Direzioni (anni) zero - Indipendenti dal Cinema

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Direzioni (anni) zero - Indipendenti dal Cinema
Intervista con Alessandro Riva, regista di
"Direzioni (anni) zero"
Raccontare la breve esistenza di una band underground,
sconosciuta ai più, e al contempo raccontare lo
spiazzamento esistenziale di una generazione è la stimolante
impresa che si prefigge il giovane video maker Alessandro
Riva con il medio metraggio Direzioni (anni) zero- A
Somewhere Between Document. Influenzata dall’Indie
Rock anni Ottanta e Novanta, la formazione dei Somewhere
Between ha segnato un periodo particolare della scena
musicale torinese, periodo che Riva rievoca con ricchezza di dettagli e notazioni. Al giovane regista
abbiamo chiesto di approfondire alcuni aspetti della sua opera.
Il tuo mediometraggio riesce a mio modo di vedere a fondere perfettamente il registro
documentario con quello finzionale; come sei riuscito a raggiungere un simile equilibrio?
Difficile dirlo, la risposta penso sia riscontrabile nel lungo lavoro di montaggio, che per me
rappresenta la fase creativa più stimolante, e che tra scremature, versioni alternative e continui
rimescolamenti degli equilibri, è durata circa due mesi e mezzo. Importante è stato però anche il
lavoro di stesura delle singole componenti finzionali e di testimonianza, che ci ha permesso di
conservare una sorta di linea guida narrativa per ogni situazione o personaggio anche in fase di
ripresa, dove spesso l’improvvisazione e gli imprevisti hanno giocato carte decisive e inaspettate.
La scelta di raccontare il gruppo indie Somewhere Between, ben si presta ad illustrare lo
“spaesamento” di una generazione, che poi è la tua. Come ti sei avvicinato a questo
gruppo?
Tra il 2006 e il 2007 ho vissuto la loro breve storia da molto vicino, sia tramite amicizie in comune,
sia grazie al fatto che mi ero ritrovato a girare del materiale con loro già in quegli anni di effettiva
attività del gruppo. Nel documentario infatti le riprese virate al bianco e nero risalgono proprio a
quel periodo. La scintilla è nata tempo dopo, quando finalmente ho capito di cosa doveva trattare il
mio primo lavoro; ovvero di una storia, nel suo piccolo, simbolo della mia personale visione della mia
stessa generazione.
Indubbiamente il film pur ambendo ad una dimensione
“universale” è anche un film su Torino. Che Torino hai
voluto restituire nel mediometraggio?
Mi fa piacere che molti torinesi vi vedano un ritratto realistico e allo stesso tempo simbolico dei
cambiamenti che Torino ha vissuto nell’ultimo decennio. Allo stesso tempo però, devo dire che nelle
mie intenzioni, l’immagine che ho dato della città è stata in primo luogo funzionale alla narrazione e
ai protagonisti. In questo senso con Torino ho forse cercato di ottenere un rapporto empatico che
privilegiasse il mutare delle atmosfere, più che puntare a una disamina sociale approfondita.
Ho letto che hai utilizzato una troupe leggera… puoi dirmi qualcosa di più sulle condizioni
produttive che hanno caratterizzato Direzioni (Anni) Zero?
Il fatto di aver trovato un produttore che all’inizio ha creduto nel progetto e ha deciso di investire
nella sua realizzazione mi ha senz’altro aiutato nell’avere un punto di riferimento e di confronto. La
scelta di una troupe il più possibile ridotta andava nella direzione di mantenere un approccio libero e
costantemente aperto, dove le variazioni o gli imprevisti potessero avere un ruolo decisivo. Penso ad
esempio alla pioggia e al modo in cui abbiamo deciso di utilizzarla all’interno della storia.
Una cosa che forse sento che mi appartiene poco, e che ho cercato in tutti i modi di tener lontano
almeno in Direzioni (Anni) Zero, è il linguaggio stereotipato del videoclip, che un po’ mi annoia e che
spesso trovo superficiale e fine a se stesso.
Il sonno di Endless: intervista a regista e
sceneggiatore
Sono attualmente in corso le riprese di un lungometraggio completamente indipendente dal soggetto
indubbiamente intrigante: cosa succede a un uomo che riesce a non dormire per cinque giorni di
seguito? A quali conseguenze porta la privazione del sonno?
Endless, questo il titolo del film, è prodotto dalla Tauron Movie, diretto da Marco Flammini e
scritto da Patrizio Trecca.
Patrizio Trecca ha studiato all’Accademia del Cinema di Bologna, ha seguito un workshop all’UCLA e
sta contemporaneamente ultimando un film da regista, Luigi Tenco: l’angelo senza spada. Marco
Flammini ha frequentato l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata a Roma ed è
reduce da un’esperienza come direttore della fotografia del corto Il turno di Domenico
Diele, Endless è la sua prima prova alla regia.
Proprio a Flammini e Trecca abbiamo chiesto lumi su un progetto avvolto, volutamente, in
un certo mistero …
-State girando un film sul tema della privazione del sonno, e su
quanto questa possa essere terapeutica ai fini della cura di fobie e
traumi. Come nasce l’idea di affrontare questo particolare
soggetto?
Non è appropriato definirlo un film sul tema della privazione del sonno. E’ la storia di un soggetto
che si sottopone alla terapia di privazione del sonno totale, poiché uno psichiatra piuttosto
conosciuto, seguendo le orme del padre, porta avanti la teoria secondo la quale questo metodo
curerebbe i traumi. Ne conseguirebbe che anche i principi di patologie serie quali bipolarismo,
manie e, nei casi più gravi, manifestazioni schizofreniche, potrebbero essere prevenute o addirittura
curate. Tutto è partito quando abbiamo scoperto che tale terapia è stata applicata parzialmente su
soggetti che soffrivano fobie più o meno radicate, dando buoni frutti. Andando oltre, quindi portando
la terapia ad una privazione totale per qualche giorno (nei limiti fisiologici ovviamente), si può
arrivare come dire…a guarire il subconscio. Tutto questo per creare una situazione in cui il conscio
metabolizza il passato, i traumi; cose che influiscono sulla crescita di ogni individuo. Siamo tutti
malati, ma non diamo peso a questa cosa, perché ci illudiamo di essere puliti. Lo scopo
della terapia sarebbe quello di abolire, o quantomeno evitare l’utilizzo di psicofarmaci e far
capire alla gente che il cervello è in grado di curarsi da solo, quando si vuole. A un veleno si
risponde spesso con un veleno, il discorso è esattamente lo stesso, anche se più complesso e
ambizioso. La domanda che ci poniamo a questo punto è: come reagirebbero le case
farmaceutiche?
