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Notiziario settimanale n. 464 del 10/01/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
16/01/2014: Giornata mondiale delle migrazioni
Padova offre la cittadinanza onoraria all'obiettore Trevisan
Il vice sindaco Ivo Rossi, in occasione della Giornata internazionale dei
Diritti Umani, invita la cittadinanza a partecipare alla cerimonia di
conferimento della cittadinanza onoraria ad Alberto Trevisan, obiettore di
coscienza e promotore della nonviolenza.
Alberto Trevisan, nato a Feltre il 21 settembre 1947, nel giugno 1970
avanzò la sua obiezione alla leva militare obbligatoria e fu condannato
alla galera militare. Durante la detenzione, nel 1971, ribadì la sua scelta
insieme ad altri sei obiettori.
Il 12 dicembre 1972 il Parlamento riconobbe il diritto al servizio civile,
con l'approvazione della legge 772.
Per Trevisan, il contenzioso giudiziario si chiuse solo nel 1995.
Il Consiglio comunale di Padova, nella seduta dell'11 dicembre 2012, ha
deciso di conferire la cittadinanza onoraria ad Alberto Trevisan, con la
seguente motivazione: "Padova, Città di Pace, riconoscente per il
contributo di eccellenza dato alla diffusione della cultura della pace, dei
diritti umani, della solidarietà e della democrazia, attraverso il suo
impegno nel Movimento Nonviolento".
indicatori europei di benessere e civiltà (lavoro e istruzione tra tutti), è
nuovamente tra le prime dieci potenze militari globali. Una cultura
neobellicista ha rimosso il disarmo dall’agenda della politica, per cui tutto
può essere tagliato tranne che cacciabombardieri e portaerei. Il complesso
militare industriale internazionale orienta le scelte dei governi, difendendo
se stesso da quella che il generale Fabio Mini ha definito “la minaccia
della pace, indirizzando la spesa pubblica per la guerra a vantaggio delle
commesse militari. Il popolo e i suoi rappresentanti sono sempre più
espropriati da decisioni gia prese, spesso in sedi internazionali, come per
la base Dal Molin di Vicenza o il Muos di Niscemi o l’ammodernamento
delle testate nucleari presenti sul territorio italiano, in violazione del
Trattato di non proliferazione.
Eppure nonostante tutto ciò, continua ad essere presente in Italia un
significativo movimento dal basso che si impegna per la conversione
ecologica dell’economia, il disarmo e la tutela dei territori dagli scempi
delle grandi opere, beni comuni e la democrazia partecipativa. Insomma,
c’è ancora e, in qualche modo resiste, quella che Capitini avrebbe definito
“l’Italia nonviolenta”.
La partecipazione al congresso è libera, aperta a tutti.
PROGRAMMA DEL CONGRESSO
Indice generale
VENERDÌ 31 GENNAIO 2014:
24° congresso nazionale del Movimento Nonviolento: 31 gennaio e 1-2
febbraio 2014, Centro Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di
Movimento Nonviolento)........................................................................... 1
Estrazione biglietti lotteria "Periferie al centro" (di AAdP)........................1
"E basta con queste carceri! I problemi sono altri" (di Mario Pancera)......2
Se fossimo ancora umani (di Lunaria)........................................................ 2
I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa (di Giuseppe Fava) ...................2
Il ruolo dei media nella rappresentazione del conflitto (di Enrico Cheli) . . .7
Omelia di Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo di CampobassoBoiano, durante la Marcia della Pace del 31 dicembre 2013 organizzata
dalla CEI e da Pax Christi (di Mons. Giancarlo Bregantini) .....................11
Cara piccola, fai tu gli auguri a noi (di Maria G. Di Rienzo)...................13
Le donne al centro della resistenza (di Raúl Zibechi) .............................. 13
Sì, è possibile (di Joumana Haddad)........................................................ 16
Incontrarsi attraverso lo psicodramma. Suonare i tasti del cuore: alla
ricerca della libertà e gentilezza verso sé - "di cosa parliamo quando
parliamo d'amore: materno e paterno"...................................................... 16
- ore 15,30 “Percorsi di Pace” (visita guidata di alcune tappe della città)
- ore 18,00 “l’Europa che vogliamo” …disarmo, federalismo, politica
sociale… Intervengono: Roberto Burlando, Francesco Vignarca, Paolo
Bergamaschi, Roberto Palea
Evidenza
SABATO 1 FEBBRAIO 2014
- ore 10,00 accoglienza
- ore 10,30 relazione della segreteria e della presidenza
- ore 11,30 interventi e dibattito sulle relazioni
- ore 13,00 pausa pranzo
- ore 15,00 ripresa lavori, interventi, formazione delle commissioni
- ore 16,00 lavori delle commissioni
1. Diritti/doveri
2. Disarmo
3. Democrazia
4. Decrescita/semplicità volontaria
- ore 21,30 proiezione del documentario “in marcia: 50 anni del
Movimento Nonviolento”
DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014
Documenti
24°
congresso
nazionale
del
Movimento
Nonviolento: 31 gennaio e 1-2 febbraio 2014, Centro
Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di
Movimento Nonviolento)
Oggi, mentre una grave crisi economica, ecologica e sociale investe il
pianeta, è in atto una corsa globale agli armamenti senza precedenti, ad
essa si aggiunge in Italia anche una crisi politica e istituzionale della quale
non si intravede alcun sbocco positivo. Eppure, l’Italia, ultima in tutti gli
1
- ore 9 presentazione risultati dei lavori delle commissioni, dibattito,
presentazione mozioni
- ore 11 votazione delle mozioni congressuali, nomine e adempimenti.
- ore 14 termine e chiusura del 24° congresso nazionale (fonte: Centro Studi
Sereno Regis)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1984
La pagina dell'AAdP
Estrazione biglietti lotteria "Periferie al centro" (di
AAdP)
Lotteria "Periferie al centro"
Lunedì 5 gennaio, alla presenza del responsabile Luca Marzario, del
garante Gino Buratti e di Roberto Faina, si è proceduto all'estrazione dei
biglietti vincitori della lotteria "Periferie al Centro", organizzata
dall'Accademia Apuana della Pace:
1° premio: biglietto n. 681 venduto a Martina Bontempi
2° premio: biglietto n. 790 venduto a Sara Legnami
3° premio: biglietto n. 308 venduto a Marco Grottin
Link:
http://www.aadp.it/index.php?
option=com_content&view=article&id=1993
Approfondimenti
Carcere
"E basta con queste carceri! I problemi sono altri"
(di Mario Pancera)
L’impudenza e il cinismo politici sfaldano la società e distruggono anche
la solidarietà umana
di Mario Pancera
Molti hanno già sentito queste frasi:« E basta con i problemi delle carceri.
I delinquenti lasciamoli dentro. Ci sono degli assassini liberi per le
strade…» e via di questo passo. Si ascoltano sui mezzi pubblici, nei
crocchi sulle piazze. Il disagio sociale nel paese è talmente alto che ci si
dimentica dell’uomo.
Alla tv, spesso così ne parlano leghisti e non leghisti, settentrionali e
meridionali: pensiamo piuttosto che manca il lavoro, ci sono migliaia di
famiglie che combattono con la fame, paesi ancora semidistrutti da
terremoti e alluvioni, tasse che colpiscono i poveri, i ricchi se la cavano
sempre, che futuro abbiamo? È vero. Nella palude politica ed economica
italiana è tutto vero. Chi segue, di quando in quando, i casi dei carcerati
non sa che dire: nei primi giorni del 2014 si sono uccisi due detenuti
italiani quarantenni, un morto un giorno sì e due no, uno a Roma e uno a
Ivrea. E un terzo è morto di malattia dietro le sbarre a Verona.
Parlo dei«suicidi», così schedati ufficialmente, perché la parola è terribile
per più motivi. Può suicidarsi in caserma un giovane denunciato per furto
di una bicicletta? Un paraplegico in carrozzella può andarsi ad impiccare
al tubo del gas al soffitto? Un altro può impiccarsi senza che i suoi tre
compagni di cella se ne accorgano? E uno infilare la testa nel cappio di un
laccio da scarpe ? (ma una volta i lacci non erano tra i primi oggetti ad
essere sequestrati agli incarcerandi?) E un altro impiccarsi proprio negli
istanti del cambio di guardia? E un altro ancora suicidarsi con il cranio
rotto e poi fasciato e con ecchimosi in tutto il corpo?
Che cosa dire e che cosa fare se non si è politici? Denunciare i casi, finché
si troverà, anche in questa Kakania che è diventata l’Italia, qualcuno che
dia un vero contributo per risolverli. Un contributo «vero», non
chiacchiere che si disperdono nei corridoi delle pubbliche istituzioni. I
giornalisti possono solo segnalare, dare le notizie per stimolare, attraverso
l’opinione pubblica, chi ha il potere di «fare». Che cosa di più?
Non si può dire che il 2014 sia partito bene. Prendo questi dati
dall’attentissimo bollettino di «Ristretti orizzonti» di Padova. Ma se può
essere un piccolo, microscopico, motivo di sollievo c’è il fatto che nel
2
2013 i «suicidi» (sempre tra virgolette) sono stati soltanto 49, nel 2012
erano stati 60, nel 2011 e nel 2010 furono 66 e addirittura 72 nel 2009.
Abbiamo dunque un calo tendenziale di carcerati morti per suicidio in
Italia. Anche se l’anno, per così dire, meno triste è stato il 2007 con
“appena” 45 detenuti dichiarati suicidi. Facciamo i conti: uno ogni otto
giorni. L’anno scorso, invece, uno ogni sette giorni e mezzo.
E per concludere?
Non so proprio. Penso a Abdelaziz che risulta suicida a 21 anni, a
ferragosto, a Padova: tempo di festa, ventun anni! E a Francesco la cui
morte a 22 anni, in giugno, a Monza, risulta «da accertare»: tempo
d’esami studenteschi, ventidue anni! Una volta si diceva, l’alba della vita.
Proviamo insieme a concludere, amici lettori.
Mario Pancera
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1995
Immigrazione
Se fossimo ancora umani (di Lunaria)
Lampedusa è lì e la verità è che tutti noi siamo lontani. Ciò che succede
ogni giorno nel Cpsa dell’isola non lo sappiamo. I riflettori si accendono
solo in occasione di visite illustri o dell’ennesima strage. Per questo le
immagini raccolte da Valerio Cataldi per il Tg2 andate in onda lunedì sera
sono un pugno nello stomaco, qualcosa che non avremmo mai voluto
vedere. Migranti denudati in mezzo alla strada che attraversa il Cpsa,
fuori, al freddo, di fronte agli altri ospiti e agli operatori dell’ente gestore
(la cooperativa Lampedusa accoglienza) che, a vedere le immagini,
sembrano considerare tutto normale.
Il motivo: lo svolgimento di una vaccinazione contro la scabbia, malattia
che se c’è viene contratta in Italia proprio a causa delle condizioni di (non)
“accoglienza” che il nostro bel paese è in grado di offrire, e non prima. “È
come se il limite del trattamento disumano fosse stato superato da tempo e
nessuno se ne fosse accorto”. Il commento di Cataldi non potrebbe essere
più calzante.
Ma che paese siamo diventati? Solo due mesi fa, dopo l’ennesima strage
di 366 innocenti del 3 ottobre, la retorica indignazione e la pubblica
compassione hanno occupato per giorni le prime pagine di Tv e giornali. E
dopo? Non siamo riusciti neanche a garantire un funerale dignitoso alle
vittime mentre dei vivi ci siamo dimenticati. A Contrada Imbriacola
secondo Meltingpot sono presenti, ancora oggi 16 persone sopravvissute
al naufragio del 3 ottobre. Sono più di 600 le persone “accolte” in una
struttura che potrebbe ospitarne solo 300. Denunce, dichiarazioni solenni,
promesse ma il tempo passa e nulla cambia. L’unica cosa che il nostro
governo è stato capace di fare è chiedere maggiore aiuto all’Europa e il
rafforzamento di Frontex, la macchina da guerra che ha già macinato un
budget da più di 515 milioni di euro in sette anni. Senza vergogna, senza
pudore. E allora ci rivolgiamo a tutti i Parlamentari democratici: è
possibile chiamare il Ministero dell’Interno a rendere conto in Parlamento
di quello che succede a Contrada Imbriacola? È prassi “ordinaria”
costringere le persone a spogliarsi all’aperto e in pubblico? Perché la
struttura continua ad ospitare un numero di persone che è più del doppio
della sua capienza? È “normale” sottoporre le persone a trattamenti
disumani e degradanti? Perché di questo si tratta, né più né meno.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-fossimo-ancora-umani-21404
Mafie
I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa (di
Giuseppe Fava)
Pubblichiamo, riprendendolo dalla newsletter “La nonviolenza in
cammino” del 5 gennaio 2014, del Centro Ricerca per la Pace di Viterbo,
l’articolo di Giuseppe Fava, comparso sulla rivista “I siciliani” il 1
gennaio 1983, un anno prima di essere assassinato dalla mafia.
Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano,
protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori
della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna
prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta,
nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio
intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel
nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, poiché
continuamente vedremo balzare innanzi, come su un'immensa ribalta, tutti
i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di casa) nel
gioco delle parti.
Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie
perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune
fatali complicità organizzative. L'una categoria raggruppa tutte le
tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell'economia, i
cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attività economiche di
una grande città: i mercati generali; le concessionarie di prodotti
industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night;
e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa che l'operatore
economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede
bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In
taluni casi d'essere ucciso.
Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, però frantumati e
dispersi in un'infinità di rivoli e canali. Un apparato mafioso che
lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le
grandi città del nord, oramai da anni anch'esse violentate da sparatorie,
stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali
emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. È la mafia cosiddetta dei
manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna
per il predominio in un quartiere o un settore.
Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di
imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è fatale.
Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che
insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione
da una grande città all'altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i
rackets in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra
consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia è
infatti la presenza costante della famiglia, cioè del rapporto di parentela
fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse
senza nemmeno voler essere cinico: "Una buona famiglia meridionale
all'antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti tradizionali della
famiglia, può costruire un racket mafioso di tutto rispetto. È più temuta!".
Questo spiega anche talune agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime
legate piedi e collo con un filo elettrico in modo che lo sventurato
lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e infilati in bocca, teste
mozzate e depositate dinnanzi all'uscio di casa. Una crudeltà che
scaturisce dall'odio definitivo di chi ha visto cadere per mano avversa il
padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilità di pace, di
armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al
fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo
sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguiterà fino nella più profonda
cella di carcere.
È la mafia che miete la quasi totalità delle vittime, centinaia, forse
migliaia ogni anno in tutte le città della Sicilia e dell'Italia. Quasi tutte le
vittime sono anch'esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche
avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che
in un modo o nell'altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket
mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le
loro teste. È una malia che sembra animata da una tragica vocazione al
suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia
oramai intanato nel ventre della nazione, dove si ingrassa,
ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente sarebbe
forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso è
3
però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra
manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso.
E qui c'è il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede
mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le
nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della
mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente
due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco è vertiginoso. È come se un
grande corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e
continuamente in agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c'è un
brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo
misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore
della vittima. Non riesco a trovare un paragone più amabile ed egualmente
preciso.
La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il
petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che
la droga coinvolge si può fare solo nell'ordine di decine di migliaia di
miliardi. La contaminazione del vizio oramai è intercontinentale, dall'Asia
all'Africa, all'Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si
calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai
tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo
ciascuna in media (ma la valutazione forse è troppo esigua) circa diecimila
lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l'anno.
Una cifra che fa paura. Molto più alta del bilancio di una grande nazione
industriale. I guadagni sono anch'essi incalcolabili. Secondo gli studi
attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per
poco più di un milione, dopo la raffinazione può valere sul mercato da due
a tre miliardi, secondo la purezza del prodotto.
E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per
capire appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un
evento quotidiano che minaccia di deformare la società contemporanea.
Ogni anno centomila esseri umani, per lo più giovani o addirittura
adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci
milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva
incapacità intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro
costante pericolosità, cioè la disponibilità a qualsiasi proposta criminale.
Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiché quasi sempre,
accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c'è la infelicità di un
intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie, per i quali il recupero
- spesso impossibile - del congiunto diventa una costante di dolore e
disperazione.
La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali
della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si
stanno trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della
grande struttura civile collettiva vengono così destabilizzati, ed è tutta la
struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello
internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre più
insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini,
magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per
arginare l'avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta
sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e
cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e
insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente
all'altro, l'ombra invulnerabile della mafia.
Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l'immenso affare. Dapprima nelle
grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo,
Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora
definitivamente anche in Sicilia. L'isola è nel cuore del Mediterraneo e
quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall'area
afroasiatica verso le grandi nazioni dell'occidente. Per qualche tempo in
Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo
punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione
ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le
affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai
concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia
non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni,
incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga.
Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la
sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente l'ingranaggio.
Forse c'era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni
paradosso psicologico è possibile) verso un affare che era portatore di
morte e dolore per un'infinità di esseri umani, soprattutto giovani. Ma
anche senza complicità mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso per
tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l'ultima
repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in
Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e
aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di
produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della
droga e la spedizione nelle grandi capitali dell'occidente. In quell'attimo
compì un salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l'Italia.
Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume
travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti,
che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni,
mettendo radici sempre più profonde, integrando gradualmente e infine
totalmente anche camorra napoletana e 'ndrangheta calabrese,
coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la
mafia ha creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il
suo distacco da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno
di fantascienza. In verità molte componenti di questa struttura si sono
determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un
gioco d'interessi, ma c'è voluta indubbiamente una grande capacità di
fantasia per intuire questa forza delle cose e questa concatenazione
d'interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la
mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo
sarebbe diminuire il merito di Domineddio.
Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti l'uno
all'altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno.
Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli
specialisti dell'assassinio.
Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori
economici così imponenti, legati all'impunità della produzione e del
traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile un controllo
costante e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo,
un rischio, una trappola. È necessaria quindi una folla di complicità
dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni, impiegati del
fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari
dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali
di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro
stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale, ognuno
pagato e ricattato per suo conto, all'interno di un gruppo che garantisce il
dominio di un piccolo territorio o quartiere della città.
Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti,
avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione
soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si
scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade
l'ecatombe, trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene sterminato e
la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi
dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l'assassinio di Alfio Ferlito,
assieme ai tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal
carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie più
feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande area metropolitana.
Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a
Palermo, epilogo spettacolare di una catena di cinquanta omicidi, sono
stati un altro momento di questa lotta che ha visto la sanguinosa vittoria
del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i vincenti, i padroni del clan,
sono poco più di subappaltatori dell'immenso palinsesto mafioso:
governano l'impresa criminale su una zona, conoscono alcune segrete
strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere. La
loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di trenta, quaranta
individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali e all'occorrenza
poter contare sulla loro devozione e infallibilità. Capimastri, non di più!
Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella stanza
dei progetti.
Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c'è il livello dei pensatori, con la
lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla
quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare,
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morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la
grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia è la
riciclazione del denaro continuamente prodotto dall'operazione droga, cioè
la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una autentica
capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di
miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare
usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li
assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento,
ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un
salto nella cultura mafiosa.
Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese
economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo
celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento
miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone
miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicità umane, possono essere
impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga,
un'autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente
potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c'è sempre il rischio
di un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le
banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona
aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l'estro, la fantasia. Il giorno
in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti
imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile,
stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano.
All'aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita!
Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere
appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per
cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia,
Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno di
quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che
fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi città e
nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi
affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata già
d'avanzo un'agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano
di colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!",
tutto l'apparato già pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di
metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri,
gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie
inaugurali con interventi di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori,
prefetti, "Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza", fiori,
applausi, banchetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti.
Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di
Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto
giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l'avvocato
Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista
principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima
ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha
tentato più nessuno.
In verità c'era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far
trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando
un cocciuto magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano
Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell'Ente
minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e
diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle
banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la
vicenda avesse indotto più all'ironia che allo spavento, dipese
probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore
Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del
vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante
sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una
pochade politica più che per una tragedia mafiosa. Invece fin d'allora si
sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben più profonde oscurità
arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come
esse servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro
che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un
giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada, invece
esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici
della banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del
denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne
presa alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud.
Nemmeno il governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio.
Tutti arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e
calci venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti
rimase solo alla ribalta, perché l'opinione pubblica potesse farci in
conclusione una bella risata di scherno.
Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello
politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente;
quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto
Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante, cortese e,
probabilmente, anche un pò minchione. Per la magniloquenza del suo
tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con
perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal
suo esilio di Beirut, dove ebbe l'agilità di scappare una settimana prima
dell'ordine di cattura, disse una cosa significativa: "Come potete pensare
che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia
di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece
interessi per centinaia di miliardi!". Tutti pensarono alla malinconica
battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce.
Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non
conosciamo e che però il potere politico e i vertici finanziari dello stato
dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero,
sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le
tracce della sua provenienza, cioè reinvestirlo e così purificarlo, ma non
possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento.
Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese
industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente,
prudentemente, garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate,
possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di
sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile
importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello,
una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa.
E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri
catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: "I
quattro cavalieri dell'Apocalisse". L'Italia è uno strano paese in cui si
sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro
invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent'anni si è
spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa
a Palma di Montechiaro, è invece un appaltatore che riesce a trovare
fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese
dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna
economica o finanziaria, per struttura stessa della società politica, deve
fatalmente passare attraverso un compromesso costante con il potere, con i
partiti che sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini
politici o gli altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale
funzione, lo spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere
pubbliche, l'assegnazione degli appalti. Chi afferma il contrario è
candidamente fuori dal mondo oppure è un amabile imbecille.
A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro
cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di
aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci
in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? È una
domanda importante ed anche spettacolare poiché i quattro personaggi
sembrano disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente
dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere. Costanzo
massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e
improvvisamente
collerico,
Finocchiaro soave,
silenzioso e
apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con
qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle
apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di
quella eleganza senza moda proprio dell'industriale self-made-man.
Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni,
industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il più
ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia
invece Costanzo, il più prepotente, l'unico che abbia osato pretendere e
5
ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci,
proprietario di una banca che, per capitali, è il terzo istituto della regione.
La ricchezza di Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si chiedono:
ma chi è questo Finocchiaro.
Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici (la
Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei
congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso
nazionale dei magistrati in cui era appunto all'ordine del giorno la lotta
contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di
lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce
anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie
necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature
metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in
alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo
che non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono
il confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni
in una delle più diffuse emittenti televisive private. È anche presidente e
maggiore azionista della Banca popolare.
Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più moderni, almeno
culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto. Anche lui
costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche
aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli
sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo
piccolo fiore all'occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla
ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i
soldi non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della
holding è il ritratto stesso dell'azienda, una serie di palazzi di acciaio,
alluminio e metallo, l'uno legato all'altro, sulla cima di una collina alle
spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi
della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso
giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini
armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha
la sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella
informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov,
l'uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, è riuscito ad arrivare al
vertice dell'impero sovietico poiché mentre era a capo dei servizi segreti
inventò l'ufficio della disinformazione, specializzato nel confondere la
realtà. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico.
L'impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le
iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprietà. Per il
resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella, vive
gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti è
quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni
parte dell'isola e dell'Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense
estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono
i grandi alberghi di fama internazionale: il suo più recente acquisto l'hotel
Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli
alberghi più belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo
novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una
storia del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei
Ciclopi, il più prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che
non hanno eguali in Europa e che per quarant'anni nessuno ha osato
sottrarre alla sua destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro
Graci, che fino a qualche anno fa era sconosciuto a Catania, e il più
riservato, raramente compare in prima persona. Possiede anche lui la
maggioranza azionaria di un'emittente privata e di un giornale quotidiano,
ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di amministrazione.
Narrano anche della sua generosità. Ogni tanto organizza per i suoi amici
mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una
favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli amici
di vertice.
Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L'ultimo arrivato dei quattro
al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo
palazzi. Ha però una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi
appalti sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni
ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco
edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la
nuova Pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della
città, a cento metri dal palazzo di Giustizia. Poiché la Pretura di Catania
convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena
il nuovo edificio entrerà in funzione, il traffico di tutta quella zona
essenziale della vita cittadina resterà probabilmente paralizzato. Esempio
di come possa essere nefanda un'opera pubblica pur perfettamente
realizzata. Finocchiaro infine è anche il più lezioso. La sede della sua
impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti più
splendidi della riviera, una grande villa, in verità bellissima, sovrastata e
circondata dal verde e da una serie di piscine intercomunicanti, sicché, una
levissima massa d'acqua si muove ininterrottamente dalle terrazze ai patii.
La gente passa, guarda e s'incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di
Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati
di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi
fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di
finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica
opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai
ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le
vedono crollare hanno un momento di trasalimento di felicità e un grido:
"Lo sapevo!", i quattro cavalieri sono nell'occhio del ciclone, in mezzo al
quale sta immobile e sanguinoso l'assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la
più feroce e tragica sfida portata dalla mafia all'intera nazione.
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo
autentico tempo di apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi si
siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro
dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia e
stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a
valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile
immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore
segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni
ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo,
il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai
smentito, dichiari spavaldamente al massimo giornale italiano: "Abbiamo
deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli
per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di
due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!"; e che tutti e
quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse
centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al
maestro elementare, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale,
all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumerevoli italiani che
sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci
riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele
Sindona, o del boss Santapaola, ricercato per l'omicidio di Dalla Chiesa, o
del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri
di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo
costituzione, di cavalieri della repubblica.
Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico:
i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo
e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si
possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che
appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero.
Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di
colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e
giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire
una verità che può essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i cavalieri di Catania, o
taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a
impartire l'ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò
chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi
economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi
giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non
può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere
da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono
prove e quindi fino ad oggi non esiste!Infine quello che probabilmente è:
cioè di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà,
saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i
pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica
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che la governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico
Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere più rapido e
deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi
facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade,
palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole,
ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete
gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori
di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri
cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli,
amici, possano essere rapiti o sequestrati.
