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Notiziario settimanale n. 464 del 10/01/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace 16/01/2014: Giornata mondiale delle migrazioni Padova offre la cittadinanza onoraria all'obiettore Trevisan Il vice sindaco Ivo Rossi, in occasione della Giornata internazionale dei Diritti Umani, invita la cittadinanza a partecipare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria ad Alberto Trevisan, obiettore di coscienza e promotore della nonviolenza. Alberto Trevisan, nato a Feltre il 21 settembre 1947, nel giugno 1970 avanzò la sua obiezione alla leva militare obbligatoria e fu condannato alla galera militare. Durante la detenzione, nel 1971, ribadì la sua scelta insieme ad altri sei obiettori. Il 12 dicembre 1972 il Parlamento riconobbe il diritto al servizio civile, con l'approvazione della legge 772. Per Trevisan, il contenzioso giudiziario si chiuse solo nel 1995. Il Consiglio comunale di Padova, nella seduta dell'11 dicembre 2012, ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria ad Alberto Trevisan, con la seguente motivazione: "Padova, Città di Pace, riconoscente per il contributo di eccellenza dato alla diffusione della cultura della pace, dei diritti umani, della solidarietà e della democrazia, attraverso il suo impegno nel Movimento Nonviolento". indicatori europei di benessere e civiltà (lavoro e istruzione tra tutti), è nuovamente tra le prime dieci potenze militari globali. Una cultura neobellicista ha rimosso il disarmo dall’agenda della politica, per cui tutto può essere tagliato tranne che cacciabombardieri e portaerei. Il complesso militare industriale internazionale orienta le scelte dei governi, difendendo se stesso da quella che il generale Fabio Mini ha definito “la minaccia della pace, indirizzando la spesa pubblica per la guerra a vantaggio delle commesse militari. Il popolo e i suoi rappresentanti sono sempre più espropriati da decisioni gia prese, spesso in sedi internazionali, come per la base Dal Molin di Vicenza o il Muos di Niscemi o l’ammodernamento delle testate nucleari presenti sul territorio italiano, in violazione del Trattato di non proliferazione. Eppure nonostante tutto ciò, continua ad essere presente in Italia un significativo movimento dal basso che si impegna per la conversione ecologica dell’economia, il disarmo e la tutela dei territori dagli scempi delle grandi opere, beni comuni e la democrazia partecipativa. Insomma, c’è ancora e, in qualche modo resiste, quella che Capitini avrebbe definito “l’Italia nonviolenta”. La partecipazione al congresso è libera, aperta a tutti. PROGRAMMA DEL CONGRESSO Indice generale VENERDÌ 31 GENNAIO 2014: 24° congresso nazionale del Movimento Nonviolento: 31 gennaio e 1-2 febbraio 2014, Centro Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di Movimento Nonviolento)........................................................................... 1 Estrazione biglietti lotteria "Periferie al centro" (di AAdP)........................1 "E basta con queste carceri! I problemi sono altri" (di Mario Pancera)......2 Se fossimo ancora umani (di Lunaria)........................................................ 2 I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa (di Giuseppe Fava) ...................2 Il ruolo dei media nella rappresentazione del conflitto (di Enrico Cheli) . . .7 Omelia di Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo di CampobassoBoiano, durante la Marcia della Pace del 31 dicembre 2013 organizzata dalla CEI e da Pax Christi (di Mons. Giancarlo Bregantini) .....................11 Cara piccola, fai tu gli auguri a noi (di Maria G. Di Rienzo)...................13 Le donne al centro della resistenza (di Raúl Zibechi) .............................. 13 Sì, è possibile (di Joumana Haddad)........................................................ 16 Incontrarsi attraverso lo psicodramma. Suonare i tasti del cuore: alla ricerca della libertà e gentilezza verso sé - "di cosa parliamo quando parliamo d'amore: materno e paterno"...................................................... 16 - ore 15,30 “Percorsi di Pace” (visita guidata di alcune tappe della città) - ore 18,00 “l’Europa che vogliamo” …disarmo, federalismo, politica sociale… Intervengono: Roberto Burlando, Francesco Vignarca, Paolo Bergamaschi, Roberto Palea Evidenza SABATO 1 FEBBRAIO 2014 - ore 10,00 accoglienza - ore 10,30 relazione della segreteria e della presidenza - ore 11,30 interventi e dibattito sulle relazioni - ore 13,00 pausa pranzo - ore 15,00 ripresa lavori, interventi, formazione delle commissioni - ore 16,00 lavori delle commissioni 1. Diritti/doveri 2. Disarmo 3. Democrazia 4. Decrescita/semplicità volontaria - ore 21,30 proiezione del documentario “in marcia: 50 anni del Movimento Nonviolento” DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014 Documenti 24° congresso nazionale del Movimento Nonviolento: 31 gennaio e 1-2 febbraio 2014, Centro Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di Movimento Nonviolento) Oggi, mentre una grave crisi economica, ecologica e sociale investe il pianeta, è in atto una corsa globale agli armamenti senza precedenti, ad essa si aggiunge in Italia anche una crisi politica e istituzionale della quale non si intravede alcun sbocco positivo. Eppure, l’Italia, ultima in tutti gli 1 - ore 9 presentazione risultati dei lavori delle commissioni, dibattito, presentazione mozioni - ore 11 votazione delle mozioni congressuali, nomine e adempimenti. - ore 14 termine e chiusura del 24° congresso nazionale (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1984 La pagina dell'AAdP Estrazione biglietti lotteria "Periferie al centro" (di AAdP) Lotteria "Periferie al centro" Lunedì 5 gennaio, alla presenza del responsabile Luca Marzario, del garante Gino Buratti e di Roberto Faina, si è proceduto all'estrazione dei biglietti vincitori della lotteria "Periferie al Centro", organizzata dall'Accademia Apuana della Pace: 1° premio: biglietto n. 681 venduto a Martina Bontempi 2° premio: biglietto n. 790 venduto a Sara Legnami 3° premio: biglietto n. 308 venduto a Marco Grottin Link: http://www.aadp.it/index.php? option=com_content&view=article&id=1993 Approfondimenti Carcere "E basta con queste carceri! I problemi sono altri" (di Mario Pancera) L’impudenza e il cinismo politici sfaldano la società e distruggono anche la solidarietà umana di Mario Pancera Molti hanno già sentito queste frasi:« E basta con i problemi delle carceri. I delinquenti lasciamoli dentro. Ci sono degli assassini liberi per le strade…» e via di questo passo. Si ascoltano sui mezzi pubblici, nei crocchi sulle piazze. Il disagio sociale nel paese è talmente alto che ci si dimentica dell’uomo. Alla tv, spesso così ne parlano leghisti e non leghisti, settentrionali e meridionali: pensiamo piuttosto che manca il lavoro, ci sono migliaia di famiglie che combattono con la fame, paesi ancora semidistrutti da terremoti e alluvioni, tasse che colpiscono i poveri, i ricchi se la cavano sempre, che futuro abbiamo? È vero. Nella palude politica ed economica italiana è tutto vero. Chi segue, di quando in quando, i casi dei carcerati non sa che dire: nei primi giorni del 2014 si sono uccisi due detenuti italiani quarantenni, un morto un giorno sì e due no, uno a Roma e uno a Ivrea. E un terzo è morto di malattia dietro le sbarre a Verona. Parlo dei«suicidi», così schedati ufficialmente, perché la parola è terribile per più motivi. Può suicidarsi in caserma un giovane denunciato per furto di una bicicletta? Un paraplegico in carrozzella può andarsi ad impiccare al tubo del gas al soffitto? Un altro può impiccarsi senza che i suoi tre compagni di cella se ne accorgano? E uno infilare la testa nel cappio di un laccio da scarpe ? (ma una volta i lacci non erano tra i primi oggetti ad essere sequestrati agli incarcerandi?) E un altro impiccarsi proprio negli istanti del cambio di guardia? E un altro ancora suicidarsi con il cranio rotto e poi fasciato e con ecchimosi in tutto il corpo? Che cosa dire e che cosa fare se non si è politici? Denunciare i casi, finché si troverà, anche in questa Kakania che è diventata l’Italia, qualcuno che dia un vero contributo per risolverli. Un contributo «vero», non chiacchiere che si disperdono nei corridoi delle pubbliche istituzioni. I giornalisti possono solo segnalare, dare le notizie per stimolare, attraverso l’opinione pubblica, chi ha il potere di «fare». Che cosa di più? Non si può dire che il 2014 sia partito bene. Prendo questi dati dall’attentissimo bollettino di «Ristretti orizzonti» di Padova. Ma se può essere un piccolo, microscopico, motivo di sollievo c’è il fatto che nel 2 2013 i «suicidi» (sempre tra virgolette) sono stati soltanto 49, nel 2012 erano stati 60, nel 2011 e nel 2010 furono 66 e addirittura 72 nel 2009. Abbiamo dunque un calo tendenziale di carcerati morti per suicidio in Italia. Anche se l’anno, per così dire, meno triste è stato il 2007 con “appena” 45 detenuti dichiarati suicidi. Facciamo i conti: uno ogni otto giorni. L’anno scorso, invece, uno ogni sette giorni e mezzo. E per concludere? Non so proprio. Penso a Abdelaziz che risulta suicida a 21 anni, a ferragosto, a Padova: tempo di festa, ventun anni! E a Francesco la cui morte a 22 anni, in giugno, a Monza, risulta «da accertare»: tempo d’esami studenteschi, ventidue anni! Una volta si diceva, l’alba della vita. Proviamo insieme a concludere, amici lettori. Mario Pancera link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1995 Immigrazione Se fossimo ancora umani (di Lunaria) Lampedusa è lì e la verità è che tutti noi siamo lontani. Ciò che succede ogni giorno nel Cpsa dell’isola non lo sappiamo. I riflettori si accendono solo in occasione di visite illustri o dell’ennesima strage. Per questo le immagini raccolte da Valerio Cataldi per il Tg2 andate in onda lunedì sera sono un pugno nello stomaco, qualcosa che non avremmo mai voluto vedere. Migranti denudati in mezzo alla strada che attraversa il Cpsa, fuori, al freddo, di fronte agli altri ospiti e agli operatori dell’ente gestore (la cooperativa Lampedusa accoglienza) che, a vedere le immagini, sembrano considerare tutto normale. Il motivo: lo svolgimento di una vaccinazione contro la scabbia, malattia che se c’è viene contratta in Italia proprio a causa delle condizioni di (non) “accoglienza” che il nostro bel paese è in grado di offrire, e non prima. “È come se il limite del trattamento disumano fosse stato superato da tempo e nessuno se ne fosse accorto”. Il commento di Cataldi non potrebbe essere più calzante. Ma che paese siamo diventati? Solo due mesi fa, dopo l’ennesima strage di 366 innocenti del 3 ottobre, la retorica indignazione e la pubblica compassione hanno occupato per giorni le prime pagine di Tv e giornali. E dopo? Non siamo riusciti neanche a garantire un funerale dignitoso alle vittime mentre dei vivi ci siamo dimenticati. A Contrada Imbriacola secondo Meltingpot sono presenti, ancora oggi 16 persone sopravvissute al naufragio del 3 ottobre. Sono più di 600 le persone “accolte” in una struttura che potrebbe ospitarne solo 300. Denunce, dichiarazioni solenni, promesse ma il tempo passa e nulla cambia. L’unica cosa che il nostro governo è stato capace di fare è chiedere maggiore aiuto all’Europa e il rafforzamento di Frontex, la macchina da guerra che ha già macinato un budget da più di 515 milioni di euro in sette anni. Senza vergogna, senza pudore. E allora ci rivolgiamo a tutti i Parlamentari democratici: è possibile chiamare il Ministero dell’Interno a rendere conto in Parlamento di quello che succede a Contrada Imbriacola? È prassi “ordinaria” costringere le persone a spogliarsi all’aperto e in pubblico? Perché la struttura continua ad ospitare un numero di persone che è più del doppio della sua capienza? È “normale” sottoporre le persone a trattamenti disumani e degradanti? Perché di questo si tratta, né più né meno. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-fossimo-ancora-umani-21404 Mafie I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa (di Giuseppe Fava) Pubblichiamo, riprendendolo dalla newsletter “La nonviolenza in cammino” del 5 gennaio 2014, del Centro Ricerca per la Pace di Viterbo, l’articolo di Giuseppe Fava, comparso sulla rivista “I siciliani” il 1 gennaio 1983, un anno prima di essere assassinato dalla mafia. Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un'immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di casa) nel gioco delle parti. Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali complicità organizzative. L'una categoria raggruppa tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell'economia, i cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attività economiche di una grande città: i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa che l'operatore economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d'essere ucciso. Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, però frantumati e dispersi in un'infinità di rivoli e canali. Un apparato mafioso che lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le grandi città del nord, oramai da anni anch'esse violentate da sparatorie, stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. È la mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore. Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è fatale. Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande città all'altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i rackets in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia è infatti la presenza costante della famiglia, cioè del rapporto di parentela fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere cinico: "Una buona famiglia meridionale all'antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti tradizionali della famiglia, può costruire un racket mafioso di tutto rispetto. È più temuta!". Questo spiega anche talune agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi all'uscio di casa. Una crudeltà che scaturisce dall'odio definitivo di chi ha visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilità di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguiterà fino nella più profonda cella di carcere. È la mafia che miete la quasi totalità delle vittime, centinaia, forse migliaia ogni anno in tutte le città della Sicilia e dell'Italia. Quasi tutte le vittime sono anch'esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che in un modo o nell'altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le loro teste. È una malia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente sarebbe forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso è 3 però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso. E qui c'è il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco è vertiginoso. È come se un grande corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e continuamente in agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c'è un brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a trovare un paragone più amabile ed egualmente preciso. La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la droga coinvolge si può fare solo nell'ordine di decine di migliaia di miliardi. La contaminazione del vizio oramai è intercontinentale, dall'Asia all'Africa, all'Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo ciascuna in media (ma la valutazione forse è troppo esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l'anno. Una cifra che fa paura. Molto più alta del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono anch'essi incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per poco più di un milione, dopo la raffinazione può valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la purezza del prodotto. E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un evento quotidiano che minaccia di deformare la società contemporanea. Ogni anno centomila esseri umani, per lo più giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva incapacità intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro costante pericolosità, cioè la disponibilità a qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiché quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c'è la infelicità di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie, per i quali il recupero - spesso impossibile - del congiunto diventa una costante di dolore e disperazione. La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della grande struttura civile collettiva vengono così destabilizzati, ed è tutta la struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre più insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini, magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per arginare l'avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente all'altro, l'ombra invulnerabile della mafia. Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l'immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L'isola è nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall'area afroasiatica verso le grandi nazioni dell'occidente. Per qualche tempo in Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente l'ingranaggio. Forse c'era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni paradosso psicologico è possibile) verso un affare che era portatore di morte e dolore per un'infinità di esseri umani, soprattutto giovani. Ma anche senza complicità mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l'ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali dell'occidente. In quell'attimo compì un salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l'Italia. Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti, che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni, mettendo radici sempre più profonde, integrando gradualmente e infine totalmente anche camorra napoletana e 'ndrangheta calabrese, coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la mafia ha creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo distacco da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno di fantascienza. In verità molte componenti di questa struttura si sono determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco d'interessi, ma c'è voluta indubbiamente una grande capacità di fantasia per intuire questa forza delle cose e questa concatenazione d'interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito di Domineddio. Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti l'uno all'altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno. Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli specialisti dell'assassinio. Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori economici così imponenti, legati all'impunità della produzione e del traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile un controllo costante e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo, un rischio, una trappola. È necessaria quindi una folla di complicità dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni, impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto, all'interno di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere della città. Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti, avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade l'ecatombe, trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene sterminato e la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l'assassinio di Alfio Ferlito, assieme ai tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie più feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i vincenti, i padroni del clan, sono poco più di subappaltatori dell'immenso palinsesto mafioso: governano l'impresa criminale su una zona, conoscono alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere. La loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di trenta, quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali e all'occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilità. Capimastri, non di più! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella stanza dei progetti. Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c'è il livello dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, 4 morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia è la riciclazione del denaro continuamente prodotto dall'operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa. Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicità umane, possono essere impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga, un'autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c'è sempre il rischio di un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l'estro, la fantasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All'aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia, Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi città e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata già d'avanzo un'agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano di colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!", tutto l'apparato già pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con interventi di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, "Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza", fiori, applausi, banchetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti. Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l'avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno. In verità c'era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando un cocciuto magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell'Ente minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda avesse indotto più all'ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una pochade politica più che per una tragedia mafiosa. Invece fin d'allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben più profonde oscurità arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada, invece esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne presa alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno il governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase solo alla ribalta, perché l'opinione pubblica potesse farci in conclusione una bella risata di scherno. Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente; quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante, cortese e, probabilmente, anche un pò minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di Beirut, dove ebbe l'agilità di scappare una settimana prima dell'ordine di cattura, disse una cosa significativa: "Come potete pensare che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece interessi per centinaia di miliardi!". Tutti pensarono alla malinconica battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce. Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non conosciamo e che però il potere politico e i vertici finanziari dello stato dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero, sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le tracce della sua provenienza, cioè reinvestirlo e così purificarlo, ma non possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento. Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa. E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: "I quattro cavalieri dell'Apocalisse". L'Italia è uno strano paese in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent'anni si è spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a Palma di Montechiaro, è invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria, per struttura stessa della società politica, deve fatalmente passare attraverso un compromesso costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere pubbliche, l'assegnazione degli appalti. Chi afferma il contrario è candidamente fuori dal mondo oppure è un amabile imbecille. A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? È una domanda importante ed anche spettacolare poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere. Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda proprio dell'industriale self-made-man. Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni, industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il più ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia invece Costanzo, il più prepotente, l'unico che abbia osato pretendere e 5 ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci, proprietario di una banca che, per capitali, è il terzo istituto della regione. La ricchezza di Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi è questo Finocchiaro. Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici (la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso nazionale dei magistrati in cui era appunto all'ordine del giorno la lotta contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in una delle più diffuse emittenti televisive private. È anche presidente e maggiore azionista della Banca popolare. Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più moderni, almeno culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto. Anche lui costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo fiore all'occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della holding è il ritratto stesso dell'azienda, una serie di palazzi di acciaio, alluminio e metallo, l'uno legato all'altro, sulla cima di una collina alle spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov, l'uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, è riuscito ad arrivare al vertice dell'impero sovietico poiché mentre era a capo dei servizi segreti inventò l'ufficio della disinformazione, specializzato nel confondere la realtà. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico. L'impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprietà. Per il resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella, vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti è quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni parte dell'isola e dell'Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il suo più recente acquisto l'hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi più belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il più prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e che per quarant'anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era sconosciuto a Catania, e il più riservato, raramente compare in prima persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un'emittente privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua generosità. Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli amici di vertice. Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L'ultimo arrivato dei quattro al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi. Ha però una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la nuova Pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della città, a cento metri dal palazzo di Giustizia. Poiché la Pretura di Catania convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrerà in funzione, il traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina resterà probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda un'opera pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine è anche il più lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti più splendidi della riviera, una grande villa, in verità bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine intercomunicanti, sicché, una levissima massa d'acqua si muove ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e s'incanta. Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono crollare hanno un momento di trasalimento di felicità e un grido: "Lo sapevo!", i quattro cavalieri sono nell'occhio del ciclone, in mezzo al quale sta immobile e sanguinoso l'assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la più feroce e tragica sfida portata dalla mafia all'intera nazione. Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia e stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente al massimo giornale italiano: "Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!"; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola, ricercato per l'omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo costituzione, di cavalieri della repubblica. Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero. Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire una verità che può essere tutto e il contrario di tutto. Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l'ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non esiste!Infine quello che probabilmente è: cioè di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica 6 che la governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere più rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano essere rapiti o sequestrati. Se così è, tutto questo non è morale, ma non è nemmeno reato! E purtroppo non è nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verità definitive, anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realtà innegabile: perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d'affari o di politica capaci di garantire l'impiego e la purificazione di quell'ininterrotto fiume di denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia il diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello stato (o peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli, la società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civiltà. Venivano tutti da nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e l'avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi della regione, rappresentano un'altra impresa. In tutto quello che è stato costruito in Sicilia, i siciliani sono stati al più subappaltatori (se possibile anche mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali. La Sicilia è stata sempre una terra tecnodipendente. Improvvisamente, nell'ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiate nel loro stesso territorio. Bene, la tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire un rapporto di colonizzazione è chiaro. Allora a questo punto il discorso è già perfetto. Se tutti i cavalieri di Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro, implacabilmente, eliminandoli dalla società, e rilasciando così agli altri, ai superstiti, una possibilità politica e morale di continuare l'opera di evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno, lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si identifica con lo stato! Ed è qui che entra in gioco l'ultimo livello della struttura, l'imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia. Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dalle quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi tutte le funzioni della società sottomettendo le province, le città, i quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca l'ultimo livello, il più alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt'oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana c'è un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della Dc, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria dignità rifiutò le tessere. Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall'ancora giovanile Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale si incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale, indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell'attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva solo continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. È una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia però perfetta come un teorema poiché spiega come può il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni '80, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia, che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; già da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li conduce talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi e invece assedia le commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in un'altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere 7 politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere pubbliche, determina l'ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c'erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati poiché stavano già scoprendo i punti di sutura fra politica e mafia. Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli aveva fiutato l'infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa personale per scoprire alcune verità politiche all'interno della loggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui. Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell'occulto. Quando arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere di fronte l'avversario più duro e cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in più un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanità. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è oscura e senza gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra, non si può vincere in una serie infinita di scaramucce, poiché i serpenti restano dovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio. Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava, accusava, era l'unico personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagini nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all'altro vi strapperò la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!". E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io così con lei non viaggio!". Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità irrisoria, a colpo sicuro, (se è vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti venire da un'altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria. Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo l'aveva già vibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non dicevano, cioè dov'era il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e schiacciarli. (fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1994 Nonviolenza Il ruolo dei media nella rappresentazione del conflitto (di Enrico Cheli) Pacificatori o amplificatori della conflittualità? Secondo J. Galtung (2000) alla base di ogni conflitto sono individuabili 3 elementi di fondo: gli atteggiamenti (Attitudes) i comportamenti (Behaviours) e le contraddizioni o contrasti di interessi (Contraddiction); questi elementi danno luogo al triangolo di figura 1, definito da Galtung l’ABC del conflitto. Dunque in un conflitto troviamo un un contrasto di interessi o una divergenza di vedute tra le parti in causa (contraddiction) che può portare ad un blocco dei rapporti tra le due parti, a far loro sentire che non ci sono possibilità di trovare delle valide soluzioni (scoraggiamento) e questo, a sua volta, può determinare (o incrementare, se già presente) un atteggiamento di sfiducia, di odio, o magari di apatia; questo atteggiamento può poi portare, ad un certo momento, ad un comportamento aggressivo, che può essere di sfida, di competizione o di “violenza” (fisica, verbale o psicologica). La sequenza con cui si passa da un elemento all’altro non è necessariamente quella esemplificata: la manifestazione del conflitto può iniziare con A e poi condurre a B e C ma può anche iniziare con C e poi portare a B e solo in ultimo ad A, oppure ancora iniziare con un comportamento (B) e poi passare al punto C ed infine A, e così via. Quale che sia la sequenza con cui si manifestano, è importante considerarli nella loro interdipendenza e non come aspetti separati. peace-journalism02 L’ABC del conflitto (da J. Galtung, 2000) L’emergere e il manifestarsi del conflitto non va necessariamente visto come negativo, e anzi può assolvere a molte funzioni positive, come ad esempio portare a galla un disagio sotterraneo e magari represso, creando così i presupposti per affrontarlo, oppure può rimettere in discussione un rapporto stanco e rivitalizzarlo. Il problema di fondo è piuttosto quello delle forme che tale manifestazione assume: si può infatti trattare di forme distruttive, violente, oppure di forme più costruttive e comunicative che possono servire allo sviluppo positivo dei rapporti interpersonali, interetnici, internazionali[1]. In questo mio breve saggio mi ripropongo di evidenziare il ruolo che in proposito svolgono (e potrebbero svolgere) i media. Applicando al loro operato lo schema ABC di Galtung derivano le seguenti 3 domande di fondo: A – Su quali atteggiamenti fanno maggiormente leva i media, quelli di odio, di competizione, di critica, di sfiducia nell’altro o quelli di solidarietà, di collaborazione, di apprezzamento e fiducia nei confronti dell’altro? B – Quali modi di affrontare i conflitti (comportamenti) vengono più frequentemente rappresentati nella fiction come nell’informazione, nella stampa come nella Tv? Quelli violenti e distruttivi o quelli basati sulla comunicazione, l’ascolto, la negoziazione? C – E infine, come viene presentata la conflittualità (contraddiction): come qualcosa di insanabile e inevitabile o come un problema individuale e culturale che può e deve essere trasformato costruttivamente con vantaggio per tutti? A – Gli atteggiamenti negativi e ostili verso l’altro in quanto diverso da noi. Come è noto l’incontro, anche solo potenziale, con sconosciuti, innesca reazioni ambivalenti di curiosità e di paura; tuttavia, per vari motivi, anche culturali, prevale spesso la seconda reazione: la paura. Molte persone hanno una visione del mondo come di un luogo pericoloso, dove è bene 8 non fidarsi di nessuno, specie gli sconosciuti. Le paure e diffidenze verso gli altri, che spesso immaginiamo ostili o comunque maldisposti nei nostri confronti, sono tra i maggiori ostacoli alla comunicazione e alle relazioni interpersonali e tra le cause che più fanno degenerare un conflitto in violenza. Molti scontri e perfino guerre nascono anche dalla non accettazione e condanna della diversità dell’altro: si pensi alle guerre di religione, di cui è piena la storia, o a quelle tra diverse ideologie, come nel caso della ex guerra fredda tra USA e URSS o di altre guerre e guerriglie tuttora in corso. Molte volte il fattore scatenante è la paura che l’altro, il “nemico”, attacchi per primo, e in situazioni di fondo contrassegnate da ostilità e diffidenza basta una scintilla perché scoppi una guerra. A questo riguardo i media sono ambivalenti: da un lato ci aiutano a conoscere mondi, culture, persone distanti e diverse da noi, avvicinandole e rendendoci così sempre più cosmopoliti e tolleranti; dall’altro lato rappresentano quasi esclusivamente i lati peggiori dei conflitti, ignorando o comunque minimizzando quei casi – non così rari – in cui si è giunti ad una risoluzione pacifica e magari addirittura collaborativa della conflittualità e della differenza. E’ vero che ci sono molti conflitti che degenerano in violenza, ma ve ne sono anche molti altri che prendono la strada costruttiva della comunicazione e della conciliazione. Abbiamo il diritto di essere informati anche su questi ultimi, in modo da disporre anche di modelli positivi da imitare e non solo di esempi negativi da stigmatizzare. Se ciò che fa notizia è il caso fuori dall’ordinario, l’evento eccezionale, dovremmo aspettarci non solo articoli che riferiscono di scontri, violenze, incomunicabilità, ma anche servizi su quelle relazioni – ed esistono – che funzionano meglio delle altre: perché invece di queste ultime non sappiamo niente, perché non veniamo informati della loro esistenza, in modo da trarne conforto e soprattutto spunti per fare meglio? Non è certo un buon giornalismo quello che distorce così tanto la realtà, esagerando il peggio e minimizzando il meglio. Evidenziare e stigmatizzare gli aspetti più deteriori delle relazioni – siano esse tra persone, tra organizzazioni o tra stati – può avere un effetto socialmente costruttivo ed educativo solo se affiancato da esempi positivi che mostrino alternative migliori, altrimenti è come un maestro che sottolinea in rosso l’errore dell’allievo senza però spiegargli il modo corretto in cui avrebbe dovuto fare. Parlare del negativo senza proporre il positivo produce solo assuefazione, rassegnazione, perdita di speranza circa la possibilità di un mondo migliore. Si reagisce se c’è qualche speranza di riuscire a cambiare le cose, ma se viviamo in un mondo in cui tutte le relazioni sembrano andare male allora non resta che rassegnarsi, chiudersi in se stessi e gettare la spugna oppure farci furbi e aggressivi a nostra volta. B – Le modalità di gestione dei conflitti più frequentemente rappresentate dai media Sia nell’informazione giornalistica sia nella fiction e nell’intrattenimento il conflitto, agito o latente è certamente uno dei temi più frequenti, forse il più rappresentato in assoluto. Se anche ci limitiamo al solo conflitto agito i dati parlano da soli: negli USA oltre il 60% di tutti i programmi TV contiene almeno una scena di violenza e per i film e telefilm la percentuale sale addirittura al 90%; inoltre i tipici programmi a contenuto violento propongono almeno 6 eventi di violenza per ogni ora di durata[2]. Anche se mancano dati certi, sappiamo che le cose non sono molto diverse in Italia: la violenza, sia essa fisica o psicologica, la fa da padrona. Dunque i media mostrano come modalità prevalente (se non unica) di gestione del conflitto, quella violenta, mentre sono assai rari gli esempi di conflitti affrontati in modo costruttivo e pacifico. Come evidenziano anche E. Wartella e D. C. Whitney (2002), due dei ricercatori che hanno realizzato la suddetta ricerca, questa prevalenza della via violenta su quella nonviolenta può comportare numerose conseguenze: 1) Imitazione – gli spettatori tendono a valorizzare e imitare gli atteggiamenti e comportamenti aggressivi, specie se ad agire violentemente sono gli eroi in cui essi si identificano. Ciò contribuisce, sia nel bambino che nell’adulto, ad aumentare i livelli di aggressività nelle relazioni interpersonali e di gruppo, aspetto, questo, assai deleterio per la qualità dei rapporti con gli altri. 2) Paura cronica – gli spettatori, a forza di leggere cattive notizie, vedere atti criminosi, ascoltare “bollettini di guerra” si intimoriscono e hanno paura di essere vittime di atti violenti, quindi assumono atteggiamenti di diffidenza e mettono in atto comportamenti iperprotettivi, che li rendono meno socievoli, specie con gli estranei. 3) Desensibilizzazione emozionale – col tempo e la continua esposizione, molti spettatori si “induriscono”, diventano cinici e, come si suol dire “fanno il callo” e non si impressionano più (ma solo in apparenza) di fronte a certe informazioni, immagini, scene. I suddetti effetti interessano non solo gli adulti ma anche i bambini, per i quali le preoccupazioni dovrebbero essere ancora maggiori; invece, perfino nei film, nei fumetti e nei programmi televisivi a loro specificamente dedicati la violenza la fa spesso da padrona, associata ad una competizione selvaggia per affermare la legge del più forte. Gran parte dei cartoons (specie quelli giapponesi) si imperniano su una esasperata competizione, e mostrano la violenza come unico modo di risolvere i conflitti. L’affermazione implicita è che chi ha più forza bruta (rappresentata non solo dalla potenza muscolare ma anche dai vari superpoteri dei personaggi) e vince, è nel giusto, è il migliore. Come già avevano ben intuito oltre 50 anni fa Horkheimer e Adorno, “Se i cartoni animati hanno un altro effetto oltre a quello di assuefare i sensi del nuovo ritmo, è quello di martellare in tutti i cervelli l’antica (e ideologica) verità che il maltrattamento continuo, l’infrangersi di ogni resistenza individuale, è la condizione della vita in questa società.” (Horkheimer M., Adorno T., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966 p. 149 – tra par. ns.). Purtroppo la mancanza di alternative, da un lato, e la grande dinamicità e immediatezza delle scene, dall’altro, fa molto apprezzare questo genere di cartoni dai bambini. Qui il genitore e l’educatore devono stare molto attenti e intervenire con decisione a tutela dei bambini, i quali sono inconsapevoli degli effetti collaterali di certi programmi e quindi non ancora in grado di autoregolarsi. Il seguente esercizio può risultare molto utile per stimolare una più ampia visione del conflitto nei bambini. Esercizio per i bambini – Immaginare modi alternativi di risolvere i conflitti Molti storie dei cartoni animati si basano su lotte e litigi. Guardate assieme al bambino una scena del genere e poi chiedetegli di rispondere alle seguenti domande, meglio se per iscritto: Ø quanti personaggi sono stati colpiti, feriti o danneggiati; Ø quanti sono stati uccisi Ø qual’era il motivo della lotta Ø era proprio necessario combattere o si poteva risolvere il litigio in altro modo? Ø Chiedetegli di immaginare dei modi alternativi e non violenti di risolvere la questione. E’ insomma come costruire una nuova storia, con un finale diverso, e il bambino può immaginarne più d’uno e magari anche disegnarli. In questa fase è importantissimo non preoccuparsi se i finali proposti siano appropriati o no, verosimili o meno, è bene lasciare al bambino totale libertà immaginativa ed espressiva. L’adulto si limiterà a prendere nota delle varie alternative senza commentare né correggere, anzi incoraggiando il bambino ad esprimersi senza timore di essere giudicato. 9 C – La conflittualità (contraddiction) è veramente inevitabile e intrinseca alla natura umana o è un problema culturale che può essere trasformato costruttivamente con vantaggio per tutti? Una divergenza di vedute e/o un conflitto di interessi devono necessariamente sfociare in comportamenti aggressivi, violenti, distruttivi, o vi sono altre vie, èpiù costruttive, per risolverli? Come per i punti precedenti anche a questo riguardo i media mostrano un orientamento ambivalente: a) da un lato stimolando il relativismo culturale, favoriscono una visione più aperta e costruttiva della realtà e dei rapporti interpersonali e interculturali. b) Dall’altro, tendono ad adottare una visione non dissimile da quella finora dominante, secondo la quale la diversità tra identità, punti di vista, interessi porta inevitabilmente a un conflitto risolvibile solo mediante una competizione o uno scontro che decida il prevalere di una parte sull’altra. In realtà la diversità può essere vista anche in altro modo, cioè non come antagonismo ma come complementarità: infatti è proprio grazie alla diversità che esiste il nostro mondo, fisico, psichico e sociale. Tutti i fenomeni, da quelli cosmici a quelli della vita biologica e sociale fino a quelli sub-atomici esistono proprio grazie ad un gioco di diversità, di polarità opposte-complementari. Poli opposti non vuol dire necessariamente antagonisti, anzi semmai complementari: gli elettroni sono necessari alla materia non meno dei protoni, così come le donne sono necessarie per la specie umana non meno degli uomini. L’universo, la vita, la materia esistono grazie al flusso e alla dinamica prodotta da opposizioni cooperative tendenti a un equilibrio[3] Dunque, se si vuole davvero pervenire ad una più ampia visione della realtà, è necessario liberarsi dal pregiudizio che diversità voglia dire necessariamente e solamente antagonismo e conflitto. Su questo aspetto il ruolo di innovazione culturale dei media potrebbe essere determinante, ma al momento gli articoli e i programmi che propongono questa nuova visione cooperativa delle differenze sono del tutto minoritari, mentre predominano quelli basati sulla vecchia concezione: differenza = conflitto. C’è poi un ulteriore pregiudizio culturale, connesso a quello appena illustrato, che contribuisce ad aggravare il problema: la credenza che si possano soddisfare i propri bisogni solo penalizzando qualcun altro. Questo modo di vedere è stato definito dalla “teoria dei giochi” come gioco a somma zero: un gioco, cioè, dove la posta è limitata e non è sufficiente per soddisfare le esigenze di tutti i soggetti coinvolti (ad es. due naufraghi che si contendono un unico giubbotto di salvataggio o due tribù che lottano per un unico lembo di terra fertile, insufficiente per i fabbisogni di entrambe)[4]. Per millenni i rapporti sociali, ad ogni livello, si sono basati ciecamente su questo assunto e quindi sulla legge del più forte. Solo da poco stiamo scoprendo che in gran parte delle relazioni sociali non solo si può vincere entrambi, ma addirittura si vince di più se si vince tutti. Le relazioni di coppia o familiari, quelle tra insegnanti e allievi, medici e pazienti, imprenditori e lavoratori e molte altre seguono appunto le leggi di questo secondo genere di gioco, definito a somma positiva. Il gioco a somma zero è caratterizzato da una accesa competizione, in quanto uno vince (+1) ciò che l’altro perde (-1), da cui +1 -1 = 0. In tal modo è possibile al massimo giungere a compromessi, spartendosi la posta in proporzioni variabili, ad es. un terzo a te due terzi a me, oppure metà e metà, ma resta il fatto che la posta è fissa (o per lo meno i due contendenti la ritengono tale). Nei giochi a somma positiva invece, al guadagno di uno non deve necessariamente corrispondere una perdita per l’altro, poiché, se collaborano, aumenta la “torta” da spartirsi e il guadagno di ciascuno è maggiore di quello che avrebbe combattendo e sconfiggendo l’altro. Ad esempio, se due aziende A e B entrano in concorrenza secondo il modello a somma zero, il massimo che quella vincitrice potrà ottenere sarà una parte della quota di mercato dell’altra; se entrambi avevano l’uno per cento e A sottrae a B lo 0,3%, A sale a 1,3%, B scende al 0,7% con una somma finale di +0,3% –0,3% = 0. Se invece collaborano si collocano nell’ambito dei giochi a somma positiva, dove non solo B non perderà niente ma anche A potrebbe guadagnare di più di quanto guadagnerebbe combattendo B. Unendo le loro forze potranno realizzare risparmi e sinergie di investimento che gli permetteranno di puntare a traguardi che nessuna da sola avrebbe potuto immaginare e potrebbero guadagnare ciascuna un 1% netto di aumento di quota di mercato con una somma finale positiva: +1 +1 =2. La differenza tra i due tipi di gioco è ben evidenziata dal grafico di figura 30, elaborato da P. Patfoort (1992) dove il triangolo di sinistra rappresenta l’opzione a somma zero e quello di destra l’opzione collaborativa a somma variabile. Figura 30 – I triangoli di violenza e nonviolenza (da P. Patfoort, 1992) L’unica possibile soluzione “costruttiva” del triangolo di sinistra è il punto centrale del “compromesso”, in cui ognuno dei due contendenti ottiene il 50% della posta in gioco, ma più spesso la violenza porterà a spartizioni meno eque dove al più forte andrà, poniamo, l’80% e all’altro il 20%. Le basi fondanti di questo triangolo sono la violenza, il lavoro dell’uno contro l’altro e la sfiducia reciproca. Nel secondo triangolo predominano invece i valori della nonviolenza, del lavoro insieme e della fiducia reciproca e ciò spinge a cercare soluzioni che comportano per ambedue i contendenti vantaggi maggiori di quelli ottenibili con lo scontro o col compromesso. La teoria dei giochi è applicabile a qualsiasi genere di risorsa, anche di tipo immateriale (affettivo, sociale etc.). Si prenda ad esempio la relazione insegnante-allievo: è evidente che più l’allievo apprende con profitto, più l’insegnante è appagato (cioè guadagna sul piano emozionale e sociale), e viceversa, più l’insegnante è gratificato, meglio insegnerà e più positivamente si porrà nei confronti della classe, con conseguenze positive (guadagno di rendimento, di motivazione, di gratificazione emozionale e sociale) anche per l’allievo. Dobbiamo prendere coscienza che gran parte dei nostri obbiettivi – come individui, come gruppi e popoli – non sono affatto antagonistici a quelli altrui ma possono anzi realizzarsi di più e meglio se collaboriamo. Tra l’altro, i giochi a somma zero comportano una competizione esasperata che spesso si trasforma in violenza e in molti casi ciò trasforma il conflitto in un gioco a somma addirittura negativa, dove cioè perdono entrambi: si pensi ad esempio ai rischi di una guerra atomica che porti alla distruzione dell’intero pianeta, dove non ha più nessuna importanza chi abbia vinto la guerra perché tutti alla fine avrebbero perso; oppure ad una coppia in crisi che intraprende la strada della separazione giudiziale senza esclusione di colpi dove tutti alla fine perdono: non solo lo sconfitto ma anche quello che legalmente