A conti fatti però, noi la definiremmo più una storia d’amore.
-Chi sono gli interpreti del film, e quale ne sarà la durata?
Per ovvi motivi gli interpreti non possono ancora essere rivelati, quello che possiamo dire è che
questo soggetto cinematografico ha attirato l’attenzione di molti. Non durerà più di 100′.
-Con quali attrezzature tecniche state realizzando il film?
Quali sono le location?
Abbiamo optato da subito per l’utilizzo del digitale. Le C300 sono state ritenute le macchine più
appropriate sia per il rapporto qualità – prezzo, sia per la praticità. Inizialmente si era anche pensato
all’utilizzo del 3D, ma ci sono storie da 3D, altre no. Questa non lo è, la tridimensionalità avrebbe
solo sviato l’attenzione dello spettatore.
La location principale è Roma, oltre a qualche sprazzo girato nei dintorni.
-A livello produttivo, il film è completamente “indipendente”, o avete qualche partner
“istituzionale”?
La base è indipendente ma, come detto prima, il soggetto ha attirato l’attenzione di molti, e tra
questi anche di alcuni partner istituzionali e privati. Diciamo che abbiamo realizzato una specie
di “crowdfunding”, sistema che sta prendendo sempre più piede in Italia, anche se decisamente in
ritardo rispetto al resto del mondo. Un apporto fondamentale ci è stato fornito da Paolo Zanotti, che
ringraziamo enormemente perché è uno che ama il cinema e crede nei giovani.
-Quale sarà il titolo definitivo del film e quali i canali distributivi che verranno attivati?
Il titolo definitivo è, e sarà, Endless. È stato scelto con molta cura, perché … beh, perché sì. Chi lo
vedrà, capirà di certo. Il film è destinato alle sale e speriamo di approdare a qualche festival
prestigioso.
"Dreaming Alaska", intervista con il
regista Emanuele Valla
Un “piccolo” film italiano sta mietendo successi e riconoscimenti nelle
kermesse cinematografiche d’oltreoceano, a conferma che quando il
prodotto è di qualità nessuna strada distributiva è preclusa al nostro
cinema indipendente.
Completamente autoprodotto, realizzato fuori dai tradizionali canali dell’audiovisivo
patrio, Dreaming Alaska racconta la storia di due giovani, Alan e Thomas, cresciuti con il desiderio
di girare un film.
Nel frattempo Alan è diventato un geologo di fama internazionale e Thomas si è affermato come
regista televisivo: ma entrambi covano delle insoddisfazioni, delle irrisolte frustrazioni che li portano
ad accarezzare di nuovo il sogno di quando erano bambini.
Emanuele Valla, il regista del film scritto con l’amico di sempre Dario D’Ambrosio, ci racconta in
esclusiva qualcosa di più di questo lungometraggio dai chiari risvolti autobiografici.
-Il progetto del film viene da lontano: la prima idea credo risalga al 1996, l’anno del
cortometraggio Alaska.
Il 31 dicembre del 1995 a Felino (provincia di Parma), dove abito, c’è stata una nevicata pazzesca,
tanto che insieme all’amico Dario D’Ambrosio, eravamo entrambi poco più che decenni, pensammo
di prendere in mano la telecamera regalatami a nove anni e inventarci una storia che sfruttasse
quella inedita condizione meteorologica. Così, di getto, servendomi della macchina da scrivere, ho
redatto una sorta di copione di Alaska, che poi abbiamo girato nel prato dietro casa. Io e Dario, con
molta immaginazione, interpretavamo i due più grandi geologi degli States mandati dal Presidente
nelle impervie terre di ghiaccio del titolo, alla ricerca di una pietra dai poteri curativi.
-Hai definito Dreaming Alaska un lungometraggio
zero-budget, come sei riuscito a realizzare un film così
complesso senza significativi investimenti economici?
Quali mezzi tecnici di ripresa hai utilizzato?
Abbiamo speso tra produzione e post-produzione €10.000, quindi rientriamo nello “zero budget”.
Questo è stato possibile perché il team creativo è formato da una squadra di amici e conoscenti, con
un’ amalgama davvero esemplare di “esordienti” appassionati e di nomi di prim’ordine del
panorama del musical italiano, come Tania Tuccinardi, Gian Marco Schiaretti e Gaetano Caruso
(Giulietta, Mercuzio e Tebaldo nell’opera moderna Giulietta e Romeo di Riccardo Cocciante) e
soprattutto il grande Fabrizio Voghera (Quasimodo e Frollo in Notre Dame De Paris e Frate Lorenzo
in Giulietta e Romeo, sempre di Cocciante). Nessuno dei coinvolti ha ricevuto alcun compenso.
Nemmeno i professionisti. Si è trattato sostanzialmente di una sfida personale: dimostrare che si può
fare cinema avendo come motore fondamentale la passione e il fare squadra, in un periodo
oltretutto segnato da pesanti tagli alla cultura. Abbiamo utilizzato una telecamera Sony NEX-VG10
(formato AVCHD 1080i), con la quale siamo riusciti ad ottenere una profondità di campo, una
definizione e un’intensità di colori che credevamo possibile solo su prodotti di fascia
altissima.
-Più che un luogo fisico l’Alaska del titolo è soprattutto un luogo dell’anima, un’utopia…
L’Alaska del titolo rappresenta il sogno tenuto chiuso troppo a lungo da ognuno di noi in un
cassetto. Dreaming Alaska è una dramedy, in parte autobiografica, ma è soprattutto un film che
celebra la vita in tutte le sue sfaccettature, dall’ironia alla commiserazione.
-In base a quali criteri hai individuato i luoghi delle riprese?
Il film è ambientato nelle Dolomiti, che però non vogliono essere un surrogato dell’Alaska; le ho
scelte perché i miei genitori mi ci hanno portato fin da piccolo, trasmettendomi la passione per
questi posti meravigliosi, passione che con il tempo è diventata consapevolezza che sono veramente
luoghi in cui staccare la spina da tutto e potersi rigenerare. Ed è infatti qui che Alan e Thomas, i
protagonisti, s’ incontreranno dopo anni di silenzi per tessere le fila della loro amicizia.
Oltretutto, abbiamo potuto contare sulla totale disponibilità di amici e conoscenti della Val di
Fassa, che ci hanno aperto le porte di alberghi e case per rendere questo nostro sogno realtà. Senza
questa sintonia, realizzare Dreaming sarebbe stata pura utopia.
-Ho letto che il tuo film ha avuto dei passaggi in prestigiosi festival internazionali, ma
quali sono ora le prospettive distributive del tuo lungometraggio?
