La giustizia nel Nuovo Testamento

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La giustizia nel Nuovo Testamento
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
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La giustizia nel Nuovo Testamento
Cappellani delle carceri - Ome 2 giugno 2
1. La questione terminologica
Il tema della giustizia è largamente presente nelle pagine del NT, ciò nonostante
non se ne dà nessuna definizione precisa. Il suo significato è supposto noto dal linguaggio
comune e soprattutto dalla tradizione anticotestamentaria. Alla radice del termine
dikaiosýnê (giustizia) nel greco classico vi è la parola dikê, che richiama la dea Dikê, figlia
di Zeus, che partecipa al governo del mondo. Si tratta della divinità preposta all’ordinato
funzionamento della vita civile e religiosa della collettività (il sostantivo dikê, infatti,
significa colei che indica, che indirizza e quindi anche direttiva, indicazione, ordine). Pian
piano questo vocabolo ha acquistato il significato di «costume», «diritto», quindi «equità»
e «giustizia», nelle sue varie forma: distributiva, commutativa e punitiva. Nel NT il
sostantivo dikê è usato solo tre volte (At 28,4; 2Ts 1,9 e Gd 7).
Si possono ritenere come derivanti di dikê i termini seguenti: díkaios (giusto),
dikaiosýne (giustizia), dikaióō (giudicare, giustificare), dikaíôma (azione giusta, giudizio) e
dikaíôsis (giustificazione). Questi vocaboli, molto usati nel greco classico, trovano nella
Bibbia (nella LXX) un accento particolare e incancellabile. La giustizia non si esaurisce
nel rispetto verso il propri simili, ma implica sempre una relazione con Dio. Nella AT,
soprattutto per i profeti, l’uomo vive in una società che ha Dio per Signore, quindi la sua
equità, rettitudine non può prescindere da un rispettoso rapporto con il moderatore ultimo
della storia. Per questo il vocabolo/aggettivo díkaios (giusto) ha spesso la connotazione
‘davanti a Dio’.
Se il termine ‘giusto’ compare settantasette volte nel NT, solo 17 in Mt, 11 in Lc, 6
negli At, due in Mc, tre in Gv, ed è attribuito a Dio, agli uomini e alle cose indistintamente.
Il vocabolo dikaiosýne, invece, contiene la desinenza sýne e fa pensare «all’epoca
in cui nasce il pensiero astratto». Nella letteratura greca è una delle virtù cardinali del viver
civile, ma nella tradizione biblica – sedaqah – più che una concezione indica un modo di
porsi di Dio davanti agli uomini e degli uomini davanti a Dio e ai propri simili.
Il temine dikaiosýne, tuttavia, non esaurisce l’ambito semantico della ‘giustizia’. Dio
è giusto, perché salva nonostante la debolezza o la cattiveria umana. Per questo ‘giustizia’
in Lui è sinonimo di grazia, misericordia (hesed, éleos), fedeltà, verità (‘emet, alêtheia). Il
termine, dunque, nel NT ha il significato che ha ricevuto dall’AT, a meno ché non sia
evidente la dipendenza dal greco classico-ellenistico. La dikaiosýne è un termine
prevalentemente paolino (in tutte le lettere compare 57 volte), ma compare anche in Mt
(3,15; 5,6.10.20; 6,1.33; 21,32), in Luca (1,75), negli Atti (10,35; 13,10; 17.31; 24,25), in
Giovanni (16,8.10).
Possiamo affermare che il termine giustizia ha due sensi nel NT: il primo è
tipicamente anticotestamentario, ed equivale a riconoscere l’uomo giusto, cioè innocente,
senza colpa, mentre il secondo, più propriamente neotestamentario, indica che il colpevole
è restituito all’innocenza che non aveva più o non ha mai avuto. Entra in campo la dottrina
della ‘giustificazione’.
Il NT ha, inoltre, altri verbi e altri sostantivi per indicare la ‘giustizia’, soprattutto il
suo ristabilimento, dove e quando è venuta meno. La nuova famiglia di verbi e sostantivi è
incentrata intorno al verbo krínô e ai suoi derivati krísis e kríma (giudizio). In tutti i modi
sono verbi e termini sempre ordinati al ristabilimento della giustizia, all’eliminazione degli
ostacoli che ne impediscono l’affermazione e il ristabilimento. Il tema della giustizia
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-2pertanto è più ampio del suo vocabolario, poiché abbraccia anche il suo contrario, la sua
carenza o le forme di iniquità, che il giusto è tenuto a far scomparire.
La Bibbia assegna a Dio il ristabilimento della giustizia; e il NT conferisce un tale
compito a Gesù Cristo. Bisogna, tuttavia, fare attenzione ad evitare facili abbagli. La
giustizia era per i pensatori greci la virtù capitale della vita consociata; ancor più lo è per il
cristiano che è chiamato non solo a dare a ciascuno il suo, ma a impegnare tutto se
stesso, perché ognuno veda tutelati i propri diritti. Se viene meno la giustizia, non basta la
carità a sostituirla.
È evidente che il tema della ‘giustizia’ nel NT va al di là della questione forense (o
giudiziaria). L’esortazione alla giustizia nel senso giuridico del termine non è al centro del
messaggio di Gesù. Tuttavia, è importante non scivolare nell’illusione che la dimensione
della ‘giustizia retributiva’ non abbia senso. Quasi a dire, la giustizia, come categoria
forense, appartiene all’AT e come caritas divina al NT.
2. Equivoci e precomprensioni circa il concetto di ‘giustizia’
Uno dei segni di queste precomprensioni – che si muta in pregiudizio – è l’arbitraria
opposizione tra la giustizia ed altri concetti, secondo uno schematismo frutto di grossolane
semplificazioni (Bovati, 161). Esaminiamo tre diffusi ‘luoghi comuni’ secondo la rivelazione
biblica.
a) Giustizia e amore
È una frequente opposizione secondo cui la giustizia rappresenterebbe l’aspetto della
legalità, dell’unicuisque suum, e costituirebbe la dimensione tutta ‘umana’ del discorso
antropologico. L’amore invece andrebbe oltre, in quanto basato sulla gratuita benevolenza
e sulla interiore affettività. Cose che appaiono sublimi, ma anche supererogatorie, cioè
non necessariamente richieste dal fatto di essere ‘uomini’. Essendo così la giustizia
concepita come qualcosa di parziale e di preliminare, è normale che si tenda ad attribuirla
all’AT, superato in questo dal NT, a cui invece apparterrebbe, come caratteristica
peculiare, la dimensione dell’amore.
Questo modo di pensare e di parlare non è solo una semplificazione grossolana (e
offensiva per la tradizione ebraica), ma è anche un approccio rigorosamente falso. Eppure
questa logica ha lavorato e lavora sullo sfondo di diverse prospettive teologiche1. Il non
scorgere la relazione intrinseca tra giustizia e carità ha spesso condotto a pensare la
‘carità’ in maniera tale da sottovalutare o addirittura trascurare il dover di giustizia. Questo
ha delle ripercussioni anche sul modo di intendere il rapporto Stato-Chiesa (il primo regola
la giustizia, la seconda esercita la carità).
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Si può vedere il caso della regola d’oro. I due classici riferimenti veterotestamentari sono: Tb 4,15 «Non
fare a nessuno ciò che non piace a te»; Lv 19,18 «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del
tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore». Nel NT si trova riespresso in
forma originale in Mt 7,12 e in Lc 6,31. Si può affermare la sostanziale equivalenza anche se nell’AT è
formulata in negativo e nel NT in positivo. La regola d’oro assume un significato rilevante in particolar modo
nel Medioevo. Non si trova di per sé una trattazione specifica circa la RdO; essa semplicemente viene
indicata come praeceptum o mandatum. Il problema permane invece di fronte ad alcune polarità come tra
«giustizia e carità» nei confronti delle quali la RdO sembra introdursi coerentemente: «si può dire che la
formulazione negativa tende a diventare prevalentemente il fondamento di un principio di giustizia cui si
accede con la semplice ragione, mentre la formulazione positiva esprime il principio di carità, con cui si entra
nella più elevata dimensione dello spirito e nella problematica dell’unum necessarium per la coerenza
evangelica e, quindi per la salvezza» (Sciuto).