viene riconosciuto “vincitore”, che potrà forse guadagnare sul piano pratico, economico e dell’orgoglio ma subirà anche lui/lei tali perdite sul piano affettivo, emozionale, relazionale che nessun guadagno materiale potrà mai compensarle: perdite dirette (indurimento, sfiducia verso l’altro sesso e verso le relazioni, perdita di disponibilità ad aprirsi e innamorarsi di nuovo, stress e probabili disturbi psicosomatici etc.) e indirette (ad esempio le ricadute sugli eventuali figli). Conclusioni L’idea che i conflitti possano essere affrontati e risolti in modo costruttivo, non competitivo e nonviolento è alquanto recente, e nella cultura e mentalità dominanti prevale ancora la vecchia idea. Per poter affermare questa nuova concezione è quindi necessaria una vasta operazione di sensibilizzazione culturale, in cui la collaborazione dei media risulta determinante. Non si può più invocare l’alibi secondo cui non compete ai media lo svolgere una funzione pedagogica: di fatto essi già la svolgono, quindi è essenziale che i modelli e le idee che propongono siano costruttivi. Continuare a dare spazio solo o prevalentemente alla vecchia concezione competitiva e aggressiva di gestione delle differenze e 10 dei conflitti non è una scelta neutrale, è già prendere posizione: perché allora non prendere posizione per una nuova cultura delle relazioni? Tuttavia non possiamo limitarci ad aspettare che qualcuno dall’alto migliori la situazione: dobbiamo e possiamo attivarci in prima persona, impegnandoci ad educare bambini e adulti ad un uso più consapevole dei media. Parallelamente, è necessario educarli anche ad una più consapevole e costruttiva gestione delle relazioni interpersonali, imperniata sulla comunicazione e sulla collaborazione e non più sulla competizione e l’aggressione. Tale educazione dovrà essere tra le priorità dei prossimi anni se vogliamo perseguire una politica sociale imperniata sulla qualità della vita e sulla prevenzione del disagio psico-sociale, della microconflittualità urbana e familiare, del mobbing e di tutte le altre patologie sistemiche che affliggono la nostra vita sociale. E non andrà fatta solo nelle aule scolastiche (che comunque sarebbe già molto) ma anche tramite i media, proponendo agli utenti (nei notiziari come nella fiction) non solo conflitti che sfociano in violenza ma anche situazioni che vengono affrontate in modo costruttivo. Solo così potremo davvero creare i presupposti per una vita sociale costruttiva e soddisfacente e per una pace interpersonale e internazionale effettiva e duratura. Riferimenti Bibliografici Braquet-Lehur M., I vostri figli sono teledipendenti? Edizioni scientifiche Ma.gi., Roma, 2001. Cheli E., La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, 6^ ed., Milano, Franco Angeli, 2002. Cheli E., Olismo e riduzionismo nella scienza, nella cultura e nella mente, in corso di pubblicazione, 2004a. Cheli E., Difendersi dai media senza farne a meno, in corso di pubblicazione, 2004b. Gerbner G.,Violence in Television Drama: Trends and Symbolic Functions, in G.A. Comstok and E.A. Rubinstein (eds.) Television and Social Behaviour, Washington D.C., U. S. Government Printing Office, 1971. Gerbner G., Le politiche dei mass media, Bari, De Donato, 1980. Gerbner G., Grass L., Morgan M., Signorelli N., Living with Television: the Dinamics of the Cultivation Process, in J. Bryant, D. Zillman (eds) Perspectives on Media Effects, Hillsdale N.J., Lawrence Erlbaum, 1986. Mazza V., Usare la TV senza farsi usare, Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2002. Oliverio Ferraris A., TV per un figlio, Laterza, Roma, 1995. Wartella E., Whitney D. C., Violence and U.S. Television. In Bachmair B., Cavicchia Scalamonti A., Krees G. (eds.), Media, Culture and Social Worlds, Liguori, Napoli, 2002 [1] Per una introduzione allo studio ed alla comprensione dei conflitti cfr; A. L’Abate, Il conflitto, in D. Cipriani, G. Minervini (cur.) L’Abecedario dell’obiettore, Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba), 1991, pp.25-31; E. Arielli, G. Scotto, I conflitti: introduzione ad una teoria generale, Ed. B. Mondadori, Milano, 1998. [2] Cfr. National Television Violence Study , vol. 1, 2, 3, Sage Publications, Thousand Oaks, CA, 1997, 1998. [3] Per un più approfondito esame di questo aspetto rinvio ad un altro mio lavoro: E. Cheli, 2004a. [4] Cfr. J. von Neumann e O. Morgensten, 19 http://www3.unisi.it/mastercomrel/articoli%20e%20saggi/il%20ruolo %20dei%20madia%20come.htm (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2013/12/19/il-ruolo-dei-media-nella-rappresentazionedel-conflitto-enrico-cheli/ Pace Omelia di Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo di Campobasso-Boiano, durante la Marcia della Pace del 31 dicembre 2013 organizzata dalla CEI e da Pax Christi (di Mons. Giancarlo Bregantini) Carissimi fratelli e sorelle, è con grande gioia che vi accolgo, tutti, in questa bella Cattedrale di Campobasso, al termine della coinvolgente Marcia della Pace, dove abbiamo sperimentato quanto vera sia la fraternità, come via e fondamento della Pace. “Abbiamo affidato il cuore al compagno di strada, senza sospetti senza diffidenze, per guardare innanzi tutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell'unico Dio. Affidarsi all'altro è qualcosa di artigianale, perché la pace è artigianale". (cfr Evangelii Gaudium, 244) Mi piace questa definizione di pace, usata poi nel messaggio "Urbi et Orbi" del Natale: "La PACE è ARTIGIANALE. "La pace - precisava - non è un equilibrio di forze contrarie. Non una bella facciata, dietro alla quale restano contrasti e divisioni. La pace è un impegno di tutti i giorni, ma la pace è artigianale, che si porta avanti a partire dal dono di Dio, della sua grazia che ci ha dato in Gesù Cristo". Il papa, poi, per questo giorno ci ha dato un tema concretissimo, legando insieme due elementi che noi abbiamo reso con “La fraternità è pace”, rafforzando il tema suggerito con voce profetica. Perché dove c’è pace c’è fraternità, come dove c’è fraternità c’è pace. Per la nostra comunità diocesana è stato un evento impegnativo, ma fecondo. Ci ha stimolato, ci ha aiutato a crescere, a superare le nostre lentezze, per aprirci ad una dinamica fattiva e che lascerà un segno forte nel cuore della nostra gente. Per questo benedico il Signore, di tutto. Ringrazio come ente promotore la CEI nell'Ufficio Pastorale del Lavoro, giustizia e pace; l’AZIONE CATTOLICA che ha avuto un ruolo importante; ravvivo la nostra stima per Pax Christi, che ha svolto qui il suo annuale solido convegno nazionale chiedendole sempre di mantenere questo ruono di stimolo a tutta la chiesa italiana e locale; sempre; benedico la Caritas, che ha posto come segno continuativo di questo evento l'apertura della Mensa degli Angeli custodi, per ogni povero e fragile che chiede dignità e pace. Colgo l’occasione di ringraziare vivamente tutta la mia Curia diocesana, che ha portato con me, insieme ad nutrito comitato organizzativo, tutto il peso dell’evento, così ben pubblicizzato dagli organi di informazione, locali e nazionali, che ringrazio della loro costante attenzione e presenza, con SAT 2000, che manda in onda questa celebrazione eucaristica. Tramite questo mezzo, saluto tutti coloro che si sono messi in ascolto della nostra messa, con l’affetto di chi intreccia cuori e volti ben noti, che ci seguono da lontano, anche con la preghiera e l’intercessione reciproca. Grazie ai vescovi presenti, specie a quelli della CEAM che hanno condiviso con noi questo cammino di speranza, lasciando anche le loro comunità diocesane, per un gesto di fattiva condivisione e unione! Con un saluto affettuosissimo a mons. Bettazzi, che in questo periodo ha celebrato il suo 90 anno di vita e il suo 50 anniversario di episcopato, partecipando a tutte le marce, ben 46, della pace! E grazie a tutti voi, carissimi sacerdoti, suore, laici, giovani tutti, autorità politiche e militari, sia a livello comunale che regionale, che saluto con tanta riconoscenza. Non ci resta che continuare con fiducia su queste piste dl fraternità, in una serie di segni da vivere nel nostro quotidiano, tra la nostra gente, seminando fiducia e pace. La Parola di Dio, alimentata dal messaggio di Papa Francesco sulla pace, ci aiuta, ora, a raccogliere il grande insegnamento che affido al cuore di ciascuno di voi, in un "lectio" sulla Parola ascoltata, per farla "carne" nella nostra storia, partendo dall’immagine, efficacissima: la pace è "ARTIGIANALE", che ci impegna, a mio giudizio, in tre immagini, che traggo dalle tre letture bibliche: 11 La pace va sempre costruita sotto lo sguardo di Dio, che ci guida e ci sorride; cresce come un germoglio, adagio adagio, con tempi lunghi, giorno per giorno; è custodita nel cuore di Maria, che medita ed intreccia gli eventi della storia. Sotto lo SGUARDO DI DIO CHE CI GUIDA Nella prima lettura, è dolcissimo sentire su di noi, come figli, la benedizione del volto di Dio: Il Signore ti benedica e ti custodisca. Faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace.” Come un papà che guarda ai suoi figli, li benedice, li custodisce! Quel sorriso di Dio ci attrae. Ci coinvolge tutti. Perché tutti ci sentiamo "benedetti, custoditi, amati". La pace nasce da questa sicurezza. Sentire che risplende su di noi il suo VOLTO di luce, il suo sorriso! Con tre precise conseguenze nella nostra vita di fraternità: a) a) pregare molto, per imparare da Dio il suo stile di gratuità e di amore ai nemici Il volto di Dio infatti è il volto di quel Padre che “fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e dona la sua pioggia ai giusti e agli ingiusti”. Per tutti ha un volto di pace, un sorriso d'amore. Al di là dei nostri meriti. La preghiera a questo serve: ad acquisire, con fiducia, quel suo volto di gratuita, imparando da lui! b) avere anche noi un volto di luce per i nostri fratelli. E' quel volto di empatia che crea la concreta fraternità e pace! Si fa lo sguardo del Buon Samaritano: “passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione” (Lc 10,33). E’ il vedere e l’intervenire. E’ lo stile di don Milani, con il suo perenne I care! La fraternità parte sempre dallo sguardo con cui io guardo i miei fratelli. Costruiamo allora ponti e non muri, aratri e non lance. Soprattutto lottiamo reciprocamente per il lavoro dei giovani, come segno di una pace fondata sulla vera fraternità, nella condivisione del lavoro: lavorare meno, per lavorare tutti! Chi ha, più dà; chi meno ha, più riceve! c) Cos’è la guerra? E' invece quel volto girato altrove, che non si cura del fratello, del sacerdote e del levita, che non segue, che non guarda. Facciamo come Caino: “sono forse lo il custode di mio fratello, cioè colui che lo guarda, lo segue, lo difende”? Da qui, la cultura dell'indifferenza, il dramma di Lampedusa, le bocche cucite, i muri dei centri di accoglienza che si fanno sempre più alti! Con due segni, efficaci: 1. La giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre ha dimostrato che è efficace la preghiera, il volto dell'uomo che si rivolge al volto di Dio e ne richiede la benedizione. Si è constatato a livello mondiale che realmente “la fraternità spegne la guerra”. (messaggio del papa, n.7). I missili già puntati si sono spenti. Chi aveva ordito la trama iniqua della guerra, si è visto isolato. La fraternità ha spento realmente la guerra. Quello che quel giorno è avvenuto, potrà avvenire ancora se ci crediamo. Anche nei rapporti interpersonali e non solo in quelli internazionali. 