Il film (disponibile anche con sottotitoli in inglese) è stato iscritto a circa centoventi concorsi
internazionali e a dieci nazionali. Qualche possibilità di distribuire il film in Nordamerica esiste, ma
per noi è già un sogno aver realizzato un film di 112 minuti.
Lupo della notte
Non sono molti i film italiani che raccolgono la sfida del cinema di genere, pertanto non si può che
salutare con piacere il mediometraggio Lupo della notte, un action movie di chiara derivazione
anglosassone, ma declinato in un contesto spiccatamente italiano.
Caratterizzato da una fotografia notturna, da colori lividi e spenti, il film
di Giovanni Ficetola e Matteo Fontana presenta più di un debito con classici della cinematografia
d’oltreoceano: il modello più vicino è sicuramente quello del sopravvalutato film di David
Fincher Fight Club, che, con il suo impasto di violenza grafica e filosofemi, nel tempo ha guadagnato
legioni di estimatori.
Il merito dei due giovani registi è proprio quello di spogliare
la storia da elementi “sociologici” troppo evidenti, per
mettere in scena una discesa agli inferi cruda e senza
catarsi, potendosi valere di un apprezzabile gruppo di
stuntmen, il Flyng without Fear Stunt Team.
Lo stuntman e attore Daniele Balconi è il Lupo del titolo: un ragazzo che, per salvare dal degrado
della prostituzione la sorella minore della fidanzata, è stato costretto a rivolgersi ad un racket di
usurai.
Il bisogno di soldi lo porta a cadere nella rete degli incontri clandestini, in cui le arti marziali si
contaminano in combattimenti all’ultimo sangue per la gioia di scommettitori senza scrupoli …
Lupo incontra anche una misteriosa dark lady (interpretata da Luisa Gallia, bravissima), che lo
affascina fino a far perdere i confini della normalità ad un’esistenza che cambia letteralmente dal
giorno alla notte.
Nel presentare il film, dicevamo, più di un recensore ha fatto riferimento a Fight Club, anche se
forse il magistero che più ha influenzato il film è quello di Blade Runner: come nel film di Ridley
Scott anche in quello di Ficetola e Fontana il racconto si sviluppa in un ambiente quasi postapocalittico, decisamente cupo e senza nitidezza cromatica.
Costato appena 10.000 euro, realizzato con tutti i crismi della professionalità, Lupo della notte è
la chiara dimostrazione di come si possa ancora frequentare con esito positivo il cinema
d’azione.
La casa di Ester
La violenza domestica è un tema purtroppo sempre attuale, ma
raramente lo abbiamo visto affrontato in un cortometraggio. Per questo
non si può che accogliere con piacere La casa di Ester di Stefano
Chiodini, un breve film che mette il dito nella terribile piaga.
Una giovane donna mentre sta mettendo ordine tra le cose della madre, da poco scomparsa, ritrova
un disegno in cui bambina si era ritratta insieme ai genitori, con impresso un vecchio numero
telefonico.
Mossa da un irrazionale desiderio di riannodare i fili col passato, Ester compone il numero: dall’altro
capo del telefono risponde una voce di bambina… Nel frattempo, il marito rientra in casa con un
regalo per la moglie…
Il cortometraggio di Chiodini da un lato sensibilizza lo spettatore permettendogli di riflettere sullo
spinoso argomento, d’altro offre un’opera egregiamente impaginata grazie anche alla bravura dei
due ottimi protagonisti.
Cecilia Dazzi interpreta la vittima, mentre il violento consorte fruisce della recitazione nervosa di
Sergio Albelli, già paterfamilias nel film di Paolo Virzì La prima cosa bella e partigiano in Miracolo a
Sant’Anna di Spike Lee.
Cecilia Dazzi, che ha nel suo curriculum film come La famiglia di Ettore Scola e Il caimano di Nanni
Moretti, nonché il testo di una fortunata canzone di Niccolò Fabi presentata al Festival di Sanremo
“Capelli”, regala intensità a accenti di umana verità a un personaggio quanto mai difficile,
sospeso tra moduli realistici e onirici, capace di sfumature ineffabili e quasi impercettibili.
Non per niente, la Dazzi ha avuto per questo ruolo una menzione speciale ai Nastri d’argento.
Ma non meno bravo è Albelli, che passa dall’essere un
marito affettuoso, così almeno ci appare all’inizio, a un
picchiatore selvaggio in un’escalation di violenza ben
calibrata nei tempi e nei modi di una recitazione
asciutta e al contempo caricata.
Il racconto, dicevamo, si ancora ad un sostanziale realismo, contraddetto però da passaggi
“fantastici” in cui i piani temporali si sovrappongono, arricchendo la storia di imprevedibili
digressioni narrative che interpellano l’intelligenza dello spettatore, indotto a ricostruire un suo plot.
In ciò emerge l’abilità del regista Chiodini, attento a non calcare troppo la mano, lasciando margini
all’interpretazione di chi guarda.
Alcune sequenze, di impianto surreale, rimangono nella memoria dello spettatore per la
loro forza icastica, per l’uso creativo della fotografia e dell’illuminazione, senza sospendere
la legittima indignazione per un reato tanto odioso che si sa troppo diffuso.
Già regista di cortometraggi apprezzati come Sotto le foglie, Chiodini, formatosi alla scuola
Immagina di Firenze, ha ottenuto con questo corto il prestigioso Globo d’oro della Stampa Estera e
si propone come una delle migliori promesse del nostro cinema, atteso all’impegnativa prova del
lungometraggio.
In arte Lilia Silvi
Prodotto dagli attori Fabio Grossi e Leo Gullotta, diretto
da Mimmo Verdesca, In arte Lilia Silvi è un documentario
prezioso che restituisce al pubblico la carriera di una delle
più importanti attrici italiane degli anni Quaranta, la
sublime Lilia Silvi.
In prima persona la Silvi, al secolo Silvana Musitelli,
racconta la sua vita e la sua straordinaria avventura artistica
senza reticenze né pudori, facendo emergere la schiettezza e
l’umanità che la contraddistinguono.
E proprio in questo risiede una delle qualità principali del
film di Verdesca: la Silvi è una donna talmente ricca di
talento comunicativo e simpatia che è sufficiente riprenderla senza fronzoli od orpelli visivi; un
primo piano è la misura ideale perché le sue parole arrivino al cuore e alla testa dello spettatore.
Non pochi sono infatti i passaggi emozionanti, come il ricordo del marito, il calciatore Luigi
Scarabello, ala del Genoa e campione olimpico nella Berlino nazista del 1936, o la rievocazione
dell’affettuosa amicizia con Amedeo Nazzari, con il quale interpretò grandi successi dell’epoca
come Dopo divorzieremo e Scampolo, entrambi diretti da Nunzio Malasomma.
