Scuole di Sussidiarietà Marco Cammelli DECENTRAMENTO E
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Scuole di Sussidiarietà Marco Cammelli DECENTRAMENTO E
Scuole di Sussidiarietà Marco Cammelli DECENTRAMENTO E OUTSOURCING NEL SETTORE DELLA CULTURA: IL DOPPIO IMPASSE 1 Sommario: 1. quadro concettuale e istituzionale 2. esternalizzazione nella amministrazione statale; 3. esternalizzazione a livello locale 4. regole senza esternalizzazioni e esternalizzazioni senza regole 5. elementi di comparazione. 6. per concludere 1. Il quadro concettuale e istituzionale. Per quanto queste considerazioni siano dirette ad approfondire un aspetto specifico, e cioè le opportunità e i limiti che il nuovo assetto delle relazioni stato-autonomie risultante dalle leggi di riforma amministrativa degli anni ’90 (e in particolare, dal d.lg.112/1998) presenta sul terreno delle esternalizzazioni per ciò che riguarda il settore della cultura, è necessario far precedere l’analisi da alcune messe a punto la cui mancanza pregiudicherebbe la chiarezza dell’esposizione e la comprensione di chi legge. Si tratta di dati e precisazioni ovviamente sintetiche ed esclusivamente introduttive al fuoco del discorso: lo spazio, le modalità, gli effetti e i problemi dell’outsourcing, oggi, nelle attività e nei beni culturali. Il problema si pone essenzialmente con riguardo alla situazione in atto del decentramento istituzionale e all’accezione accolta di esternalizzazione, in sé e nelle reciproche relazioni. Ma prima ancora di affrontare questi aspetti, è bene precisare che ci riferiremo al “settore della cultura”, vale a dire ad un insieme di per sé già molto ampio ed eterogeneo, escludendo le attività prevalentemente esercitabili (ed esercitate) da imprese di carattere industriale (quali il turismo, anche culturale, o lo spettacolo, come cinema) ed invece assumendo l’espressione nel significato più ristretto, e rilevante nei rapporti centro-periferia, fatto proprio dal legislatore (capo V del d.lg. 112) e in sede scientifica, con l’articolazione della materia nelle politiche di tutela, valorizzazione e promozione, gestione (1). 1.1. decentramento. Qui bisogna intendersi. Se prendiamo il termine in senso letterale, vale a dire come trasferimento di compiti e risorse dal centro (o, comunque, dallo Stato) al sistema delle autonomie, allora dobbiamo dire che il settore della cultura non ha conosciuto seri decentramenti, o perché rinviati a riforme da varare successivamente (è il caso della legge quadro sui beni culturali preannunciata nel d.lg. 616/1977) e mancate (2), o perché, come appunto nel “terzo decentramento”, in una parte importante (la tutela) esclusi a priori dalla legge di delega (art.1.3 lettera d della legge 59/97), o perché la puntuale precisazione dei relativi trasferimenti (3) è rimasta affidata a modalità macchinose e complesse che, come era prevedibile, non hanno ancora dato alcun risultato (4). Sicché, pur ponendo all’attivo alcuni elementi tra i quali, in particolare le innovative definizioni relative non solo agli elementi tradizionali del settore (beni culturali e ambientali, tutela, gestione) ma anche a quelli di più recente acquisizione (gestione, (1 ) L.Bobbio, La politica dei beni culturali in Italia, in L. Bobbio (a cura di), Le politiche dei beni culturali in Europa, Bologna, 1992, p.149 ss; (2 ) Per una recente ricostruzione di insieme di tali vicende, cfr. S.Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p.237 ss. (3 ) Individuazione di musei o altri beni culturali statali da trasferire in gestione a regioni e enti territoriali (art.158.1 d.lg.112) (4 ) A tre anni e mezzo dal decreto 112, la commissione paritetica (art.150) a cui era affidato il compito di identificare i beni culturali statali di cui trasferire la gestione, non ne ha indicato alcuno. Le commissioni regionali (artt.154-5) cui era affidato il compito di cerniera tra sistema statale e sistema regionale/locale non sono state neppure costituite. 2 valorizzazione, promozione) e non trascurando aspetti più specifici (5), la valutazione di insieme resta fortemente critica (6) e molto al di sotto delle attese espresse prima dell’esercizio della delega (7). Se invece ci si riferisce all’assetto in concreto esistente e alla effettiva distribuzione di compiti e ruoli giocati tra centro e autonomie, il discorso è diverso perché regioni ed enti locali, in parte grazie alla rilettura dei propri compiti effettuata con gli statuti degli anni ’70 e ’90 in parte con la puntuale attività legislativa e amministrativa dell’ultimo ventennio, hanno fortemente allargato il proprio ambito di intervento nel settore soprattutto con la “scoperta” di una nuova materia, quella della promozione culturale (8). Valutata da questo punto di vista, la normativa del capo V del decreto 112/1998 mostra un elemento positivo e alcuni aspetti decisamente discutibili. Il dato positivo è dovuto al fatto che proprio grazie alla articolazione di funzioni operata in ordine ai beni e alle attività culturali, sia la valorizzazione (dei beni) che la promozione (delle attività) è pienamente riconosciuta (artt.152 e 153), ed anzi legittimata in capo a regioni ed enti locali superando incertezze e contrasti precedenti. In negativo, invece, stanno profili intrinseci alla materia e aspetti più direttamente riguardanti la questione che qui interessa, vale a dire la sussidiarietà orizzontale e in generale il rapporto con i privati non profit. Quanto ai primi, oltre agli elementi strettamente giuridici su cui chi scrive ed altri si sono più volte soffermati (9), sta sul piano economico-organizzativo l’oggettiva incertezza del disegno di insieme (decreti 112 e 368/1998, riforma ministero dei beni culturali) costituito da un decentramento di gestione “inteso restrittivamente e per di più potenziale”, l’affidamento della soluzione dei conflitti “a sedi paritetiche ma non (5 ) V. la possibilità di autonome proposte di interventi di tutela (vincoli e espropriazioni) riconosciuta a regioni e enti territoriali (art.148.5). (6 ) E largamente condivisa dalla maggior parte degli studiosi: V. Corso e Pitruzzella, Lo stato autonomista, L.Bobbio, La riforma Bassanini e i beni culturali, due anni dopo, in Economia della cultura, 2/1999, p.157 ss cui adde gli interventi di M.P. Chiti, G.Sciullo, M. Cammelli v. Aedon 1/98. Per P.Petraroia, Il raccordo tra i diversi livelli istituzionali: vecchie controverse e nuovi scenari, in Economia della cultura, 2/1999, p.147 ss, anzi, il dualismo che ne deriva rischia di portare il sistema a condizioni più arretrate delle precedenti. Per una lettura più positiva, cfr. M.Ainis, Il decentramento possibile; M.Meschino, Beni e attività culturali nel d.lg. 112/1998: una proposta di lettura e D. Jalla, Il d.lg.112/1998: un occasione (per tutti), ivi. (7 ) Si veda il numero monografico Il federalismo alla prova: il caso dei beni culturali,Istituzioni del federalismo, 2/1997, con contributi di M.Cammelli, L.Bobbio, P.Leon, A. Andreani, G.Clemente di San Luca, C. Narbati e N. Pisauri, nonché il fascicolo di Economia della cultura (3/1996) dedicato al dibattito sul possibile assetto istituzionale del settore, con saggi di M. Cammelli, L. Covatta, P. Leon e S. Rolando, poi ripreso dal fascicolo 2/1997, con interventi di G. Proietti, G. Galasso, P. Costa e S. Amorosino. (8 ) F. Merusi, Commento all’art.9 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di G.Branca, Bologna, 1976, I, p.434 ss e da ultimo S.Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p.231 ss. La cosa è particolarmente evidente nelle indagini sulla spesa pubblica e dalla consistenza della quota statale e regional/locale, su cui si rinvia a C. Bodo, Rapporto sull’economia della cultura in Italia 80/90, Poligrafico dello Stato, Roma, 1994 (9 ) V. nota 6. I punti più problematici consistono nella latissima accezione di tutela introdotta nel decreto (il che, in ragione della riserva statale in materia dettata dalla legge di delega, rende marginali i trasferimenti possibili e fortemente condizionati tutti i restanti compiti riconosciuti alle regioni e al sistema locale), nelle modalità del trasferimento (ove, invertendo il criterio generale della legge 59/1997, non sono le funzioni e i beni mantenuti allo Stato ad essere identificati, ma quelli oggetto di trasferimento e dove l’onere della inattività delle commissioni, puntualmente verificatasi, è interamente a carico delle regioni), nel sistema dualistico e parallelo di competenze che certo può essere superato su progetti specifici e con accordi, ma che comporta in via ordinaria e generalizzata il costo di una stabile e grave scissione tra tutela e i confinanti, e decisivi, ambiti di intervento regionali e locali (territorio, ambiente, trasporti scuola, formazione, artigianato e turismo). Sull’importanza cruciale di queste politiche integrate, v. P. Petraroia, Chi non vuole sentire regioni?, in Giornale dell’arte 203/2001, rapporto regioni, p.2 3 sufficientemente paritarie”, il risultato paradossale di rendere più facile l’affidamento “della gestione al settore privato che non agli enti locali” con il risultato che “la natura di merito dei beni e delle attività è lasciata interamente nelle mani dello Stato centrale” (10), e su quello delle politiche pubbliche una separazione e un dualismo (ben più problematici delle paventate sovrapposizioni) (11) la cui composizione difficilmente può essere realizzata dalle gracili, e tuttora inesistenti, commissioni paritetiche regionali. Le due realtà, quella statale e quella regional/locale nelle quali di fatto si articola il settore della cultura nel nostro paese, escono dunque dal decreto 112/1998 entrambe formalmente legittimate, ma confermate nel loro rigido dualismo. Quanto alla seconda, e alle cose che in questa sede più ci interessano (outsourcing, sussidiarietà orizzontale, rapporto pubblico-privato) le modalità del terzo decentramento viste dal lato delle autonomie locali rischiano anzi di far fare al nostro tema un passo indietro: trattandosi di trasferimenti tra Stato e enti territoriali, il capo V del decreto 112/1998 deve infatti operare esclusivamente