Se così è, tutto questo non è morale, ma non è nemmeno reato! E
purtroppo non è nemmeno una vera risposta in un momento storico
terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verità
definitive, anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realtà innegabile:
perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono
pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d'affari o di politica
capaci di garantire l'impiego e la purificazione di quell'ininterrotto fiume
di denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia il
diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello stato (o peggio)
di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto morale e
politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli, la
società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue
esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civiltà. Venivano tutti da
nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne andavano.
Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche rapine o
devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e l'avvelenamento
di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi petrolchimici
costituirono una di queste grandi imprese. I giganteschi ruderi industriali
nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai funzionato e
che hanno divorato migliaia di miliardi della regione, rappresentano
un'altra impresa. In tutto quello che è stato costruito in Sicilia, i siciliani
sono stati al più subappaltatori (se possibile anche mafiosi) o soltanto
miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili, costavano
poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom furono
costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali. La
Sicilia è stata sempre una terra tecnodipendente.
Improvvisamente, nell'ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del
lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti,
aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia,
di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione,
velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno
creato aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa
grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro
intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa,
in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi
aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo
meridionale, ma si vedono insidiate nel loro stesso territorio. Bene, la
tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva
su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire
un rapporto di colonizzazione è chiaro.
Allora a questo punto il discorso è già perfetto. Se tutti i cavalieri di
Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura
mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se
solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto
loro, implacabilmente, eliminandoli dalla società, e rilasciando così agli
altri, ai superstiti, una possibilità politica e morale di continuare l'opera di
evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia.
Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno,
lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo
della mafia. La mafia che finalmente si identifica con lo stato! Ed è qui
che entra in gioco l'ultimo livello della struttura, l'imperscrutabile vertice
che finora ha paralizzato la giustizia.
Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali
che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose
dalle quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le
estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina
quasi tutte le funzioni della società sottomettendo le province, le città, i
quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi,
insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi
della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa
infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi,
che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni
pubbliche e private. Manca l'ultimo livello, il più alto di tutti, senza il
quale gli altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico! Vi
racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere la
posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia
vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un
certo modo interpreta tutt'oggi il senso politico della mafia. Nel paese di
Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da
tutta la mafia della provincia palermitana c'è un sindaco democristiano, un
democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche
segretario comunale della Dc, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad
un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti,
alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe
stato un trionfo politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali
e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi
tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero
saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria dignità rifiutò le
tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla
segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall'ancora giovanile
Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle
quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era
medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di
governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose
ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che se
non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico
galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò
ancora. La segreteria provinciale si incazzò, sospese dal partito il sindaco
Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale
Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale,
indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando
quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili
assassini. E continuò a vivere nell'attesa della morte. Solo, abbandonato da
tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva
solo continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche
nuove e moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici
armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di
ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte
le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a
sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di
mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto,
sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale
Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne
considerato un pazzo alla memoria.
È una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco
soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia però perfetta
come un teorema poiché spiega come può il potere politico gestire la
vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni
'80, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte
del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai
perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia,
che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza:
dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona
alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; già da dieci anni avrebbe
dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe
emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li conduce
talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe
garantire la regolarità dei concorsi e invece assedia le commissioni di
esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire una
diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in
un'altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e invece li
abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico
che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere
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politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere pubbliche,
determina l'ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il
presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano
onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille
miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi
certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero
sincere condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c'erano i suoi
assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i
funerali del vice questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare
Terranova, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario
comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati poiché stavano già
scoprendo i punti di sutura fra politica e mafia.
Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso
eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda
di iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli
aveva fiutato l'infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa
ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa
personale per scoprire alcune verità politiche all'interno della loggia
massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui.
Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere
politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli
aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in
centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell'occulto.
Quando arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali
sapevano perfettamente di avere di fronte l'avversario più duro e
cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in
più un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli
strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo:
quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla
perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia
alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo
errore. Di vanità. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un
retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le
vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi,
dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che
era sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che
potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che
potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli
la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo
funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è
oscura e senza gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra, non si può
vincere in una serie infinita di scaramucce, poiché i serpenti restano
dovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta
sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni
dettaglio. Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava
interviste, invocava, accusava, era l'unico personaggio italiano che poteva
chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagini
nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente
come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all'altro vi
strapperò la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!".
E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la
battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni
diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la
giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo
poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io così con lei non
viaggio!". Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità
irrisoria, a colpo sicuro, (se è vero quello che finora ha detto la
magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti
venire da un'altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria.
Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo l'aveva già vibrato, forse
proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a
tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche
altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non dicevano, cioè dov'era
il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e
schiacciarli.
(fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1994
Nonviolenza
Il ruolo dei media nella rappresentazione del
conflitto (di Enrico Cheli)
Pacificatori o amplificatori della conflittualità?
Secondo J. Galtung (2000) alla base di ogni conflitto sono individuabili 3
elementi di fondo: gli atteggiamenti (Attitudes) i comportamenti
(Behaviours) e le contraddizioni o contrasti di interessi (Contraddiction);
questi elementi danno luogo al triangolo di figura 1, definito da Galtung
l’ABC del conflitto. Dunque in un conflitto troviamo un un contrasto di
interessi o una divergenza di vedute tra le parti in causa (contraddiction)
che può portare ad un blocco dei rapporti tra le due parti, a far loro sentire
che non ci sono possibilità di trovare delle valide soluzioni
(scoraggiamento) e questo, a sua volta, può determinare (o incrementare,
se già presente) un atteggiamento di sfiducia, di odio, o magari di apatia;
questo atteggiamento può poi portare, ad un certo momento, ad un
comportamento aggressivo, che può essere di sfida, di competizione o di
“violenza” (fisica, verbale o psicologica).
La sequenza con cui si passa da un elemento all’altro non è
necessariamente quella esemplificata: la manifestazione del conflitto può
iniziare con A e poi condurre a B e C ma può anche iniziare con C e poi
portare a B e solo in ultimo ad A, oppure ancora iniziare con un
comportamento (B) e poi passare al punto C ed infine A, e così via. Quale
che sia la sequenza con cui si manifestano, è importante considerarli nella
loro interdipendenza e non come aspetti separati.
peace-journalism02
L’ABC del conflitto (da J. Galtung, 2000)
L’emergere e il manifestarsi del conflitto non va necessariamente visto
come negativo, e anzi può assolvere a molte funzioni positive, come ad
esempio portare a galla un disagio sotterraneo e magari represso, creando
così i presupposti per affrontarlo, oppure può rimettere in discussione un
rapporto stanco e rivitalizzarlo. Il problema di fondo è piuttosto quello
delle forme che tale manifestazione assume: si può infatti trattare di forme
distruttive, violente, oppure di forme più costruttive e comunicative che
possono servire allo sviluppo positivo dei rapporti interpersonali,
interetnici, internazionali[1].
In questo mio breve saggio mi ripropongo di evidenziare il ruolo che in
proposito svolgono (e potrebbero svolgere) i media. Applicando al loro
operato lo schema ABC di Galtung derivano le seguenti 3 domande di
fondo:
A – Su quali atteggiamenti fanno maggiormente leva i media, quelli di
odio, di competizione, di critica, di sfiducia nell’altro o quelli di
solidarietà, di collaborazione, di apprezzamento e fiducia nei confronti
dell’altro?
B – Quali modi di affrontare i conflitti (comportamenti) vengono più
frequentemente rappresentati nella fiction come nell’informazione, nella
stampa come nella Tv? Quelli violenti e distruttivi o quelli basati sulla
comunicazione, l’ascolto, la negoziazione?
C – E infine, come viene presentata la conflittualità (contraddiction):
come qualcosa di insanabile e inevitabile o come un problema individuale
e culturale che può e deve essere trasformato costruttivamente con
vantaggio per tutti?
A – Gli atteggiamenti negativi e ostili verso l’altro in quanto diverso da
noi.
Come è noto l’incontro, anche solo potenziale, con sconosciuti, innesca
reazioni ambivalenti di curiosità e di paura; tuttavia, per vari motivi, anche
culturali, prevale spesso la seconda reazione: la paura. Molte persone
hanno una visione del mondo come di un luogo pericoloso, dove è bene
8
non fidarsi di nessuno, specie gli sconosciuti. Le paure e diffidenze verso
gli altri, che spesso immaginiamo ostili o comunque maldisposti nei nostri
confronti, sono tra i maggiori ostacoli alla comunicazione e alle relazioni
interpersonali e tra le cause che più fanno degenerare un conflitto in
violenza. Molti scontri e perfino guerre nascono anche dalla non
accettazione e condanna della diversità dell’altro: si pensi alle guerre di
religione, di cui è piena la storia, o a quelle tra diverse ideologie, come nel
caso della ex guerra fredda tra USA e URSS o di altre guerre e guerriglie
tuttora in corso. Molte volte il fattore scatenante è la paura che l’altro, il
“nemico”, attacchi per primo, e in situazioni di fondo contrassegnate da
ostilità e diffidenza basta una scintilla perché scoppi una guerra.
A questo riguardo i media sono ambivalenti: da un lato ci aiutano a
conoscere mondi, culture, persone distanti e diverse da noi, avvicinandole
e rendendoci così sempre più cosmopoliti e tolleranti; dall’altro lato
rappresentano quasi esclusivamente i lati peggiori dei conflitti, ignorando
o comunque minimizzando quei casi – non così rari – in cui si è giunti ad
una risoluzione pacifica e magari addirittura collaborativa della
conflittualità e della differenza.
E’ vero che ci sono molti conflitti che degenerano in violenza, ma ve ne
sono anche molti altri che prendono la strada costruttiva della
comunicazione e della conciliazione. Abbiamo il diritto di essere informati
anche su questi ultimi, in modo da disporre anche di modelli positivi da
imitare e non solo di esempi negativi da stigmatizzare. Se ciò che fa
notizia è il caso fuori dall’ordinario, l’evento eccezionale, dovremmo
aspettarci non solo articoli che riferiscono di scontri, violenze,
incomunicabilità, ma anche servizi su quelle relazioni – ed esistono – che
funzionano meglio delle altre: perché invece di queste ultime non
sappiamo niente, perché non veniamo informati della loro esistenza, in
modo da trarne conforto e soprattutto spunti per fare meglio? Non è certo
un buon giornalismo quello che distorce così tanto la realtà, esagerando il
peggio e minimizzando il meglio.
Evidenziare e stigmatizzare gli aspetti più deteriori delle relazioni – siano
esse tra persone, tra organizzazioni o tra stati – può avere un effetto
socialmente costruttivo ed educativo solo se affiancato da esempi positivi
che mostrino alternative migliori, altrimenti è come un maestro che
sottolinea in rosso l’errore dell’allievo senza però spiegargli il modo
corretto in cui avrebbe dovuto fare. Parlare del negativo senza proporre il
positivo produce solo assuefazione, rassegnazione, perdita di speranza
circa la possibilità di un mondo migliore. Si reagisce se c’è qualche
speranza di riuscire a cambiare le cose, ma se viviamo in un mondo in cui
tutte le relazioni sembrano andare male allora non resta che rassegnarsi,
chiudersi in se stessi e gettare la spugna oppure farci furbi e aggressivi a
nostra volta.
B – Le modalità di gestione dei conflitti più frequentemente rappresentate
dai media
Sia nell’informazione giornalistica sia nella fiction e nell’intrattenimento
il conflitto, agito o latente è certamente uno dei temi più frequenti, forse il
più rappresentato in assoluto. Se anche ci limitiamo al solo conflitto agito
i dati parlano da soli: negli USA oltre il 60% di tutti i programmi TV
contiene almeno una scena di violenza e per i film e telefilm la percentuale
sale addirittura al 90%; inoltre i tipici programmi a contenuto violento
propongono almeno 6 eventi di violenza per ogni ora di durata[2].
Anche se mancano dati certi, sappiamo che le cose non sono molto diverse
in Italia: la violenza, sia essa fisica o psicologica, la fa da padrona.
Dunque i media mostrano come modalità prevalente (se non unica) di
gestione del conflitto, quella violenta, mentre sono assai rari gli esempi di
conflitti affrontati in modo costruttivo e pacifico. Come evidenziano anche
E. Wartella e D. C. Whitney (2002), due dei ricercatori che hanno
realizzato la suddetta ricerca, questa prevalenza della via violenta su
quella nonviolenta può comportare numerose conseguenze:
1)
Imitazione – gli spettatori tendono a valorizzare e imitare gli
atteggiamenti e comportamenti aggressivi, specie se ad agire
violentemente sono gli eroi in cui essi si identificano. Ciò contribuisce, sia
nel bambino che nell’adulto, ad aumentare i livelli di aggressività nelle
relazioni interpersonali e di gruppo, aspetto, questo, assai deleterio per la
qualità dei rapporti con gli altri.
2)
Paura cronica – gli spettatori, a forza di leggere cattive notizie,
vedere atti criminosi, ascoltare “bollettini di guerra” si intimoriscono e
hanno paura di essere vittime di atti violenti, quindi assumono
atteggiamenti di diffidenza e mettono in atto comportamenti iperprotettivi, che li rendono meno socievoli, specie con gli estranei.