Ma la Silvi è stata soprattutto una delle attrici più complete del nostro cinema dei primissimi
anni quaranta, un’attrice in grado di recitare con scioltezza e intensità, versata nel dramma come
nella commedia, con una voce impostata da cantante che le ha permesso di eccellere in ruoli che
presupponevano anche momenti musicali, come quello della bizzosa ragazzina de La bisbetica
domata di Ferdinando Maria Poggioli.
A ciò si aggiunga la perfetta padronanza del corpo, che gli derivava dalla pratica del ballo, coltivato
fin dalla più tenera età, e un’avvenenza tutt’altro che banale e molto intrigante.
Nel documentario di Verdesca c’è tutto questo e anche altro, c’è anche l’intento di tratteggiare
un periodo d’oro nella storia del cinema italiano, attraverso le parole del docente universitario
Orio Caldiron, i cui interventi punteggiano i ricordi di Lilia Silvi.
Il documentario si chiude con il presente della Silvi, tornata dopo tanti decenni di nuovo davanti a
una macchina da presa, quella di Gianni De Gregorio, regista del film Gianni e le donne.
Nel film di Di Gregorio la Silvi è semplicemente perfetta come amica del cuore della madre del
protagonista, per lei il tempo si è fermato e la grazia della sua presenza è tornata a deliziare le
platee nazionali come settant’anni fa.
La valle della luna
Il titolo, La valle della luna, potrebbe far pensare a un film di
fantascienza, in realtà il lungometraggio di Giovani
Buccomino racconta la vita quotidiana dei singolari abitanti di un
complesso roccioso che si affaccia sul mare sardo (nel comune di Santa
Teresa di Gallura).
Racconta, con toni leggeri e molta ironia, una comunità eterogenea, costituita da anziani hippies,
eternamente reduci dagli anni Settanta, e da giovani conquistati dal fascino del vivere in un luogo
senza tempo lontani dalla civiltà del progresso e dalla tecnologia più esasperata.
Sì, perché la valle della luna è una sorta di porto franco, di terra di nessuno dove l’uomo
può ritrovare la dimensione del silenzio e dell’ascolto, un rapporto con la natura non
mediato da secoli di evoluzione e adattamento all’ambiente.
Pochi sono quelli che vivono la “valle” nei mesi invernali, molti di più quelli che vi si rovesciano in
estate alla ricerca di una vacanza realmente “alternativa”: con la bella stagione il sito diventa la
meta di nudisti, rasta e punkabbestia, la cui integrazione con la comunità autoctona e stanziale non
sempre è facile o scontata.
Buccomino racconta tutto questo e lo fa evitando gli estetismi della produzione televisiva da secondo
pomeriggio o prima serata, restituendo le persone più che i personaggi, con un taglio che nello
stesso tempo è antropologico e narrativo.
Sono tante le microstorie che si intrecciano sotto lo sguardo del regista, che non cede mai alla
tentazione di normalizzare i suoi protagonisti, volendoli tratteggiare senza infingimenti ma nella
loro, a volte anche scostante, umanità.
Certi sguardi sulla valle, poi, ricordano il cinema di paesaggio di Antonioni, e qui il pensiero corre
agli imponenti massi di granito fotografati senza l’elemento antropico, mentre alcuni dialoghi
rimandano ai canovacci della commedia all’italiana; i volti scavati dal sole e dalle intemperie degli
“indigeni” acquisiti hanno una qualità estetica che rinvia a tanti grandi caratteristi del nostro
cinema.
Di taglio decisamente etnografico sono invece le sequenze di preparazione dei pasti e dei rituali con
cui il corpo viene cosparso di argilla prima di essere esposto al sole cocente per eliminare le
impurità.
“Olmiana” o “Piavoliana” è invece l’idea di raccontare un ciclo annuale, dall’inverno all’autunno
successivo, con l’intenzione di restituire ritmi e cadenze delle diverse stagioni; comunque narrativa
la scelta di enucleare dal contesto il protagonismo di due autoctoni in particolare, Mimmo e Antoine,
un ex hippy e un’artista della scultura, giunti a un punto dell’esistenza in cui si iniziano a tirare dei
bilanci per quanto provvisori.
Intervista a Monika Crha e Angelo
Santovito, regista e direttore della
fotografia di "Come l'abete"
Attualmente in fase di riprese, Come l’abete si annuncia
come uno dei più interessanti documentari del panorama
indipendente italiano, per l’argomento scelto, l’ecosistema di
Camaldoli e l’omonima comunità monastica, che promette di
fondere elementi ambientali, storici e religiosi, e le modalità
di approccio, una scrupolosa documentazione e un taglio
sincretico multidisciplinare. Per saperne di più abbiamo
intervistato la regista del documentario, Monika Crha e il
direttore della fotografia Angelo Santovito.
- Com’è nata l’idea del documentario? Qual è l’assetto produttivo che ne ha permesso la
realizzazione?
L’idea di fare un documentario sulla foresta di Camaldoli e sull’ordine monastico dei camaldolesi è
nata ascoltando Radio Raitre. Durante la trasmissione, quel giorno, un anno e mezzo fa circa, hanno
intervistato il Dott. Raoul Romano, che ha parlato a lungo del progetto di digitalizzazione del codice
forestale dei monaci, un progetto dell’INEA, l’Istituto Nazionale di Economia Agraria, realizzato con
il Collegium “Scriptorium Fontis Avellanae” su proposta di Dom Salvatore Frigerio (Dom da
“dominus”). Raoul, che è il responsabile del progetto, ne parlava con grande passione; e allora
abbiamo pensato di capire meglio di cosa si trattasse e l’abbiamo contattato. In seguito abbiamo
contattato la Comunità Monastica e Dom Ugo Fossa mi ha inviato parecchio materiale da studiare,
che mi è stato molto utile nella scrittura del progetto per il documentario. E così abbiamo iniziato
questa nuova avventura!
Per quanto riguarda l’assetto produttivo siamo partiti noi due, io e Angelo Santovito, con la nostra
cooperativa di produzione cinematografica, la Filmrouge. Poiché si trattava di un progetto piuttosto
grande e laborioso, abbiamo coinvolto Fargofilm in qualità di produttore.
Per questo lavoro, ad oggi, abbiamo ottenuto un iniziale fondo da INEA, che ci ha permesso di fare i
primi sopralluoghi filmati per la realizzazione del demo, successivamente abbiamo partecipato ai
bandi Film Commission Torino/Piemonte che ha appoggiato sia la fase di sviluppo che quella di
produzione, e la Regione Toscana che ci ha concesso una buona base per andare avanti con le
riprese. Attualmente stiamo cercando altri fondi per coprire l’ultima parte di budget, ma non è
facile.