all’interno di questo quadro istituzionale senza la possibilità di significative innovazioni sostanziali e organizzative sicché, salvo una eccezione su cui torneremo tra breve, i possibili destinatari e titolari restano solo le regioni e gli enti pubblici territoriali (sussidiarietà verticale). Ma nello stesso tempo, data l’esclusione della tutela (e la relativa amplissima definizione), i trasferimenti previsti sono limitati (nel quantum) e potenziali (nell’an) alla sola gestione di musei (12), con il paradossale risultato che l’unico effetto certo di questa parte del decreto 112 è, almeno per il momento, la conferma della titolarità e della gestione da parte dei soggetti pubblici, senza l’apertura ad altre realtà. La presenza di qualche disposizione estranea a questa rigida logica inter-governamentale, come ad esempio la possibilità di trasferire alle università le biblioteche statali ad esse collegate (13), non muta il quadro appena descritto e rende, insieme, giustificate le critiche di altri attori (14) e impraticabili le alternative che pure, e da tempo, erano state autorevolmente avanzate (15). Il discorso certo non finisce qui, e anzi avremo presto modo di osservare che il capitolo delle esternalizzazioni, del tutto chiuso nella fase del terzo decentramento, si riapre in una sede (e con una logica) diversa, quella della riforma del ministero e del d.lg.368/1998 (v. par.2.4). Ma si tratta, appunto, di un’altra storia. Nel decreto 112/1998 le due direttrici, quella della sussidiarietà verticale tra i livelli pubblici di governo e quella della sussidiarietà orizzontale (privatizzazioni, esternalizzazioni, outsourcing), che pure (10 ) P.Leon, L’economia della riforma, in Economia della cultura, 2/1999, p.144 (11 ) L. Bobbio, Il decentramento della politica dei beni culturali, in Le istituzioni del federalismo, 2/1997, p.297. (12 ) Non pare dubbio, in ogni caso, che anche tali trasferimenti debbano essere accompagnati dalle relative risorse, in conformità ai principi generali dettati in materia dall’art.7.1. legge 59/1997. Questi aspetti, come del resto il modello gestionale prescelto, dovrebbero formare oggetto di un apposito accordo di programma. (13 ) Art.151: almeno in un caso, la disposizione ha avuto pratica applicazione: cfr.. A.Serra, L’”altro” decentramento: il trasferimento della biblioteca universitaria di Bologna, in Aedon, 3/2000. (14 ) N.Gazzeri, A proposito del d.lg.112/1998: e il volontariato organizzato?, in Aedon, 1/1998. (15 ) come la trasformazione dei musei in organismi dotati di autonomia di gestione proposta da L.Bobbio, La riforma Bassanini e i beni culturali, cit. p.162. 4 erano state espressamente collegate nei criteri generali di delega della legge 59/1997 (16), in questo settore non si sono neppure sfiorate, come invece sarebbe stato tecnicamente possibile e sostanzialmente necessario (17), né molto di più hanno fatto le regioni con le leggi regionali di attuazione (v. par. 3.2). 1.2. outsourcing. Nel termine di esternalizzazione si tendono a ricomprendere realtà molto eterogenee sia sul piano concettuale che su quello economico ed organizzativo, con importanti riflessi sul terreno più strettamente giuridico del regime applicabile e degli effetti che ne conseguono. Le tre principali tipologie sono costituite dall’affidamento ad altro soggetto (pubblico o privato) di un bene culturale, o di un complesso di attività costituenti servizio pubblico o, infine, di singole attività materiali o comunque strumentali rispetto alla gestione del bene o servizio pubblico. E’ bene subito annotare che queste modalità, peraltro generali nell’ambito della pubblica amministrazione e accomunate dal collocare all’esterno dell’ente titolare oggetti diversi (beni, servizi pubblici, prestazioni o semplici attività), sono ordinabili anche secondo un criterio diverso: quello di poggiare su provvedimenti unilaterali (fondati sulla separazione tra il titolare originario e il soggetto cui è affidato il bene, il servizio pubblico o la fornitura di un servizio: concessione, appalto di servizi) o di nascere da strumenti di natura contrattuale e pattizia (accordo, associazione, fondazione, società). Per quanto ognuna di queste ipotesi sia collocabile, come si è detto, nell’ambito delle esternalizzazioni, è ovvio che nel settore della cultura una particolare attenzione va riservata a questa seconda categoria, nella quale si giocano buona parte delle possibilità di collaborazione pubblico-privato. Un accenno, infine, andrà operato anche al tema delle agevolazioni fiscali che, pur appartenendo evidentemente ad un altro ordine di misure, non solo spesso si intreccia con una delle tipologie precedenti e in fatto rappresenta (o è destinato a rappresentare) un incisivo intervento nei rapporti tra pubblico e privato ma, come vedremo, per certi aspetti si risolve nella collocazione all’esterno di una parte dei compiti ordinariamente esercitati dai soggetti pubblici (identificazione in concreto del bene o della attività di cui assicurare la valorizzazione o promozione, o della modalità di gestione del servizio o del tipo di compiti strumentali da collocare all’esterno). Anche su questo punto sono necessarie alcune precisazioni. La prima è che la propensione all’esternalizzazione, in ragione della estensione e della discrezionalità propria dei poteri pubblici in questa materia, risente direttamente (e inevitabilmente) dell’evoluzione delle dinamiche generali pubblico/privato che caratterizza l’intera pubblica amministrazione, e tutti sanno quanto le riforme amministrative degli anni ’90 abbiano risentito di questi orientamenti. (16 ) Come si ricorderà, l’art.4.3.letta a prescriveva che i conferimenti avvenissero non solo in conformità al principio di sussidiarietà verticale, ma anche in modo da “favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni, e comunità”. Più in generale, sul ruolo di comuni e province v. C.Barbati, Nuova disciplina dei beni culturali e ruolo delle autonomie, in Aedon, 2/2000. (17 ) Subordinando, ad esempio, la gestione di beni culturali statali trasferibili a progetti specifici fondati sulla collaborazione tra enti locali e privati (L.Bobbio) o prevedendo (è la proposta di N.Gazzeri) la presenza di rappresentanze del terzo settore nelle commissioni miste chiamate a formulare, a livello regionale, i piani pluriennali e annuali di valorizzazione e promozione dei beni e delle attività culturali nonché di coordinamento delle iniziative di soggetti pubblici e privati (art.155.2) presenti sul territorio. 5 La seconda, che in parte corregge quanto appena detto, è che se questo è (evidentemente) vero sul piano descrittivo non lo è altrettanto su quello prescrittivo perché qui, a differenza che altrove, la presenza della mano pubblica in un ambito che è innanzitutto retto dal principio della libertà (18) si giustifica, ed anzi è dovuta (19), in quanto “riesca ad alimentare il pluralismo” (20), vale a dire la pluralità delle espressioni culturali. Il che significa che il collocare all’esterno beni, servizi o funzioni non deve essere apprezzato solo in termini aziendali per le ricadute che ne derivano sul piano della funzionalità, ma anche (anzi, preliminarmente) sul metro di questi valori. Questo certo non si traduce, ovviamente, in un generalizzato obbligo a esternalizzare, ma è sufficiente per riallocare il problema dell’outsourcing dal piano dei costi/benefici a quello, ben più complesso, della libertà dei singoli e dei soggetti sociali e delle condizioni, interne al sistema pubblico o al di fuori di questo, nelle quali il pluralismo è comunque assicurato. La terza è in qualche modo connessa alla seconda perché esternalizzazione, in senso etimologico, esprime un moto da luogo (dal pubblico/statale ad altro) scontandone un presupposto (la presenza pubblica) che invece, in un settore ispirato ai principi della libertà e del pluralismo, va precisato come si è appena detto. Inoltre, il patrimonio culturale ecclesiastico, quello dei privati (dimore storiche, archivi, raccolte, ecc.) e le fondazioni esclusivamente private a base associativa (21) sono lì ad indicarci che quello che conta è il punto di osservazione prescelto e che, se partiamo da queste realtà l’esternalizzazione, come restituzione di spazi a questi soggetti, andrebbe in realtà letta (anche) come “moto a luogo”. Tutto ciò non riguarda solo il piano della gestione, che pure è il più naturale e immediato: si estende anche ad aspetti chiave delle politiche di settore quali la programmazione e la selezione, su cui incidono l’espressione delle domande, la proposta di interventi o la segnalazione di priorità (22). Ne resta estraneo invece il momento più squisitamente regolativo, e in particolare la tutela in senso stretto, che non può che restare nella disponibilità della pubblica amministrazione. Fin qui le tematiche più rilevanti sollevate dalle ipotesi di outsourcing. Un accenno a parte meritano ipotesi che, proprio perché estranee alle questioni fin qui accennate, non costituiscono oggetto delle presenti considerazioni. Si tratta di un’area apparentemente “minore”, con qualche eccezione (23) inesplorata dai giuspubblicisti, e non sempre riconducibile alla accezione di esternalizzazioni cui si è fatto riferimento (e, quando vi rientra, riguarda l’espletamento di attività materiali e strumentali): ma non si può fare a meno di notare che provvedimenti come quelli per gli obbiettori di coscienza e gli studenti part-time (le collaborazioni studentesche ex lege 390/1991), per l’imprenditoria (18 ) art.33.1 Cost.: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (19 ) art.9.1 Cost.: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura...” (20 ) M.Ainis, Cultura e politica, Padova, 1991. Per l’espressione riportata, Id, Tutela dei beni culturali e ruolo delle Regioni, con particolare riferimento alla Regione siciliana, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 3/2000, p.835. (21 ) Come il FAI, con oltre 60 delegazioni provinciali e più di 40.000 aderenti: così L.Colombo, intervento, in L’autonomia delle fondazioni culturali non pubbliche, a cura di G.Iudica, Università Bocconi, febbraio 2001, p.179. (22 ) vedine traccia nell’inserimento, tra i componenti delle commissioni paritetiche regionali ex art.154.1 d.lg.112/1998, di un membro designato dalla Conferenza episcopale regionale e due espressi dal Cnel tra le forze imprenditoriali locali. (23 ) G.Clemente di San Luca, Volontariato e nonprofit sector nel quadro del sistema giuridico istituzionale italiano con specifico riguardo al settore culturale, in “Ars et labor” (materiali per una didattica del diritto dei beni culturali), a cura di G.Clemente di San Luca, Napoli, 1997, p. 113 ss. 6 giovanile (263/1993) o il lavori socialmente utili (D.L. 510/1996 e legge 608/1996) (24), pur adottati per finalità del tutto diverse, finiscono per avere sul settore della cultura e sul concreto funzionamento dei relativi servizi effetti importanti sia sul piano generale, sia su quello che più direttamente ci interessa, agevolando significativamente l’esternalizzazione di attività materiali specie in settori come quelli degli archivi (25) e delle biblioteche (26). 