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-3b) Giustizia e fede
Un’altra precomprensione fuorviante è quella secondo cui la giustizia rappresenterebbe
la dimensione orizzontale, storica, sociologica dell’esistenza; la fede, al contrario,
costituirebbe la dimensione verticale, quella che assicura il rapporto con l’eterno, la realtà
ultima e la trascendenza. Questa impostazione appare suggestiva, ma risulta estranea al
pensiero biblico. Nella Bibbia, infatti, ciò che appare nella storia è fondamentale per la
fede, e dall’altra parte la relazione con Dio (fede) è decisiva esattamente per la pratica
della giustizia.
Sul piano personale l’opposizione fede-giustizia produce una sorta di schizofrenia che
contrappone preghiera e azione, servizio di Dio e servizio dell’uomo. Si tenta
pateticamente di superarla facendo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, in una continua e
insoddisfacente oscillazione tra i due poli. La vera giustizia consiste nell’interna
articolazione di questi due aspetti, servendo Dio e l’uomo nell’unità di un solo progetto.
c) Giustizia e sapienza
Qui si oppone, studio, comprensione, da una parte, e progettazione, operatività,
realizzazione, dall’altra. Mentre la giustizia apparterrebbe alla seconda serie di categorie,
quella dell’impegno concreto ed efficace (prassi), la sapienza riguarderebbe le idee
astratte il mondo – affascinante, ma ambiguo – delle parole (teorie). Ma leggendo la Bibbia
si vede che non vi è giustizia senza intelligenza. Anzi è proprio nel saper far giustizia che
risiede la suprema sapienza.
3. Elementi che definiscono l’ambito della giustizia nella Bibbia
La giustizia implica una relazione fra due (o più) soggetti spirituali dotati del
principio interiore della libertà (con tutto ciò che comporta in termini di responsabilità). Da
ciò consegue che il concetto di ‘alterità’ (la relazione con l’altro da me, proprio in quanto
non assimilabile a me medesimo) è fondamentale per ogni discorso sulla giustizia. La
relazione di giustizia è quella che rispetta, promuove e porta a compimento il senso di
ognuno dei soggetti: la giustizia è quella qualità della relazione per cui a ognuno è dato
quello che gli spetta come soggetto. Ma sottolineiamo che, nel quadro della relazione
interpersonale, la norma della giustizia è l’altro (e non la legge, per quanto formalmente
perfetta). In questa situazione di alterità, che è differenza e asimmetria, l’istanza della
giustizia non è solo quella di rispettare la verità fattuale (dare a ciascuno il suo), ma anche
di affermare e realizzare la verità superiore di ogni soggetto, cioè la sua natura spirituale.
Corollari
1) Questo discorso comporta: la giustizia non è solo la cosiddetta giustizia sociale.
Vi è un problema di giustizia nella relazione tra Dio e uomo, essendo anzi
questa la prima e più decisiva relazione di alterità e somiglianza fra soggetti.
2) In secondo luogo: la giustizia è di natura sua problematica, non è affatto
evidente tenere insieme l’alterità e l’uguaglianza. Si pensa spesso di fare
giustizia imponendo una parità che non è più rispettosa delle differenze.
3) Il terzo luogo: la giustizia è divina di natura sua. Non solo a Dio spetta
sommamente l’attributo di giusto, ma anche Egli è l’origine e il fondamento di
ogni giustizia. L’uomo è giusto nella sua storia quando si lascia attraversare
dalla volontà efficace del Padre, diventando strumento divino di comunione,
frutto supremo di giustizia.
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4. La giustizia nel Nuovo Testamento (in modo specifico)
La giustizia richiesta da Dio
I Vangeli e gli Atti non conoscono l’espressione ‘giustizia di Dio’, che Paolo fa
propria nel suo epistolario; ma in Mt si fanno affermazioni che sembrano alludervi.
Nel racconto del battesimo di Gesù, Matteo inserisce un dialogo chiarificatore tra
Giovanni e Gesù (Mt 3,14ss) che mira a farne comprendere la portata. Mentre il
Precursore dichiara di aver lui bisogno di essere battezzato, Gesù risponde con una frase
misteriosa: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia».
L’espressione «ogni giustizia» (pâsan dikaiosýnên) non è tanto un richiamo
all’osservanza di qualche comandamento divino, quanto la sottomissione a un disegno
prestabilito. La «giustizia» che Gesù ricorda a Giovanni Battista è il piano stabilito da Dio
per la comune salvezza. Il disegno salvifico ha delle regole, a cui è necessario attenersi. È
questa, secondo Gesù, la «giustizia» da rispettare in tutta la sua portata, in tutto il suo
ambito e in tutto il suo peso, per questo parla di ‘ogni giustizia’. La giustizia di Mt 3,15 non
ha un punto di riferimento umano, ma divino. Alla fine, Giovanni il Battista, riceve il più
ambíto elogio che gli uomini del regno possono ricevere: in Mt 21,32 «Giovanni infatti
venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto». La ‘via della giustizia’ non è
la via della rettitudine, ma la via di Dio (Gesù adempie ogni giustizia perché realizza
perfettamente il piano salvifico di Dio).
Il discorso della Montagna
Per comprendere e approfondire in questa direzione il concetto di giustizia si può
riprendere il discorso della Montagna di Matteo2.
Il termine giustizia compare due volte nelle Beatitudini, ma il significato appare
differente: giustizia di cui uno ha fame e sete (Mt 5,6) e giustizia per la quale uno è
perseguitato (v10). Sembra necessario, tuttavia, ampliare il problema, in quanto questo
termine caratterizza il vocabolario del primo vangelo e l’idea stessa che Matteo si fa del
cristianesimo3.
In Matteo il termine si colora in maniera speciale nel discorso della montagna. Oltre
ai due casi, esso ricompare altre tre volte: in 5,20, in 6,1 e in 6,33. L’insieme del discorso
si muove quindi alle sue dipendenze. Il senso del termine ‘giustizia’, usato nelle
beatitudini, acquista dunque il suo significato alla luce del resto del discorso. Si dovrà
pertanto affrontare il tema della ‘giustizia cristiana’. Ma non possiamo neppure limitarci al
vangelo di Mt, il quale usa ancora due volte in maniera significativa il termine: 3,15 e in
21,32.
Da due testi di non facile comprensione (Mt 21,23 «Perché Giovanni è venuto a voi
nella via della giustizia e non gli avete creduto» e Mt 3,15 «Lascia per ora; è così che ci
conviene adempiere ogni giustizia») deriva una medesima nozione di giustizia. Non
falseremmo il loro senso invertendo le espressioni: Gesù avrebbe potuto parlare a
Giovanni della convenienza per l’uno e per l’altro di seguire «la via della giustizia», così
come avrebbe potuto evocare davanti alle autorità giudaiche la maniera in cui Giovanni ha
«adempiuto ogni giustizia». Il termine ‘giustizia’ viene usato per indicare una condotta
«che è giusta e rende giusti, perché conforme alla volontà divina». Agli occhi di Matteo
esso caratterizza anche molto bene il modo di agire di Gesù e di Giovanni: l’uno e l’altro si
Cfr. J. DUPONT, Le Beatitudini. Gli evangelisti/2, EP, Roma 19794.
Marco non lo adopera e Luca ne fa uso una sola volta nel Benedictus (1,75), dove si definisce un ideale
religioso tipicamente giudaico. Certo, Paolo parla molto di ‘giustizia’ (il termine ricorre 33 volte in Rm), ma lo
fa in funzione di concezione teologiche molto specifiche. In Gv compare una volta (in contesto giudiziario,
16,8.10) e in At 4 volte (3 in bocca a Paolo).
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La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-5sottomettono senza restrizione a tutto ciò che viene loro prescritto da Dio, a tutte le
esigenze della loro missione. È così che loro sono certamente giusti davanti a Dio e
mostrano la via su cui, nel pensiero dell’evangelista, i cristiani devono a loro volta
impegnarsi.
La giustizia che immette nel Regno
Cominciamo con due versetti del discorso della Montagna, che presentano una
evidente affinità: 5,20 «Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non è più
abbondante di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» e 6,1
«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere visti da
loro, altrimenti non avrete alcuna ricompensa dal Padre vostro che è nei cieli».