Ultimamente ci siamo rivolti alle imprese sul territorio casentinese ma ad oggi non abbiamo ottenuto
nulla. E questo ci dispiace perché speravamo ci fosse maggiore sensibilità per il territorio e
l’argomento che trattiamo, mentre è più evidente che ciascuno preferisce coltivare il proprio
orticello…
- Ho letto che ciò che vi ha colpito in particolare è
stata l’attenzione che i monaci camaldolesi hanno
avuto per la tutela dell’ambiente fin dal ‘500, quale
emerge dai codici dell’ordine oggi digitalizzati e
disponibili su internet. Su quali fonti storiche e quali
ricerche avete svolto al riguardo?
Inizialmente sia Raoul che i monaci ci hanno inviato parecchi libri e pubblicazioni da studiare; la
Dott.ssa Maria Chiara Giorda, esperta in monachesimo poi ci ha aiutato ad orientarci nel mondo
monastico e scriverà il libro che accompagnerà il film nel cofanetto home video.
Ma per un progetto del genere non finiamo mai di documentarci, di studiare. E’ fondamentale
conoscere a fondo l’argomento che si vuole trattare attraverso le immagini. Bisogna aggiornarsi
continuamente, capire bene il mondo che si va a raccontare. Il rischio è altrimenti quello di fare un
lavoro lacunoso, che non apre nessuna possibilità di dibattito a riguardo, che non solleva domande,
ma che fornisce risposte poco credibili.
- In quali luoghi avete girato e ambientato il documentario?
Principalmente abbiamo girato in Casentino, nel monastero e nell’eremo di Camaldoli, e negli uffici
di due dei tre enti che gestiscono la foresta (Corpo Forestale dello Stato e Comunità Montana) e in
parte anche in foresta.
Due settimane fa però siamo andati al Monastero di Fonte Avellana, dove c’erano i tecnici della
digitalizzazione al lavoro. Lì abbiamo ripreso la loro attività sui documenti antichi e lo scanner col
quale lavorano. Poi ci siamo spostati nelle Marche, per un’ultima ripresa di Dom Salvatore Frigerio,
quindi all’Eremo di Monte Giove, a Fano.
- Oltre all’aspetto ambientale il vostro documentario intende restituire allo spettatore
anche la dimensione monastica, il significato della vita religiosa; in che modo?
Inizio col dirti che stare con i monaci ci ha cambiati profondamente. All’inizio eravamo un po’
intimoriti, anche scettici. Ci chiedevamo come avrebbero recepito la nostra presenza visto che in
mille anni non era stato concesso a nessuno di effettuare un lavoro come il nostro nel Monastero o
nelle celle dell’Eremo, nelle quali é assolutamente vietato entrare, figuriamoci con una videocamera.
La loro affettuosa accoglienza ci ha spiazzati, azzerando qualsiasi dubbio circa la nostra presenza lì,
o il rapporto che avremmo costruito con loro. Al termine della prima settimana di lavoro, rientrando
a Torino, tutta la troupe era piuttosto triste. Ci sembrava di aver lasciato i migliori amici mai
incontrati.
Parlando di loro devo innanzitutto dire che l’Ordine camaldolese è l’unico, in Italia, che fra le sue
regole contempla la cura della foresta e che la foresta è vissuta come deserto ascetico per i monaci.
Sotto la guida di Dom Ugo Fossa abbiamo conosciuto un mondo davvero interessante e pieno di
sorprese. E’ stato lui ad introdurci, a guidarci. Lui e Dom Salvatore Frigerio.
Spesso si pensa a monasteri e monaci come luoghi e persone separati dalla realtà della vita.
Passando molti giorni con loro abbiamo capito che questo è un errore di percezione, dato da anni di
storia travisata. I monaci sono uomini che vivono in questo mondo, radicati sulla terra, che hanno
ben presenti i nostri problemi ma sono anche persone di enorme cultura, divertenti, con un eloquio
coinvolgente. Ognuno di loro ha il proprio carattere, certamente, ma quel che emerge subito, non
appena li si incontra, è il loro sguardo. Limpido. È come se la scelta di una vita religiosa di questo
tipo li avesse resi leggibili agli altri, immediatamente. Guardando nei loro occhi sembra di vedere la
loro anima. Sono persone generose, che ascoltano con attenzione e per davvero, e vivono in un
sistema perfetto, dividendo ogni cosa tra loro, riunendosi per decidere assieme sulle scelte da
operare. L’essenza della vita monastica, lo sforzo ad essere monos, è avere una vita completa e
unitaria e il monaco è chi tende a questa completezza di rapporto con il sé, con gli altri, con l’Altro.
Un altro aspetto è che loro hanno coltivato e coltivano “il giardino dell’anima e quello di Dio”
contemporaneamente: cioè la terra.
Vista la generale disinformazione riguardo la vita monastica, la riflessione e le pratiche dei monaci
verso l’ambiente circostante, vorremmo che questo lavoro fosse occasione di divulgazione di saperi e
condotte che pensiamo possano essere da stimolo per i cittadini per una buona pratica di
salvaguardia dell’ambiente.
- Quando sarà completato e quando verrà distribuito?
Il documentario sarà pronto a settembre, luglio e agosto lo passeremo in montaggio. Per la
distribuzione stiamo valutando la proposta del gruppo Giunti, che assieme a Libera e Gruppo Abele
sarebbe interessata a distribuire l’home video. Per il resto stiamo ancora cercando… Intanto però si
possono seguire gli sviluppi sul sito www.comelabete.it.
Palestina.Homeless
Quando la produzione indipendente si sposa con i dettami della
contro-informazione possono geminare asciutti reportage per
immagini come Palestina.Homeless, un efficace documentario che
in 38 minuti ci immerge nella sofferta realtà palestinese.
I tre autori scelgono la strada di un’apprezzabile sintesi per lasciar
parlare i fatti, esposti nella cruda realtà di testimonianze colte
direttamente in loco: la perdita della casa, dell’abitazione familiare,
per l’incedere degli spazi “affidati” ai coloni, è il collante narrativo del
cortometraggio che si apre con alcuni brani tratti dalla Convenzione
di Ginevra e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Sì perché in discussione c’è il rispetto delle più elementari
prerogative umane, ancor prima di affrontare qualsiasi questione
politica o ideologica, c’è il comune sentire, un minimo comune denominatore che non dovrebbe mai
mancare tra le pieghe di accordi internazionali non sempre applicati.
Muri sempre più estesi condannano ad un sostanziale apartheid, recinzioni, sbarre e check point
umiliano l’umanità di uomini e donne che ogni giorno lavorano e vivono in condizioni impossibili, in
cui le case per non essere abbattute o espropriate devono essere costruite con i copertoni delle
automobili (solo l’opera in muratura, infatti, viene definita “casa abitabile”).