1.3. quale relazione tra decentramento e outsourcing? In astratto, è innegabile che vi siano molte e riconosciute ragioni, di vario ordine, per le quali questi due elementi si intreccino tra loro. In ordine crescente di rilievo: l’opportunità di specializzare le strutture, evitando che la medesima entità amministrativa sia chiamata ad esercitare compiti eterogenei o addirittura confliggenti (come la tutela e la valorizzazione): la necessità di alleggerire gli apparati centrali e statali (aprendo alle autonomie territoriali) evitando nel contempo un aggravio per il complessivo sistema pubblico (apertura alle disponibilità, e le risorse, provenienti dai privati singoli o associati); l’esigenza di stabilire un più saldo legame tra beni meritori e collettività di riferimento, destinate a sopportarne i costi (27); la necessità di garantire il pluralismo delle identità e delle opzioni culturali, il che spiega il favore per un assetto decentrato. Se questo è vero, si deve però aggiungere che a problemi simili si sono anche date soluzioni diverse, come il caso francese che apre ai soggetti esterni mantenendo un assetto fortemente accentrato (28); che l’applicazione del principio di sussidiarietà in questo settore porterebbe a trasferire significative quote dei poteri di regolazione a livelli ancora più elevati di quello nazionale, come mostra il crescente intervento delle sedi comunitarie in materia; che l’esercizio territorialmente più ravvicinato di compiti e funzioni è ottenibile non solo tramite il decentramento istituzionale (agli enti territoriali) ma anche attraverso il decentramento amministrativo operato per linee interne agli apparati statali, come in effetti indicano le disposizioni del d.lg.368/1998 con l’istituzione delle soprintendenze regionali e il riconoscimento di autonomia gestionale agli altri organi periferici (29). Dunque, la correlazione tra decentramento regionale e locale e esternalizzazione non è solo un dato concettuale e necessario (30), ma anche positivo e frutto delle politiche di settore (31). Se, come già abbiamo visto, il terzo decentramento non è stata una occasione di incontro, allora è necessario articolare l’analisi su due piani separati, verificando in modo distinto le dinamiche e le opportunità di esternalizzazione al centro (o, comunque, nella amministrazione statale) e a livello regionale o locale. (24 ) Qualche indicazione in D.Gottardi, Spunti in tema di utilizzo di lavori socialmente utili in progetti interregionali per il ministero per i beni e le attività culturali, in Aedon, 1/1999. (25 ) Cfr. ad esempio L’Outsourcing nei servizi archivistici, a cura di F. Del Giudice, Quaderni Anai, 1, Roma 2000. (26 ) A.Galluzzi, T.Stagi e S.Turbanti, I giovani e il lavoro in biblioteca: risultati di un’indagine all’interno delle biblioteche toscane, Bollettino della associazione italiana biblioteche, 4/2000, pp. 515-528. (27 ) P.Leon, Esiste uno “stato minimo”nei beni culturali?, in I beni culturali: istituzioni ed economia, in Atti dei convegni Lincei, 152, Accademia dei Lincei, Roma, 1999, p.9 ss (28 ) L.Bobbio, Il decentramento della politica dei beni culturali, cit., p.310. ( 29 ) L.Bobbio, Lo Stato e i beni culturali: due innovazioni in periferia e G.Pitruzzella, L’organizzazione periferica del ministero e degli attori istituzionali locali, entrambi in Aedon 1/1999. (30 ) Per L. Antonini, Sussidiarietà e settore della cultura, in Non profit, 2/2000, p.230, ad esempio, “un vero federalismo è innanzitutto un federalismo culturale”. (31 ) Un esame delle varie opzioni in materia in L.Bobbio, Le concezioni della politica dei beni culturali, in Atti Lincei, cit. p.13 ss. 7 2. L’esternalizzazione nella amministrazione statale. Non c’è tipologia o modalità di esternalizzazione riguardante il ministero per i beni e le attività culturali, tra quelle indicate al paragrafo 1.2., che non sia stata disciplinata dal legislatore degli anni ’90, in particolare tra il 1997 e il 2000. Anzi la messa a punto normativa di tali strumenti, d’altronde evidentemente necessaria, ha rappresentato una delle principali politiche del settore. Conviene allora esaminarne gli esempi più significativi. 2.1. L’avvio è rappresentato dalla legge Ronchey (4/1993), che apre a soggetti esterni (privati, enti pubblici economici, fondazioni culturali e bancarie, società e consorzi, cooperative) l’offerta di servizi in grado di assicurare una migliore valorizzazione e fruizione dei luoghi e dei beni culturali dello Stato. Si tratta del profilo più noto, e dunque ci si può limitare a ricordare l’ampiezza dei c.d. servizi aggiuntivi, dei quali fanno parte sia attività rivolte ai visitatori e agli utenti che prestazioni rese direttamente all’amministrazione(32), sottolineando che tra i fattori del crescente successo di questa soluzione vanno annoverati fattori giuridici e amministrativi risultati decisivi quali il decentramento alle soprintendenze delle concessioni d’uso del bene pubblico (33) o il superamento delle eccessive rigidità introdotte dalla legge originaria (obbligo di almeno tre offerte valide per l’aggiudicazione) e dal regolamento del 1994 (durata concessione e eventuale rinnovo non superiore a quattro anni) (34) operato qualche anno più tardi dall’art.3 della legge 352/1997 (35). Deve peraltro aggiungersi, senza disconoscere l’importanza di tale normativa anche sul piano dell’indirizzo, che lo svolgimento di queste attività e il loro affidamento a terzi erano in realtà già possibili in base ai principi generali della attività della pubblica amministrazione e alla relativa disciplina dell’appalto pubblico di servizi (36) sicché salvo aspetti legati alla concessione d’uso dei beni, su cui torneremo più avanti, il ricorso ad una apposita previsione legislativa è più da riferire alle resistenze della amministrazione interessata che a effettive necessità di innovazione giuridica. 2.2. Un significativo gruppo di interventi in materia è poi operato dalla legge 352/1997 (disposizioni sui beni culturali) con la quale si è intervenuti in più direzioni, tutte centrali nel rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti esterni (37). Oltre alla modifica della disciplina sui servizi aggiuntivi, già ricordata, e alle agevolazioni di natura tributaria, su cui torneremo, vanno in particolare ricordate: (32 ) specie dopo l’estensione disposta dall’art.47 quater legge 85/1995: sia va dalla vendita di cataloghi e riproduzioni ai servizi di accoglienza, caffetteria, dai servizi di pulizia e vigilanza alla gestione della biglietteria o alla organizzazione di mostre e iniziative promozionali; (33 ) Prima non solo rilasciate al centro, ma da un’altra amministrazione, il ministero delle Finanze. (34 ) A.Marcelloni, L’applicazione della legge 4/1993 sui servizi aggiuntivi, in Nuove forme di autonomia gestionale per i beni e i servizi culturali, Quaderni Federculture, n.2, Roma, 1999, p.51 (35 ) Peraltro, non pare più operativa la previsione che, sulla base della disciplina originaria della legge Ronchey, prevedeva sempre l’affidamento mediante licitazione privata (art.4.4 dm 139/1997), perché in materia ormai dovrebbero valere, in virtù del richiamo alle disposizioni vigenti in materia operato dall’art.4.3. legge 352/1997, le norme generali sull’appalto pubblico di servizi (d.lg. 157/1995) e dunque, in materia, solo l’obbligo di particolari regole di pubblicità: in questo senso E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, Aedon, 1/1999. (36 ) In questo senso v. E.Bruti Liberati, intervento, in L’autonomia delle Fondazioni culturali non pubbliche, a cura di G.Iudica, cit., p.169 (37 ) Per una analisi di queste normative vedi P.Graziani, Le gestioni autonome dei beni e servizi culturali dell’amministrazione centrale nell’innovazione normativa, in Nuove forme di autonomia gestionale per i beni e i servizi culturali, cit., p. 25 ss 8 - le agevolazioni creditizie per interventi di privati (proprietari, possessori o detentori) destinati al restauro e alla conservazione di immobili di interesse storico-artistico (art.5); - le convenzioni tra soprintendenze e istituti scolastici per favorire la fruizione del patrimonio artistico, scientifico e culturale da parte degli studenti (art.7); - le convenzioni tra soprintendenze e associazioni di volontariato che svolgono attività per la salvaguardia e la diffusione della conoscenza dei beni culturali in conformità a quanto disposto dalla legge quadro sul volontariato (legge 266/1991); - alcune delle sperimentazioni autorizzate nel quadro delle condizioni di particolare autonomia riconosciute alla soprintendenza archeologica di Pompei (art.9). In particolare: gli accordi di programma con gli enti locali, la regione Campania o altri soggetti pubblici e privati interessati, per la valorizzazione dell’area archeologica, e la concessione in uso a soggetti pubblici o privati (per non più di tre anni) dell’utilizzazione dell’immagine di un bene archeologico, previa assunzione delle spese necessarie per il restauro (art.9, commi 9-12); - la costituzione della SIBEC, società italiana per i beni culturali spa, il cui oggetto sociale è la promozione e il sostegno finanziario, tecnico-economico ed organizzativo di progetti e altre iniziative di investimento per la realizzazione di interventi di restauro, recupero e valorizzazione dei beni culturali. In sostanza, uno strumento a disposizione del ministero con il compito di reperire sui mercati finanziari interni e internazionali fondi da utilizzare per la realizzazione di progetti di restauro, recupero e valorizzazione dei beni culturali (artr.10). Non è dato conoscere con precisione, a oggi, in che misura le innovazioni immaginate siano state effettivamente conseguite: in alcuni casi, v. Soprintendenza di Pompei, disponiamo di qualche studio o di primi rapporti sulla esperienza in corso (38); in altri, come per la Sibec, non si sono fatti neppure i primi passi (39). Inoltre, in molti casi è assai dubbio che si possa parlare, in senso proprio, di esternalizzazione di compiti o funzioni pubbliche, perché spesso si tratta di soluzioni volte ad agevolare il reperimento di risorse per lo svolgimento di compiti che restano in capo al ministero e ai suoi organi, centrali e periferici. E tuttavia è innegabile lo sforzo di innovazione o “la vera e propria scommessa per il cambiamento” (40). 