Una giustizia più abbondante
La vostra giustizia (umōn): indica quella che voi fate, che voi praticate, quella che
caratterizza la condotta con cui voi vi mostrate giusti. È interessante notare il legame con
l’idea di abbondanza. L’espressione la ‘vostra giustizia’ sembra riecheggiare nelle
raccomandazioni circa le ‘buone opere’. Si tratta di una giustizia della vita, che procura a
quanti la praticano l’appellativo di ‘giusti’. Tale giustizia viene definita in rapporto a quella
‘degli scribi e dei farisei’. Il confronto tra i due tipi di giustizia riguarda la loro ‘abbondanza’.
In materia di giustizia i discepoli di Gesù sono tenuti a fare di più dei professionisti della
giustizia del giudaismo (Dupont, Le beatitudini, 383). Possiamo riflettere anche
capovolgendo i termini. Gli scribi e i farisei non entreranno nel regno perché la loro
giustizia è risultata mancante.
La giustizia più abbondante richiesta ai discepoli consisterà quindi nel ‘fare di più’
degli scribi e dei farisei, nel sottomettersi a esigenze più ampie. Le differenze riscontrabili
nelle antitesi non impediscono di riconoscervi un tratto comune, e cioè la preoccupazione
di ampliare le esigenze della giustizia, di definire la giustizia cristiana attraverso un
superamento della giustizia giudaica.
I due versetti 5,20 e 6,1, collocati in testa a due sezioni fondamentali del discorso
della montagna, definiscono due aspetti essenziali della giustizia evangelica. In
rapporto alla giustizia degli scribi e dei farisei, concepita come osservanza esatta dei
comandamenti, quella che viene richiesta ai discepoli (1) deve spingersi fino alle intenzioni
profonde di Dio, che hanno trovato solo una espressione inadeguata nella legge antica. Il
versetto 6,1 passa a considerare l’intenzione di colui che compie degli atti di giustizia. Gli
esempi non sono più attinti da azioni prescritte dalla legge, ma da certe pratiche di pietà
che sembrano testimoniare di per se stesse uno zelo religioso eccezionale. È chiaro che
quanto viene detto di tali pratiche si applica pure agli atteggiamenti e agli atti formalmente
prescritti, a cominciare dal precetto dell’amore ai nemici. Ed ecco quanto viene detto a loro
riguardo: tali atti, intrinsecamente religiosi, hanno valore agli occhi di Dio solo se vengono
compiuti con spirito religioso, in vista di essere a lui graditi. Compierli per attirarsi la stima
degli uomini significa simulare una religione che non si ha e dar prova di ipocrisia. Una
condotta esteriormente religiosa che non proceda da un atteggiamento religioso interiore
dell’anima, non può produrre una giustizia autentica, capace di piacere a Dio e di
riscuotere la sua approvazione. La giustizia, in questi versetti, qualifica un comportamento
conforme alla volontà divina ed enuncia nel medesimo tempo la condizione in base alla
quale uno sarà ammesso a godere della felicità del regno di Dio (Dupont, 420-421).
Cercare il regno e la giustizia
Lo studio del termine ‘giustizia’ ci spinge ad andare avanti. È ancora tutta una
sezione del discorso, 6,19-34, che viene messa in causa dalla menzione della giustizia di
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-66,33 «Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi
saranno date in più». ‘Cercare il regno’ e ‘cercare la giustizia’ sono posti in parallelo.
È difficile stabilire con precisione cosa sia la ‘giustizia di Dio’ che i discepoli devono
cercare insieme al regno.
Nella prospettiva di Matteo, il cercare la giustizia ha uno scopo più immediato
all’agire del cristiano, vale a dire quello di realizzare la giustizia più abbondante, grazie alla
quale uno potrà essere ammesso nel regno. Tale giustizia non è qualcosa di diverso dal
vestito per le nozze (22,11-13), dalla prospettiva dell’olio (25,1-13) ecc..
La giustizia costituisce la condizione per entrare nel regno. Egli vuole
precisamente ricordare che non si dà ricerca autentica del regno, se non nel
perseguimento di uno scopo immediato, che è quello della giustizia.
Conclusione
Dal punto di vista letterario il termine ‘giustizia’ appare come un intervento
redazionale dell’evangelista Matteo. Il pensiero che si manifesta nella aggiunta di tale
termine sembra essere lo stesso dappertutto. Matteo si mostra preoccupato di una
‘giustizia’ vissuta. Il termine qualifica una condotta conforme alle esigenze di Dio, delle
quali il discorso della montagna vuole precisamente rivelare tutta l’ampiezza. Giovanni
Battista, «venuto nella via della giustizia», ha dato prova di una fedeltà assoluta alla
volontà di Dio (21,32); come lui e con lui, Gesù si è dedicato ad «adempiere ogni
giustizia», osservando integralmente quel che Dio gli chiedeva (3,15). A loro volta i
cristiani devono realizzare con la loro condotta una «giustizia più abbondante di quella
degli scribi e dei farisei» (5,20), una giustizia la cui norma è la perfezione del Padre
celeste (5,48). A questo scopo non bastano gli atti esteriori, privi della intenzione del
cuore: la giustizia non ha alcun valore agli occhi di Dio, quando non sia compiuta allo
scopo di piacergli e di piacere a lui solo (6,1).
Da tale giustizia perfetta dipende l’ammissione nel regno di Dio, di cui attendiamo
l’avvento (5,20). Non esiste pertanto autentica aspirazione alla beatitudine del regno, se
non viene tradotta in una ricerca diligente della giustizia richiesta da Dio (6,33). Per
entrare nel regno non basta dire «Signore, Signore!», ma bisogna fare la volontà del
Padre celeste.
I cristiani saranno giudicati in base ai solo atti, esattamente come gli altri, e solo
coloro che avranno praticato la giustizia saranno ammessi nel regno. Nella beatitudine che
rinvia alla persecuzione a causa della giustizia, diventa ancor più evidente. Bisogna
ricordare ai cristiani, pensa Matteo, che il fatto di trovarsi nella sala del banchetto non è
ancora una garanzia per partecipare a questo. Neppure il fatto d’aver sofferto la
persecuzione a causa di Cristo basterebbe a garantir loro la salvezza, se non hanno
praticato la giustizia e sofferto a causa della giustizia, a causa di un modo di vivere
autenticamente cristiano.
Gesù il giusto
L’appellativo più antico che la predicazione cristiana assegna a Gesù è «giusto»
abbinato a «santo». Il suo significato è diverso a seconda delle persone che lo
pronunciano.
«Non avere nulla a che fare con quel giusto», fa sapere la moglie a Pilato (Mt
27,19). Ma giusto per lei equivaleva a ‘innocente’.
Giusto è tuttavia un titolo che la predicazione cristiana ha presto accantonato per
dal luogo ad attribuzioni più elevate (Messia, figlio di David ecc.), ma che i primi cristiani
sembrano aver preferito. «Realmente quell’uomo era giusto» (Lc 23,47).
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-7Ma il senso profondo del titolo ‘giusto’ dato a Gesù non è solo quello di innocente.
Gesù è giusto perché vive nella giustizia e per la giustizia cioè per l’attuazione che il Padre
gli ha assegnato, il regno di Dio.
La dimensione umana della giustizia
La convivenza umana si regge sul rispetto che i suoi componenti hanno tra di loro,
in altre parole sul rispetto della giustizia. Questa spinge a prendere e a conservare ciò che
è proprio e a lasciare ciò che appartiene agli altri.
La giustizia tutela i diritti connaturali all’esistenza di ogni essere e impone di
conseguenza dei doveri, cui dobbiamo sottostare. È giusto avere il pane quotidiano (Mt
6,11), come è giusto ricevere il salario per le prestazioni assolte ed è doveroso darlo da
parte di chi ne ha ricevuto il beneficio (Mt 20,4). Senza la giustizia l’esistenza diventa
impossibile. Su questa linea il Battista ricorda agli esattori di non esigere più di quanto è
stato stabilito e ai soldati di non far ricorso alle estorsioni per arrotondare il loro stipendio.
La giustizia quotidiana non è sempre la più semplice. Gesù interpellato da un
ascoltatore declina l’invito a fargli «giustizia presso il fratello»: «Amico chi mi ha costituito
giudice tra voi due?» (Lc). Gesù chiede ai suoi avversarsi di giudicare secondo giustizia e
non secondo le apparenze (Gv 7,24).