Le tante ONG, l’opera volontaristica di laici e religiosi, costituiscono un naturale presidio
internazionale in terre in cui si assiste troppo spesso alla sospensione di regole comunemente
accettate dal consenso mondiale.
La loro presenza ci aiuta a non dimenticare i drammi di popolazioni tra le quali la convivenza
pacifica è ancora lontana.
“Gli animali vengono trattati meglio di noi”, dice a un certo punto un palestinese inquadrato
attraverso delle grate come una fiera in gabbia; donne anziane si disperano di fronte alla
demolizione della casa in cui hanno trascorso una vita; bambini allegri giocano in un mondo fatto di
macerie in cui basta poco per trovare un accenno di sorriso.
Canepari, Di Marco e Neglia si auto producono e curano tutta la realizzazione, finanche la parte
musicale affidata, nei titoli di testa e di coda, alla canzone “La casa” di Sergio Endrigo eseguita da
Neglia.
Il montaggio assembla i materiali eterogenei con una puntuale attenzione ai risvolti
antropologici, restituendoci la sostanza dell’assunto, senza troppi orpelli e sfilacciature, trovando
la giusta misura e durata di un’opera, piccola ma non per questo poco importante.
Sulle strade del web-doc. Intervista con
Giuseppe Spina, co-autore de "Le
printenps en l'exil"
Le risorse della rete sono indubbiamente un’ottima
opportunità finanziaria per la produzione indipendente,
tanto che sempre più autori fruiscono delle offerte di
visibilità e raccolta fondi predisposte da piattaforme come
produzionidalbasso.com.
Tra i progetti più interessanti ospitati dal sito c’è quello di Le printenps en l’exil, un documentario
che nasce sul web per raccontare la fuga dei tunisini che a partire dal gennaio 2011 hanno
abbandonato il loro paese, in seguito ai ben noti moti rivoluzionari, con l’obiettivo di
raggiungere l’Europa.
Per saperne di più sul progetto e conoscere a fondo le dinamiche che sottendono la realizzazione di
un web-doc abbiamo posto alcune domande a Giuseppe Spina, co-autore e produttore esecutivo
de Le printemps en exil. Spina, oltre a essere un cineasta che si occupa di sperimentazioni tra
linguaggi differenti, è fondatore e direttore del circuito internazionale per il cinema
autonomo Nomadica.
- Avete scelto di raccontare un tema di scottante attualità, come l’esodo dalla Tunisia di
tanti uomini e donne in fuga dal regime o dalla rivoluzione; qual è il vostro approccio alla
materia?
Alcuni di noi, da diversi anni, si interessano al tema dell’immigrazione; in particolare nel sud della
Sicilia, Francesco Di Martino, direttore della fotografia e operatore del progetto in questione, è stato
regista e realizzatore de U stisso sangu, un documentario che negli ultimi anni ha avuto un ottimo
riscontro nelle “visioni italiane sotterranee”, oltre che in diversi festival a cui ha partecipato con
successo. Marie Blandin, co-autrice del web-doc, ha realizzato un lungometraggio sulla questione
delle banlieu parigine. Personalmente ho girato due lungometraggi, uno in Burkina Faso nel 2007 e
l’altro in Messico, attualmente in lavorazione, che hanno come tematica di fondo le rivoluzioni sociopolitiche e i loro riflessi nella società contemporanea. Gli aspetti politici, sociali, antropologici, ci
interessano particolarmente, ma non li affrontiamo da un punto di vista giornalistico o storico, bensì
personale e soggettivo, lasciandoci spesso trasportare dalla casualità degli eventi e dall’istinto. E’
con questo spirito che abbiamo iniziato a lavorare a Le printemps en exil.
- Definite il vostro lavoro un “web-documentario”, in quali accezioni utilizzate questo
neologismo? Quanto sono importanti le risorse della rete per la vostra produzione?
Il “web- doc” è una nuova forma di narrazione che si sviluppa interamente sul web, in Francia già
presente da anni, e che comincia a prendere piede anche in Italia. Diversi sono i festival che ormai
ospitano sezioni dedicate a questo “genere”, se così possiamo definirlo.
Nel nostro lavoro, direi che la rete è fondamentale. Le printenps en exil è un documentario che vive
su e grazie al web e alle sue potenzialità. Il nostro web-doc si baserà sul video ovviamente, su una
narrazione precisa, che permetterà all’utente di interagire con altre informazioni, con altre storie,
durante la fruizione. Questa narrazione sarà costantemente intrecciata con un “archivio” che
conterrà articoli, foto, altri video, altre informazioni che altrettanti collaboratori potranno
liberamente condividere in questo spazio. Questo scambio sta già avvenendo, anche con artisti e
blogger tunisini.
Inoltre il web ci sta permettendo di arrivare a centinaia di migliaia di persone per la co-produzione
di questo lavoro. Attraverso il sistema di produzione dal basso, nel quale invitiamo tutti i lettori
interessati a co-produrre: produzioni dal basso.
- Quali sono i motivi che vi hanno portato a scegliere la formula di finanziamento
prefigurati dalla “produzione dal basso”?
In passato abbiamo già avuto esperienze di produzione attraverso questo sistema. L’aspetto
interessante questa volta è che la produzione del web-doc intreccia una co-produzione francese, con
la società House on Fire, e un supporto in sviluppo del Centro Nazionale di Cinematografia di Parigi.
In Italia frameOFF sceglie il sistema di produzione partecipato, collettivo: stimoliamo la gente a
interessarsi al tema e a partecipare.
- Da quali professionalità è composto il vostro team di
lavoro, chi sono i soggetti coinvolti?
Io, Massimiliano Minissale, Marie Blandin, siamo gli autori del progetto. Minissale è anche la mente
della piattaforma web, e tutto il gruppo, dai già citati a Francesco Valvo, Matteo Treleani, Giuseppe
Portuesi, Corrado Iuvara, che si occupano della cura completa della parte video e della ricerca. La
ricerca si apre anche a tutto un team di giornalisti, fotografi, scrittori, traduttori, che da subito
hanno sposato il progetto, e che nei prossimi mesi daranno i loro contributi all’archivio de Le
printemps en exil.
- Quali saranno le modalità distributive di Le printemps en exil, è prevista l’attivazione
anche di canali tradizionali?
Su www.leprintempsenexil.org si può già vedere l’impronta iniziale del lavoro: è possibile visionare
un teaser di venti minuti diviso in quattro sezioni, leggere degli articoli di ottimi giornalisti come
Antonio Mazzeo, che ritengo uno tra i più preparati e combattivi oggi in Italia. La diffusione avviene
attraverso il web, e siamo alla ricerca di distributori che nel nostro caso potrebbero essere delle
testate giornalistiche, ma anche dei siti di diffusione cinematografica.