2.3. Un altro grappolo di innovazioni di poco successive, tutte frutto delle deleghe conferite dalla legge 59/1997, riguarda i provvedimenti di privatizzazione di enti o organismi pubblici: è il caso della trasformazione in fondazione di dr. privato del centro sperimentale per la cinematografia (d.lg.426/1997); della costituzione di società miste per i lavori socialmente utili (LSU), d.lg.468/1997; della trasformazione della Biennale di Venezia in società di cultura (di tipo non commerciale, ex artt. 12 ss del codice civile) (d.lg. 19/1998); della trasformazione in fondazione dell’INDA, istituto nazionale del dramma antico (d.lg.20/1998); e infine, ma non certo ultimo, del d.lg.134/1998, sulla trasformazione in fondazioni degli enti lirici e istituzioni concertistiche assimilate. (38 ) G.Gherpelli, L’autonomia pilota: l’esperienza di Pompei, in Aedon, 1/1999. (39 ) M.Renna, La Sibec spa tra realtà normativa e prospettive di attuazione, in Aedon, 2/1998. (40 ) P. Graziani, Le gestioni autonome, cit. p.38. 9 Si tratta di interventi, materie, e anche soluzioni istituzionali tra loro molto diversi che per una parte sono assegnabili a politiche di privatizzazione c.d. “formale”, ove cioè l’opzione per il regime privatistico non muta la natura della mano (pubblica) che gestisce le attività o la provenienza delle risorse (almeno di quelle prevalenti) ma che per altro verso, nel consentire la partecipazione di soggetti esterni anche privati (41), sono invece classificabili nella categoria che qui interessa, quella delle esternalizzazioni. Vi rientra a pieno titolo, invece, la normativa (d.lg.468/1997) che prevede l’istituzione dell’ALES arte, lavoro e servizi spa per l’esecuzione di attività nel settore dei beni culturali concernenti servizi di manutenzione di edifici; di servizi al pubblico, guardiania, visite guidate, biglietteria, gestione centri di ristoro, ecc.; di servizi generali amministrativi e di informatizzazione gestionale; di tutela, censimento, catalogazione e inventariazione, conservazione ambientale, ecc. Si tratta infatti di un organismo a disposizione del Ministero la cui missione generale è proprio quella di individuare e realizzare in concreto le varie ipotesi di outsourcing, ma anche in questo caso, a quanto è dato sapere, non si è andati molto più in là di una difficoltosa fase di istituzione e di primo impianto. 2.4. La previsione più ampia e generale in materia di esternalizzazioni da parte della amministrazione statale è, in ogni caso, operata dall’art.10 del d.lg.368/1998 (riordino del ministero per i beni e le attività culturali), in base al quale ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali il ministero può “ stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati” e “costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società” (comma 1). Come si può vedere, la norma in questione non costituisce una innovazione radicale, proprio perché si innesta nel solco tracciato dalle discipline appena richiamate, ma certo ne rappresenta la registrazione e la solenne codificazione, precisando e nello stesso tempo sostenendo un processo già in atto. La novità, come è stato osservato (42), è rappresentata dal fatto che si “prevede in via generale, e non con riferimento a singoli ambiti di intervento o compiti del ministero, che il medesimo possa avvalersi della collaborazione di soggetti privati ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni” (43). Se poi si considera che gli accordi o gli organismi misti riguardano anche amministrazioni pubbliche diverse dal ministero, non si può fare a meno di concordare sul fatto che “appare evidente il collegamento della norma con le disposizioni del d.lg.112/1998 le quali, proprio con riferimento ai compiti di valorizzazione dei beni culturali e di promozione delle attività culturali (artt.152 e 153) hanno previsto forme di cooperazione funzionali e strutturali tra Stato, regioni ed enti locali” e che, di conseguenza, “l’art.10 può (41 ) Inserimento, peraltro, ancora assai contenuto e difficoltoso: per il caso degli enti lirici, cfr. A.Serra, La difficile privatizzazione delle fondazioni liriche: strumenti pubblici e presenza privata, in Aedon, 2/1998. Di vero e proprio fallimento, per la limitatezza delle agevolazioni fiscali e la previsione di una soglia massima di partecipazione del capitale privato, parla L. Antonini, Sussidiarietà, cit. p.231. (42 ) E.Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, cit. (43 ) Sulle premesse culturali ed economiche di tale scelta, si rinvia a M. Causi, fra pubblico e privato: verso un modello italiano per il funzionamento e la gestione dei beni culturali, in atti convegno su Politica dei beni culturali e cultura di impresa, Roma, 1997; ID, La gestione dei beni artistici e culturali nell’ottica del mercato, in Stato e mercato nella gestione dei beni culturali, a cura di A. Mattiacci, Milano, 1998. 10 essere visto come un punto di saldatura tra i principi della sussidiarietà verticale ed orizzontale”, cioè tra Stato ed autonomie territoriali e, nello stesso tempo, tra Stato e autonomie sociali ed economiche” (44). Proprio per la portata generale della disposizione, e per il riferimento a entrambe le categorie di strumenti utilizzabili in sede di esternalizzazione, quelli funzionali (accordi) e quelli strutturali (associazioni, fondazioni, società miste), l’esame dei problemi giuridici che nascono in materia sarà condotto più avanti (v. par.4) con riferimento all’art.10 del d.lg. 368/1998. Fin d’ora invece, e con riferimento agli accordi, è necessario segnalare che anche su questo fronte la disposizione raccoglie indicazioni già presenti nell’ordinamento, legate ad emergenze particolari (45) o di carattere ordinario, e che proprio a queste ultime si deve un numero non trascurabile di iniziative ed esperienze già in atto (46), che spesso prevedono la predisposizione di modelli gestionali come elemento preliminare alla definizione progettuale di dettaglio degli interventi strutturali e impiantistici, con ampio concorso di privati e di altri soggetti pubblici (47). Il che sottolinea la necessità di un più preciso raccordo tra le previsioni generali dell’articolo 10 in esame e le discipline di settore. 2.5. Un recente, e potenzialmente significativo, strumento per regolare e sostenere l’esternalizzazione di attività di gestione e valorizzazione dei beni culturali è rappresentato dal regolamento sulla alienazione (e utilizzazione) del demanio storico-artistico dello Stato e degli enti pubblici di cui al d.p.r. 283/2000 (48). L’intitolazione formale della normativa fa cenno solo alle alienazioni perché nell’originaria previsione legislativa, art.32 della legge 448/1998, il provvedimento nasceva da esigenze diverse, vale a dire dalla situazione di assoluta incertezza in cui versano gli enti territoriali, e più in generale gli enti pubblici, in ragione dell’automatismo (derivante dal c.d. sistema di elenchi) in base al quale ogni immobile in mano pubblica è, decorso un cinquantennio, automaticamente oggetto di tutte le misure di tutela del bene culturale. (44 ) E. Bruti Liberati, ivi. (45 ) Come il sisma marchigiano, che ha dato luogo ad una interessante forma di intervento “straordinario”: v. M.Canti e M.L. Polichetti, Un esempio di cooperazione tra Stato, Regioni ed Enti locali: il caso Marche, in Economia della cultura, 2/1999, p. 211 ss. (46 ) Sono infatti da riferire alla disciplina della programmazione negoziata (legge 662/1996 e art.5 legge 144/1999), all’agosto 2001, gli accordi quadro (già conclusi) con Lombardia, Toscana, Lazio e Molise, mentre sono in via di definizione quelli con le regioni Piemonte e Puglia. Richieste di accordo, sempre nel settore dei beni culturali, risultano avanzate anche per i territori di Umbria, Basilicata, Abruzzo, Sicilia, Calabria e Campania. Per prime analisi, v. oltre a M.Renna (v. nota successiva) cfr. S.Foà, L’accordo di programma quadro tra Ministero per i beni e le attività culturali e la regione Piemonte, in Aedon, 2/2001. Protocolli di intesa e accordi di programma risultano anche in atto o in via di definizione con Liguria, Provincia di Siena, Poste italiane (iniziative legate al Giubileo), Ferrovie dello Stato (museo presso la stazione Termini) e Associazioni di volontariato (Arci, Auser, Archeoclub e Legambiente) per il ricorso a volontari in varie attività tra le quali il prolungamento dell’orario dei musei, l’ampliamento dei servizi culturali e di accoglienza in occasione di mostre, sistemazione di archivi e cataloghi, realizzazione di circuiti assistiti nei siti archeologici. Cfr. sito www.beniculturali.it (47 ) Nella definizione delle forme gestionali, infatti, gli accordi prevedono l’impegno “a favorire il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati”, su cui M.Renna, Al via la concertazione in materia di beni culturali: l’accordo programma quadro tra ministero e regione Lombardia, in Aedon, 2/1999. (48 ) Su cui, per una prima approfondita lettura, si vedano G.Verde e S.Pajno, I profili pubblicistici del Dpr 283/2000; G.Casu, I profili civilistici: la commercializzazione dei beni culturali; M. Cammelli, Ratio e presupposti del regolamento; E.Bellezza, Dalla tutela alla valorizzazione del bene: il “programmma” del Dpr 283/2000; R. Colonna Dahlman, Alienazione di beni immobili culturali di proprietà pubblica; V. Marangi, Il sistema informativo degli elenchi dei beni pubblici, e G.Chiarante, Relazione finale, tutti in Aedon 1/2001. 