3)
Desensibilizzazione emozionale – col tempo e la continua
esposizione, molti spettatori si “induriscono”, diventano cinici e, come si
suol dire “fanno il callo” e non si impressionano più (ma solo in
apparenza) di fronte a certe informazioni, immagini, scene.
I suddetti effetti interessano non solo gli adulti ma anche i bambini, per i
quali le preoccupazioni dovrebbero essere ancora maggiori; invece,
perfino nei film, nei fumetti e nei programmi televisivi a loro
specificamente dedicati la violenza la fa spesso da padrona, associata ad
una competizione selvaggia per affermare la legge del più forte. Gran
parte dei cartoons (specie quelli giapponesi) si imperniano su una
esasperata competizione, e mostrano la violenza come unico modo di
risolvere i conflitti. L’affermazione implicita è che chi ha più forza bruta
(rappresentata non solo dalla potenza muscolare ma anche dai vari
superpoteri dei personaggi) e vince, è nel giusto, è il migliore.
Come già avevano ben intuito oltre 50 anni fa Horkheimer e Adorno, “Se i
cartoni animati hanno un altro effetto oltre a quello di assuefare i sensi del
nuovo ritmo, è quello di martellare in tutti i cervelli l’antica (e ideologica)
verità che il maltrattamento continuo, l’infrangersi di ogni resistenza
individuale, è la condizione della vita in questa società.” (Horkheimer M.,
Adorno T., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966 p. 149 – tra
par. ns.).
Purtroppo la mancanza di alternative, da un lato, e la grande dinamicità e
immediatezza delle scene, dall’altro, fa molto apprezzare questo genere di
cartoni dai bambini. Qui il genitore e l’educatore devono stare molto
attenti e intervenire con decisione a tutela dei bambini, i quali sono
inconsapevoli degli effetti collaterali di certi programmi e quindi non
ancora in grado di autoregolarsi. Il seguente esercizio può risultare molto
utile per stimolare una più ampia visione del conflitto nei bambini.
Esercizio per i bambini – Immaginare modi alternativi di risolvere i
conflitti
Molti storie dei cartoni animati si basano su lotte e litigi. Guardate
assieme al bambino una scena del genere e poi chiedetegli di rispondere
alle seguenti domande, meglio se per iscritto:
Ø
quanti personaggi sono stati colpiti, feriti o danneggiati;
Ø
quanti sono stati uccisi
Ø
qual’era il motivo della lotta
Ø
era proprio necessario combattere o si poteva risolvere il litigio in
altro modo?
Ø
Chiedetegli di immaginare dei modi alternativi e non violenti di
risolvere la questione. E’ insomma come costruire una nuova storia, con
un finale diverso, e il bambino può immaginarne più d’uno e magari anche
disegnarli. In questa fase è importantissimo non preoccuparsi se i finali
proposti siano appropriati o no, verosimili o meno, è bene lasciare al
bambino totale libertà immaginativa ed espressiva. L’adulto si limiterà a
prendere nota delle varie alternative senza commentare né correggere, anzi
incoraggiando il bambino ad esprimersi senza timore di essere giudicato.
9
C – La conflittualità (contraddiction) è veramente inevitabile e intrinseca
alla natura umana o è un problema culturale che può essere trasformato
costruttivamente con vantaggio per tutti?
Una divergenza di vedute e/o un conflitto di interessi devono
necessariamente sfociare in comportamenti aggressivi, violenti, distruttivi,
o vi sono altre vie, èpiù costruttive, per risolverli?
Come per i punti precedenti anche a questo riguardo i media mostrano un
orientamento ambivalente:
a) da un lato stimolando il relativismo culturale, favoriscono una visione
più aperta e costruttiva della realtà e dei rapporti interpersonali e
interculturali.
b) Dall’altro, tendono ad adottare una visione non dissimile da quella
finora dominante, secondo la quale la diversità tra identità, punti di vista,
interessi porta inevitabilmente a un conflitto risolvibile solo mediante una
competizione o uno scontro che decida il prevalere di una parte sull’altra.
In realtà la diversità può essere vista anche in altro modo, cioè non come
antagonismo ma come complementarità: infatti è proprio grazie alla
diversità che esiste il nostro mondo, fisico, psichico e sociale. Tutti i
fenomeni, da quelli cosmici a quelli della vita biologica e sociale fino a
quelli sub-atomici esistono proprio grazie ad un gioco di diversità, di
polarità opposte-complementari. Poli opposti non vuol dire
necessariamente antagonisti, anzi semmai complementari: gli elettroni
sono necessari alla materia non meno dei protoni, così come le donne sono
necessarie per la specie umana non meno degli uomini. L’universo, la vita,
la materia esistono grazie al flusso e alla dinamica prodotta da opposizioni
cooperative tendenti a un equilibrio[3]
Dunque, se si vuole davvero pervenire ad una più ampia visione della
realtà, è necessario liberarsi dal pregiudizio che diversità voglia dire
necessariamente e solamente antagonismo e conflitto. Su questo aspetto il
ruolo di innovazione culturale dei media potrebbe essere determinante, ma
al momento gli articoli e i programmi che propongono questa nuova
visione cooperativa delle differenze sono del tutto minoritari, mentre
predominano quelli basati sulla vecchia concezione: differenza = conflitto.
C’è poi un ulteriore pregiudizio culturale, connesso a quello appena
illustrato, che contribuisce ad aggravare il problema: la credenza che si
possano soddisfare i propri bisogni solo penalizzando qualcun altro.
Questo modo di vedere è stato definito dalla “teoria dei giochi” come
gioco a somma zero: un gioco, cioè, dove la posta è limitata e non è
sufficiente per soddisfare le esigenze di tutti i soggetti coinvolti (ad es. due
naufraghi che si contendono un unico giubbotto di salvataggio o due tribù
che lottano per un unico lembo di terra fertile, insufficiente per i
fabbisogni di entrambe)[4]. Per millenni i rapporti sociali, ad ogni livello,
si sono basati ciecamente su questo assunto e quindi sulla legge del più
forte. Solo da poco stiamo scoprendo che in gran parte delle relazioni
sociali non solo si può vincere entrambi, ma addirittura si vince di più se
si vince tutti. Le relazioni di coppia o familiari, quelle tra insegnanti e
allievi, medici e pazienti, imprenditori e lavoratori e molte altre seguono
appunto le leggi di questo secondo genere di gioco, definito a somma
positiva.
Il gioco a somma zero è caratterizzato da una accesa competizione, in
quanto uno vince (+1) ciò che l’altro perde (-1), da cui +1 -1 = 0. In tal
modo è possibile al massimo giungere a compromessi, spartendosi la
posta in proporzioni variabili, ad es. un terzo a te due terzi a me, oppure
metà e metà, ma resta il fatto che la posta è fissa (o per lo meno i due
contendenti la ritengono tale). Nei giochi a somma positiva invece, al
guadagno di uno non deve necessariamente corrispondere una perdita per
l’altro, poiché, se collaborano, aumenta la “torta” da spartirsi e il
guadagno di ciascuno è maggiore di quello che avrebbe combattendo e
sconfiggendo l’altro. Ad esempio, se due aziende A e B entrano in
concorrenza secondo il modello a somma zero, il massimo che quella
vincitrice potrà ottenere sarà una parte della quota di mercato dell’altra; se
entrambi avevano l’uno per cento e A sottrae a B lo 0,3%, A sale a 1,3%,
B scende al 0,7% con una somma finale di +0,3% –0,3% = 0. Se invece
collaborano si collocano nell’ambito dei giochi a somma positiva, dove
non solo B non perderà niente ma anche A potrebbe guadagnare di più di
quanto guadagnerebbe combattendo B. Unendo le loro forze potranno
realizzare risparmi e sinergie di investimento che gli permetteranno di
puntare a traguardi che nessuna da sola avrebbe potuto immaginare e
potrebbero guadagnare ciascuna un 1% netto di aumento di quota di
mercato con una somma finale positiva: +1 +1 =2.
La differenza tra i due tipi di gioco è ben evidenziata dal grafico di figura
30, elaborato da P. Patfoort (1992) dove il triangolo di sinistra rappresenta
l’opzione a somma zero e quello di destra l’opzione collaborativa a
somma variabile.
Figura 30 – I triangoli di violenza e nonviolenza (da P. Patfoort, 1992)
L’unica possibile soluzione “costruttiva” del triangolo di sinistra è il punto
centrale del “compromesso”, in cui ognuno dei due contendenti ottiene il
50% della posta in gioco, ma più spesso la violenza porterà a spartizioni
meno eque dove al più forte andrà, poniamo, l’80% e all’altro il 20%. Le
basi fondanti di questo triangolo sono la violenza, il lavoro dell’uno contro
l’altro e la sfiducia reciproca. Nel secondo triangolo predominano invece i
valori della nonviolenza, del lavoro insieme e della fiducia reciproca e ciò
spinge a cercare soluzioni che comportano per ambedue i contendenti
vantaggi maggiori di quelli ottenibili con lo scontro o col compromesso.
La teoria dei giochi è applicabile a qualsiasi genere di risorsa, anche di
tipo immateriale (affettivo, sociale etc.). Si prenda ad esempio la relazione
insegnante-allievo: è evidente che più l’allievo apprende con profitto, più
l’insegnante è appagato (cioè guadagna sul piano emozionale e sociale), e
viceversa, più l’insegnante è gratificato, meglio insegnerà e più
positivamente si porrà nei confronti della classe, con conseguenze positive
(guadagno di rendimento, di motivazione, di gratificazione emozionale e
sociale) anche per l’allievo. Dobbiamo prendere coscienza che gran parte
dei nostri obbiettivi – come individui, come gruppi e popoli – non sono
affatto antagonistici a quelli altrui ma possono anzi realizzarsi di più e
meglio se collaboriamo. Tra l’altro, i giochi a somma zero comportano
una competizione esasperata che spesso si trasforma in violenza e in molti
casi ciò trasforma il conflitto in un gioco a somma addirittura negativa,
dove cioè perdono entrambi: si pensi ad esempio ai rischi di una guerra
atomica che porti alla distruzione dell’intero pianeta, dove non ha più
nessuna importanza chi abbia vinto la guerra perché tutti alla fine
avrebbero perso; oppure ad una coppia in crisi che intraprende la strada
della separazione giudiziale senza esclusione di colpi dove tutti alla fine
perdono: non solo lo sconfitto ma anche quello che legalmente viene
riconosciuto “vincitore”, che potrà forse guadagnare sul piano pratico,
economico e dell’orgoglio ma subirà anche lui/lei tali perdite sul piano
affettivo, emozionale, relazionale che nessun guadagno materiale potrà
mai compensarle: perdite dirette (indurimento, sfiducia verso l’altro sesso
e verso le relazioni, perdita di disponibilità ad aprirsi e innamorarsi di
nuovo, stress e probabili disturbi psicosomatici etc.) e indirette (ad
esempio le ricadute sugli eventuali figli).
Conclusioni
L’idea che i conflitti possano essere affrontati e risolti in modo
costruttivo, non competitivo e nonviolento è alquanto recente, e nella
cultura e mentalità dominanti prevale ancora la vecchia idea. Per poter
affermare questa nuova concezione è quindi necessaria una vasta
operazione di sensibilizzazione culturale, in cui la collaborazione dei
media risulta determinante. Non si può più invocare l’alibi secondo cui
non compete ai media lo svolgere una funzione pedagogica: di fatto essi
già la svolgono, quindi è essenziale che i modelli e le idee che propongono
siano costruttivi. Continuare a dare spazio solo o prevalentemente alla
vecchia concezione competitiva e aggressiva di gestione delle differenze e
10
dei conflitti non è una scelta neutrale, è già prendere posizione: perché
allora non prendere posizione per una nuova cultura delle relazioni?
Tuttavia non possiamo limitarci ad aspettare che qualcuno dall’alto
migliori la situazione: dobbiamo e possiamo attivarci in prima persona,
impegnandoci ad educare bambini e adulti ad un uso più consapevole dei
media.
Parallelamente, è necessario educarli anche ad una più consapevole e
costruttiva gestione delle relazioni interpersonali, imperniata sulla
comunicazione e sulla collaborazione e non più sulla competizione e
l’aggressione. Tale educazione dovrà essere tra le priorità dei prossimi
anni se vogliamo perseguire una politica sociale imperniata sulla qualità
della vita e sulla prevenzione del disagio psico-sociale, della
microconflittualità urbana e familiare, del mobbing e di tutte le altre
patologie sistemiche che affliggono la nostra vita sociale. E non andrà
fatta solo nelle aule scolastiche (che comunque sarebbe già molto) ma
anche tramite i media, proponendo agli utenti (nei notiziari come nella
fiction) non solo conflitti che sfociano in violenza ma anche situazioni che
vengono affrontate in modo costruttivo. Solo così potremo davvero creare
i presupposti per una vita sociale costruttiva e soddisfacente e per una
pace interpersonale e internazionale effettiva e duratura.
Riferimenti Bibliografici
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Ma.gi., Roma, 2001.
Cheli E., La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e
costruzione sociale della realtà, 6^ ed., Milano, Franco Angeli, 2002.
Cheli E., Olismo e riduzionismo nella scienza, nella cultura e nella mente,
in corso di pubblicazione, 2004a.