Luca raccoglie le grida di quanti sono trattati iniquamente (la vedova che
insistentemente va dal giudice che non temeva Dio e non si curava di alcun uomo).
La giustizia è la prima aspirazione dell’uomo, di ogni uomo, ma è ciò che egli vede
spesso, il più delle volte, calpestata.
I Vangeli non legittimano alcuna usurpazione, perciò, non danno avvallo a nessuna
forma di ingiustizia, che gli uomini si permettono di compiere. La dimensione umana della
giustizia, nel Vangelo non è sottovalutata, ma non è lo scopo ultimo della buona novella.
C’è qualcosa di più.
La giustizia evangelica
La possiamo intravedere nella parabola dei lavoratori della Vigna. Il padrone della
vigna è Dio, il suo agire è paradossale, tuttavia «giusto», poiché ordinato proprio a non
rifiutare a nessuno ciò di cui ha bisogno e per questo in certo modo gli è dovuto. Matteo
ricorda che Dio è «perfetto» non quando dà all’uomo ciò che si merita, ma ciò di cui ha
bisogno (Mt 5,45-48). L’ingiustizia si sarebbe verificata se fosse stato negato ai primi
quanto era pattuito, non se lo stesso favore si accorda benevolmente anche agli ultimi.
I giusti secondo l’accezione evangelica sono gli uomini generosi, pronti alla pietà,
ma soprattutto pronti alla compassione, alla benevolenza, non tanto alle buone parole
quanto alle buone azioni. Dobbiamo ricordare che quando il vangelo parla della giustizia
non intende delineare una categoria di persone, i giusti, ma un orientamento all’unico
giusto: il Padre.
Il giusto non è tanto colui che osserva le leggi o le fa rispettare, ma colui che
assume il comportamento del padrone della Vigna. «Se la vostra giustizia non è superiore
a quella degli scribi e farisei non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20)
Sul termine ‘giustizia’ non ammette riserve; non indica tanto l’esatta osservanza
delle pratiche della legge quanto il compimento della volontà di Dio. La misura della
giustizia cristiana è la perfezione di Dio (Mt 5,48). In questo la giustizia tocca il vertice. Il
cristiano è all’apice della giustizia, quando tratta il prossimo con la comprensione e la
benevolenza che gli usa Dio (Mt 5,43-48).
Nel NT la vera giustizia non può stare senza la fede: si apre così il discorso sulla
giustificazione e il perdono. Il discorso di Paolo sulla giustizia è consequenziale alla sua
teologia. Se l’uomo è nel peccato (o meglio tutti gli uomini), solo la salvezza lo può
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-8rendere giusto. La giustificazione è innanzitutto l’opera di Dio, che sola può rendere l’uomo
giusto.
5. Il perdono tra plausibilità e possibilità. Una prospettiva eticoteologica
In questa seconda parte dell’intervento, intendiamo mettere il concetto di giustizia
alla prova del «perdono». Si tratta di una rilettura dell’esperienza del perdono dentro
l’orizzonte etico-teologico, oltre che biblico. Per far questo non si potrà prescindere dai
maggiori apporti offerti alla teologia dalla ragione pensante. Venuto alla ribalta di recente,
il tema del perdono è riuscito a catturare l’interesse di diverse branche del pensiero
filosofico: da quella metafisica4 a quella fenomenologica5, da quella giuridica6 a quella
ermeneutica7, senza però trovare unanimi consensi attorno ad un nucleo indiscutibile. Se
si condivide l’idea che l’offesa appartiene all’ambito delle esperienze umane8 altrettanto
non si può dire del perdono. Sì, si può affermare che esiste il perdono, ma a che
condizioni questo prenda forma risulta più difficile dirsi. «Il perdono è cosa dell’uomo, il
proprio dell’uomo, un potere dell’uomo – oppure è riservato a Dio?»9 è la domanda a cui
Derrida approda al termine del suo saggio dal titolo Perdonare.
Riflettere sul tema significa muoversi lungo il limite tracciato da questa domanda:
teologia e filosofia non possono trascurarsi quando l’oggetto abita il confine10.
«Perdonare è un atto limite, molto difficile, che non significa solo rinunciare alla
punizione; comporta una asimmetria essenziale: al posto del male per il male
restituisce il bene per il male»11.
Il fenomeno del perdono, inoltre, genera ulteriori domande relative alla sua
possibilità e alle connessioni con altre dimensioni dell’esperienza umana. È
l’atteggiamento pentito ad aprire un varco al perdono nella relazione offesa o al contrario è
il perdono a dischiudere la possibilità del pentimento? Il vero perdono è anteriore o
posteriore al pentimento? Se è anteriore non si rischia di cadere in una forma di fiducia
incosciente? «È per questa ragione che il perdono, […] è una scommessa»12. Ma allora
dove si radica l’ammissibilità di una scommessa a così alto rischio? Inoltre, che legame
sussiste tra il perdono e la promessa, che in esso sembra ritrovare fecondità? Tra il
perdono e il dono? Ed infine, dove sta il punto d’appoggio per la ragionevolezza e la
plausibilità del perdono? Esso sta nel passato, come luogo in cui l’offesa ha preso forma e
nel quale può venire rielaborata, o nel futuro come luogo di una offerta alla persona a cui
non possiamo rinunciare?
4
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e pensiero, Milano 1998, pp. 239-253; Id.,Persone. Sulla
differenza tra 'qualcosa' e 'qualcuno', Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 214-229.
5
J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.
6
A. Acerbi - L. Eusebi, Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Vita e pensiero, Milano
1998; L. Eusebi, L'antitesi religiosa alla giustizia intesa come reciprocità, in «Humanitas» 59/2 (2004), pp.
363-379; cfr. il forum dal titolo La giustizia e la teologia morale, in «Rivista di teologia morale» 35/2 (2003),
pp. 173-215. I. Schinella, Giustizia e perdono, in «Rivista di teologia morale» 35/2 (2003), pp. 229-241; S.
Rostagno, Perdono e diritto, in Hermeneutica 1 (1998), pp. 131-156.
7
P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004.
8
Cfr. J. Laffitte, Il perdono trasfigurato, EDB, Bologna 2000, p. 19.
9
J. Derrida, Perdonare, cit., p. 90.
10
Sull’importanza del rapporto tra filosofia e teologia morale cfr. Fides et Ratio nn. 68 e 98.
11
E. Morin, Etica , Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 123.
12
Ivi, p. 126.
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
-9Dal punto di vista etico-teologico il perdono rimanda all’immagine di Dio13. Il
fenomeno in tutta la sua profondità chiama in causa la ‘questione’ di Dio14. Non certo
come deus ex machina invocato per trovare il bandolo della matassa, ma come relazione
nuova che dischiude un nuovo orizzonte di comprensione nel quale anche l’alto rischio a
cui il perdono ci rinvia diventa plausibile. Non nel pentimento – come causa efficiente – ma
nella fede il perdono diventa possibile. La fede crea lo spazio al perdono e il perdono
all’amore/carità15. Si tratta ora di mostrare la ragionevolezza di questo processo.
Le radici del difficile perdono
Il perdono è difficile: «né facile, né impossibile»16. Ricoeur ci introduce così
nell’epilogo dell’opera monumentale La memoria, la storia e l’oblio, dedicato per l’appunto
al difficile perdono, facendoci intuire l’arduo sentiero nel quale ci si imbatte volendo
affrontare questo tema. Tuttavia, sembra ormai impossibile sottrarsi a questo confronto.
Alla scarsa attenzione riservata, nel passato remoto e prossimo, all’idea di perdono, si
contrappone infatti l’attuale interesse di molti filosofi. Non solo perché la storia impone una
presa di posizione di fronte ad eventi d’emblé ‘imperdonabili’ ma perché nella storia del
pensiero si è guadagnato un posto degno d’interesse il tema del dono a cui il per-dono
sembra, almeno apparentemente, riconducibile17.
Non ci soffermeremo ad approfondire questi addentellati, per altro già studiati ed
evidenziati altrove, quanto a mostrare come alcune difficoltà possano trovare una
plausibile risoluzione a partire da una distinzione di piani: in particolare tra piano morale e
piano ontologico. Così da poter concludere che la questione del perdono, le cui
implicazioni morali sono evidenti, trova sul piano ontologico una condizione di plausibilità,
se non di possibilità. Condizione che rafforza, senza garantirle, le energie morali
necessarie per affrontare le esigenze del perdono difficile.