11 Tutto ciò ha generato problemi seri ed episodi paradossali (49). I comuni, in special modo quelli maggiori, si sono così trovati nella condizione di non potere alienare o comunque di non avere piena disponibilità di larga parte del proprio patrimonio immobiliare, dovendone nel contempo sopportare elevati costi di manutenzione, senza conoscere con esattezza quale parte di quest’ultimo fosse effettivamente (e giustificatamente) da qualificare come bene culturale. Nell’affrontare il profilo della alienazione il regolamento, questo è il punto che interessa, ha introdotto e regolato in via generale e per tutte le amministrazioni pubbliche l’ipotesi di concessione o di utilizzazione per convenzione dell’immobile riconosciuto come bene culturale (art.1.2 e capo III) per le quali mancava fino a questo momento una esplicita previsione legislativa, al punto che per superare il problema si era tentato di interpretare in modo estensivo l’unica ipotesi vigente, vale a dire quella (ben più limitata, in realtà) della concessione di bene in occasione dell’affidamento di servizi aggiuntivi (50). I presupposti fattuali (redazione degli elenchi di immobili di loro proprietà da parte degli enti territoriali) e i problemi giuridici (contenuti ed effetti delle convenzioni tra le parti; natura ed effetti delle valutazioni operate sul bene rispetto agli usi compatibili; riflesso sui terzi, ecc.) e organizzativi (capacità delle soprintendenze di attrezzarsi per lo svolgimento di tali compiti) sollevati dal regolamento sono stati esaminati altrove, e giova dunque operarvi rinvio (51). 2.6. Un accenno, sia pure contenuto (52), va poi operato al regime tributario del mecenatismo culturale, ossia delle donazioni a favore delle iniziative correlate ai beni e alle attività culturali (normalmente definite “erogazioni liberali”). La ragione del richiamo è dovuta al fatto che, contrariamente alle ipotesi tradizionali, di recente il legislatore ha introdotto agevolazioni correlate non già alla donazione direttamente rivolta all’intervento nel settore culturale, ma alla liberalità disposta in favore di soggetti che vi operano (privati non profit o enti pubblici) e che ne saranno, successivamente, gli effettivi gestori. Ci si riferisce all’art. 38 della legge 21 novembre 2000, n. 342, con il quale si introduce la possibilità di dedurre dal reddito imponibile l’importo delle donazioni in denaro effettuate da imprese a favore dei soggetti appena ricordati e rivolte al sostegno di iniziative in materia di beni culturali e di spettacolo. Tali disposizioni, ormai pienamente operative (53), sono meritevoli di attenzione per molti aspetti specifici, come le scelte operate in ordine ai donatori, limitati alle sole imprese con esclusione degli enti non commerciali e delle persone fisiche, il che non è privo di controindicazioni (54); ai destinatari, in particolare (49 ) Richiamati da G. Pericu, Decentramento della gestione e accentramento della tutela: una contraddizione da superare, e da L.Acquarone, La materia culturale fra stato apparato e autonomie territoriali, entrambi in La problematica definizione e gestione del bene culturale, a cura di I. De Paz, Centro internazionale di studi italiani, Genova, 2001, p. 59 ss (50 ) E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, Aedon, 1/1999. (51 ) Incontro di studio su “Alienazione e utilizzazione del demanio storico-artistico nel Dpr 283/2000” (Lecce, dicembre 2000): gli interventi di G. Verde e S. Pajno, Profili pubblicistici del Dpr 283/2000, di G. Casu, I profili civilistici: la commercializzazione dei beni culturali, di M. Cammelli, Ratio e presupposti del regolamento, di E.Bellezza, Dalla tutela alla valorizzazione del bene: il “programma” del Dpr 283/2000, e di G.Chiarante, Relazione conclusiva, in Aedon, 1/2001. (52 ) In proposito, si rinvia a G. Brosio, R. Zanola, Il trattamento fiscale delle organizzazioni non profit con finalità filantropiche: un’analisi comparata, Torino, 1996 e, da ultimo, il numero monografico dedicato alla materia da Economia della cultura, 1/1999. (53 ) La normativa applicativa è stato emanata con decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali 11 aprile 2001 (54 ) Umberto Agnelli, ad esempio, ha di recente dichiarato (il Sole-24 ore del 25.8.2001) che le liberalità dovrebbero riguardare i singoli azionisti più che le imprese. 12 per il favore accordato alle persone giuridiche pubbliche o private che abbiano usufruito degli appositi finanziamenti statali per le istituzioni culturali (55), o dei contributi del Fondo unico per lo spettacolo, o comunque di una sovvenzione prevista da leggi dello Stato o delle regioni (56), e per il probabile allargamento a nuove forme di soggetti quali la fondazione di partecipazione, la “impresa non lucrativa di utilità sociale” o la “impresa a finalità sociale”; alle iniziative interessate (due categorie: compiti istituzionali e programmi culturali) per le quali, rispetto ai precedenti in materia (leggi 512/1982 e 163/1985) si omette ogni indicazione sia pure di massima. Ma, sullo sfondo, i problemi maggiori sono altri: a parte la complessità della disciplina e delle relative interpretazioni (57) è ben nota la delicatezza del rapporto tra agevolazione fiscale (in ultima analisi, una risorsa pubblica) e la libertà del donatore nell’effettuare la propria scelta, dato che per la quota di liberalità corrispondente alla agevolazione fiscale possiamo ritenere di essere di fronte ad una sorta di esternalizzazione dei poteri decisionali normalmente spettanti alla pubblica amministrazione in ordine alla allocazione di risorse pubbliche. A questi temi, tradizionali appunto, si aggiunge nella fattispecie un problema ulteriore, dovuto al fatto che la erogazione di queste risorse può essere effettuata anche in favore di persone giuridiche private, per le quali, non rientrando a quanto è dato capire nell’ipotesi del “decisore intermedio” auspicata proprio per ovviare a questi inconvenienti (58), si apre il problema del rispetto della relativa autonomia decisionale e della parità tra soggetti privati analoghi. 2.7. Un accenno, infine, nel quadro delle forme di esternalizzazione dettato dalla disciplina statale (ma con effetti, come si è visto, determinanti anche sull’intero sistema locale) merita la disciplina del restauro, e segnatamente del restauro di beni culturali mobili (Dm 294/2000), ove il forte il ricorso all’esternalizzazione si trova a fare i conti con una disciplina del tutto inadeguata. La vicenda si presta a rappresentare una sorta di vera e propria metafora dell’intero tema dell’outsourcing per il fatto che il sovrapporsi di (giuste) esigenze di trasparenza sollevate dai privati ma affidate a soluzioni improprie (l’utilizzazione degli schemi e delle logiche di un contesto del tutto diverso, quello dell’appalto di lavori pubblici) e la tentazione degli apparati amministrativi di privilegiare procedure rigidamente determinate (e dunque deresponsabilizzanti) ha portato a condizioni così critiche da generare la paralisi dell’intero settore (59). (55) Si tratta dei finanziamenti previsti dalla legge 17 ottobre 1996, n. 534. L’elenco delle istituzioni ammesse a tale sostegno finanziario, per il triennio 2000-2002, è contenuto nel d.m. 31 luglio 2000 . In materia, ampiamente, L.Zanetti, Gli strumenti di sostegno alla cultura tra pubblico e privato: il nuovo assetto delle agevolazioni fiscali al mecenatismo culturale, in Aedon, 2/2001. (56) In pratica si stabilisce un meccanismo per cui la circostanza di aver goduto di una risorsa pubblica, e quindi di aver superato positivamente la relativa istruttoria, costituisce un elemento di qualificazione tale da giustificare l’ammissione ad ulteriori forme di incentivazione. Un sistema che richiama l’esperienza anglosassoni dei matching grants:così L.Zanetti, Gli strumenti, cit.. (57 ) Già segnalata da G.Martinelli, Associazionismo culturale e agevolazioni tributarie, in Economia della cultura, 2/2000, p.225 ss. (58 ) G. Brosio, Spesa pubblica e agevolazioni fiscali nel settore dell’arte e della cultura in Italia, in Tutela, promozione e libertà dell’arte in Italia e negli Stati Uniti, Atti del Seminario internazionale (Napoli, 20-21 gennaio 1989), a cura di G. Clemente di San Luca, Milano, 1990, spec. 125 ss cit., 135, propone che tra il donatore e il beneficiario si frapponga un “decisore intermedio”, costituito sotto forma di associazione o comunque di ente senza fine di lucro. (59 ) Su cui M.Cammelli, Restauro dei beni culturali mobili e lavori pubblici: principi comuni e necessaria diversità e G.Santi, Il restauro e la manutenzione di beni culturali mobili nel DPR 21.12.1999 n.554, in Aedon, 2/2001. 