Cheli E., Difendersi dai media senza farne a meno, in corso di
pubblicazione, 2004b.
Gerbner G.,Violence in Television Drama: Trends and Symbolic
Functions, in G.A. Comstok and E.A. Rubinstein (eds.) Television and
Social Behaviour, Washington D.C., U. S. Government Printing Office,
1971.
Gerbner G., Le politiche dei mass media, Bari, De Donato, 1980.
Gerbner G., Grass L., Morgan M., Signorelli N., Living with Television:
the Dinamics of the Cultivation Process, in J. Bryant, D. Zillman (eds)
Perspectives on Media Effects, Hillsdale N.J., Lawrence Erlbaum, 1986.
Mazza V., Usare la TV senza farsi usare, Edizioni Sonda, Casale
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Oliverio Ferraris A., TV per un figlio, Laterza, Roma, 1995.
Wartella E., Whitney D. C., Violence and U.S. Television. In Bachmair B.,
Cavicchia Scalamonti A., Krees G. (eds.), Media, Culture and Social
Worlds, Liguori, Napoli, 2002
[1] Per una introduzione allo studio ed alla comprensione dei conflitti cfr;
A. L’Abate, Il conflitto, in D. Cipriani, G. Minervini (cur.) L’Abecedario
dell’obiettore, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba), 1991, pp.25-31; E.
Arielli, G. Scotto, I conflitti: introduzione ad una teoria generale, Ed. B.
Mondadori, Milano, 1998.
[2] Cfr. National Television Violence Study , vol. 1, 2, 3, Sage
Publications, Thousand Oaks, CA, 1997, 1998.
[3] Per un più approfondito esame di questo aspetto rinvio ad un altro mio
lavoro: E. Cheli, 2004a.
[4] Cfr. J. von Neumann e O. Morgensten, 19
http://www3.unisi.it/mastercomrel/articoli%20e%20saggi/il%20ruolo
%20dei%20madia%20come.htm
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2013/12/19/il-ruolo-dei-media-nella-rappresentazionedel-conflitto-enrico-cheli/
Pace
Omelia di Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo
di Campobasso-Boiano, durante la Marcia della
Pace del 31 dicembre 2013 organizzata dalla CEI e
da Pax Christi (di Mons. Giancarlo Bregantini)
Carissimi fratelli e sorelle,
è con grande gioia che vi accolgo, tutti, in questa bella Cattedrale di
Campobasso, al termine della coinvolgente Marcia della Pace, dove
abbiamo sperimentato quanto vera sia la fraternità, come via e fondamento
della Pace. “Abbiamo affidato il cuore al compagno di strada, senza
sospetti senza diffidenze, per guardare innanzi tutto a quello che
cerchiamo: la pace nel volto dell'unico Dio. Affidarsi all'altro è qualcosa di
artigianale, perché la pace è artigianale". (cfr Evangelii Gaudium, 244)
Mi piace questa definizione di pace, usata poi nel messaggio "Urbi et
Orbi" del Natale: "La PACE è ARTIGIANALE. "La pace - precisava - non
è un equilibrio di forze contrarie. Non una bella facciata, dietro alla quale
restano contrasti e divisioni. La pace è un impegno di tutti i giorni, ma la
pace è artigianale, che si porta avanti a partire dal dono di Dio, della sua
grazia che ci ha dato in Gesù Cristo".
Il papa, poi, per questo giorno ci ha dato un tema concretissimo, legando
insieme due elementi che noi abbiamo reso con “La fraternità è pace”,
rafforzando il tema suggerito con voce profetica. Perché dove c’è pace c’è
fraternità, come dove c’è fraternità c’è pace.
Per la nostra comunità diocesana è stato un evento impegnativo, ma
fecondo. Ci ha stimolato, ci ha aiutato a crescere, a superare le nostre
lentezze, per aprirci ad una dinamica fattiva e che lascerà un segno forte
nel cuore della nostra gente. Per questo benedico il Signore, di tutto.
Ringrazio come ente promotore la CEI nell'Ufficio Pastorale del Lavoro,
giustizia e pace; l’AZIONE CATTOLICA che ha avuto un ruolo
importante; ravvivo la nostra stima per Pax Christi, che ha svolto qui il
suo annuale solido convegno nazionale chiedendole sempre di mantenere
questo ruono di stimolo a tutta la chiesa italiana e locale; sempre;
benedico la Caritas, che ha posto come segno continuativo di questo
evento l'apertura della Mensa degli Angeli custodi, per ogni povero e
fragile che chiede dignità e pace. Colgo l’occasione di ringraziare
vivamente tutta la mia Curia diocesana, che ha portato con me, insieme ad
nutrito comitato organizzativo, tutto il peso dell’evento, così ben
pubblicizzato dagli organi di informazione, locali e nazionali, che
ringrazio della loro costante attenzione e presenza, con SAT 2000, che
manda in onda questa celebrazione eucaristica. Tramite questo mezzo,
saluto tutti coloro che si sono messi in ascolto della nostra messa, con
l’affetto di chi intreccia cuori e volti ben noti, che ci seguono da lontano,
anche con la preghiera e l’intercessione reciproca.
Grazie ai vescovi presenti, specie a quelli della CEAM che hanno
condiviso con noi questo cammino di speranza, lasciando anche le loro
comunità diocesane, per un gesto di fattiva condivisione e unione! Con un
saluto affettuosissimo a mons. Bettazzi, che in questo periodo ha celebrato
il suo 90 anno di vita e il suo 50 anniversario di episcopato, partecipando a
tutte le marce, ben 46, della pace! E grazie a tutti voi, carissimi sacerdoti,
suore, laici, giovani tutti, autorità politiche e militari, sia a livello
comunale che regionale, che saluto con tanta riconoscenza. Non ci resta
che continuare con fiducia su queste piste dl fraternità, in una serie di
segni da vivere nel nostro quotidiano, tra la nostra gente, seminando
fiducia e pace.
La Parola di Dio, alimentata dal messaggio di Papa Francesco sulla pace,
ci aiuta, ora, a raccogliere il grande insegnamento che affido al cuore di
ciascuno di voi, in un "lectio" sulla Parola ascoltata, per farla "carne" nella
nostra storia, partendo dall’immagine, efficacissima: la pace è
"ARTIGIANALE", che ci impegna, a mio giudizio, in tre immagini, che
traggo dalle tre letture bibliche:
11
La pace va sempre costruita sotto lo sguardo di Dio, che ci guida e ci
sorride;
cresce come un germoglio, adagio adagio, con tempi lunghi, giorno per
giorno;
è custodita nel cuore di Maria, che medita ed intreccia gli eventi della
storia.
Sotto lo SGUARDO DI DIO CHE CI GUIDA
Nella prima lettura, è dolcissimo sentire su di noi, come figli, la
benedizione del volto di Dio: Il Signore ti benedica e ti custodisca. Faccia
risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il
suo volto e ti conceda pace.” Come un papà che guarda ai suoi figli, li
benedice,
li
custodisce!
Quel sorriso di Dio ci attrae. Ci coinvolge tutti. Perché tutti ci sentiamo
"benedetti, custoditi, amati".
La pace nasce da questa sicurezza. Sentire che risplende su di noi il suo
VOLTO
di
luce,
il
suo
sorriso!
Con tre precise conseguenze nella nostra vita di fraternità:
a) a) pregare molto, per imparare da Dio il suo stile di gratuità e di amore
ai nemici Il volto di Dio infatti è il volto di quel Padre che “fa sorgere il
suo sole sui buoni e sui cattivi e dona la sua pioggia ai giusti e agli
ingiusti”. Per tutti ha un volto di pace, un sorriso d'amore. Al di là dei
nostri meriti.
La preghiera a questo serve: ad acquisire, con fiducia, quel suo volto di
gratuita, imparando da lui!
b) avere anche noi un volto di luce per i nostri fratelli. E' quel volto di
empatia che crea la concreta fraternità e pace! Si fa lo sguardo del Buon
Samaritano: “passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione” (Lc
10,33). E’ il vedere e l’intervenire. E’ lo stile di don Milani, con il suo
perenne I care! La fraternità parte sempre dallo sguardo con cui io guardo
i miei fratelli. Costruiamo allora ponti e non muri, aratri e non lance.
Soprattutto lottiamo reciprocamente per il lavoro dei giovani, come segno
di una pace fondata sulla vera fraternità, nella condivisione del lavoro:
lavorare meno, per lavorare tutti! Chi ha, più dà; chi meno ha, più riceve!
c) Cos’è la guerra? E' invece quel volto girato altrove, che non si cura del
fratello, del sacerdote e del levita, che non segue, che non guarda.
Facciamo come Caino: “sono forse lo il custode di mio fratello, cioè colui
che lo guarda, lo segue, lo difende”? Da qui, la cultura dell'indifferenza, il
dramma di Lampedusa, le bocche cucite, i muri dei centri di accoglienza
che si fanno sempre più alti!
Con due segni, efficaci:
1. La giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre ha dimostrato che
è efficace la preghiera, il volto dell'uomo che si rivolge al volto di Dio e
ne richiede la benedizione. Si è constatato a livello mondiale che
realmente “la fraternità spegne la guerra”. (messaggio del papa, n.7).
I missili già puntati si sono spenti. Chi aveva ordito la trama iniqua della
guerra, si è visto isolato. La fraternità ha spento realmente la guerra.
Quello che quel giorno è avvenuto, potrà avvenire ancora se ci crediamo.
Anche nei rapporti interpersonali e non solo in quelli internazionali.
2. È qui sepolto, in questa nobile cattedrale, un Vescovo, mons. Secondo
Bologna, che si è offerto vittima di pace. Ne avete la biografia essenziale
nello zaino del pellegrino. Era stato ufficiale dell'esercito italiano prima di
essere ordinato prete a Cuneo, sua città natale, poi fatto vescovo di
Campobasso – Bojano nel 1940, diventato di fatto l'unico punto di
riferimento operativo e morale dopo il drammatico 8 settembre 1943. Lui
intuisce, da esperto nella realtà militare, che la nostra città, agli inizi
dell'ottobre 1943, avrebbe potuto ridursi ad un cumulo di macerie, nello
scontro terribile tra i Tedeschi in fuga e gli Alleati in avanzata. Da qui, da
questa precisa convinzione, egli intavola una serie di trattativa tra le parti,
purtroppo tutte fallite nella gelida risposta: "Eccellenza ... la guerra è
guerra!".
Allora, compie quel gesto che ci viene suggerito dalla Bibbia: si offre
vittima di pace e nella messa del 10 ottobre, domenica, qui in cattedrale,
innalza al cielo, al volto di Dio, una supplica: "Signore, se per la salvezza
di Campobasso occorre una vittima, prendi me, ma salva il mio popolo!".
E in quella stessa sera, mentre in cappella del Seminario recita il santo
rosario, una bomba lanciata dall'esercito canadese esplode proprio nella
cappella e lo uccide con le schegge che gli trafiggono il capo, insieme ad
una suora, Lucia, che pregava accanto a lui.
Ma la sua morte di fatto indusse sia i Tedeschi che gli Alleati a non
infierire contro la città, che si vide liberata dalle distruzioni e vendette,
proprio per il sangue e la preghiera del santo Vescovo mons. Bologna!
E' la perenne dimostrazione che è il volto di Dio a donare pace con il suo
sorriso di benedizione e di vita!Il GERMOGLIO, cioè la pace che richiede
tanto tempoPer costruire la pace occorre tanto tempo. Non la si
improvvisa mai, ma la si prepara con cura, con amore, fin nei particolari,
tramite relazioni costruite con amore. Con la stessa tenerezza, una
montagna di tenerezza, con cui Maria realizzò le povere fasce della grotta
di Betlemme. Ma proprio quella tenerezza ha trasformato una dimora per
animali in una casa luminosa, la casa di Gesù. (cfr E.G., 286).
Ci vuole cioè pazienza infinita, per costruire la pace, giorno per giorno,
fedelmente, con tenacia e caparbietà. Da qui, l'importanza dei piccoli
passi, come in una marcia, fatta insieme ai compagni di strada.
E' la forza del germoglio, che ci viene dalla contemplazione del "piccolo"
Bambino Gesù, icona di questo Natale. Quel bambino che è nato anche lui
senza documenti, lungo una strada, fuori dai controlli legali, da due
genitori in precarietà, costretto poco dopo a scappare davanti alla polizia.
Questo è il Natale, non caramelloso, ma vero, da contemplare con amore.
La pace esige tempo, più tempo che spazio.
Papa Francesco, sulla scia della Pacem in terris, delinea ben quattro
principi (E.G., 222-225) per costruire la pace sociale: il tempo è superiore
allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante
dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Il primo è appunto questo: il tempo
è superiore allo spazio: “Questo principio permette di lavorare a lunga
scadenza, senza l’ossessione dei risultati. Dare priorità allo spazio porta a
diventare matti per risolvere tutto nel momento presente. Dare invece
priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di
possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in
anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di
privilegiare azioni che generano nuovi dinamismi nella società e
coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché
fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però, con
convinzioni chiare e tenaci.” (E.G., 223). E' il passaggio cioè dall'essere
schiavi a quello di diventare FIGLI. E' una strada lunga, come lungo è il
tempo che richiede il perdono, la fiducia nel quotidiano, la forza delle idee
nelle scuole, nelle università, per imparare a stimare tutti i popoli, per
apprendere l'arte, non della guerra, ma della pace, dell'amore.