2. È qui sepolto, in questa nobile cattedrale, un Vescovo, mons. Secondo Bologna, che si è offerto vittima di pace. Ne avete la biografia essenziale nello zaino del pellegrino. Era stato ufficiale dell'esercito italiano prima di essere ordinato prete a Cuneo, sua città natale, poi fatto vescovo di Campobasso – Bojano nel 1940, diventato di fatto l'unico punto di riferimento operativo e morale dopo il drammatico 8 settembre 1943. Lui intuisce, da esperto nella realtà militare, che la nostra città, agli inizi dell'ottobre 1943, avrebbe potuto ridursi ad un cumulo di macerie, nello scontro terribile tra i Tedeschi in fuga e gli Alleati in avanzata. Da qui, da questa precisa convinzione, egli intavola una serie di trattativa tra le parti, purtroppo tutte fallite nella gelida risposta: "Eccellenza ... la guerra è guerra!". Allora, compie quel gesto che ci viene suggerito dalla Bibbia: si offre vittima di pace e nella messa del 10 ottobre, domenica, qui in cattedrale, innalza al cielo, al volto di Dio, una supplica: "Signore, se per la salvezza di Campobasso occorre una vittima, prendi me, ma salva il mio popolo!". E in quella stessa sera, mentre in cappella del Seminario recita il santo rosario, una bomba lanciata dall'esercito canadese esplode proprio nella cappella e lo uccide con le schegge che gli trafiggono il capo, insieme ad una suora, Lucia, che pregava accanto a lui. Ma la sua morte di fatto indusse sia i Tedeschi che gli Alleati a non infierire contro la città, che si vide liberata dalle distruzioni e vendette, proprio per il sangue e la preghiera del santo Vescovo mons. Bologna! E' la perenne dimostrazione che è il volto di Dio a donare pace con il suo sorriso di benedizione e di vita!Il GERMOGLIO, cioè la pace che richiede tanto tempoPer costruire la pace occorre tanto tempo. Non la si improvvisa mai, ma la si prepara con cura, con amore, fin nei particolari, tramite relazioni costruite con amore. Con la stessa tenerezza, una montagna di tenerezza, con cui Maria realizzò le povere fasce della grotta di Betlemme. Ma proprio quella tenerezza ha trasformato una dimora per animali in una casa luminosa, la casa di Gesù. (cfr E.G., 286). Ci vuole cioè pazienza infinita, per costruire la pace, giorno per giorno, fedelmente, con tenacia e caparbietà. Da qui, l'importanza dei piccoli passi, come in una marcia, fatta insieme ai compagni di strada. E' la forza del germoglio, che ci viene dalla contemplazione del "piccolo" Bambino Gesù, icona di questo Natale. Quel bambino che è nato anche lui senza documenti, lungo una strada, fuori dai controlli legali, da due genitori in precarietà, costretto poco dopo a scappare davanti alla polizia. Questo è il Natale, non caramelloso, ma vero, da contemplare con amore. La pace esige tempo, più tempo che spazio. Papa Francesco, sulla scia della Pacem in terris, delinea ben quattro principi (E.G., 222-225) per costruire la pace sociale: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Il primo è appunto questo: il tempo è superiore allo spazio: “Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati. Dare priorità allo spazio porta a diventare matti per risolvere tutto nel momento presente. Dare invece priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però, con convinzioni chiare e tenaci.” (E.G., 223). E' il passaggio cioè dall'essere schiavi a quello di diventare FIGLI. E' una strada lunga, come lungo è il tempo che richiede il perdono, la fiducia nel quotidiano, la forza delle idee nelle scuole, nelle università, per imparare a stimare tutti i popoli, per apprendere l'arte, non della guerra, ma della pace, dell'amore. In questo tempo superiore allo spazio si innesta una splendida figura che ci ha lasciato in questo mese, il 5 dicembre: NELSON MANDELA (19182013). Quest'uomo è una vera icona della pace. Ha tracciato, con infinita tenacia e su un tempo lungo, nuove vie di fraternità e di riconciliazione, poiché ha attraversato tutte le tentazioni che hanno segnato, anche con tristezza e gemito, l'intero novecento: ha vissuto in prima persona il tempo della lotta, ha sentito il tempo della resistenza, ha sofferto l’incomprensione di molti quando ha iniziato il tempo del negoziati, per giungere infine al tempo della ricostruzione e della riconciliazione. Tenacissimo, forte negli ideali di lungo corso! Scrive in una sua pagina autobiografica: "Ho sempre saputo che nel fondo di ogni cuore umano albergano pietà e generosità. Nessuno nasce odiando i propri simili. Gli uomini purtroppo imparano ad odiare. Ma se possono imparare ad odiare, possono anche imparare ad amare, perché l'amore, per il cuore umano, è più naturale dell'odio!". Basa la sua azione di riconciliazione sulla lotta contro la paura reciproca: i bianchi contro i neri e i neri contro i bianchi. Costruisce sulla fiducia la sua azione per la fraternità, distruggendo nel cuore quel sistema che aveva generato l'apartheid, “ridestando fierezza” e immettendo nel cuore di ogni figlio dell’Africa il concetto fondativo della stima di sé e della responsabilità, per essere protagonisti del proprio destino. Certo, occorre tempo, tenacia, autorevolezza morale, intelligenza strategica, lungimiranza politica. Soprattutto questo ci insegna l'arte di passare dalla schiavitù alla figliolanza: la lungimiranza. Lo schiavo ha prospettive corte, meschine, limitate. Il figlio, invece, guarda lontano, alza il capo. E nel liberarsi, libera tutti. Per cui, il cammino pur lungo, risulta liberante per tutti, tutti liberi dalla schiavitù della paura: “l'oppresso e l'oppressore sono entrambi 12 derubati della loro umanità. Da quando sono uscito dal carcere, è stata questa la mia missione: affrancare oppressi e oppressori. Perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri”. Ecco, allora il frutto di terribili 27 anni di carcere: imparare dal proprio dolore a creare strade di riconciliazione. E’ quello che abbiamo vissuto nella commovente sosta al carcere della nostra città, dove operano circa 180 volontari, in aiuto al cappellano. E’ come ricostruire la fraternità, fondamento della pace. La storia, così, è piena di strade che si incontrano, di uomini che dialogano e di ferite che si possono guarire, perché ogni ferita di sangue possa realmente diventare una feritoia di luce, come abbiamo sempre rivissuto nella nostra storia personale e nella nostra diocesi, qui in Molise, come prima in Calabria. E' infatti il tempo che permette di trasformare le ferite in feritoie di grazia. Da schiavi a figli! Il tempo che supera lo spazio! Fiorisce allora il perdono e purifica la Memoria. IL CUORE CHE CUSTODISCE Nella pace riceviamo ciò che veramente siamo. Ricostituire la pace nel tessuto umano e culturale, sopra esaminati, significa accogliere l'invito divino più grande: restare nell'Amore di Dio! La strada, lo stile di questa accoglienza ci è indicata da MARIA di Nazareth, in questa splendida icona del vangelo odierno: "Tutti quelli che udivano, si stupivano delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose e le meditava nel suo cuore". (Luca 2,19).Maria compie due gesti indispensabili per ricostruire la fraternità e la Pace. Come avvenne ad Assisi, quando il terremoto fece crollare un bel tratto di affresco, all’inizio della basilica superiore. I tecnici, per prima cosa, raccolsero tutti i pezzettini, anche microscopici, che trovarono a terra. Poi, li rimisero in perfetto ordine, ricomponendo l’affresco, in tutta la sua bellezza, pur se ferito! Ecco, questo è lo stile della pace, che Maria di Nazaret,nella grotta di Betlemme, ci insegna. Prima di tutto, non buttare via nulla della propria vita, della propria famiglia o comunità o territorio. Tutto è prezioso, tutto importante. Nulla vada a finire nel cestino. E' la STIMA per ogni persona, per ogni luogo, per ogni tempo della nostra vita. Poi, l'altro gesto, che San Luca, nel suo vangelo sottolinea, è il verbo preziosissimo: “simballein”. Che è il verbo che ci insegna l'arte del ricomporre, del mettere insieme con pazienza infinita tutti i pezzetti del puzzle. Cioè ridare vigore, colore e sapore ad ogni frammento, in un nuovo disegno che permetta di creare un nuovo orizzonte. Per cui, anche i momenti negativi, le tristezze, i peccati, le guerre, le cadute ci insegnano e si fanno scuola. Ecco, perché non ha senso costruire aerei che sono pensati per distruggere, costosissimi che scompaginano un bilancio, se è vero che un solo F35 costa 130.000.000 di euro! Uno solo!Per distruggere. Quanti trattori si potrebbero costruire con lo stesso denaro. Quante aule scolastiche, quanti ospedali!Scuola di vita, appunto, come la viveva don Lorenzo Milani che si fa maestro di pace, a Barbiana, come leggiamo nella celebre sua orazione di difesa davanti ai giudici: L’obbedienza non è una virtù!. Scrive queste meravigliose pagine in difesa della scuola, consapevole che guerra o pace si maturano dentro le aule scolastiche, attorno al tema della VERITA’, primo pilastro della pace, come abbiamo appreso nella sosta presso la nostra importante Università del Molise: "La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E' l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità e dall'altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico. Il ragazzo infatti decreterà, un domani, leggi migliori delle nostre. Allora, il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso". Si riscopre così un altro dei quattro principi che papa Francesco pone per la pace : l’unità prevale sul conflitto! Questa è l'arte di Maria di Nazareth, vera maestra di vita nel suo saper ricomporre in un disegno sempre profetico ogni frammento della nostra storia. "Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato in se tutte le cose: cielo e terra, Dio e uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa unità e riconciliazione di tutto in sé è la pace. Cristo è la nostra pace" (Ef 2,14). Perciò, se andiamo a fondo in questi testi biblici, scopriremo che il primo ambito è la propria interiorità, la propria vita, sempre minacciata dalla dispersione dialettica. Con cuori spezzati infatti sarà difficile costruire un’autentica pace sociale” (n.229).Tante guerre sono nate proprio da qui, da un risentimento, un armistizio ingiusto, come quello al termine della prima guerra mondiale, a Versailles, la inutile strage come l’aveva definita papa Benedetto XV, il 1 agosto 1917. Ecco perché diciamo un NO secco alle “missioni di pace con le armi”! Si scelga invece la strada dei “caschi bianchi”, cioè una presenza di giovani che aiutano, in un volontariato intelligente, nei musei, nella cooperazione agricola, nella scuola, nell’assistenza ai ragazzi! Così si insegnerà l’arte della pace! Queste saranno le vere missioni di pace! Ed il loro frutto resterà perenne nel cuore dei poveri e dei diseredati. Cioè riconciliare i cuori per riconciliare i popoli. Il No alla guerra è allora il Si all’uomo! Solo chi porta la Pace in mezzo al mondo è degno di essere chiamato uomo, perché egli fa del suo simile un prossimo e del suo prossimo, un fratello! Eccoci così al cuore di questa marcia: riconoscerci e vivere da fratelli, poiché siamo FIGLI dello stesso Padre Celeste. Per noi, di Campobasso, è proprio il programma pastorale dell'anno che viviamo! Allora sarà veramente la città della pace, per tutto il 2014! Una meta ambiziosa ma limpida, come le cime del Matese! In conclusione Ripercorriamo i luoghi visitati in questa marcia a Campobasso e comprenderemo che la Pace: è intercessione e preghiera insistente; è scuola di fraternità già nelle aule scolastiche e nel lavoro condiviso; è risanare le nostre ferite perché divengano feritoie già in un carcere, in un passato redento; è accoglienza di tutti, per vincere la cultura dell'indifferenza e dello scarto; è sguardo al volto di Dio e al cuore di Maria, per imparare da loro a stimare, senza permalosità negative, ogni persona. “La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata. Ma è solo l’amore donato da Dio che ci consente di accogliere e di vivere pienamente la fraternità!” (messaggio, n. 10) La Pace allora è proprio il mondo che attende di attuarsi. Però l'apice della sua realizzazione è e rimane sempre la PERSONA, come ci ha insegnato lo studio accurato della Pacem in Terris. Con affetto e gratitudine, + p. GianCarlo, vescovo Fonte: Angelo Levati - Pax Christi (fonte: Angelo Levati - Pax Christi) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1992 Questione di genere Cara piccola, fai tu gli auguri a noi (di Maria G. Di Rienzo) Cara piccola italiana di domani, ho aspettato un po’ ma Grillo per Natale scrive solo a tuo fratello – bambino non nato e tu, vedi un po’ la sfortuna, sei una bambina – per il quale sta “costruendo il futuro”. Si preoccupa del suo giudizio fra venti o trent’anni: “Con che occhi ci vedrai?” “Non sarai tenero”, ma non del tuo. Infatti, il “mondo migliore” che stanno costruendo, piccola italiana futura, non sarà migliore per te. Non possono esserci dubbi. La lettera, dice il suo autore, è stata scritta “anche a nome della comunità che si è raccolta intorno al M5S”, e tale comunità ha chiarito bene cosa pensa delle donne e come le donne devono essere trattate. Se al tuo fratellino si concede di non essere “tenero” nei suoi giudizi, a te è sconsigliato. Te lo faranno capire, i costruttori di futuro, in nome del loro ritrovato “senso di comunità, di umanità universale” (come la lettera spiega) dicendoti gentilmente chi sei: merdaccia, spazzatura, 13 ammosciacazzi, baldracca patetica, cesso, fai vomitare, bruttona, faccia da culo, puttana, schifosa, troia, racchia da sedia elettrica, se ti stuprano ti fanno un piacere. E ti daranno affettuosi consigli: vai in cucina e stai zitta, lavati la faccia con l’acido muriatico, frustrata tromba di più. E si preoccuperanno, giustamente, dell’unico significato e dell’unico scopo della tua esistenza, chiedendo: Ma ce l’hai qualcuno che ti scopa ogni tanto? Sono le cose, piccola italiana non nata, che i costruttori di futuro ripetono ossessivamente alle italiane che sono già nate e che si permettono di avere opinioni a loro sgradite. Il signor Grillo e il suo movimento, firmatari della letterina natalizia, sperano che l’umanità inventi “nuovi paradigmi” perché così “tutto cambierà”. Però non per te. Il paradigma che ti misurerà sarà sempre lo stesso, espresso con l’aggressione sessista che ha lo scopo di umiliarti e che richiede la tua immediata sottomissione e che alimenta lo sterminio delle donne. Un paradigma per cui sarai sempre e soltanto, mia cara bimba non nata, un fodero ambulante per apparato genitale maschile. Se davvero il futuro appartenesse a questi “costruttori” ti suggerirei di pensarci bene, prima di nascere. Però siamo in tante e in tanti a lavorare perché il tuo futuro appartenga a te e ti mostri il rispetto che ti