Iniziamo, tuttavia, dall’evidenziare sul piano etico l’entità del difficile. La difficoltà
non sta solo ed esclusivamente sul piano del vissuto ma anche su quello del concetto.
«Se è difficile da dare e da ricevere, altrettanto lo è da concepire. La traiettoria
del perdono prende la sua origine nella sproporzione esistente fra i due poli
della colpa e del perdono […]: in basso, la confessione della colpa, in alto,
l’inno al perdono»18.
L’abisso che si genera tra questi estremi rende concettualmente problematica la
tenuta della loro connessione, necessaria affinché non perda di significato uno dei due
poli. Se si riducesse arbitrariamente questa distanza, facilitando il perdono, si svilirebbe la
portata della colpa, rasentando l’ingiustizia storica, oltre che morale. Se viceversa, si
esasperasse il senso della colpa si dissolverebbe la possibilità del perdono e con esso
tutto ciò che vi gravita attorno (possibilità di riscatto, di futuro, …). Colpa e perdono non
possono stare che alla loro distanza, profonda ma necessaria. La colpa non può essere
13
Cfr. J. Fuchs, Immagine di Dio e morale dell'agire intramondano, in «Rassegna di Teologia» 25/4 (1984),
pp. 289-313.
14
«Il significato vero e proprio insito nel bisogno di perdono è concepibile solo a partire da Dio». R. Guardini,
Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 448.
15
Cfr. l’analisi narrativa del brano di Lc 7,36-50 ci pare illuminante su questo punto. La peccatrice: il perdono
di Gesù e la fede di una donna. C. Broccardo, La fede emarginata. Analisi narrativa di Luca 4-9, Cittadella
Editrice, Assisi 2006, pp. 158-231.
16
P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, cit., p. 649. Sul tema del perdono in Ricoeur cfr. P. Ricoeur, Il
Giusto, cit., pp. 167-180; Id., Il perdono può guarire?, cit., pp. 157-165. Cfr. D. Pagliacci, Il tempo di
perdonare. L'enigma del perdono in Jankélévitch e Ricoeur, in M. Signore-G. Scarafile, Libertà, evento,
storia, Edizioni Messaggero, Padova 2006, pp. 287-303.
17
Cfr. P. Gilbert, Sapere e sperare. Percorso di metafisica, Vita e pensiero, Milano 2003, pp. 335-346.
18
P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, cit., p. 650.
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 10 sollevata, sembra dire Ricoeur, a motivo della sua stretta connessione con il mysterium
iniquitatis. Così dentro l’abisso della colpa l’unica parola che appare pronunciabile è:
‘imperdonabile’19. Per tale ragione concepire il perdono è difficile. Tuttavia, il perdono c’è.
C’è come c’è l’amore, la gioia, la saggezza e la follia. A questa famiglia, dice Ricoeur,
anche il perdono appartiene. E se il perdono c’è, senza arrivare alle formule radicali di
Derrida, questo non può che prendere forma nel calco della colpa. Come una lastra
fotografica, il perdono prende visibilità nell’acida sostanza della colpevolezza umana20.
Di fronte alla colpa imperdonabile e al perdono impossibile solo una via sembra
percorribile: quella che intravede la possibilità di slegare l’agente dal suo atto. In altre
parole, afferma Ricoeur, «separare il colpevole dal suo atto, altrimenti detto: perdonare al
colpevole pur condannando la sua azione»21. Ma questa prospettiva esige un atto di fede,
cioè una fiducia reale nelle possibilità che una persona, colpevole, ha di rigenerarsi.
A questo punto sorgono con imperiosità le domande circa la correttezza etica di
questa presupposizione. Che ne è delle dichiarazioni di Jankélévitch circa l’impossibilità,
l’inopportunità e addirittura l’immoralità del perdono? Come fondare un atto di fede,
quando questo potrebbe diventare un oltraggio agli uomini e alle donne che nella storia
hanno pagato con la vita il prezzo del male? La cosa difficile da capire, negli strali che
anche Jankélévitch lancia a chi ammette un perdono di fronte ad Auschwitz, è se questa
impossibilità vada attribuita alle proporzioni del male, che stravolgerebbero, rendendola
inammissibile, la natura del perdono o al prevalere della condanna sulla fiducia nella
possibilità di rigenerazione. In precedenza, infatti, lo stesso Jankélévitch ne aveva
affermata la plausibilità22. Tuttavia, riteniamo che circa la natura del perdono le cose non
cambino qualora sia una sola madre ad essere chiamata in causa di fronte al perdono
dell’assassino di proprio figlio.
Se c’è perdono questo deve fondare la propria radice altrove, che non sia il
quantitativo della colpa. Ricoeur, a questo punto, esplicita un’idea chiave sulla quale
sostare: «tu vali molto di più delle tue azioni»23. Il perdono vale solo dentro l’implicita
promessa che la persona possa nel tempo orientare se stessa verso il bene. E nel ‘tu vali’
si può scorgere una dignità che trascende non solo il lato storico della faccenda ma anche
quello morale24. La concreta possibilità del perdono Ricoeur la affida ad una forma di oblio
attivo (arte del dimenticare), che, da una parte, essendo attivo non riduce il perdono ad
una banale forma di dimenticanza, e dall’altra rende possibile un futuro ad una situazione
diversamente compromessa25.
Le suggestive riflessioni ricoeuriane ci conducono ad un punto della nostra
riflessione che permette l’introduzione di una distinzione di piani. Se finora il piano morale
ha prevalso può essere utile tentare un discorso apriori che esige una attenzione
all’aspetto, se così si può dire, ontologico del perdono.
19
«Se il perdono fosse possibile, afferma Nicolai Hartmann, esso costituirebbe un male morale», Ivi, pp.
660-661.
20
«Questa sproporzione tra la profondità della colpa e l’altezza del perdono sarà il nostro tormento fino alla
fine di questo saggio», Ivi, p. 663.
21
Ivi, p. 697.
22
V. Jankélévitch, Il perdono, Milano, IPL, 1968; Id., Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987.
23
P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, cit., p. 702.
24
La dignità della persona non è commisurabile alla sua moralità.
25
«Il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla
fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei
conti, al livello di bilancio contabile, si tratta di sciogliere de nodi. (…) È qui che il perdono confina con l’oblio
attivo: non con l’oblio dei fatti, in realtà incancellabili, ma del loro senso per il presente e per il futuro». P.
Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. cit., pp. 116-118; cfr. Id., Il perdono può guarire?, pp. 157-165.
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 11 Le condizioni di plausibilità del perdono: dalla promessa al perdono necessario.
Collochiamo queste considerazioni nel contesto aperto dalla riflessione sul concetto
di persona a cui anche Ricoeur ha affidato le sue ultime osservazioni (‘tu vali di più delle
tue azioni’).
Il punto di partenza consiste nella constatazione, in sé evidente, che le persone
sono capaci di impegnarsi in promesse. Si tratta anzitutto di «celebrare, come afferma
Ricoeur, la grandezza della promessa»26. La capacità di promessa a cui la persona
sembra abilitata crea, secondo Robert Spaemann, lo spazio per una ragionevole
considerazione sul perdono. L’attesa che si genera allo scandire di una promessa è
sostenuta, ovviamente, da elementi attestati dall’esperienza. Proprio per questo l’attesa
non appare un’assurdità. Le promesse a loro volta fondano dei diritti particolari, ad
esempio il diritto a non essere ingannati con false promesse. Tuttavia, sorge spontanea la
domanda: qual è la natura della promessa, tale da renderla vincolante senza la necessità
di un’ulteriore promessa che la mantenga? La rinuncia a questa successiva ricerca sta nel
fatto che la persona si realizza, come persona, proprio nella forma della promessa. «Egli
accetta la promessa che egli è già in quanto persona»27. La questione della ‘fondazione
ultima’ sembra risolversi proprio per questa ragione, perché trova nell’automanifestarsi
della persona il suo fondamento. «La persona è una promessa»28. La rinuncia al carattere
promettente con il quale la persona si manifesta è impossibile, pena il rinnegare se stessi.
