilmente nessi significativi sulle relazioni nei diversi piani generazionali.
Ciò che si può così rilevare è il grado di differenziazione del soggetto rispetto alla storia
familiare, con tutto il suo bagaglio di miti, vincoli, segreti, lungo un continuum che va da un
Sé strutturato e differenziato ad un Io fusionale dipendente dal contesto in cui si è sviluppato.
Quest’ultimo tipo di struttura, in particolare, può favorire l’emersione di sintomi fisici che
impediscono la vita ed il risentimento può anche arrivare a generare un disturbo
psicosomatico, una vera e propria malattia fisica.
Secondo la Shutzenberger i concetti di Boszormeny-Nagy, riguardanti le lealtà invisibili, la
giustizia, il computo dei debiti e meriti, aprono nuove prospettive alla psicosomatica: infatti il
vincolo più o meno stretto alla storia familiare influenza il soggetto nei suoi comportamenti e
nei ruoli che egli assume nel contesto relazionale.
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Tutti gli avvenimenti relazionali psicologici si organizzano secondo una doppia motivazione,
la motivazione manifesta e la “struttura obbligazionale nascosta”, quindi la impossibilità a
sviluppare una identità svincolata dai retaggi familiari può portare all’emersione del sintomo.
La Schutzenberger ricorda, in questa prospettiva, anche le osservazioni di Françoise Dolto,
che, nel suo libro “Le parole dei bambini”, afferma: “ Ogni bambino è inevitabilmente
costretto a sopportare sia il clima nel quale cresce, sia gli effetti patogeni che si sono
cristallizzati nei postumi del passato patologico non solo della madre e del padre, ma anche
delle persone che si occupano di lui. Il bambino è portatore del debito contratto all’epoca
della sua fusione prenatale e in seguito della dipendenza postnatale, e che l’ha strutturato”
(cit. Schutzenberger, 1993, pag. 45)
La
Schutzenberger,
in
estrema
sintesi,
tenta
di
coniugare
nella
prospettiva
transgenerazionale aspetti propri della terapia sistemico-familiare con concetti più vicini alla
psicoanalisi, allo scopo di correlare la dimensione psichica con la patologia fisica.
A questo proposito mi sembra opportuno fare un breve cenno al pensiero di Luis Chiozza,
psicoanalista sudamericano a cui si deve il metodo terapeutico patobiografico.
Egli, partendo da una prospettiva assolutamente analitica, propone una stretta correlazione
tra la storia individuale e il sintomo fisico.
Secondo Chiozza, infatti, le malattie "contengono", nascoste, diverse storie e ognuna di
queste storie si presenta, nella coscienza del malato e in quella dell’osservatore, come un
disturbo corporeo diverso.
Chiozza abbandona la concezione della estraneità tra mente e corpo, e, anzi, coglie nelle
malattie somatiche elementi della vita fantasmatica del soggetto che rappresentano la
concretizzazione della relazione tra funzione fisiologica e funzione psicologica di un organo
e, quindi, tra malattia dell’organo e distorsione dei processi mentali connessi.
Chiozza non vede mai scisso il sintomo né dall’organo (bersaglio) né dall’uomo con la sua
storia personale.
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Il suo metodo terapeutico originale, quindi, denominato studio patobiografico, consiste
nella ricostruzione della storia clinica e biografica del paziente, alla ricerca degli anelli
mancanti nella continuità della storia del paziente, dei quali la malattia è un indice. Attraverso
l’indagine e la successiva interpretazione si possono fornire al paziente quegli elementi
necessari a dare un nuovo significato alla sua esperienza esistenziale, che per Chiozza
corrisponde alla guarigione.
Conclusioni
La prospettiva transgenerazionale è stata oggetto degli ultimi anni di una crescente
attenzione sia all’interno che al di fuori del mondo della psicoanalisi. La suggestiva
espressione di “far entrare il tempo nella stanza dell’analisi” ha incontrato l’interesse di
numerosi terapeuti stimolati nella ricerca di nuove prospettive che siano in grado di dare
risposte adeguate, di fronte ai sempre nuovi interrogativi che la clinica pone.
In effetti, da Freud in poi, la psicologia e la psicoanalisi in particolare sono epistemologie
caratterizzate da uno stretto collegamento tra pratica clinica e attività teorica.
Il crescente interesse per la dimensione transgenerazionale offre però l’occasione per fare
qualche riflessione.
La pratica clinica pone spesso quesiti inediti cui il terapeuta deve, se possibile, dare delle
risposte: si richiede quindi al clinico duttilità ed apertura mentale, così che la sua attenzione
sia sempre aperta a nuove prospettive.
Questo però non dovrebbe comportare il misconoscimento di quanto di buono la
psicoanalisi ha portato nella pratica clinica ma, piuttosto, uno sforzo per integrare e rendere
coerenti le dimensioni privilegiate dalla psicoanalisi classica con quelle rilevate dalle novità
concettuali.
È, naturalmente, una strada complicata da percorrere, in quanto richiede al tempo stesso
coerenza e creatività ma, probabilmente, è l’unico modo per progredire veramente nella
conoscenza della natura umana.
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Bibliografia:
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Borszormeny-Nagy I. (1988) Lealtà invisibili: la reciprocità nella terapia familiare
intergenerazionale. Roma: Astrolabio,
Chiozza, L. (1989). Perché ci ammaliamo? La storia che si nasconde nel corpo. Roma: Borla
Edizioni, Roma
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Iscr. Tribunale di Roma n°142/09 4/9/09 (copyright © APRE 2006) Editor in Chief: R. F. Pergola
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