13 La verità è che invece ci sono molte ragioni per qualificare il restauro di beni mobili come attività con evidenti caratteristiche di servizio. Infatti: si svolge nella grande maggioranza dei casi non in loco ma in laboratorio; è caratterizzato da una particolare e rafforzata esigenza di uniformità, in ordine ai materiali, tecnologie e metodologie utilizzate, quando (come spesso avviene) ha per oggetto una pluralità di beni (v. raccolte di libri, documenti, ecc.); esprime una centralità della figura professionale del restauratore più che dell’impresa, e quest’ultima ha nella maggior parte dei casi caratteristiche artigianali e familiari; riconosce un forte rilievo al contesto locale dove la cosa è collocata. Ora, a fronte della diversità di esigenze espresse e della flessibilità di risposte da dare a una realtà di questo genere, il sistema immaginato dal Dpr 554/1999 e dal Dm 294/2000 va invece nella direzione opposta optando, con il riferimento operato alla disciplina dei LL.PP, all’obbiettivo della riduzione della discrezionalità. Così facendo si incorre in due errori strategici, perché da un lato non si valuta che esigenze analoghe sono risolte, con meno automatismi (v. il rilievo del massimo ribasso nell’appalto di LL.PP), anche dalla disciplina dell’appalto pubblico di servizi (d.lg.157/1995), dove il principio della gara lascia più spazio alla valutazione della qualità, e dall’altro non considera che in questa materia resta un forte rilievo da accordare all’intuitus personae, affrontabile dunque più in termini di qualificazione professionale del restauratore che non con rigide prescrizioni sulla organizzazione dell’impresa. La scelta qui criticata, d’altronde, non è neppure sostenibile invocando vincoli o normative comunitarie che, semmai, vanno in senso opposto. Infatti: la direttiva 93/37, nell’art.1 e nell’allegato 2, dà una definizione di LL.PP che nulla ha a che fare con il restauro dei beni culturali, e meno che meno con quello dei beni culturali mobili; la classificazione internazionale dei servizi (CPV) colloca sotto la voce “altri servizi” (n.27 dell’allegato 2 della direttiva 92/50) i servizi di restauro; infine, come si sa, la categoria generale (e dunque residuale) è quella dei servizi, mentre quella dei LL.PP è definita in modo espresso, con la conseguenza che se una attività non è esplicitamente indicata all’interno dei LL.PP, va collocata nell’ambito dei servizi. 3. L’esternalizzazione a livello locale. Il quadro dell’outsourcing nel settore della cultura si capovolge passando dal quadro nazionale (e statale) a quello regionale e locale. Se nel primo, come si è appena visto, si assiste specie negli ultimi anni ad una copiosa produzione di normative generali e di settore volte ad agevolare il ricorso ai soggetti esterni, o quantomeno la loro partecipazione alla attività di gestione, promozione e valorizzazione dei beni e delle attività culturali, nella maggior parte dei casi ancora inapplicate, l’esperienza regionale e soprattutto locale sembrano andare in direzione quasi opposta, nel senso cioè di un numero crescente di esternalizzazioni che non utilizzano tipologie pensate espressamente per la materia ma si riferiscono a modalità organizzative e strumenti provvedimentali o contrattuali genericamente previsti per i servizi pubblici locali o praticano forme atipiche definite caso per caso. 3.1. I dati. Per queste ragioni, mentre la ricostruzione del quadro delle esternalizzazioni del ministero e a livello centrale è essenzialmente, come si è visto, una rassegna delle normative in materia, quella del livello locale è invece affidata alla individuazione delle iniziative concretamente avviate in questo ambito, in 14 modo da rappresentarne, per quanto possibile, lo stato dell’arte. Una ricognizione assai problematica, peraltro, perché in genere sono portati a conoscenza, in modo frammentario, solo casi singoli (60). A quanto è dato conoscere, e affidandosi agli scarsi dati disponibili (61), si può intanto affermare che la gestione diretta (c.d. “in economia”) di tali attività, un tempo assolutamente prevalente, tende ad essere superata, almeno nelle iniziative più recenti, dalle soluzioni esternalizzate, passate da poche unità nel 1999 a 164 all’inizio del 2000 e a 190 all’inizio del 2001. In particolare le forme di gestione, utilizzando le tipologie dettate dalla legge 142/1990 per l’esercizio e l’affidamento di servizi pubblici locali (gestione diretta, concessione, azienda speciale, società a partecipazione pubblica, convenzioni o consorzi tra enti locali), riguardano in prevalenza strutture quali musei, teatri, biblioteche, aree archeologiche e privilegiano l’azienda speciale (43%), la gestione diretta (22%) e le società miste (11%). Con riguardo alle sole ipotesi di esternalizzazione, inoltre, emerge una correlazione degna di nota tra ambiti materiali di intervento e forme organizzative utilizzate: in materia di turismo e servizi misti, ad esempio, la tipologia prevalente è quella societaria (21% di spa, 16% di srl); per musei, teatri e biblioteche invece si ricorre con preferenza all’istituzione (33%), mentre gli interventi sui parchi sono affidati a consorzi (13%). Limitatissimi, infine, i casi di affidamento a soggetti del non profit (4%). Non è possibile, evidentemente, da una base così limitata (62) di conoscenze estrapolare considerazioni di qualche plausibilità sul piano del merito. Sono invece possibili alcune annotazioni sul piano istituzionale, perché i dati a disposizione segnalano tendenze che è ragionevole immaginare diffuse nella maggior parte degli enti locali. 3.2. Le tendenze. Un primo elemento da sottolineare è che, a differenza del centro e dell’amministrazione statale, Regioni ed Enti locali mancano di una strumentazione specifica in materia di esternalizzazioni. Le ragioni di questa assenza sono composite: a) in parte si tratta di motivi tecnico-giuridici, dovuti cioè al peso determinante che, almeno per i beni culturali, mantiene l’elemento della tutela, con la conseguenza che la messa a punto di strumenti ulteriori pure riguardanti altri profili (gestione, valorizzazione, ecc.) o passa per le tipologie generali poste a (60 ) Come il caso del Palaexpò di Roma, su cui v. A.Leon, La gestione privata dei beni culturali in Italia, in Economia della Cultura, 3/1977, o le innovazioni nella gestione dei musei civici di Roma e Venezia, C.Fuortes, Nuove esperienze gestionali nel settore museale, in Economia della cultura, 2/2000, p.148 ss., o le convenzioni tra amministrazioni provinciali e Mecenate, su cui v. R.Sulli, Le convenzioni per la valorizzazione dei beni culturali, Aedon, 1/2000. (61 ) In particolare, a quelli risultanti dall’indagine compiuta da Federculture, in Quaderni Federculture, 2, Roma, 1999 e al contributo di F.Ceccaroni e M.Nuzzo, La gestione “esternalizzata” dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali: analisi dello scenario attuale, p. 83 ss, cui si farà prevalente riferimento in testo. Si deve peraltro segnalare che tale materiale soffre di alcuni limiti non trascurabili: si riferisce ad un’indagine ancora in corso, i dati percentuali offrono raramente l’indicazione del corrispondente valore assoluto e non è chiaro l’arco temporale utilizzato nella rilevazione che si direbbe relativo al periodo immediatamente antecedente alla pubblicazione (e dunque, la seconda metà degli anni ’90), ancorché in una recente presentazione fattane dal il Sole-24 ore (11 giugno 2001) si operi invece riferimento a dati del 1999-inizio 2001. Di notevole interesse anche il Rapporto di ricerca, a cura di S. Bagdadli, Crora-Università Bocconi, luglio 2001, predisposto all’interno del progetto di assistenza tecnica al progetto “Nuove professionalità: imprenditoria e occupazione per i servizi culturali: progettisti per lo sviluppo di sistemi culturali integrati”, con puntuale analisi di sette casi: sistema museale provinciale di Ravenna; musei della provincia di Modena; museu de la ciencia i de la tecnica de Catalunya; azienda speciale Fiesole musei; progetto Stiffe spa; i trust della città di Sheffield; istituzione del sistema delle biblioteche centri culturali di Roma. (62 ) Che fra l’altro sconta la non conoscenza di quanto avviene tramite le erogazioni finanziarie dirette (dalle ex fondazioni bancarie) al settore delle organizzazioni di volontariato (legge 266/1991) operanti in ambito culturale. 15 disposizione dall’ordinamento statale o è frenata, in fatto e in diritto, dalla riserva allo Stato della tutela e dalla latitudine della sua estensione. Inoltre come si è visto, l’outsourcing, quando non si limita a modificazioni nell’ambito dell’organizzazione pubblicistica esistente (istituzione, azienda speciale, società mista) comporta la messa a punto di apposite forme contrattuali incidenti sul regime codicistico e sulle relazioni con e tra privati: tutti elementi, cui aggiungere l’introduzione di agevolazioni nel regime fiscale, sottratti alla competenza normativa delle regioni e degli enti locali. Il risultato è che su questo terreno, e indipendentemente dai problemi tecnico-giuridici più generali posti dalle normative statali, il sistema locale è legato agli strumenti offerti dalla legge 142/1990 (63), cioè ad una normativa che prevalentemente pensa ai servizi pubblici di tipo imprenditoriale piuttosto che a quelli culturali e sociali e la cui ratio, comunque, risiede più nella innovazione della strumentazione pubblica che nella apertura ai privati, tanto è vero che l’unica figura espressamente destinata a questa scelta, l’istituzione, non permette di associare altri soggetti alla gestione; b) queste difficoltà, inoltre, si sono accentuate a causa dell’impasse nella quale sono entrate le regioni (basti ricordare la vicenda della riforma degli statuti) sospese tra le riforme costituzionali già entrate in vigore (legge costituzionale 1/1999) e quella recentissima della revisione dell’intero titolo V Cost., con il risultato di una diffusa (quanto ingiustificata) tendenza a bloccare anche le scelte di settore in attesa di quelle istituzionali generali. In ogni caso, una fase cruciale dei processi del “terzo decentramento” era (e resta) affidata alle Regioni, fin dai provvedimenti legislativi e amministrativi di attuazione del decreto 112/1998: momento determinante, dal nostro punto di vista, perché sia nello scegliere dove allocare le nuove funzioni che nella messa a punto della organizzazione necessaria per il loro svolgimento è essenziale, e preliminare, stabilire il concorso che sul piano della gestione può essere assicurato da soggetti esterni. Ebbene, pur con le dovute eccezioni il quadro d’insieme delle leggi regionali di attuazione non è brillante (64). Le prime analisi effettuate indicano grande cautela, rinvio delle opzioni più significative a provvedimenti successivi, utilizzazione delle strutture già esistenti (65). Per quanto la scelta di un modello di “decentramento potenziale” come quello prescelto per i beni culturali non abbia certo