Il fenomeno della promessa, pertanto, getta luce su quella che noi chiamiamo
‘persona’. Il nostro essere personale, in quanto tale, esprime una promessa a cui inerisce
ogni altra forma di promessa che siamo in grado di fare. Questo vuol dire che il contenuto
di ogni altra promessa è direttamente associato a quella promessa che noi siamo in
quanto persone. Questo tratto fondamentale implica il carattere fortemente intersoggettivo
dell’essere personale. Promettendo, infatti, rinunciamo a una parte di noi stessi e
concediamo ad un altro un diritto su di noi. Di conseguenza, nella rottura, negazione o
tradimento della promessa sta il naufragio della fondazione dell’identità personale e la
deriva della propria libertà. Sul versante etico la grandezza, ma al tempo stesso la
debolezza, della promessa è da attribuire proprio al nostro essere persone libere. La
promessa, infatti, è affidata a noi, all’esercizio della nostra libertà29. Il distendersi di
quest’ombra sulla promessa non compromette solo il rapporto con gli altri, minacciato
continuamente dalla nostra povertà, ma anche la fedeltà a noi stessi. In questo spazio
aperto da una promessa certa e da una libertà debole si dischiude un possibile senso
all’oggetto della nostra indagine: il perdono30.
Nelle relazioni interpersonali noi speriamo che il nostro comportamento, il quale
grava sempre su altri, non ci trasformi ai loro occhi in semplici nemici. Ciò in cui speriamo
è, appunto, una forma di perdono. In alcune lingue si chiede perdono quando per
raggiungere il proprio scopo si importuna, anche se in modo minimo, un’altra persona. La
ragione di ciò, sostiene Spaemann, si radica nel fatto che la promessa che siamo supera
la nostra possibilità di mantenerla. C’è una sproporzione tra l’altezza del nostro essere
personale, di cui la promessa diventa ora la cifra, e le nostre reali possibilità di
realizzazione.
26
P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 147.
R. Spaemann, Persone, cit., p. 216.
28
Ivi, p. 216.
29
«Memoria e promessa devono infatti entrambe confrontarsi con un contrario, con un nemico che potrebbe
definirsi mortale, come l’oblio nel caso della memoria e come il tradimento nel caso della promessa, con le
loro ramificazioni e le loro insidie», P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., pp. 144-145.
30
«La promessa, nel suo coniugarsi con il perdono, consente all’azione umana di ‘continuare’; (…) il perdono
è ciò che rende possibile la riparazione», ivi, p. 149.
27
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 12 Ma in che senso si può parlare di perdono vero e proprio? Il perdono non è
prevalentemente, se non esclusivamente, una categoria morale?31. In questo contesto il
perdono può essere considerato come un segno del riconoscimento della realtà dell’altro.
Infatti il riconoscimento «contiene sempre il momento del perdono, per il fatto che nessuno
mantiene ciò che, attraverso il proprio essere, promette (…). Perdono, in questo significato
fondamentale e premorale, indica che noi ci comportiamo con i nostri simili secondo
giustizia e ne rispettiamo la dignità solo quando non li prendiamo totalmente sul serio»32.
Se prendessimo un uomo totalmente sul serio lo distruggeremmo; le nostre attese
supererebbero le sue possibilità, e viceversa. L’espressione che Gesù pronuncia sulla
croce: «perdona loro perché non sanno quello che fanno»33, commenta ogni azione
umana. Non si tratta di un’ignoranza che scusa ma di un’ignoranza ontologica. Ogni nostra
azione, a partire dal nostro semplice esserci, promette più di quanto può mantenere. Noi
viviamo, pertanto, del perdono che diamo e che riceviamo34; proprio per questo possiamo
intenderlo, a questo livello, come il dono che si perfeziona35.
Ciò di cui si sta parlando viene chiamato da Spaemann perdono ontologico, in
quanto ha per oggetto il nostro essere, il fatto che siamo così36. È bene sottolineare che
non si tratta di una riflessione che scaturisce da una forma di naturalismo o di
determinismo – ‘questa è la mia natura e non ci posso fare nulla’ – ma di carattere
ontologico, e per tale ragione si inserisce dialetticamente con le altre caratteristiche
ontologiche, quali la libertà, la ragionevolezza ecc.
«Con il perdono ‘ontologico’ permettiamo all’altro di non mantenere quella
promessa che egli, in quanto essere razionale, è. […] È necessario innanzitutto
trattare il perdono nel sul senso ontologico, in quanto la forma morale del
perdono della colpa e del male è possibile soltanto a partire da quel perdono a
cui abbiamo accennato in precedenza, nel quale, cioè, ci perdoniamo l’un l’altro
la finitezza di una ‘natura’ determinata»37.
Che cosa accade con il perdono? La persona che perdona percepisce chi gli sta di
fronte al di là di quello che egli manifesta di sé attraverso le sue azioni, e in questo modo
gli concede di distanziarsi da tutto ciò che fa o omette di fare. Si supera così il dilemma
circa l’identificazione della persona con i propri atti. C’è ovviamente corrispondenza, ma
allo stesso tempo anche differenza. La persona è più della somma delle sue azioni38
(l’agire segue l’essere ma non lo esaurisce). Se l’azione costituisce la conseguenza
immediata dell’essenza del soggetto agente, dobbiamo chiederci se sia possibile parlare
di perdono. Il perdono è possibile solo se l’agente ha la possibilità «di dissociarsi a
31
Può esserci perdono senza colpa, o meglio anteriore alla colpa? Queste affermazioni andrebbero articolate
con quanto Lévinas afferma circa una responsabilità che precede la libertà. Oppure su un versante più
ontologico con quello che Hans Jonas afferma circa la responsabilità originaria. Cfr. l’interessante studio di R.
Simon, Éthique de la responsabilité, Cerf, Paris 1993.
32
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, cit., p. 242 (ovviamente questa frase non va intesa in maniera
superficiale).
33
Lc 23,34.
34
Robert Spaemann riporta l’aneddoto di Sant Ambrogio: «Alla domanda perché Dio dopo la caduta degli
angeli avesse creato l’uomo, Sant’Ambrogio rispose: dopo quell’esperienza Dio voleva avere a che fare con
esseri ai quali potesse perdonare», R. Spaemann, Felicità e benevolenza, cit., p. 242.
35
Cfr. P. Gilbert, Sapere e sperare. cit., p. 349. «Dal punto di vista etimologico, il termine ‘perdono’ significa
la perfezione del dono. In questa perfezione non possiamo scorgere alcuna ombra di colpa, alcuna
mancanza: il perdono indica la ridondanza perfetta del dono», ivi, p. 351.
36
Spaemann stringe una connessione tra promessa ontologica e perdono ontologico.
37
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, cit., p. 245.
38
In questa linea si collocano le riflessioni che la teologia morale ha condotto a partire dal teorema
dell’opzione fondamentale. Cfr. K. Demmer, Opzione fondamentale, in «Nuovo Dizionario di Teologia
Morale», Edizioni paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1990, pp. 854-861.
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 13 posteriori da quel modo d’essere che si è manifestato nell’azione che egli ha compiuto,
senza tuttavia scuotersi di dosso la responsabilità di essere stato lui ad aver potuto fare
quella determinata cosa ed ad averla fatta»39. Significa superare l’affermazione: ‘sei fatto
così!’, o per riprendere l’affermazione ricoeuriana: ‘tu vali molto di più delle tue azioni’. Il
perdono risulta, dunque, quella realtà nella quale l’essere/persona si riafferma più intimo e
profondo di ogni negazione inflitta dalla libertà40.
Dal piano ontologico possiamo gettare luce su quello morale. Il perdono
presuppone sempre la colpa, quindi la libertà. Sul piano ontologico il perdono è il segno di
un perfezionamento del dono, sul piano morale del suo tradimento. Per accettare l’evento
del perdono dobbiamo riconoscere che la persona con la propria decisione non abbia
rivelato un essere-così definitivo41. Io sono certamente quello che ha compiuto quell’atto,
ma non sono tutto lì. La persona è sempre qualcosa di più dei suoi predicati42.