In questo tempo superiore allo spazio si innesta una splendida figura che
ci ha lasciato in questo mese, il 5 dicembre: NELSON MANDELA (19182013).
Quest'uomo è una vera icona della pace. Ha tracciato, con infinita tenacia
e su un tempo lungo, nuove vie di fraternità e di riconciliazione, poiché ha
attraversato tutte le tentazioni che hanno segnato, anche con tristezza e
gemito, l'intero novecento: ha vissuto in prima persona il tempo della
lotta, ha sentito il tempo della resistenza, ha sofferto l’incomprensione di
molti quando ha iniziato il tempo del negoziati, per giungere infine al
tempo della ricostruzione e della riconciliazione. Tenacissimo, forte negli
ideali di lungo corso!
Scrive in una sua pagina autobiografica:
"Ho sempre saputo che nel fondo di ogni cuore umano albergano pietà e
generosità. Nessuno nasce odiando i propri simili. Gli uomini purtroppo
imparano ad odiare. Ma se possono imparare ad odiare, possono anche
imparare ad amare, perché l'amore, per il cuore umano, è più naturale
dell'odio!".
Basa la sua azione di riconciliazione sulla lotta contro la paura reciproca: i
bianchi contro i neri e i neri contro i bianchi. Costruisce sulla fiducia la
sua azione per la fraternità, distruggendo nel cuore quel sistema che aveva
generato l'apartheid, “ridestando fierezza” e immettendo nel cuore di ogni
figlio dell’Africa il concetto fondativo della stima di sé e della
responsabilità, per essere protagonisti del proprio destino.
Certo, occorre tempo, tenacia, autorevolezza morale, intelligenza
strategica, lungimiranza politica.
Soprattutto questo ci insegna l'arte di passare dalla schiavitù alla
figliolanza: la lungimiranza. Lo schiavo ha prospettive corte, meschine,
limitate. Il figlio, invece, guarda lontano, alza il capo. E nel liberarsi,
libera tutti. Per cui, il cammino pur lungo, risulta liberante per tutti, tutti
liberi dalla schiavitù della paura: “l'oppresso e l'oppressore sono entrambi
12
derubati della loro umanità. Da quando sono uscito dal carcere, è stata
questa la mia missione: affrancare oppressi e oppressori. Perché la libertà
non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da
rispettare e accrescere la libertà degli altri”.
Ecco, allora il frutto di terribili 27 anni di carcere: imparare dal proprio
dolore a creare strade di riconciliazione. E’ quello che abbiamo vissuto
nella commovente sosta al carcere della nostra città, dove operano circa
180 volontari, in aiuto al cappellano. E’ come ricostruire la fraternità,
fondamento della pace.
La storia, così, è piena di strade che si incontrano, di uomini che dialogano
e di ferite che si possono guarire, perché ogni ferita di sangue possa
realmente diventare una feritoia di luce, come abbiamo sempre rivissuto
nella nostra storia personale e nella nostra diocesi, qui in Molise, come
prima in Calabria.
E' infatti il tempo che permette di trasformare le ferite in feritoie di grazia.
Da schiavi a figli! Il tempo che supera lo spazio! Fiorisce allora il perdono
e purifica la Memoria.
IL CUORE CHE CUSTODISCE
Nella pace riceviamo ciò che veramente siamo. Ricostituire la pace nel
tessuto umano e culturale, sopra esaminati, significa accogliere l'invito
divino più grande: restare nell'Amore di Dio!
La strada, lo stile di questa accoglienza ci è indicata da MARIA di
Nazareth, in questa splendida icona del vangelo odierno: "Tutti quelli che
udivano, si stupivano delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,
custodiva tutte queste cose e le meditava nel suo cuore". (Luca
2,19).Maria compie due gesti indispensabili per ricostruire la fraternità e
la Pace. Come avvenne ad Assisi, quando il terremoto fece crollare un bel
tratto di affresco, all’inizio della basilica superiore. I tecnici, per prima
cosa, raccolsero tutti i pezzettini, anche microscopici, che trovarono a
terra. Poi, li rimisero in perfetto ordine, ricomponendo l’affresco, in tutta
la sua bellezza, pur se ferito!
Ecco, questo è lo stile della pace, che Maria di Nazaret,nella grotta di
Betlemme, ci insegna. Prima di tutto, non buttare via nulla della propria
vita, della propria famiglia o comunità o territorio. Tutto è prezioso, tutto
importante. Nulla vada a finire nel cestino.
E' la STIMA per ogni persona, per ogni luogo, per ogni tempo della nostra
vita.
Poi, l'altro gesto, che San Luca, nel suo vangelo sottolinea, è il verbo
preziosissimo: “simballein”. Che è il verbo che ci insegna l'arte del
ricomporre, del mettere insieme con pazienza infinita tutti i pezzetti del
puzzle. Cioè ridare vigore, colore e sapore ad ogni frammento, in un
nuovo disegno che permetta di creare un nuovo orizzonte. Per cui, anche i
momenti negativi, le tristezze, i peccati, le guerre, le cadute ci insegnano e
si fanno scuola. Ecco, perché non ha senso costruire aerei che sono pensati
per distruggere, costosissimi che scompaginano un bilancio, se è vero che
un solo F35 costa 130.000.000 di euro! Uno solo!Per distruggere. Quanti
trattori si potrebbero costruire con lo stesso denaro. Quante aule
scolastiche, quanti ospedali!Scuola di vita, appunto, come la viveva don
Lorenzo Milani che si fa maestro di pace, a Barbiana, come leggiamo
nella celebre sua orazione di difesa davanti ai giudici: L’obbedienza non è
una virtù!.
Scrive queste meravigliose pagine in difesa della scuola, consapevole che
guerra o pace si maturano dentro le aule scolastiche, attorno al tema della
VERITA’, primo pilastro della pace, come abbiamo appreso nella sosta
presso la nostra importante Università del Molise: "La scuola siede fra il
passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E' l'arte delicata di
condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso
della legalità e dall'altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico.
Il ragazzo infatti decreterà, un domani, leggi migliori delle nostre. Allora,
il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi,
indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare
domani e che noi vediamo solo in confuso".
Si riscopre così un altro dei quattro principi che papa Francesco pone per
la pace : l’unità prevale sul conflitto! Questa è l'arte di Maria di Nazareth,
vera maestra di vita nel suo saper ricomporre in un disegno sempre
profetico ogni frammento della nostra storia.
"Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato in se tutte le
cose: cielo e terra, Dio e uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona
e società. Il segno distintivo di questa unità e riconciliazione di tutto in sé
è la pace. Cristo è la nostra pace" (Ef 2,14). Perciò, se andiamo a fondo in
questi testi biblici, scopriremo che il primo ambito è la propria interiorità,
la propria vita, sempre minacciata dalla dispersione dialettica. Con cuori
spezzati infatti sarà difficile costruire un’autentica pace sociale”
(n.229).Tante guerre sono nate proprio da qui, da un risentimento, un
armistizio ingiusto, come quello al termine della prima guerra mondiale, a
Versailles, la inutile strage come l’aveva definita papa Benedetto XV, il 1
agosto 1917.
Ecco perché diciamo un NO secco alle “missioni di pace con le armi”! Si
scelga invece la strada dei “caschi bianchi”, cioè una presenza di giovani
che aiutano, in un volontariato intelligente, nei musei, nella cooperazione
agricola, nella scuola, nell’assistenza ai ragazzi! Così si insegnerà l’arte
della pace! Queste saranno le vere missioni di pace! Ed il loro frutto
resterà perenne nel cuore dei poveri e dei diseredati. Cioè riconciliare i
cuori per riconciliare i popoli. Il No alla guerra è allora il Si all’uomo!
Solo chi porta la Pace in mezzo al mondo è degno di essere chiamato
uomo, perché egli fa del suo simile un prossimo e del suo prossimo, un
fratello!
Eccoci così al cuore di questa marcia: riconoscerci e vivere da fratelli,
poiché siamo FIGLI dello stesso Padre Celeste. Per noi, di Campobasso, è
proprio il programma pastorale dell'anno che viviamo! Allora sarà
veramente la città della pace, per tutto il 2014! Una meta ambiziosa ma
limpida, come le cime del Matese!
In conclusione
Ripercorriamo i luoghi visitati in questa marcia a Campobasso e
comprenderemo che la Pace:
è intercessione e preghiera insistente;
è scuola di fraternità già nelle aule scolastiche e nel lavoro condiviso;
è risanare le nostre ferite perché divengano feritoie già in un carcere, in un
passato redento;
è accoglienza di tutti, per vincere la cultura dell'indifferenza e dello scarto;
è sguardo al volto di Dio e al cuore di Maria, per imparare da loro a
stimare, senza permalosità negative, ogni persona.
“La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata,
annunciata e testimoniata. Ma è solo l’amore donato da Dio che ci
consente di accogliere e di vivere pienamente la fraternità!” (messaggio, n.
10)
La Pace allora è proprio il mondo che attende di attuarsi. Però l'apice della
sua realizzazione è e rimane sempre la PERSONA, come ci ha insegnato
lo studio accurato della Pacem in Terris.
Con affetto e gratitudine, + p. GianCarlo, vescovo
Fonte: Angelo Levati - Pax Christi
(fonte: Angelo Levati - Pax Christi)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1992
Questione di genere
Cara piccola, fai tu gli auguri a noi (di Maria G. Di
Rienzo)
Cara piccola italiana di domani, ho aspettato un po’ ma Grillo per Natale
scrive solo a tuo fratello – bambino non nato e tu, vedi un po’ la sfortuna,
sei una bambina – per il quale sta “costruendo il futuro”. Si preoccupa del
suo giudizio fra venti o trent’anni: “Con che occhi ci vedrai?” “Non sarai
tenero”, ma non del tuo. Infatti, il “mondo migliore” che stanno
costruendo, piccola italiana futura, non sarà migliore per te. Non possono
esserci dubbi. La lettera, dice il suo autore, è stata scritta “anche a nome
della comunità che si è raccolta intorno al M5S”, e tale comunità ha
chiarito bene cosa pensa delle donne e come le donne devono essere
trattate.
Se al tuo fratellino si concede di non essere “tenero” nei suoi giudizi, a te
è sconsigliato. Te lo faranno capire, i costruttori di futuro, in nome del loro
ritrovato “senso di comunità, di umanità universale” (come la lettera
spiega) dicendoti gentilmente chi sei: merdaccia, spazzatura,
13
ammosciacazzi, baldracca patetica, cesso, fai vomitare, bruttona, faccia da
culo, puttana, schifosa, troia, racchia da sedia elettrica, se ti stuprano ti
fanno un piacere. E ti daranno affettuosi consigli: vai in cucina e stai zitta,
lavati la faccia con l’acido muriatico, frustrata tromba di più. E si
preoccuperanno, giustamente, dell’unico significato e dell’unico scopo
della tua esistenza, chiedendo: Ma ce l’hai qualcuno che ti scopa ogni
tanto? Sono le cose, piccola italiana non nata, che i costruttori di futuro
ripetono ossessivamente alle italiane che sono già nate e che si permettono
di avere opinioni a loro sgradite.
Il signor Grillo e il suo movimento, firmatari della letterina natalizia,
sperano che l’umanità inventi “nuovi paradigmi” perché così “tutto
cambierà”. Però non per te. Il paradigma che ti misurerà sarà sempre lo
stesso, espresso con l’aggressione sessista che ha lo scopo di umiliarti e
che richiede la tua immediata sottomissione e che alimenta lo sterminio
delle donne. Un paradigma per cui sarai sempre e soltanto, mia cara bimba
non nata, un fodero ambulante per apparato genitale maschile. Se davvero
il futuro appartenesse a questi “costruttori” ti suggerirei di pensarci bene,
prima di nascere. Però siamo in tante e in tanti a lavorare perché il tuo
futuro appartenga a te e ti mostri il rispetto che ti deve come essere
umano. Fai tu gli auguri a noi, piccola.
Maria G. Di Rienzo, femminista, giornalista e regista teatrale (il suo blog
è lunanuvola.wordpress.com/)
(fonte: Comune-Info)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1989
Notizie dal mondo
America Latina
Le donne al centro della resistenza
Zibechi)
(di Raúl
Cinquant’anni fa, Los Bañados di Asunción era una zona adibita a
discarica che, con l’arrivo delle grandi piogge, il fiume Paraguay inondava
fino a ridurla un pantano. Oggi ci sono strade, chiese, illuminazione
pubblica, fontane, ambulatori, centri sociali e scuole. Tutto è stato
costruito con il mutuo aiuto ma adesso fa gola alla speculazione
immobiliare del progetto Franja Costera. A guidare la coraggiosa
resistenza che mette in relazione il mondo rurale e quello urbano, non ci
sono i dirigenti sindacali e le grandi organizzazioni contadine, troppo
impegnati a sostenere il governo amico del vescovo Fernando Lugo fino al
suo rovesciamento istituzionale. Ci sono invece due organizzazioni
comunitarie composte prevalentemente da donne.