deve come essere umano. Fai tu gli auguri a noi, piccola. Maria G. Di Rienzo, femminista, giornalista e regista teatrale (il suo blog è lunanuvola.wordpress.com/) (fonte: Comune-Info) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1989 Notizie dal mondo America Latina Le donne al centro della resistenza Zibechi) (di Raúl Cinquant’anni fa, Los Bañados di Asunción era una zona adibita a discarica che, con l’arrivo delle grandi piogge, il fiume Paraguay inondava fino a ridurla un pantano. Oggi ci sono strade, chiese, illuminazione pubblica, fontane, ambulatori, centri sociali e scuole. Tutto è stato costruito con il mutuo aiuto ma adesso fa gola alla speculazione immobiliare del progetto Franja Costera. A guidare la coraggiosa resistenza che mette in relazione il mondo rurale e quello urbano, non ci sono i dirigenti sindacali e le grandi organizzazioni contadine, troppo impegnati a sostenere il governo amico del vescovo Fernando Lugo fino al suo rovesciamento istituzionale. Ci sono invece due organizzazioni comunitarie composte prevalentemente da donne. Silenzio e candele. Intorno a un tavolo, in una cucina aperta su un ampio cortile ornato con piante e alberi, donne di ogni età e uomini molto giovani mettono erbe in piccoli sacchetti che sigillano con il calore della fiamma. Bisbigli, risate e candele, un ambiente mistico, spirituale, per un lavoro collettivo che celebra la vita. La sede del Coordinamento nazionale delle lavoratrici rurali e indigene (Conamuri) è un luogo tranquillo che tiene insieme il lavoro con l’intimità, come la vita contadina che in qualche modo riproduce. Le militanti stanno preparando il cibo per la fiera e le produzioni agricole ecologiche, Jakaru Porã Haguã ( “Perchè si possa mangiare bene” in lingua guaraní ), che piccoli produttori e produttrici di varie zone organizzano al centro di Asunción. Il tempo di lavoro è segnato da pause e interruzioni, con racconti, opinioni, sguardi e silenzi. Dal cerchio emana un’energia che induce ad inserirsi. “Le donne possiedono l’8 per cento della terra ma producono l’80 per cento degli alimenti e sono quelle che soffrono maggiormente la fame” si legge su un cartello. La casa di Maria ha un ampio spazio dove prima allevava maiali, una delle principali attività a “Los Bañados”, la zona della capitale soggetta a inondazioni nella quale tre generazioni hanno strappato progressivamente spazio al fiume, sfidando i frequenti straripamenti. Ci offrono acqua fresca e vengono sistemate le sedie su cui prendono posto comodamente le donne del quartiere. Tra loro Carmen, fondatrice del Coordinamento difesa comunitaria (Codeco) e Patricio l’unico uomo del gruppo. Dopo un po’ cominciano a discutere sulle novità de “Los Bañados”, in particolare delle temute opere del progetto Franja Costera, che minaccia di “urbanizzare” un quartiere di 150 mila abitanti che, grazie al lavoro dei residenti, oggi è diventato appetibile per la speculazione immobiliare. L’ultima inondazione, due mesi fa, ha offerto il pretesto alle autorità per replicare la minaccia di sgomberare migliaia di abitazioni. Maria segnala che la strada in cui abita, sarebbe il limite tracciato dal municipio per espellere e demolire. Le due organizzazioni, quella rurale composta da campesinas e indigene e quella urbana, formata dai settori popolari di Asunción, sono molto diverse, ma hanno vari aspetti in comune: la vocazione alla resistenza comunitaria nei confronti dell’attacco del capitale sulle loro vite (si legga: soia e prodotti chimici tossici in agricoltura o speculazione immobiliare), l’essere composte prevalentemente da donne e disposte alla collaborazione con giovani uomini. Nell’analisi di Alicia, la siccità ha colpito migliaia di contadini, che sono stati costretti a emigrare, sono sparite intere comunità, dice, al punto che “non c’era nulla da mangiare nelle campagne”. Lugo non ha mai concesso loro udienza, ma lo stesso ha fatto il Frente Guasù. Il 6 maggio, un mese prima del golpe parlamentare, i movimenti hanno attaccato il Frente in un comunicato, affermando che si comportava peggio della destra. Lugo e la sinistra erano isolati dai movimenti. “e in questa situazione è arrivato il golpe”. Le donne del Conamuri hanno definito un’analisi della realtà sociale e politica, che comprende una precisa autocritica delle organizzazioni contadine. Tra le 23 organizzazioni e movimenti sociali i cui rappresentanti sono stati intervistati, nel libro “Golpe a la democracia”, risalta l’analisi delle donne perchè non si limita a bollare la destra golpista e i grandi proprietari terrieri, ma affronta i problemi e le deformazioni nel campo popolare. Resistere alla speculazione immobiliare La relazione tra città e campagne “Con la fiera cerchiamo di stabilire un rapporto tra la città e la campagna”, risuona una voce dal circolo. “Attraverso il nostro cibo e gli alimenti organici torniamo a mettere in relazione il mondo rurale e quello urbano, un vincolo che l’avanzata della speculazione economica in agricoltura sta distruggendo”. La popolazione rurale supera il 40 per cento malgrado l’incontenibile espansione delle coltivazioni di soia che hanno espulso, dal 1989, quando cadde la dittatura di Alfredo Stroessner, una parte considerevole dei contadini dalle loro terre: nel decennio degli anni Ottanta, il 60 per cento della popolazione paraguaiana viveva in campagna. I governi successivi, compreso quello del progressista Fernando Lugo (2008-2012) hanno destinato il 70 per cento del bilancio riservato all’agricoltura al sostegno dei grandi esportatori agricoli. I nuclei familiari agricoli ricevono solo il 5 per cento della spesa pubblica e solo il 15 per cento delle famiglie ha accesso al credito. Quindici organizzazioni contadine e sociali hanno lanciato una campagna contro la Monsanto, nella giornata mondiale dell’alimentazione, durante l’incontro “Heñoi Jey Paraguay” (Crescita del nuovo Paraguay). Dalla caduta di Lugo, nel giugno del 2012, sono stati autorizzate sette nuove colture geneticamente modificate. Le grandi organizzazioni contadine sono molto indebolite e la loro capacità di coinvolgimento è minima. “L’egemonia dei vecchi movimenti contadini è finita”, dice Perla, da un angolo dando l’avvio agli interventi. “Noi invece non ci indeboliamo perchè ci leghiamo al nuovo che nasce nelle città, come le fiere, e perchè abbiamo tra di noi i giovani”, aggiunge Maria. Interviene Carina: “ Le nostre dirigenti non litigano per le cariche o per danaro, sono sincere”. Ancora Maria: “Non vendiamo le donne, non facciamo patti, non andiamo a negoziare, non ci vendiamo”. E perchè non rimangano dubbi conclude “Siamo l’organizzazione che ha meno progetti con lo Stato” Di nuovo Carina: “L’avere realmente conoscenze e chiarezza dà il potere di fare”. Nell’aria fluttua la critica a dirigenze che nessuno nomina, forse per il dispiacere subito o perchè comunque continuano a essere compagni. Ña Cefe (Donna Ceferina), fondatrice del Conamuri, riflette con grande serenità “Ci vuole un vizio per saper negoziare, quelli che lo fanno, poi escono con la valigetta piena”. z2Pian piano il panorama si chiarisce: molti dirigenti contadini e sindacali hanno rivestito incarichi di fiducia nel governo Lugo e hanno abbandonato la base. Loro non lo hanno fatto. E il non essersi “vendute” le ha legittimate e le ha poste al centro della resistenza al modello incarnato dal presidente del Partito Colorado Horacio Cartese. “ La sinistra in Paraguay ha il fiato molto corto” riflette Alicia. “È segnata da molti intrighi, c’è molto autoritarismo e ci sono molti vizi del capitale. Vizi della destra all’interno della sinistra”. La giovane dirigente del Conamuri fa un esempio: i partiti, come il Frente Guasù, che raggruppa la maggior parte della sinistra, hanno smesso di essere spazi di rappresentanza dei movimenti. “L’unica cosa a cui si pensava lì era il potere e a chi sarebbe stato candidato o candidata”. 14 Dalla sua sedia, Maria non nasconde l’indignazione. Le opere del megaprogetto Franja Costera avanzano inarrestabili. Sono già stati costruiti il Parque del Bicentenario e la Avenida Costanera, anche se pochi sembrano capire il rapporto tra le opere di urbanizzazione e la maggiore inondazione degli ultimi decenni. La sua casa è al limite delle aree che saranno sgomberate per “urbanizzare” Los Bañados. Le aree umide tra la città ufficiale e il fiume Paraguay furono popolate a partire dagli anni Cinquanta da contadini espulsi dall’espansione dell’allevamento. Sono le zone di Asunciòn, soggette alle inondazioni, quelle in cui vivono 150 mila persone, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti della capitale. Il 60 per cento ha meno di 20 anni, l’85 è insediato in terreni di proprietà pubblica e solo il 15 ha un titolo di proprietà. Tutto quello che esiste nei quartieri di Los Bañados, strade, chiese, illuminazione pubblica, fontane, ambulatori, centri sociali e scuole è stato costruito sulla base del mutuo aiuto. Per sistemare i quartieri “è stato necessario organizzare molte fiere alimentari, molte lotterie, feste del pollo o degli spaghetti, sono stati messi in piedi numerosi tornei e collette”. Nelle mappe ufficiali non compaiono queste 17 mila famiglie, ma spiccano le opere in fase di realizzazione. Dal 2007, nel fuoco dell’espansione del modello finanziario che nelle campagne si traduce in monocolture e nelle città in speculazione immobiliaria, è riemerso un vecchio progetto che gli abitanti ancora non conoscono nella sua interezza, e di cui si stanno rendendo conto mano a mano che i lavori avanzano. Franja Costera propone di “recuperare” 1000 ettari della zona del Bañado Nord e altrettanti in quella del Sud. In quest’ultima si propone la creazione di un parco industriale e la costruzione di un nuovo porto. Nella area Nord intendono riempire una metà con “investimenti privati” che comprendono 82 ettari per un campo di golf con relativo resort, 20 ettari per un parco telematico, 22 per un centro congressi e 113 ettari destinati ad aree residenziali. Ci sono poi i 500 ettari della riserva ecologica, decisa alle spalle della popolazione, perchè lì sostano gli uccelli migratori provenienti dal Canada. La riserva circonda l’esclusivo Club Mbiguà. Il Parco del Bicentenario era stato inaugurato durante il governo di Lugo e, nel 2012, era stata la volta della Avenida Costanera, quattro carreggiate su un gigantesco terrapieno sulla riva del fiume, diversi metri sopra le case più povere della città. Gli abitanti danno fastidio. Quando la municipalità consegnò 22 ettari all’impresa che doveva realizzare i servizi sanitari, considerò che in quell’area vi erano solo sette famiglie, ignorando che in realtà si trattava di 420 famiglie residenti lì da più di venti anni. Si tratta di investimenti immobiliari di lusso come il Centro di eventi Talleyrand Costanera o il Complesso Barrail, torri per uffici e residenze, banche, supermercati e ogni genere di negozi con l’ulteriore attrattiva della vista della baia. Insomma, la speculazione urbanistica dà l’assalto a Los Bañados, mettendo a serio rischio il futuro dei suoi abitanti. “Dove andremo? Abbiamo trascorso qui tutta la vita” sbotta Maria. Carmen, Ada e Patricio manifestano la stessa convinzione. Il Codeco è nato 12 anni fa, legato al lavoro locale della chiesa di base diretta dai gesuiti di Fey y Alegria. È lì che si sono formati Carmen e una parte dei residenti che hanno lavorato per migliorare il quartiere e che ora lottano per non essere trasferiti. “ La grande avanzata delle opere della Franja è avvenuta durante il governo Lugo; poichè era un ‘governo amico’ la gente aveva abbassato la guardia”, dice una delle abitanti. Il Codeco organizza undici quartieri, ognuno con la sua commissione di cittadini residenti che si considerano comunità, e l’associazione dei riciclatori che conta 50 soci e socie che oggi lavorano con motofurgoni. Il coordinamento abbraccia tra le sei e le sette mila famiglie e, come sostiene Ada, le donne sono quelle che sostengono tanto l’organizzazione come le loro famiglie”. Delle trenta persone che formano il nucleo del coordinamento, 26 sono donne e si riuniscono tutte le settimane oltre a tenere le loro riunioni nei quartieri e con la amministrazione. “Vi è una relazione tra il sostenere la famiglia e il sostenere la lotta e la organizzazione” riflette Ada. Loro sono impegnate nel riciclaggio dei rifiuti, lavoro cui collabora tutta la famiglia, e sono sempre loro a curare gli animali domestici, ricavano cibo per i maiali e vendono il cartone riciclato. “Gli uomini sono più distanti dalla vita comunitaria, preferiscono lavorare fuori dal quartiere come guardiamacchine o in edilizia, mentre le donne si occupano dei figli che lavorano insieme ai padri dopo la scuola”. Scommettere su una nuova cultura politica “Quando abbiamo cominciato a lavorare con gli uomini è stato molto complicato” dice Perla. “Per questo lavoriamo solo con uomini giovani”. La decisione risponde alla “speranza riposta nella possibilità che questi processi producano nuove relazioni di genere ed è tra la gioventù che esse vanno costruite”. Perla sostiene che “ le metodologie con la gioventù sono più