Nella prospettiva relazionale, di fronte alla colpa avviene sempre una interruzione e,
affinché questa venga rimossa, è necessario un aiuto dall’esterno, dall’altro. La colpa e, di
conseguenza, il perdono uniscono in modo unico e insostituibile due persone43. Esse si
trovano unite senza possibilità di sostituzioni (nessuno può assumersi la colpa o
perdonare al posto di) o di restituzioni (il torto di fatto non ha un prezzo; può averlo il
danno, ma questo non è ancora una colpa).
«L’aiuto consiste nella disponibilità dell’altro, il che significa soprattutto di colui
che è toccato dalla colpa, a non identificare il colpevole con il suo concreto
essere-così, ma a permettergli di ridefinirsi rispetto a ciò che egli ha fatto»44.
Questa concessione, che deve essere richiesta, la chiamiamo perdono. Ci troviamo
di fronte ad una forma di relazione che esula, da una parte, dalla stretta reciprocità, e
dall’altra da una sfera esclusivamente giuridica. A dischiudere questa condizione è
proprio la relazione con l’altro/persona che, oltre a rendere possibile la promessa che
siamo, apre lo spazio etico al perdono. «Abbiamo qui a che fare con una peculiare
asimmetria, e cioè con un dovere di perdonare, di fronte al quale non sta alcun diritto al
perdono»45. Ma il perdono può essere accordato, come abbiamo visto, per il fatto che una
persona è sempre più della somma dei suoi predicati, ed identificarla con essi significa
distruggerla. Il perdono, nella sua coloritura etica, diventa espressione della ‘ridondanza
del dono’, mostrandone la sua potenza creatrice. Chi riceve il perdono è restituito alla vita
e gli viene concesso un futuro.
Ovviamente il perdono non possiamo attribuircelo da noi stessi, possiamo solo
lasciare che l’altro ci perdoni, dopo averglielo chiesto, accettando questo suo gesto. «Il
risultato è la gratitudine»46. Abbiamo bisogno dell’altro; nel perdono, alla passività di chi
dice ‘io sono così’ corrisponde l’atto del perdonare che dice: ‘no, non sei così!’. Il male è
proprio in quella curvatio in seipsum che sta alla radice del peccato. «Esso non è quindi
l’esser-così naturale, quanto piuttosto il fissare tale essere-così contro la sua direzione
39
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, cit., p. 246.
Cfr. A. Chapelle, Les Fondaments de l'Ethique, cit., p. 163. Andrebbero fatte le opportune distinzioni tra
chi offre il perdono e chi lo riceve come puntualmente fa J. Laffitte, ma per il momento manteniamo
indistinte le cose. Cfr. J. Laffitte, Il perdono trasfigurato, cit., pp. 45-83.
41
Cfr. R. Spaemann, Persone, cit., p. 226.
42
«La persona non è, infatti, ‘qualche cosa’ che si trovi al fondo dell’analisi, o una combinazione definibile di
lineamenti. Se essa fosse una somma, la si potrebbe fare oggetto d’inventario; mentre essa è la zona del
8
‘non-inventariabile’», E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1987 .
43
«I due si coappartengono, afferma Guardini, se quindi faccio sul serio con la volontà di giungere all’inizio,
devo desiderare che l’altro acconsenta, e ciò accade in virtù del suo perdono», R. Guardini, Etica, p. 443.
44
R. Spaemann, Persone, p. 226.
45
Ivi, p. 226.
46
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, p. 247.
40
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 14 naturale»47. Il perdono, dunque, diventa il riconoscimento della vera natura dell’altro,
ripristinandolo nel suo fine. La natura personale, anche quando è segnata dalla colpa, dal
ripiegamento su di sé, «è teleologicamente orientata a destarsi»48. Il perdono, in questa
prospettiva, diventa il luogo della rigenerazione e nella medesima sfera di significati si
riscopre il senso autentico della punizione o dell’espiazione.
Per un’etica teologica del perdono: una possibilità reale
Il carattere promettente con cui la persona si manifesta, il quale a sua volta si
innesta su quello più profondo di cui è intrisa la vita stessa, diventa il presupposto per ogni
azione etica; potremmo dire, in un certo senso, ne costituisce il movente (non per forza
consapevolmente riflesso). Tuttavia, come afferma Angelini, «non sempre l’agire effettivo
mantiene le promesse che, pure non attualmente presenti alla coscienza, di fatto motivano
l’iniziativa di agire»49. Esiste, pertanto, uno scarto tra la promessa e la conseguente
realizzazione operata dalle forme dell’agire; scarto che, alla luce di quanto abbiamo
sottolineato a partire dalla riflessione di Spaemann, si configura in una duplice modalità.
Nella prima, lo scarto appartiene alla dimensione ontologica dell’agire (la promessa che
siamo è più di quanto con la nostra vita potremo mantenere), nella seconda, esso deve
essere imputato al «carattere scadente dell’agire libero»50. È evidente che tale distinzione
di modalità non implica mai una dissociazione.
Senza il perdono dell’altro, verso la promessa non mantenuta che siamo, viene
compromessa la possibilità di un futuro pienamente umano; e nel momento in cui il
tradimento della promessa diviene colpevole, cioè frutto della libertà, ne consegue la
perdita di quella che potremmo definire la ‘statura umana’. Il peccato è sempre un
ripiegamento che nega la posizione eretta dell’uomo, la possibilità cioè di scorgere e
perseguire il suo fine. Proprio la fragilità, a cui ogni uomo è sottoposto, rende debole la
nostra possibilità di mantenere ‘retta la via’ (verso il fine a cui il nostro carattere
promettente ci dischiude). Solo una promessa che si preannuncia in sé fedele e non
soggetta al rischio del tradimento offre la possibilità al perdono, difficile per natura, di non
diventare iniquo51. Diversamente anche il perdono risulterebbe una promessa, quella
appunto di riconciliazione, tradita, perché infondata.
La teologia, senza misconoscere quanto la ragione può affermare, si introduce
mostrando che proprio la promessa fondata sulla fedeltà di Dio – un Dio affidabile –
risignifica un’esperienza umana altrimenti troppo fragile per essere credibile52. Dio non
abroga l’umano ma lo assume e lo redime. Secondo l’antico adagio, gratia non tollit, sed
perficit naturam, riconosciamo, da una parte, la necessità di ogni indagine sulle condizioni
di possibilità del perdono umano ma, dall’altra, l’insufficienza del fermarsi ad esse.
Che il perdono non sia un corollario teologico lo mostra la centralità che esso
assume nella storia della salvezza. «Le figure fenomenologiche del perdono – integrità,
ritorno, liberazione, giustificazione – sono riprese nella drammatica storia della salvezza»53
e sono connesse all’intera economia salvifica. Dio si rivela nella logica della gratuità di cui
47
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, p. 248. Cfr. gli interessanti studi in G.L. Brena, (a cura), Mysterium
iniquitatis. Il problema del male, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 2000; cfr. anche G. Canobbio - F. Dalla
Vecchia - R. Tononi, (a cura), Il male, la sofferenza, il peccato, Morcelliana, Brescia 2004.
48
R. Spaemann, Felicità e benevolenza, p. 249.
49
G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999, p. 581.
50
Ivi, p. 582.
51
Il perdono assumerebbe un significato dubbio qualora divenisse una semplice forma di dimenticanza o di
semplice cancellazione. Rasenterebbe l’iniquità.
52
Lo mostrano tutte le contestazioni al concetto di perdono, alla sua esistenza, alla sua necessità o, in modo
più radicale, alla sua possibilità.
53
A. Chapelle, Les Fondements de l'Ethique, cit., p. 154.
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 15 il perdono è l’espressione somma. Il perdono di Dio, promessa senza tradimento, diventa
la fonte della nostra possibilità di perdonare. In questo senso si può condividere
l’affermazione di Guardini: «Dio, e lui solo, propriamente può perdonare»54 dal momento
che solo Dio è promessa mantenuta. Il perdono di Dio si manifesta proprio nella logica
della rinuncia a credere che l’uomo sia tutto ciò che di lui dicono le sue azioni. Se il
perdono risulta essere il proprio di Dio, non per questo rimane estraneo alla struttura
morale dell’uomo.