Per sostenere il film, collegatevi al sito di Produzioni dal Basso.
Un gioco da grandi
Un cortometraggio nato da un laboratorio teatrale con i bambini delle scuole elementari, è una
piacevolissima sorpresa nel panorama della produzione indipendente.
Noto come brillante attore in cortometraggi altrui, apprezzato tra l’altro nel recente e
rimarchevole Il segreto di Pius di Alessia Capuccini e Gioacchino D’ Amico, Stroppa si dimostra un
regista abilissimo a cogliere atmosfere rarefatte, arricchendo il suo sguardo attento e curioso con
il richiamo alla nobile tradizione del cinema italiano di genere.
Nel raccontare di un uomo che passa una giornata spensierata con una bambina che è andato a
prendere a scuola, Stroppa insinua nello spettatore il dubbio su quello che sta vedendo: chi è
l’uomo? Il padre? Un rapitore? Un po’ quello che succedeva in un capolavoro del cinema noir
italiano, come Cani arrabbiati di Mario Bava dove Riccardo Cucciolla interpretava un subdolo
sequestratore che solo alla fine si scopriva tale.
Ma Stroppa evita anche le facili trappole del cinema di
genere e costruisce un piccolo film di otto minuti che si
apprezza per la misura dei tempi narrativi, per
l’impegno anche etico dell’assunto, per la pulizia di
immagini ”studiate” nei loro aspetti spaziali, mai buttate lì
con noncuranza, ma capaci di restituire un’ adeguata
dimensione cinematica di sentimenti e snodi drammaturgici.
In questo viene aiutato anche dai due ottimi interpreti, ben diretti peraltro da chi conosce a fondo gli
aspetti qualificanti della recitazione cinematografica.
Nel ruolo principale colpisce la faccia “pasoliniana” del bravissimo Emanuel Bevilacqua, attore di
cinema visto ne L’odore della notte di Claudio Caligari, uno dei più importanti film italiani degli anni
Novanta, e ne Il cartaio di Dario Argento dov’era il proprietario delle slot-machine.
Ma bravissima è anche la piccola Giorgia Mesinoli chiamata al non facile compito di rendere le
sfaccettature di un personaggio che non deve svelare troppo dell’esito narrativo: la sua naturalezza
è un valore aggiunto di un lavoro che si distingue per la sobria realizzazione.
La solitudine dei personaggi trova un corrispettivo in scenografie che a tratti sembrano quasi
schiacciarli, o meglio isolarli in prospettive di cemento, con il mare a significare un ipotesi di futuro
più libero e meno vincolato a stringenti ruoli sociali.
Ma di un cortometraggio come questo è meglio non dire troppo, lasciare allo spettatore la possibilità
di “navigare” nelle immagini egregiamente impaginate da Stroppa, in attesa di un finale che
svela e non svela, che lascia interrogativi, che si apre alle speculazioni dell’osservatore.
Fiatlux, la rete come risorsa per una nuova
sala a Milano
In un momento in cui l’esercizio cinematografico tradizionale arretra incalzato dalla proliferazione di
multiplex che certo non si contraddistinguono per il pluralismo dell’offerta, c’è chi si ingegna a
trovare nuove strade per la programmazione, facendo leva sulle nuove opportunità offerte dal
crowfunding, ovvero la ricerca di finanziamenti attraverso la rete, con il supporto del
pubblico interessato ai progetti o alle iniziative.
E’ il caso dell’associazione culturale Fiatlux che sul sito www.produzionidalbasso.com ha lanciato la
sua intrigante sfida: raccogliere un congruo numero di adesioni (si punta ad arrivare a 15000 quote
di 20 euro ciascuna) in modo da attivare in una sala milanese, dalla capienza predefinita di 99 posti,
una programmazione completamente votata alla produzione indipendente. Lo spazio non è stato
ancora individuato, ma le idee sono chiare: dare visibilità a tutti quei prodotti, molti privi di
visto censura, che nelle sale non approderanno mai, anche per l’opposizione di un mercato che
sempre più si adagia sui blockbuster, nazionali ed esteri. Cortometraggi, documentari, video-clip,
produzioni non commerciali costituirebbero lo zoccolo duro del palinsesto; una modalità di
programmazione diretta conseguenza delle esperienze pregresse maturate dall’associazione, che ha
alle spalle l’organizzazione di cinque edizioni di “Filmloop”, manifestazione che negli scorsi anni si è
tenuta con successo al cinema Capitol di Vimercate.
Come ci spiega Alessandro Spada, uno dei soci di Fiatlux: “Il crowfounding ci serve innanzitutto per
sondare l’interesse del pubblico. Non è una questione prettamente economica; 15000 quote vuol dire
molta gente che vorrebbe vedere realizzato questo progetto. Un problema serio nel nostro Paese
è quello che riguarda il pubblico, un pubblico non preparato alla visione di materiali
eterogenei. Ma oggi grazie a internet si stanno modificando l’approccio e le abitudini delle nuove
generazioni”. Insomma si tratta di ravvivare, aggiornandola ai tempi, la formula del cineclub, ovvero
di una sala cinematografica che non si limita a proporre film, ma induce anche spazi di riflessione, si
apre al contributo creativo degli spettatori, coinvolgendoli nell’architettura della programmazione,
offrendogli prodotti altrimenti di difficile reperibilità.
“La nostra sala”, continua Spada, “deve essere un approdo sicuro per ogni tipo di visione disallineata
e anche un riferimento per produttori disorientati che cercano nuove leve e nuovi progetti”.
Rassegne monografiche, retrospettive, produzioni della più diversa provenienza andrebbero a
costituire un flusso di visione ininterrotto, insertato dagli incontri con gli autori, con chi il cinema lo
fa a tutti i livelli, ma raramente giunge a un confronto con il suo naturale destinatario: il pubblico di
una sala.
Palermo Art Ensemble
Per raccontare il Palermo Art Ensemble al grande pubblico il
regista Roberto Villino ha scelto la formula innovativa del docuclip, un
documentario che allo stesso tempo è anche un videoclip dove la musica
detta il tempo delle immagini.
Come ha dichiarato lo stesso Villino, video maker palermitano con alle spalle numerose
collaborazioni a testate giornalistiche siciliane(“I Love Sicilia”, “SiciliaInformazioni”) e videoclip
molto interessanti, come quello del brano Tutti pazzi dei Combomastas: “Del primo (il documentario)
ne ho tratto l’aspetto temporale e descrittivo, dando al video una sequenza ben definita, che si
sviluppa nel corso dell’intervista, al fine di raggiungere uno scopo ben preciso: presentare il Palermo
Art Ensemble; al secondo (il videoclip) ho lasciato maggiore spazio per sottolineare l’aspetto
artistico del progetto e sopratutto per ridipingere i suoni attraverso i fotogrammi”.