empiriche, come i campeggi, gli scambi, le pratiche” ed è nella convivenza quotidiana che salta fuori quello che si è imparato. Le militanti del Conamuri sostengono un “femminismo popolare e contadino” su cui lavorano intensamente nei loro corsi interni, in particolare nei Corsi di formazione per le Pytyvõhára (facilitatrici o educatrici). Nei quaderni di formazione sostengono che il genere è una costruzione storica “che comprende donne, uomini e i diversi orientamenti sessuali, per questo parliamo di generi al plurale”. Le donne del Conamuri non lottano contro gli uomini ma contro il patriarcato e si autodefiniscono “anticapitaliste, antipatriarcali e socialiste”. Propongono la costruzione di nuove relazioni tra donne e uomini, la democratizzazione del lavoro domestico, la partecipazione negli spazi di potere e di assunzione delle decisioni e, infine, “la crescita nella nostra autonomia individuale, economica e politica per poter assumere le nostre decisioni”. L’auto-educazione, l’auto-cura e l’autostima alimentano l’orgoglio per l’organizzazione delle donne che appartengono al Conamuri. Questa forza ha consentito loro di superare “le campagne di altre organizzazioni contro Conamuri”, come dice una delle donne mentre pone le foglie nei sacchetti nella cucina dell’organizzazione. Perla va più in là: “ Da quando abbiamo inserito i ragazzi, li discriminano, dicono loro che vanno al Conamuri perchè non hanno la stoffa per essere dirigenti”. Un paio di ragazzi muovono la testa assentendo. “Nelle grandi organizzazioni non consentono la partecipazione ai giovani e stiamo verificando che nel Conamuri non decidono in due o tre persone, ma tutte quante insieme”, dice uno di loro. Ña Cefe ricorda che gli stessi “vecchi maschi” che comandano nelle organizzazioni si prendevano gioco di loro, nel 1998, quando si separarono per costituire il Conamuri. “ Che cosa vanno a fare queste vecchie incazzate”, dicevano. Perla ricorda che gli attacchi violenti che subirono le costrinse ad uscire dal Movimiento Campesino Paraguayo (Mcp). “Non siamo contro gli uomini, vogliamo procedere insieme. Con Lugo tutti i dirigenti contadini si candidarono, si scontrarono tra di loro per gli incarichi di responsabilità e persero le loro basi”, insiste Ña Cefe. “ La stessa dirigenza andò in crisi per aver dato una lettura molto superficiale del governo progressista. Oggi il movimento contadino non è più egemonico, mentre la dirigenza ha perso il controllo della base e la capacità di analisi”, riflette Perla. Tra i 15 movimenti paraguaiani predomina un clima di confusione e disarticolazione, di crisi e incertezza, in uno scenario dominato dall’avanzata travolgente della destra, con progetti di privatizzazioni, che favorisce ancor più i grandi proprietari rurali e i grandi speculatori immobiliari. Predomina anche la sensazione che qualcosa si sia esaurito, che non si può andare avanti continuando sulla strada che ha mostrato tanti limiti. Codeco scommette sui giovani. Nel 2012 hanno organizzato un corso di comunicazione radiofonica approfittando del fatto che la parrocchia del quartiere aveva messo a loro disposizione la radio comunitaria. Al corso hanno partecipato 30 ragazzi e ragazze e alla fine del corso 10 di loro hanno iniziato un programma radiofonico con l’aiuto di una donna dell’organizzazione.“Di solito si tratta di figlie di figlie di persone del Codeco. Alcuni partecipavano insieme alle madri alle riunioni e alle attività. Sono amici tra loro e, siccome tutti lavorano, non hanno problemi ad assumere responsabilità” spiega Ada. L’esperienza del Conamuri, anche se sono organizzazioni ben distinte, è simile. L’ingresso massiccio di donne giovani e provenienti dalla base, di ragazzi, spesso figli di militanti, sta determinando un cambiamento profondo nella cultura politica. In pochi anni si è realizzato un “esercizio di distribuzione del potere” , attraverso un percorso di discussioni e crescita delle competenze interne organizzato da loro stesse a partire dalla storia del Paraguay, delle lotte contadine, della dittatura. Inoltre le donne lavorano con grande impegno in famiglia, con figlie e figli, ma anche con i loro compagni, e a volte si determinano delle rotture. Magui Balbuena, fondatrice e referente del Conamuri mi ha spiegato anni fa che stava lasciando il ruolo centrale che aveva rivestito nell’organizzazione. Sua figlia Martha mi anticipò che stavano cominciando ad inserire dei ragazzi. C’è qualcosa nelle organizzazioni in cui predominano donne e giovani che le rende diverse. Non a caso la metà degli zapatisti ha meno di 20 anni e moltissime sono le donne. Sono i settori meno inquinati dalla cultura politica egemonica. A Los Bañados hanno affrontato una condizione conflittuale con un ragazzo dell’organizzazione e la stanno superando sulla base di un processo di critica, autocritica e fiducia reciproca. Si governa il conflitto in maniera diversa “assumendo le differenze con l’altro”. L’esperienza del Conamuri “è grandiosa” dice una donna che lavora con un gruppo di altre donne. “Si auto-regolano, si autocontrollano, in maniera educativa, senza aggressività, ma con senso di responsabilità e impegno. Anche se fa male, noi le cose le diciamo in faccia”. Fiducia, verità e spirito comunitario fanno sì che i conflitti non dividano. “Non si nascondono le critiche perchè se lo si fa, poi esplodono e rompono tutto”. Non c’è un tempo dettato dall’orologio, ma ci sono i tempi di ciascuna persona. Una volta o l’altra, bisognerà dare un nome a questa nuova cultura politica che comincia a farsi strada negli spazi dove l’individualismo e il machismo sono sotto controllo. Per adesso, è sufficiente riconoscere che alcuni movimenti, non istituzionalizzati, con forti legami con le basi, comunitari e con modalità di lavoro molto orizzontali, stanno rinnovando la cultura politica. Un passo indispensabile per raddoppiare le resistenze. Questo reportage è uscito anche sul sito del Programa de las Américas Traduzione per Comune-info: Massimo Angrisano Bañados de Asunción: La potencia de la comunidad di Raul Zibechi (2008) Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo. In Italia ha collaborato per dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. Il suo ultimo volume è uscito per ora in Messico, Cile e Colombia ed è intitolato Brasil potencia. (fonte: Comune-info) link: http://comune-info.net/2013/12/le-donne-al-centro-della-resistenza/ Siria Sì, è possibile (di Joumana Haddad) Rifugiati siriani in Libano hanno bisogno di aiuto urgente, e si può fare qualcosa al riguardo Io non credo nei miracoli. Non credo negli angeli e nei demoni, nel paradiso e nell'inferno, in resurrezioni divine che trasformano l'acqua in vino. Ma credo negli esseri umani, con tutta la loro meravigliosa pluralità e la diversità che li arricchisce. Credo nella loro naturale capacità di essere dignitosi, premurosi, generosi e gentili, e non perché si aspettano un qualche tipo di ricompensa in cambio, nel loro impulso innato a sentire la sofferenza degli altri e di stendere una mano invece di pensare che qualcun altro ha avuto modo di farlo, nel loro desiderio intrinseco di essere migliori, più dolci, più affettuosi, premurosi e generosi. Quelle persone sono, in un certo senso, i miei dei: uomini e donne che vanno oltre con il loro modo di consolare e aiutare chi ha bisogno di consolazione e di assistenza, uomini e donne che in realtà vedono chi è nel dolore sotto il silenzio scintillante e superficiale della loro comodità e fanno qualcosa al riguardo, gli uomini e le donne che si occupano di altro che del loro proprio benessere, uomini e donne che non sono ebbri di indifferenza, egoismo e apatia, e che non interpretano lo spirito della festa, come l'ultimo cappotto di visone di Michael Kors. Quelli sono i miei dèi poiché ripristinano la mia fede nell'umanità e il vero significato della condizione umana. E ho avuto la fortuna di incontrarne molti di recente: non in una chiesa, non in una moschea, ma per le strade di questo paese fatiscente. Li ho visti alla raccolta di abiti, coperte e giocattoli per i profughi siriani indigenti, ho visto la loro distribuzione di carburante, medicinali e stufe a famiglie i cui bambini stanno morendo dal freddo, e li ho visti, soprattutto, offrire sorrisi, abbracci e genuino amore senza speranza, alle persone in difficoltà cui non è rimasto nulla se non la loro disperazione. Ci sono così tante campagne civili in corso in questo momento in Libano, abbiamo solo bisogno di fare la nostra scelta e partecipare ad una qualsiasi di esse. Prendete l’iniziativa NON SONO UN TURISTA, o la campagna "libanesi per profughi siriani" per esempio. La vista di quei giovani uomini e donne che, volontariamente, lavorano insieme, e riescono a riempire 25 camion di donazioni essenziali, poi vanno fino alle montagne di Arsal e distribuiscono alle famiglie siriane in disperato bisogno di tutto e di più, è commovente non dire altro. Queste persone sono il vero spirito del Libano. So che alcuni di voi stanno pensando: " Non abbiamo il tempo, non abbiamo l'energia, la nostra vita è troppo complicata ed è già difficile come è. " Beh, non c’è bisogno di alzarsi alle quattro del mattino per andare ad Arsal. Vedete quei ragazzini e quegli anziani sparsi per le strade della vostra città che si incontrano sempre sulla strada per andare al lavoro? Quelli a cui, dici a te stesso, non si dovrebbe dare soldi al fine di non incoraggiare l'accattonaggio? Quelli che piagnucolano e si lamentano? Beh, non dare loro i soldi. È possibile raccogliere una pila di bei vestiti vecchi, coperte, oppure i giocattoli e metterli in auto, e ogni volta che si incontra uno di loro, lui o lei si potrebbe dare, a seconda della loro età o delle loro evidenti necessità, una buona giacca, o un paio di scarpe calde, o un giocattolo che il vostro bambino ha superato, o un mantello di cui si può fare a meno. Anche le calze sono le benvenute, o dei biscotti fatti in casa. E dare tutto con un sorriso. Dare tutto con amore e compassione. Credetemi: fareste anche un favore a voi stessi. E mentre si sta facendo tutto questo, smettere di lamentarsi che stanno 16 rubando i vostri lavori, violentando le vostre ragazze, minacciando la vostra economia e la sicurezza. Mettetevi nei loro panni per un minuto: non è così improbabile che ciò accada aanche a voi. In un tale disastro di paese, potremmo trovarci nella loro posizione, un giorno, e prima di quanto si possa o si voglia immaginare. Ogni individuo conta. Cambia inizia con una sola persona. E che ci crediate o no, avete il potere dentro di voi per portare un cambiamento colossale in questo paese attraverso l'amore e l’empatia, attraverso piccoli dettagli. Si importa. È possibile. E la prossima volta che vi capita di sentirvi apatici, chiudete gli occhi e immaginate di svegliarvi per trovare il vostro bambino di nove mesi congelato a morte. Cambierete così la vostra prospettiva. Se così non fosse, allora si può tornare a credere nell’inferno. Che non è dove stai andando. Ecco è dove già sono. (fonte: IPRI-Rete CCP ) link: http://www.reteccp.org/primepage/2013/siria13/sullasiria181.html Associazioni / Corsi Incontrarsi attraverso lo psicodramma. Suonare i tasti del cuore: alla ricerca della libertà e gentilezza verso sé - "di cosa parliamo quando parliamo d'amore: materno e paterno" L'incontro si terrà sabato 25 gennaio prossimo, dalle 9.30 alle 17.30, a Massa, presso la scuola “Teresa Vallerga”, via S. Francesco 1 (g.c.). La giornata sarà dedicata alla conoscenza reciproca, alla creazione del gruppo e all'esplorazione del tema Amore attraverso tecniche di consapevolezza corporea e di ascolto di sé, psicodramma e piccole suggestioni Mindfulness. Ciascuno avrà la possibilità di so-stare nell'ascolto di sé e dell'altro e delle risonanze che il tema genera dentro e fuori, esprimendo liberamente alcune delle parti di sé che verranno illuminate dal cono di luce maternopaterno. Anticipo qui alcune regole che ci daremo durante la giornata a sostegno della libertà di espressione del proprio vero sé: - riservatezza - non giudizio - sospensione della risposta E un po' di letture sulle quali posare il respiro ogni tanto: “il figlio ha bisogno del padre per avere accesso alla sua fonte e il padre ha bisogno del figlio per aver accesso al futuro e all'infinito” -Thich Nath Hanh “L'amore materno è la prima fonte di amore che assaporiamo, l'origine di tutti i sentimenti d'amore, la mamma è la nostra prima maestra di amore, che nella vita è la materia più importante. Da lei ho acquisito le prime nozioni sulla compassione e sulla comprensione. Con l'amore si abbrevia la distanza tra intenzione e azione”-Thich Nath Hanh “il vero amore contiene l'elemento della gentilezza amorevole e della compassione; i quattro mantra dell'amore: “sono qui per te”, “sono qui per te e sono felice”, “vedo che soffri, sono qui con te”, “soffro per causa tua e ti chiedo aiuto”. Thich Nath Hanh “Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto” (Discorso all'umanità, C. Chaplin- Il grande dittatore) (fonte: Valeria Maggiali - segnalato da: Gino Buratti) link: http://www.aadp.it/dmdocuments/evento1655.pdf