L’analisi dell’ethos anticotestamentario mostra come nella relazione con Dio, che si
rivela nella storia, il popolo di Israele si sia aperto ad una capacità etica che trova nel
‘perdono’ la chiave ermeneutica dei rapporti interumani55. A questo, già l’antico Israele era
stato educato. Nella Bibbia sono rintracciabili due modalità di intervento nei confronti del
colpevole, le quali mostrano il modo con cui ‘pena e perdono’ si articolano secondo
un’opera di giustizia56. Ora, nella seconda di queste modalità, l’intenzione fondamentale
consiste proprio nel «rispettare e promuovere la vita e la dignità dell’essere umano
(anche) colpevole»57. Il termine tecnico con cui viene definita questa procedura è il verbo
rîb, che significa accusare. Chi accusa, tuttavia, non intende né distruggere l’altro,
divenuto nemico nella colpa, né assumere la stessa intenzionalità della pena giudiziaria.
«L’intenzionalità ultima del promotore del rîb è infatti perdonare. (…) L’offeso, la vittima ha
il potere sublime di far incominciare una nuova vita»58. Dio abilita ad un rapporto che
interpreta la giustizia alla luce del perdono. Il perdono diviene, pertanto, condizione di
possibilità affinché il colpevole ritrovi dignità al futuro, alla promessa di vita. Riconciliarsi
con l’altro – che in quanto colpevole stigmatizza il tradimento del dono – diventa il primo
atto per una ripresa etica. Esso rovescia quella che, sia ontologicamente sia eticamente,
appare come la condizione di partenza, cioè quel presupposto tacito «che avvelena in
radice»59. L’ethos anticotestamentario mostra che il perdono, come guarigione della
memoria e ripresa della promessa nasce dentro il contesto di relazione con il Dio di
Israele. In tutti i filoni fondamentali su cui si struttura l’Antico Testamento, Legge, Sapienza
e Profezia, Dio rilancia continuamente la sua promessa, che riconcilia l’uomo con il suo
passato e ridona consistenza al futuro.
La logica dell’equivalenza a cui il criterio di giustizia si ispira, sembra cedere il
passo alla logica della sovrabbondanza. Ciò che accade con il perdono sembra rimandare
ad un valore sovragiuridico60. La sua finalità «è di ‘spezzare il debito’, offrendo
gratuitamente al colpevole una sorta di guarigione della memoria, la memoria è libera. ‘Il
54
R. Guardini, Etica, cit., p. 448.
Circa il metodo di approccio etico alla Sacra Scrittura a cui stiamo facendo riferimento cfr. S. Bastianel-L.
Di Pinto, Per una fondazione biblica dell'etica, in T. Goffi-G. Piana, (a cura), Corso di morale. 1, Queriniana,
Brescia 1989, pp. 75-173.
56
Nell’antico diritto ebraico esistevano due procedure per riparare i torti. La prima, il mišpat o giudizio, era
una procedura a tre, analoga al processo che conosciamo: l’offeso conduce l’offensore, per ottenere la
condanna, davanti ad un terzo imparziale, il giudice. Questo tipo di giustizia valeva se due litiganti erano
nemici o, almeno, estranei. Qualora i contendenti fossero stati amici o legati da un rapporto vitale
(padre/figlio ecc.) si apriva la possibilità solo di una disputa a due, il rîb, il litigio.
57
P. Bovati, Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell'Antico Testamento, in A. Acerbi-L. Eusebi, (a
cura) , Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Vita e pensiero, Milano 1998.
58
Ivi., 53. «Ecco la conclusione del rîb, opposta a quella del giudizio. Invece della pena di morte si ottiene di
conservare in vita il reo, perché si riesce a liberare il colpevole dal suo male e a riammetterlo nella
comunione dei fratelli», ivi, p. 53.
59
A. Rizzi, Crisi e ricostruzione della morale, cit., p. 129. Cfr. C.M. Martini - G. Zagrabelsky, La domanda di
giustizia, Einaudi, Torino 2003.
60
Su questo anche Ricoeur è chiaro: «il perdono non appartiene all’ordine giuridico. (…) Il perdono, in
effetti, sfugge al diritto sia per la sua logica sia per la sua finalità. (…) esso fa capo a una economia del
dono», P. Ricoeur, Il Giusto,cit., p. 179.
55
La giustizia nel NT (Sergio Passeri)
- 16 perdono, in definitiva, accorda un futuro alla memoria’»61. Dio, memoria senza colpa,
diventa la fonte del perdono umano62.
Può essere utile soffermarsi qualche istante sul ruolo della memoria. La memoria
custodisce le tracce delle nostre relazioni, sia quelle ferite che quelle edificanti. Ma la
memoria è anche il luogo dove è custodita, se c’è stata, la relazione fondamentale con il
Dio della gratuità e della misericordia. Se Dio ci incontra sul terreno della misericordia
(Zaccheo, la peccatrice ecc.) la traccia non può che essere custodita nella memoria. Una
memoria guarita diventa la fonte per relazioni di guarigione che declinano in diverse forme
l’iperbolica esperienza di quel particolare dono che è il perdono. Anziché un oblio attivo
diventa significativa, nell’esperienza di fede, una memoria attiva. Là dove la dimenticanza
del perdono/condono ricevuto prende il sopravvento, le conseguenze etiche assumono
una immediata evidenza. Nella parabola del servo iniquo, l’aver dimenticato il condono del
proprio debito rende incapace l’uomo, divenuto iniquo, di perdonare il fratello63. I gesti
dell’amore, di cui il perdono del colpevole – alla stregua dell’amore per il nemico –
rappresenta il vertice, costituiscono l’interpretazione etica a cui si è ricondotti in virtù
dell’orizzonte di comprensione che si è aperto nell’incontro con il Dio di Gesù Cristo64.
Se nella relazione con l’altro, come abbiamo visto, si dischiude la plausibilità del
perdono, nella relazione spirituale con Dio si dischiude la possibilità del perdono.
L’orizzonte nuovo a cui l’umano è ricondotto nell’esperienza spirituale di relazione con Dio,
permette di risignificare un’esperienza irrinunciabile, com’è quella del perdono, di per sé
troppo compromessa umanamente. La fede in Dio permette, attraverso l’ingresso del suo
perdono (di cui tutti abbiamo bisogno), di risignificare le azioni dell’uomo nella logica
dell’amore: «la fede porta al perdono, il perdono provoca l’amore»65. Perché il perdono è il
proprio di Dio, può diventare, nell’esperienza di fede, il proprio dell’uomo.
Il perdono, dal punto di vista etico teologico, sulla scia dell’offerta di significato del
concetto di dono, diventa un criterio ermeneutico. Lo mostra proprio la circolarità
ermeneutica che si genera tra fede-perdono-amore. La fede indica la relazione nuova, a
cui apre l’incontro con Cristo, che diventa porta d’ingresso all’esperienza del perdono a cui
corrisponde l’interpretazione nuova delle proprie azioni66. In questo modo, si possono
comprendere come sensati – in quanto il senso è dischiuso dalla relazione con il Dio della
promessa mantenuta – anche quegli atti che non hanno apparentemente ‘ragioni’ come
l’amore per i nemici, che traducono, in modo concreto, il perdono di fronte
all’imperdonabile.
Don Sergio Passeri, docente di morale - Brescia
61
P. Gomarasca, Libertà e colpa, in F. Botturi (a cura), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, Vita
e pensiero, Milano 2003, pp. 211-234.
62
Ciò non significa, come precisa Bovati, «ridurre il perdono, a un puro concetto teologico da attribuire a
Dio: il perdono, al contrario, è un fatto della storia, che, per i cristiani, è rivelato e donato in Gesù Cristo (…)
Se in Cristo si rivela la natura di Dio, ciò che in questo evento storico è manifestato (non dedotto da una
logica a priori) è il rinunciare di Dio alla collera per fare misericordia al peccatore», P. Bovati, Ristabilire la
giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, PIB, Roma 1986, nota 84 p.142.
63
Mt 18,23-35; sul perdono nel Vangelo di Matteo cfr. T. Costin, Il perdono di Dio nel Vangelo di Matteo.
Uno studio esegetico-teologico, PUG, Roma 2006.
64
Cfr. S. Bastianel, Teologia morale fondamentale. Moralità personale, ethos, etica cristiana, PUG, Roma
19992.
65
C. Broccardo, La fede emarginata, cit., p. 230.
66
«La coscienza cristiana sa bene che la fede nel vangelo di Gesù impone una nuova interpretazione
dell’evidenza morale», G. Angelini, Teologia morale fondamentale, cit., p. 558.