Silenzio e candele. Intorno a un tavolo, in una cucina aperta su un ampio
cortile ornato con piante e alberi, donne di ogni età e uomini molto
giovani mettono erbe in piccoli sacchetti che sigillano con il calore della
fiamma. Bisbigli, risate e candele, un ambiente mistico, spirituale, per un
lavoro collettivo che celebra la vita.
La sede del Coordinamento nazionale delle lavoratrici rurali e indigene
(Conamuri) è un luogo tranquillo che tiene insieme il lavoro con
l’intimità, come la vita contadina che in qualche modo riproduce. Le
militanti stanno preparando il cibo per la fiera e le produzioni agricole
ecologiche, Jakaru Porã Haguã ( “Perchè si possa mangiare bene” in
lingua guaraní ), che piccoli produttori e produttrici di varie zone
organizzano al centro di Asunción. Il tempo di lavoro è segnato da pause e
interruzioni, con racconti, opinioni, sguardi e silenzi. Dal cerchio emana
un’energia che induce ad inserirsi. “Le donne possiedono l’8 per cento
della terra ma producono l’80 per cento degli alimenti e sono quelle che
soffrono maggiormente la fame” si legge su un cartello.
La casa di Maria ha un ampio spazio dove prima allevava maiali, una delle
principali attività a “Los Bañados”, la zona della capitale soggetta a
inondazioni nella quale tre generazioni hanno strappato progressivamente
spazio al fiume, sfidando i frequenti straripamenti. Ci offrono acqua fresca
e vengono sistemate le sedie su cui prendono posto comodamente le
donne del quartiere. Tra loro Carmen, fondatrice del Coordinamento
difesa comunitaria (Codeco) e Patricio l’unico uomo del gruppo. Dopo un
po’ cominciano a discutere sulle novità de “Los Bañados”, in particolare
delle temute opere del progetto Franja Costera, che minaccia di
“urbanizzare” un quartiere di 150 mila abitanti che, grazie al lavoro dei
residenti, oggi è diventato appetibile per la speculazione immobiliare.
L’ultima inondazione, due mesi fa, ha offerto il pretesto alle autorità per
replicare la minaccia di sgomberare migliaia di abitazioni. Maria segnala
che la strada in cui abita, sarebbe il limite tracciato dal municipio per
espellere e demolire. Le due organizzazioni, quella rurale composta da
campesinas e indigene e quella urbana, formata dai settori popolari di
Asunción, sono molto diverse, ma hanno vari aspetti in comune: la
vocazione alla resistenza comunitaria nei confronti dell’attacco del
capitale sulle loro vite (si legga: soia e prodotti chimici tossici in
agricoltura
o
speculazione
immobiliare),
l’essere
composte
prevalentemente da donne e disposte alla collaborazione con giovani
uomini.
Nell’analisi di Alicia, la siccità ha colpito migliaia di contadini, che sono
stati costretti a emigrare, sono sparite intere comunità, dice, al punto che
“non c’era nulla da mangiare nelle campagne”. Lugo non ha mai concesso
loro udienza, ma lo stesso ha fatto il Frente Guasù. Il 6 maggio, un mese
prima del golpe parlamentare, i movimenti hanno attaccato il Frente in un
comunicato, affermando che si comportava peggio della destra. Lugo e la
sinistra erano isolati dai movimenti. “e in questa situazione è arrivato il
golpe”.
Le donne del Conamuri hanno definito un’analisi della realtà sociale e
politica, che comprende una precisa autocritica delle organizzazioni
contadine. Tra le 23 organizzazioni e movimenti sociali i cui
rappresentanti sono stati intervistati, nel libro “Golpe a la democracia”,
risalta l’analisi delle donne perchè non si limita a bollare la destra
golpista e i grandi proprietari terrieri, ma affronta i problemi e le
deformazioni nel campo popolare.
Resistere alla speculazione immobiliare
La relazione tra città e campagne
“Con la fiera cerchiamo di stabilire un rapporto tra la città e la campagna”,
risuona una voce dal circolo. “Attraverso il nostro cibo e gli alimenti
organici torniamo a mettere in relazione il mondo rurale e quello urbano,
un vincolo che l’avanzata della speculazione economica in agricoltura sta
distruggendo”. La popolazione rurale supera il 40 per cento malgrado
l’incontenibile espansione delle coltivazioni di soia che hanno espulso, dal
1989, quando cadde la dittatura di Alfredo Stroessner, una parte
considerevole dei contadini dalle loro terre: nel decennio degli anni
Ottanta, il 60 per cento della popolazione paraguaiana viveva in
campagna. I governi successivi, compreso quello del progressista
Fernando Lugo (2008-2012) hanno destinato il 70 per cento del bilancio
riservato all’agricoltura al sostegno dei grandi esportatori agricoli.
I nuclei familiari agricoli ricevono solo il 5 per cento della spesa pubblica
e solo il 15 per cento delle famiglie ha accesso al credito. Quindici
organizzazioni contadine e sociali hanno lanciato una campagna contro la
Monsanto, nella giornata mondiale dell’alimentazione, durante l’incontro
“Heñoi Jey Paraguay” (Crescita del nuovo Paraguay). Dalla caduta di
Lugo, nel giugno del 2012, sono stati autorizzate sette nuove colture
geneticamente modificate. Le grandi organizzazioni contadine sono molto
indebolite e la loro capacità di coinvolgimento è minima. “L’egemonia dei
vecchi movimenti contadini è finita”, dice Perla, da un angolo dando
l’avvio agli interventi. “Noi invece non ci indeboliamo perchè ci leghiamo
al nuovo che nasce nelle città, come le fiere, e perchè abbiamo tra di noi i
giovani”, aggiunge Maria. Interviene Carina: “ Le nostre dirigenti non
litigano per le cariche o per danaro, sono sincere”. Ancora Maria: “Non
vendiamo le donne, non facciamo patti, non andiamo a negoziare, non ci
vendiamo”.
E perchè non rimangano dubbi conclude
“Siamo
l’organizzazione che ha meno progetti con lo Stato” Di nuovo Carina:
“L’avere realmente conoscenze e chiarezza dà il potere di fare”. Nell’aria
fluttua la critica a dirigenze che nessuno nomina, forse per il dispiacere
subito o perchè comunque continuano a essere compagni. Ña Cefe (Donna
Ceferina), fondatrice del Conamuri, riflette con grande serenità “Ci vuole
un vizio per saper negoziare, quelli che lo fanno, poi escono con la
valigetta piena”.
z2Pian piano il panorama si chiarisce: molti dirigenti contadini e sindacali
hanno rivestito incarichi di fiducia nel governo Lugo e hanno abbandonato
la base. Loro non lo hanno fatto. E il non essersi “vendute” le ha
legittimate e le ha poste al centro della resistenza al modello incarnato dal
presidente del Partito Colorado Horacio Cartese. “ La sinistra in Paraguay
ha il fiato molto corto” riflette Alicia. “È segnata da molti intrighi, c’è
molto autoritarismo e ci sono molti vizi del capitale. Vizi della destra
all’interno della sinistra”. La giovane dirigente del Conamuri fa un
esempio: i partiti, come il Frente Guasù, che raggruppa la maggior parte
della sinistra, hanno smesso di essere spazi di rappresentanza dei
movimenti. “L’unica cosa a cui si pensava lì era il potere e a chi sarebbe
stato candidato o candidata”.
14
Dalla sua sedia, Maria non nasconde l’indignazione. Le opere del
megaprogetto Franja Costera avanzano inarrestabili. Sono già stati
costruiti il Parque del Bicentenario e la Avenida Costanera, anche se pochi
sembrano capire il rapporto tra le opere di urbanizzazione e la maggiore
inondazione degli ultimi decenni. La sua casa è al limite delle aree che
saranno sgomberate per “urbanizzare” Los Bañados. Le aree umide tra la
città ufficiale e il fiume Paraguay furono popolate a partire dagli anni
Cinquanta da contadini espulsi dall’espansione dell’allevamento. Sono le
zone di Asunciòn, soggette alle inondazioni, quelle in cui vivono 150 mila
persone, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti della capitale. Il 60 per
cento ha meno di 20 anni, l’85 è insediato in terreni di proprietà pubblica e
solo il 15 ha un titolo di proprietà. Tutto quello che esiste nei quartieri di
Los Bañados, strade, chiese, illuminazione pubblica, fontane, ambulatori,
centri sociali e scuole è stato costruito sulla base del mutuo aiuto. Per
sistemare i quartieri “è stato necessario organizzare molte fiere alimentari,
molte lotterie, feste del pollo o degli spaghetti, sono stati messi in piedi
numerosi tornei e collette”.
Nelle mappe ufficiali non compaiono queste 17 mila famiglie, ma
spiccano le opere in fase di realizzazione. Dal 2007, nel fuoco
dell’espansione del modello finanziario che nelle campagne si traduce in
monocolture e nelle città in speculazione immobiliaria, è riemerso un
vecchio progetto che gli abitanti ancora non conoscono nella sua interezza,
e di cui si stanno rendendo conto mano a mano che i lavori avanzano.
Franja Costera propone di “recuperare” 1000 ettari della zona del Bañado
Nord e altrettanti in quella del Sud. In quest’ultima si propone la creazione
di un parco industriale e la costruzione di un nuovo porto. Nella area Nord
intendono riempire una metà con “investimenti privati” che comprendono
82 ettari per un campo di golf con relativo resort, 20 ettari per un parco
telematico, 22 per un centro congressi e 113 ettari destinati ad aree
residenziali. Ci sono poi i 500 ettari della riserva ecologica, decisa alle
spalle della popolazione, perchè lì sostano gli uccelli migratori provenienti
dal Canada. La riserva circonda l’esclusivo Club Mbiguà. Il Parco del
Bicentenario era stato inaugurato durante il governo di Lugo e, nel 2012,
era stata la volta della Avenida Costanera, quattro carreggiate su un
gigantesco terrapieno sulla riva del fiume, diversi metri sopra le case più
povere della città. Gli abitanti danno fastidio. Quando la municipalità
consegnò 22 ettari all’impresa che doveva realizzare i servizi sanitari,
considerò che in quell’area vi erano solo sette famiglie, ignorando che in
realtà si trattava di 420 famiglie residenti lì da più di venti anni.
Si tratta di investimenti immobiliari di lusso come il Centro di eventi
Talleyrand Costanera o il Complesso Barrail, torri per uffici e residenze,
banche, supermercati e ogni genere di negozi con l’ulteriore attrattiva
della vista della baia. Insomma, la speculazione urbanistica dà l’assalto a
Los Bañados, mettendo a serio rischio il futuro dei suoi abitanti. “Dove
andremo? Abbiamo trascorso qui tutta la vita” sbotta Maria. Carmen, Ada
e Patricio manifestano la stessa convinzione. Il Codeco è nato 12 anni fa,
legato al lavoro locale della chiesa di base diretta dai gesuiti di Fey y
Alegria. È lì che si sono formati Carmen e una parte dei residenti che
hanno lavorato per migliorare il quartiere e che ora lottano per non essere
trasferiti. “ La grande avanzata delle opere della Franja è avvenuta durante
il governo Lugo; poichè era un ‘governo amico’ la gente aveva abbassato
la guardia”, dice una delle abitanti. Il Codeco organizza undici quartieri,
ognuno con la sua commissione di cittadini residenti che si considerano
comunità, e l’associazione dei riciclatori che conta 50 soci e socie che
oggi lavorano con motofurgoni. Il coordinamento abbraccia tra le sei e le
sette mila famiglie e, come sostiene Ada, le donne sono quelle che
sostengono tanto l’organizzazione come le loro famiglie”.
Delle trenta persone che formano il nucleo del coordinamento, 26 sono
donne e si riuniscono tutte le settimane oltre a tenere le loro riunioni nei
quartieri e con la amministrazione. “Vi è una relazione tra il sostenere la
famiglia e il sostenere la lotta e la organizzazione” riflette Ada. Loro sono
impegnate nel riciclaggio dei rifiuti, lavoro cui collabora tutta la famiglia,
e sono sempre loro a curare gli animali domestici, ricavano cibo per i
maiali e vendono il cartone riciclato. “Gli uomini sono più distanti dalla
vita comunitaria, preferiscono lavorare fuori dal quartiere
come
guardiamacchine o in edilizia, mentre le donne si occupano dei figli che
lavorano insieme ai padri dopo la scuola”.
Scommettere su una nuova cultura politica
“Quando abbiamo cominciato a lavorare con gli uomini è stato molto
complicato” dice Perla. “Per questo lavoriamo solo con uomini giovani”.
La decisione risponde alla “speranza riposta nella possibilità che questi
processi producano nuove relazioni di genere ed è tra la gioventù che esse
vanno costruite”. Perla sostiene che “ le metodologie con la gioventù sono
più empiriche, come i campeggi, gli scambi, le pratiche” ed è nella
convivenza quotidiana che salta fuori quello che si è imparato. Le militanti
del Conamuri sostengono un “femminismo popolare e contadino” su cui
lavorano intensamente nei loro corsi interni, in particolare nei Corsi di
formazione per le Pytyvõhára (facilitatrici o educatrici). Nei quaderni di
formazione sostengono che il genere è una costruzione storica “che
comprende donne, uomini e i diversi orientamenti sessuali, per questo
parliamo di generi al plurale”.