In sostanza Villino per realizzare il suo cortometraggio ha seguito il tour estivo del Palermo Art
Ensemble (tour effettuato nell’ambito della rassegna “Il circuito del mito”), vivendo a stretto
contatto con i musicisti, restituiti sullo schermo anche nella loro dimensione privata e conviviale.
Il Palermo Art Ensemble, come emerge nel video, è soprattutto un progetto aperto a
contaminazioni e collaborazione diverse, nato intorno alle figure del percussionista
Giovanni Apprendi e del contrabbassista Massimo Patti.
Insomma un movimento artistico che ha come denominatore comune la valorizzazione delle
culture musicali del Mediterraneo e della Sicilia in particolare, presentate in una forma
accattivante e di sicuro coinvolgimento.
Gli organici cambiano in ragione delle molteplici sinergie, e dalla musica facilmente si passa alla
danza e al teatro, alle arti figurative in un raffinato melange che non rinuncia a un approccio
autenticamente popolare.
Pur nella brevità del filmato, Villino ci fa immergere in un’esperienza artistica davvero stimolante
dove grande peso hanno anche i rapporti umani e le reciproche influenze; senza perdere di vista il
necessario ritmo narrativo che i videoclip imprimono invariabilmente alle immagini.
Naftalina
Quello di Ricky Caruso è un esordio davvero folgorante; raramente capita di vedere un’opera prima
così libera da condizionamenti estetici e produttivi. Lasciando da parte ogni tentazione di squallido
mimetismo pseudo realista, Caruso con Naftalina realizza un film spiazzante, mai conciliante,
che vola alto nobilitando con un taglio surreale la materia trattata. Nel film si racconta un
universo familiare decisamente atipico: una madre possessiva e squilibrata, un padre assente ridotto
a inespressivo fantoccio, tre figli come nessun genitore vorrebbe avere. Uno dei pargoli, si diletta di
fotografia e omicidi seriali, un altro è vittima di una forma autodistruttiva di autismo, una terza giace
rinchiusa in una cantina in uno stato di parziale putrefazione. Caruso articola la sua opera con un
uso mirabile dei pochissimi mezzi a disposizione (tanto che viene spontaneo chiedersi cosa potrebbe
fare un autore così talentuoso con un budget appena accettabile), dirigendo alla perfezione un cast
di non professionisti, fatta eccezione per l’interprete della madre, Monika Zanchi, autrice a nostro
parere, di una prova superlativa. Icona di bellezza e sensualità, Monika Zanchi si cala nel
ruolo della madre, regalando una recitazione “overplayed”, letteralmente sopra le righe,
assolutamente funzionale ad un personaggio che definire bizzarro è poco. Poche altre attrici
sarebbero state capaci di una simile prova, ma Monika Zanchi, che ha alle spalle una carriera
mirabile (tra i suoi film, Autostop rosso sangue di Pasquale Festa Campanile, Caro papà di Dino
Risi, Giorni felici a Clichydi Claude Chabrol), non può che colpire e affascinare lo spettatore con il
ritratto di una donna cui non fa difetto il sadismo e l’eccesso. Nel film di Caruso si possono
senz’altro trovare gli echi di un cinema che l’autore ama o ha amato (da Alberto Cavallone, cui
rimanda la presenza della stessa Zanchi, interprete di Spell, dolce mattatoio, a Jorge Buttergeit), ma
la citazione non è esibita e non è comunque mai fine a se stessa, ma sublimata da uno sguardo
personalissimo, autoriale e autorevole al tempo stesso. Per questo film si può rispolverare la
citazione sontaghina, per cui: “interpretare è impoverire”, molto meglio lasciarsi andare al flusso
delle emozioni che il film induce, parlando e al cuore e alla testa dello spettatore. D’altra parte è
impossibile operare una lettura riduzionista, razionalizzante, che solo impoverirebbe la qualità delle
intuizioni cinematografiche di Caruso, cui è facile prevedere un radioso futuro di film maker.
Tomorrow's Land
Due giovani registi bresciani, Andrea “Paco” Mariani e Nicola Zambelli, con i pochi mezzi e le
scarse risorse dell’autoproduzione realizzano un documentario di robusto impianto narrativo,
illlustrando le condizioni di vita di un villaggio palestinese circondato dagli insediamenti
israeliani.
Tomorrow’s Land è il titolo del lungometraggio, realizzato coinvolgendo realtà associative di
Bologna e Brescia e soprattutto i volontari di Operazione Colomba, che sul luogo operano per il
rispetto dei diritti umani e civili. In particolare, il focus è concentrato sul paese di At-tuwani, in
Cisgiordania, di cui viene restituita la difficile quotidianità, l’impossibilità di assicurare anche ai più
piccoli la piena incolumità: da questo punto di vista le due immagini più forti del documentario sono
quella in cui un soldato indirizza la propria arma verso un bambino che fugge, sottolineata da un
fermo fotogramma, e quella della processione dei bambini che per raggiungere la scuola devono
essere scortati da un blindato dell’esercito, ripresa dall’alto a schiacciare i piccoli discenti.
Il merito del documentario di Mariani e Zambelli è infatti proprio quello di ricordarci che spesso le
vittime dei conflitti sono i più indifesi, quelli che sfuggono all’attenzione dell’opinione pubblica,
a meno che qualcuno non decida di porli in cima all’agenda dell’informazione. Sono vittime invisibili,
perchè nessuno si preoccupa di dargli un nome e un volto, sono gli “effetti collaterali” di guerre che
si decidono altrove e in nome di altri interessi, che non quelli della pace.
Che sia possibile una forma di risoluzione dei conflitti, ricorrendo alle “armi” della pace, è un po’ il
tema di fondo di Tomorrow’s Land, che sul piano visivo intesse interviste “posate” con riprese
“sporcate” dalla prossimità con gli eventi, con l’intento di offrire anche una sorta di immagine in
diretta, non filtrata, priva di messa in scena, e perciò stesso di ancora più efficace impatto, anche
emotivo. Il tutto nella convinzione che nella società dell’immagine solo ciò che è documentato
esiste, mentre il resto è facilmente manipolabile.
Ma il documentario di Mariani e Zambelli, come scrivevamo in apertura, ha anche una costruzione
narrativa, con un finale che si riallaccia all’incipit, una tesi forte da sostenere e una colonna sonora
che ricorre a materiale extra-diegetico, come le coinvolgenti musiche dei Radiodervish.