Le donne del Conamuri non lottano contro gli uomini ma contro il
patriarcato e si autodefiniscono “anticapitaliste, antipatriarcali e
socialiste”. Propongono la costruzione di nuove relazioni tra donne e
uomini, la democratizzazione del lavoro domestico, la partecipazione
negli spazi di potere e di assunzione delle decisioni e, infine, “la crescita
nella nostra autonomia individuale, economica e politica per poter
assumere le nostre decisioni”. L’auto-educazione, l’auto-cura e l’autostima alimentano l’orgoglio per l’organizzazione delle donne che
appartengono al Conamuri. Questa forza ha consentito loro di superare “le
campagne di altre organizzazioni contro Conamuri”, come dice una delle
donne mentre pone le foglie nei sacchetti nella cucina dell’organizzazione.
Perla va più in là: “ Da quando abbiamo inserito i ragazzi, li discriminano,
dicono loro che vanno al Conamuri perchè non hanno la stoffa per essere
dirigenti”. Un paio di ragazzi muovono la testa assentendo. “Nelle grandi
organizzazioni non consentono la partecipazione ai giovani e stiamo
verificando che nel Conamuri non decidono in due o tre persone, ma tutte
quante insieme”, dice uno di loro. Ña Cefe ricorda che gli stessi “vecchi
maschi” che comandano nelle organizzazioni si prendevano gioco di loro,
nel 1998, quando si separarono per costituire il Conamuri. “ Che cosa
vanno a fare queste vecchie incazzate”, dicevano. Perla ricorda che gli
attacchi violenti che subirono le costrinse ad uscire dal Movimiento
Campesino Paraguayo (Mcp). “Non siamo contro gli uomini, vogliamo
procedere insieme. Con Lugo tutti i dirigenti contadini si candidarono, si
scontrarono tra di loro per gli incarichi di responsabilità e persero le loro
basi”, insiste Ña Cefe. “ La stessa dirigenza andò in crisi per aver dato una
lettura molto superficiale del governo progressista.
Oggi il movimento contadino non è più egemonico, mentre la dirigenza ha
perso il controllo della base e la capacità di analisi”, riflette Perla. Tra i
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movimenti paraguaiani predomina un clima di confusione e
disarticolazione, di crisi e incertezza, in uno scenario dominato
dall’avanzata travolgente della destra, con progetti di privatizzazioni, che
favorisce ancor più i grandi proprietari rurali e i grandi speculatori
immobiliari. Predomina anche la sensazione che qualcosa si sia esaurito,
che non si può andare avanti continuando sulla strada che ha mostrato
tanti limiti. Codeco scommette sui giovani.
Nel 2012 hanno organizzato un corso di comunicazione radiofonica
approfittando del fatto che la parrocchia del quartiere aveva messo a loro
disposizione la radio comunitaria. Al corso hanno partecipato 30 ragazzi e
ragazze e alla fine del corso 10 di loro hanno iniziato un programma
radiofonico con l’aiuto di una donna dell’organizzazione.“Di solito si
tratta di figlie di figlie di persone del Codeco. Alcuni partecipavano
insieme alle madri alle riunioni e alle attività. Sono amici tra loro e,
siccome tutti lavorano, non hanno problemi ad assumere responsabilità”
spiega Ada.
L’esperienza del Conamuri, anche se sono organizzazioni ben distinte, è
simile. L’ingresso massiccio di donne giovani e provenienti dalla base, di
ragazzi, spesso figli di militanti, sta determinando un cambiamento
profondo nella cultura politica. In pochi anni si è realizzato un “esercizio
di distribuzione del potere” , attraverso un percorso di discussioni e
crescita delle competenze interne organizzato da loro stesse a partire dalla
storia del Paraguay, delle lotte contadine, della dittatura. Inoltre le donne
lavorano con grande impegno in famiglia, con figlie e figli, ma anche con
i loro compagni, e a volte si determinano delle rotture. Magui Balbuena,
fondatrice e referente del Conamuri mi ha spiegato anni fa che stava
lasciando il ruolo centrale che aveva rivestito nell’organizzazione. Sua
figlia Martha mi anticipò che stavano cominciando ad inserire dei ragazzi.
C’è qualcosa nelle organizzazioni in cui predominano donne e giovani che
le rende diverse. Non a caso la metà degli zapatisti ha meno di 20 anni e
moltissime sono le donne. Sono i settori meno inquinati dalla cultura
politica egemonica. A Los Bañados hanno affrontato una condizione
conflittuale con un ragazzo dell’organizzazione e la stanno superando
sulla base di un processo di critica, autocritica e fiducia reciproca. Si
governa il conflitto in maniera diversa “assumendo le differenze con
l’altro”. L’esperienza del Conamuri “è grandiosa” dice una donna che
lavora con un gruppo di altre donne. “Si auto-regolano, si autocontrollano, in maniera educativa, senza aggressività, ma con senso di
responsabilità e impegno. Anche se fa male, noi le cose le diciamo in
faccia”.
Fiducia, verità e spirito comunitario fanno sì che i conflitti non dividano.
“Non si nascondono le critiche perchè se lo si fa, poi esplodono e
rompono tutto”. Non c’è un tempo dettato dall’orologio, ma ci sono i
tempi di ciascuna persona. Una volta o l’altra, bisognerà dare un nome a
questa nuova cultura politica che comincia a farsi strada negli spazi dove
l’individualismo e il machismo sono sotto controllo. Per adesso, è
sufficiente riconoscere che alcuni movimenti, non istituzionalizzati, con
forti legami con le basi, comunitari e con modalità di lavoro molto
orizzontali, stanno rinnovando la cultura politica. Un passo indispensabile
per raddoppiare le resistenze.
Questo reportage è uscito anche sul sito del Programa de las Américas
Traduzione per Comune-info: Massimo Angrisano
Bañados de Asunción: La potencia de la comunidad di Raul Zibechi
(2008)
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società
in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono
pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo. In Italia ha collaborato
per dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso
zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia
della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore;
Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta.
Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. Il
suo ultimo volume è uscito per ora in Messico, Cile e Colombia ed è
intitolato Brasil potencia.
(fonte: Comune-info)
link: http://comune-info.net/2013/12/le-donne-al-centro-della-resistenza/
Siria
Sì, è possibile (di Joumana Haddad)
Rifugiati siriani in Libano hanno bisogno di aiuto urgente, e si può fare
qualcosa al riguardo
Io non credo nei miracoli. Non credo negli angeli e nei demoni, nel
paradiso e nell'inferno, in resurrezioni divine che trasformano l'acqua in
vino. Ma credo negli esseri umani, con tutta la loro meravigliosa pluralità
e la diversità che li arricchisce. Credo nella loro naturale capacità di essere
dignitosi, premurosi, generosi e gentili, e non perché si aspettano un
qualche tipo di ricompensa in cambio, nel loro impulso innato a sentire la
sofferenza degli altri e di stendere una mano invece di pensare che
qualcun altro ha avuto modo di farlo, nel loro desiderio intrinseco di
essere migliori, più dolci, più affettuosi, premurosi e generosi.
Quelle persone sono, in un certo senso, i miei dei: uomini e donne che
vanno oltre con il loro modo di consolare e aiutare chi ha bisogno di
consolazione e di assistenza, uomini e donne che in realtà vedono chi è nel
dolore sotto il silenzio scintillante e superficiale della loro comodità e
fanno qualcosa al riguardo, gli uomini e le donne che si occupano di altro
che del loro proprio benessere, uomini e donne che non sono ebbri di
indifferenza, egoismo e apatia, e che non interpretano lo spirito della festa,
come l'ultimo cappotto di visone di Michael Kors.
Quelli sono i miei dèi poiché ripristinano la mia fede nell'umanità e il vero
significato della condizione umana. E ho avuto la fortuna di incontrarne
molti di recente: non in una chiesa, non in una moschea, ma per le strade
di questo paese fatiscente. Li ho visti alla raccolta di abiti, coperte e
giocattoli per i profughi siriani indigenti, ho visto la loro distribuzione di
carburante, medicinali e stufe a famiglie i cui bambini stanno morendo dal
freddo, e li ho visti, soprattutto, offrire sorrisi, abbracci e genuino amore
senza speranza, alle persone in difficoltà cui non è rimasto nulla se non la
loro disperazione.
Ci sono così tante campagne civili in corso in questo momento in Libano,
abbiamo solo bisogno di fare la nostra scelta e partecipare ad una qualsiasi
di esse. Prendete l’iniziativa NON SONO UN TURISTA, o la campagna
"libanesi per profughi siriani" per esempio. La vista di quei giovani
uomini e donne che, volontariamente, lavorano insieme, e riescono a
riempire 25 camion di donazioni essenziali, poi vanno fino alle montagne
di Arsal e distribuiscono alle famiglie siriane in disperato bisogno di tutto
e di più, è commovente non dire altro. Queste persone sono il vero spirito
del Libano.
So che alcuni di voi stanno pensando: " Non abbiamo il tempo, non
abbiamo l'energia, la nostra vita è troppo complicata ed è già difficile
come è. " Beh, non c’è bisogno di alzarsi alle quattro del mattino per
andare ad Arsal. Vedete quei ragazzini e quegli anziani sparsi per le strade
della vostra città che si incontrano sempre sulla strada per andare al
lavoro? Quelli a cui, dici a te stesso, non si dovrebbe dare soldi al fine di
non incoraggiare l'accattonaggio? Quelli che piagnucolano e si lamentano?
Beh, non dare loro i soldi. È possibile raccogliere una pila di bei vestiti
vecchi, coperte, oppure i giocattoli e metterli in auto, e ogni volta che si
incontra uno di loro, lui o lei si potrebbe dare, a seconda della loro età o
delle loro evidenti necessità, una buona giacca, o un paio di scarpe calde,
o un giocattolo che il vostro bambino ha superato, o un mantello di cui si
può fare a meno. Anche le calze sono le benvenute, o dei biscotti fatti in
casa. E dare tutto con un sorriso. Dare tutto con amore e compassione.
Credetemi: fareste anche un favore a voi stessi.
E mentre si sta facendo tutto questo, smettere di lamentarsi che stanno
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rubando i vostri lavori, violentando le vostre ragazze, minacciando la
vostra economia e la sicurezza. Mettetevi nei loro panni per un minuto:
non è così improbabile che ciò accada aanche a voi. In un tale disastro di
paese, potremmo trovarci nella loro posizione, un giorno, e prima di
quanto si possa o si voglia immaginare.
Ogni individuo conta. Cambia inizia con una sola persona. E che ci
crediate o no, avete il potere dentro di voi per portare un cambiamento
colossale in questo paese attraverso l'amore e l’empatia, attraverso piccoli
dettagli. Si importa. È possibile.
E la prossima volta che vi capita di sentirvi apatici, chiudete gli occhi e
immaginate di svegliarvi per trovare il vostro bambino di nove mesi
congelato a morte. Cambierete così la vostra prospettiva.
Se così non fosse, allora si può tornare a credere nell’inferno. Che non è
dove stai andando. Ecco è dove già sono.
(fonte: IPRI-Rete CCP )
link: http://www.reteccp.org/primepage/2013/siria13/sullasiria181.html
Associazioni / Corsi
Incontrarsi attraverso lo psicodramma. Suonare i
tasti del cuore: alla ricerca della libertà e gentilezza
verso sé - "di cosa parliamo quando parliamo
d'amore: materno e paterno"
L'incontro si terrà sabato 25 gennaio prossimo, dalle 9.30 alle 17.30, a
Massa, presso la scuola “Teresa Vallerga”, via S. Francesco 1 (g.c.).
La giornata sarà dedicata alla conoscenza reciproca, alla creazione del
gruppo e all'esplorazione del tema Amore attraverso tecniche di
consapevolezza corporea e di ascolto di sé, psicodramma e piccole
suggestioni Mindfulness.
Ciascuno avrà la possibilità di so-stare nell'ascolto di sé e dell'altro e delle
risonanze che il tema genera dentro e fuori, esprimendo liberamente
alcune delle parti di sé che verranno illuminate dal cono di luce maternopaterno.
Anticipo qui alcune regole che ci daremo durante la giornata a sostegno
della libertà di espressione del proprio vero sé:
- riservatezza
- non giudizio
- sospensione della risposta
E un po' di letture sulle quali posare il respiro ogni tanto:
“il figlio ha bisogno del padre per avere accesso alla sua fonte e il padre ha
bisogno del figlio per aver accesso al futuro e all'infinito” -Thich Nath
Hanh
“L'amore materno è la prima fonte di amore che assaporiamo, l'origine di
tutti i sentimenti d'amore, la mamma è la nostra prima maestra di amore,
che nella vita è la materia più importante. Da lei ho acquisito le prime
nozioni sulla compassione e sulla comprensione. Con l'amore si abbrevia
la distanza tra intenzione e azione”-Thich Nath Hanh
“il vero amore contiene l'elemento della gentilezza amorevole e della
compassione; i quattro mantra dell'amore: “sono qui per te”, “sono qui per
te e sono felice”, “vedo che soffri, sono qui con te”, “soffro per causa tua e
ti chiedo aiuto”. Thich Nath Hanh
“Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità,
più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è
vuota e violenta e tutto è perduto” (Discorso all'umanità, C. Chaplin- Il
grande dittatore)
(fonte: Valeria Maggiali - segnalato da: Gino Buratti)
link: http://www.aadp.it/dmdocuments/evento1655.pdf