stimolato fantasie e impegni maggiori, e malgrado iniziative anche apprezzabili di varia natura (66), si può affermare che ciò che mancava al decentramento statale non è stato compensato dalla attuazione regionale; c) il peso maggiore, tuttavia, è da assegnare a ragioni sostanziali, dovute al prevalere, presso le autonomie territoriali, di esigenze e di finalità diverse. L’innovazione locale su questo terreno, infatti, sembra (63 ) Una rassegna in R.Grossi, Gli strumenti degli enti locali per i servizi culturali, in Modelli di gestione dei servizi culturali negli enti locali , Quaderni Federculture, 1, Roma, 1998, p.11 ss e in M.Vallerga, Enti locali: forme di gestione dei servizi culturali ed esperienze di esternalizzazione, in La problematica definizione del bene culturale, cit., p.119 ss. (64 ) A.Maresca, Gestione e valorizzazione dei beni culturali nella legislazione regionale, Roma, 1998; R.Grossi e S.Debbia, (a cura di), Cantiere cultura, Milano, 1998; P.Forte, Nuovi modelli di gestione coordinata di beni e servizi culturali, in Notiziario Ministero per i beni e le attività culturali, XIII, nn.56-58, p.25 ss. (65 ) G.Marchi, I beni e le attività culturale nelle scelte del legislatore regionale, e C.Tubertini, L’organizzazione regionale per i beni e attività culturali, entrambi in Aedon, 3/2000. (66 ) V. Abruzzo o Emilia (Aicer spa) con l’affidamento a società a partecipazione pubblica della realizzazione di iniziative culturali (mostre, esposizioni, ecc.), 16 interessata (67) a praticare l’esternalizzazione più per trovare nuove forme organizzative pubbliche che per incontrare i privati: il che, peraltro, non sempre e non ovunque è stato facile, se solo si pensa alla vicenda della trasformazione in fondazioni degli enti lirici. Questa cautela nell’aprire all’esterno, in ogni caso, appare tuttora una caratteristica prevalente del governo locale il quale, nel periodo che ha segnato il massimo sforzo statale in tema di privatizzazioni ed esternalizzazioni (anni ’90), nel suo insieme si è sottratto a tali dinamiche ed ha anzi esteso in più di un caso la propria presenza ed i propri interventi regolativi e gestionali. Proprio l’ambito dei servizi pubblici locali, da questo punto di vista, è esemplare. Naturalmente non mancano ragioni particolari e plausibili a sostegno di questo orientamento, come il problema (altrettanto cruciale) della cooperazione e delle forme associative tra più enti locali (un obbiettivo perseguibile proprio con le modalità pubblicistiche ricordate) o come i vincoli derivanti dal personale già operante in questi settori all’interno della amministrazione. Ma resta il dato di fondo e cioè che, almeno per quanto riguarda la gestione di strutture e beni culturali, il governo locale ha utilizzato in prevalenza strumenti geneticamente non aperti ai soggetti privati (oltre alla gestione diretta, sono tali l’istituzione, l’azienda speciale e i consorzi) o, come le società miste, disponibili solo per realtà imprenditoriali o finanziarie. 3.3. Una eccezione c’è ed è rappresentata dalle c.d. fondazioni di partecipazione, strutturate in modo da favorire l’innesto (non solo per il reperimento delle risorse, ma negli organi di governo e dunque nel processo decisionale) di soggetti pubblici o privati esterni. Si tratta di una soluzione che sembra incontrare il favore crescente del sistema locale ma che, proprio a questo livello, non è immune da delicati problemi giuridici e sostanziali che vanno richiamati. Questo tipo di fondazioni nasce da una lettura innovativa degli artt. 12 ss. del codice civile ove si prevede la possibilità di riconoscere, insieme alla associazioni e alle fondazioni (68), anche “altre istituzioni di carattere privato”: si è così elaborata la proposta (69) di un terzo modello risultante dalla combinazione dei due precedenti, nello stesso tempo distinto dalla associazione in quanto caratterizzato dalla destinazione di un patrimonio ad un determinato scopo e lontano dalla fondazione per il fatto di non prevedere (o non prevedere del tutto) la separazione tra volontà del soggetto fondante e potere decisionale in capo agli organi di governo del nuovo soggetto. L’ipotesi ha avuto, in concreto, un immediato e notevole successo (70), d’altronde comprensibile proprio per il fatto di rappresentare una alternativa alle forme “chiuse” all’esterno di cui prima si è detto, ed avrebbe conseguito anche un formale riconoscimento giuridico se il ddl. c.d. Vigneri, cui nella XIII legislatura si era affidata la riforma dei servizi pubblici locali, fosse andato in porto. Così non è stato, e oggi (67 ) Anche per la mancanza di atti di indirizzo centrali, che pure qualche regione aveva sollecitato: così P.Petraroia, Il raccordo tra i diversi livelli istituzionali, cit., 150. (68 ) Per le quali, nel settore qui esaminato, si vedano i recenti contributi di A.Canuti, Le fondazioni per la gestione dei beni culturali: autonomia e controlli, e di E.Bruti Liberati, Il problema dell’autonomia delle fondazioni culturali nel quadro delle nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato, entrambi in L’autonomia delle Fondazioni culturali non pubbliche, Università Bocconi, 2001, rispettivamente pp. 7 ss. e 52 ss. (69 ) E.Bellezza - F.Florian, Le fondazioni del terzo millennio, Firenze, 1998. (70 ) Vedi i casi di Milano, Ancona e Crema, con presenza degli enti locali e di privati, richiamati da G.Franchi, Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in Aedon, 3/2000. Indicazioni anche in L. Antonini, Sussidiarietà, cit, p.234. 17 ci troviamo di fronte a numerose questioni aperte. Tralasciando quelle sul versante civilistico, e dunque sulla ammissibilità della lettura data alle disposizioni del codice, quelle più rilevanti dal punti di vista pubblicistico, del resto già segnalate in dottrina (71), sono le seguenti: a) compatibilità rispetto alle forme di gestione dei servizi pubblici locali previste dagli artt.112 e ss. del d. lgsl.267/2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, da ora Tuel). Per la dottrina prevalente (72), le forme di gestione dei servizi pubblici locali indicate dall’art.113 Tuel (economia, concessione a terzi, azienda speciale, istituzione, società mista a partecipazione pubblica maggioritaria o minoritaria) sono, appunto, forme tipiche, vale a dire non consentono l’utilizzazione di altre tipologie e perciò stesso rappresentano un limite positivamente stabilito anche alla capacità di diritto privato dell’ente territoriale. Non mancano altre opinioni, ma il punto è talmente acquisito dalla dottrina e dalla giurisprudenza che vi è chi identifica proprio nella tipicità delle formule gestionali l’elemento distintivo del servizio pubblico locale (73). Ora, se muoviamo dalla definizione che appunto di tali servizi dà il Tuel, come “produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali“ (art.112), non può porsi in dubbio che l’intervento degli enti territoriali nel settore della cultura sia qualificabile come attività di servizio pubblico, senza ulteriori aggettivazioni (industriali, imprenditoriali, non imprenditoriali, sociali, ecc ). Naturalmente il legislatore può modificare questi dati e introdurre, come appunto si proponeva nella passata legislatura, una articolazione di qualificazioni con relativa varietà di regime. Ma, in mancanza, si pone allora il problema se sia legittimo l’esercizio di un servizio pubblico, nel caso specifico quello di tipo culturale, al di fuori delle modalità previste. La risposta non è scontata, perché non c’è dubbio che il Tuel consideri prevalentemente i servizi di tipo imprenditoriale; perché, proprio per questo, l’attività culturale si trova quasi sempre costretta (salvo la presenza di rilevanti servizi misti) nell’alternativa tra gestione diretta e istituzione; perché l’istituzione ha mostrato alcune possibilità ma non pochi limiti (74); e perché, inoltre, il vincolo della tipicità, caratteristico della organizzazione pubblica al punto da essere costituzionalizzato, va coniugato e probabilmente temperato con quello, più recente, dell’ampio potere di autorganizzazione riconosciuto a tutti i soggetti pubblici dalla recenti riforme amministrative (75). Si aggiunga, infine, che la linea di confine tra servizio pubblico (cioè beni e servizi resi alla collettività perché corrispondenti ad una valutazione di rilievo sul piano dell’interesse pubblico) e altre attività (in generale servizi, come tutte le attività e i beni strumentali all’esercizio dei compiti dell’ente pubblico) è chiara solo in termini concettuali e nei suoi estremi, mentre in concreto e in tutte le zone intermedie la distinzione è assai più difficoltosa. (71 ) Si veda l’ampia analisi condotta da G.Franchi, ivi con la quale, per gli aspetti richiamati in testo, si concorda. (72 ) Sia consentito rinviare a M.Cammelli - A.Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica, II, Rimini, 1999, p. 77 ss. (73 ) V. G.Caia, in Diritto amministrativo, a cura di L.Mazzarolli, G.Pericu, A.Romano, F.Roversi Monaco, F.G.Scoca, Bologna, 1998 (74 ) Sul punto, A.Andraeni, Spunti problematici, P.Cella e G.Valotti, Un profilo di analisi economico-aziendale, R.Grossi, L’esperienza delle istituzioni per la gestione dei servizi culturali degli enti locali, G.Franchi, Il modello di istituzione guarda al passato, e due interventi su esperienze locali (Torino, Bologna) rispettivamente di D.Jalla e A.Barbiero, tutti in Aedon, 2/1998. (75 ) Nello stesso senso E.Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, cit. 18 Malgrado tutto ciò, allo stato attuale della disciplina vigente l’utilizzazione di una forma diversa e non compresa tra quelle indicate dovrebbe considerasi non consentita e conseguentemente di dubbia legittimità il ricorso da parte di un ente locale alla fondazione di partecipazione per lo svolgimento di una attività culturale qualificabile come servizio pubblico; b) motivi specifici relativi al regime e ai rapporti tra ente locale e fondazione. Peraltro, la fondazione di partecipazione presenta alcuni problemi che vanno in ogni caso valutati. E’ innegabile infatti, una certa tensione se non proprio un contrasto, tra la vocazione della fondazione ad operare per e nel lungo periodo (con il relativo corollario della disponibilità di mezzi adeguati) e il principio della periodica verifica delle ragioni della assunzione del servizio pubblico e delle relative modalità di gestione cui deve conformarsi l’ente pubblico. Altrettanta tensione è rinvenibile nella non facile convivenza tra i poteri regolativi dell’ente pubblico (che dovrebbe ricorrere, anche in questi casi, ai contratti di servizio previsti per l’affidamento degli altri servizi pubblici) e il relativo grado di autodeterminazione della fondazione, la cui caratteristica è appunto quella di potere precisare e integrare le proprie finalità operative anche con il concorso dei nuovi soggetti partecipanti (76). Non è necessario insistere ulteriormente sul punto, almeno in questa sede: quello che conta è sottolineare che se la formula della fondazione di partecipazione rappresenta un apprezzabile punto di equilibrio tra le diverse esigenze che emergono nelle ipotesi di esternalizzazione di attività nel settore culturale, proprio per questo richiede una messa a punto legislativa che valga a superare o a chiarire gli aspetti che si sono evidenziati. Quelli appena richiamati sono solo una parte dei problemi giuridici posti dalle esternalizzazioni, alle cui tipologie principali dedicheremo tra breve uno specifico richiamo. Per il momento, la parte relativa al sistema locale può terminare con queste considerazioni di sintesi: - per quanto non sia facile avere elementi attendibili in materia, i dati disponibili indicano un crescente ricorso da parte degli enti locali a forme di esternalizzazione, per lo più di tipo pubblicistico e dunque riferibili più a esigenze di riorganizzazione pubblica che a forme di allocazione ad altri soggetti realmente terzi, di propri compiti o attività; - quando l’attività consiste in un servizio pubblico, l’ente locale è tenuto ad utilizzare le forme poste a disposizione dal Tuel, ma tali forme risultano spesso fuori scala nel settore culturale o perché sovradimensionate (data la loro finalizzazione all’esercizio di rilevanti attività imprenditoriali: società di capitali) o perché troppo limitate (in termini di autonomia gestionale e finanziaria: istituzioni); - queste sono le ragioni per cui da un lato il Parlamento ha tentato di rivedere l’istituzione, riconoscendole (nel ddl. 4014 della XIII legislatura, c.d. Vigneri) personalità giuridica e la possibilità di svolgere anche attività strumentali, e dall’altro i singoli enti hanno tentato di aggirare l’ostacolo in via di fatto utilizzando formule atipiche, come appunto con la fondazione di partecipazione. Ma l’arresto del primo e i dubbi sulla seconda mostrano che il problema della mancanza di adeguati strumenti a disposizione degli enti locali è serio e resta aperto. (76 ) Su questi ed altri aspetti problematici, ancora G.Franchi, Sul disegno di gestire, cit. 19 Proprio per questo anche il sistema delle autonomie, e soprattutto il livello regionale, ha una parte di responsabilità in proposito per avere solo raramente utilizzato l’occasione costituita dalle nuove condizioni ordinamentali aperte dalla legge 59/1997 e dal decreto 112/1998 (sia pure con tutti i limiti specifici del settore) e per non avere saputo cogliere l’importanza dei risultati che su questo stesso terreno possono essere conseguiti dalle politiche nei settori contigui. Sicché, se raffrontiamo i risultati appena visti con quanto accaduto al centro, sembra emergere la singolare contrapposizione tra un quadro ricco di discipline sulla esternalizzazione, ma con scarne applicazioni (amministrazione statale), e uno, quello locale, di limitati strumenti normativi ma di crescenti (e, forse, un po’ eclettiche) iniziative sul campo. Proprio su questi profili, dunque, è bene soffermarsi. 4. Regole senza esternalizzazioni e esternalizzazioni senza regole. Se la situazione a livello locale è quella che si è vista, neppure si può dire che al centro i problemi siano stati risolti con l’adozione delle normative che si sono ricordate e, soprattutto, con l’art.10 del d.lg. 368/1999 al quale, come si è visto (v. par. 2.4) va riconosciuta una funzione più di norma quadro e di indirizzo che di esaustiva disciplina della materia. L’analisi dei principali problemi giuridici posti dalle esternalizzazioni, dunque, può utilmente concentrarsi su tale disposizione, come del resto in dottrina è già stato fatto al momento stesso dell’entrata in vigore della norma (77). 4.1. Il punto da cui muovere riguarda, in generale, il rapporto tra modalità funzionali (accordi) e forme strutturali (associazioni, fondazioni, società miste) di esternalizzazione. La questione, infatti, non è quella di precisarne la diversità, cosa che si vedrà tra breve, ma di denunciare il fatto che mentre in astratto la soluzione funzionale (accordi) è di gran lunga la più consigliabile, in concreto il percorso per le esternalizzazioni (78) più battuto, anche in sede locale per quanto si è potuto vedere, è di natura strutturale, quello cioè della costituzione o partecipazione ad organismi misti. Il che, evidentemente, aggiunge altri problemi a quelli che già avevamo. Le esternalizzazioni per accordi sono preferibili perché più flessibili, perché meno costose e comunque soggette al rischio della ridondanza organizzativa, perché meno esposte al rischio della autoreferenzialità proprio di ogni struttura, e perché più coerenti con il principio della distinzione dei ruoli, e cioè con la separazione tra chi regola e chi eroga, tra chi indirizza e chi gestisce, tra chi tutela e chi promuove, tra chi fa e chi controlla. Quelle basate su strutture miste, possono certo essere giustificate dalla particolarità dell’oggetto (la gestione di un servizio o di un bene particolarmente rilevante) e risolvere problemi reali (v. personale) ma in realtà sono praticate perché si preferisce (da parte solo del pubblico?) un modello opposto basato su organismi misti e sulla codeterminazione che permette la presenza diretta ed evita l’indubbia difficoltà di predeterminare linee e comportamenti (indirizzi, regolazione) e di verificare poi quanto è avvenuto, con piena distinzione delle relative responsabilità. (77 ) Vedi l’approfondito esame compiuto da E.Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, cit. (78 ) Il discorso è del tutto diverso per quanto riguarda il rapporto tra livelli istituzionali ove gli accordi, come si è visto, sono largamente praticati. 20 4.2 Se questo è vero, è altrettanto giusto riconoscere che questa tendenza è stata ed è agevolata anche da alcune rilevanti incertezze riguardanti gli accordi e in particolare l’oggetto, la qualificazione e il relativo regime. Quanto all’oggetto, oltre alla ammissibilità di esternalizzazioni per accordi riguardanti i servizi aggiuntivi della legge Ronchey (rectius: appalto di servizi più eventuale concessione) nonché le funzioni di promozione delle attività culturali e valorizzazione e gestione dei beni culturali, elementi come si è detto già acquisiti, resta invece problematica l’ammissibilità di accordi di tipo concessorio attinenti alla valorizzazione o gestione complessiva di un bene culturale o ambientale: la questione è dubbia, data la natura programmatica dell’art.10 del d.lsg.368/1998. E’ vero che ai motivi già portati a sostegno della soluzione favorevole (79) si può aggiungere l’elemento ulteriore rappresentato dal regolamento sulla alienazione e concessione dei beni immobili del demanio storico artistico (DPR 283/2000) il cui capo III disciplina espressamente, e in generale, l’ipotesi di concessione di questi beni culturali. Ma è altrettanto vero che proprio questo elemento potrebbe essere utilizzato in senso contrario, come prova cioè che la cosa non sarebbe stata possibile senza, appunto, specifiche prescrizioni normative, ed è probabilmente in questo senso che sarà interpretata in sede amministrativa e giurisdizionale. La questione, in ogni caso, è ormai positivamente risolta dall’art.22 della legge finanziaria 2002 che, agli accordi e agli organismi misti delle lettera a) e b) dell’art.10.1 del d.lgs. 368/1998 aggiunge (con una apposita lettera c) la possibilità di “concedere a soggetti privati l’intera gestione del servizio concernente la fruizione pubblica dei beni culturali unitamente all’attività di concorso al perseguimento delle finalità di valorizzazione…”. Una previsione di non facile lettura, che ancora una volta rinvia ad un successivo regolamento (la cui adozione, visti i precedenti, non può dirsi scontata), ma che chiarisce al di là di ogni dubbio che nella disciplina fino ad ora vigente la possibilità di esternalizzare la gestione complessiva di un servizio era da considerarsi esclusa (80). La definizione del restante regime giuridico degli accordi, a cominciare dal tema della scelta dei soggetti esterni non è meno complessa, perché per un verso dipende dalla qualificazione dei rapporti medesimi e per altro verso invece dalla natura dei soggetti con cui l’accordo è stipulato nonché dalle modalità contrattuali specifiche di ogni singolo rapporto. L’accordo infatti indica solo il “come” si perviene a un certo risultato, in modo pattizio invece che unilaterale ed autoritativo, ma non il “che cosa” ne costituisce la funzione e la causa, e dunque, in definitiva, il regime applicabile. In questi termini, e nel settore della cultura, l’accordo tra amministrazione e privati pone in essere un rapporto qualificabile come appalto pubblico di servizi (d.lg. 157/1995) quando ha ad oggetto attività (79 ) E. Bruti Liberati, ivi (80 ) Quanto detto non vale, invece, per la semplice partecipazione del Ministero a società o fondazioni che, trattandosi di esercizio della normale capacità giuridica di diritto privato da parte di una amministrazione pubblica, non richiede alcuna ulteriore previsione normativa (men che meno regolamentare) sempre che sussista, come è ovvio, la funzionalizzazione all’interesse pubblico affidato all’amministrazione di settore. Da questo punto di vista, quanto disposto dall’art.3.9 del d.lgsl. 419/1999 (riordino degli enti pubblici nazionali) circa la possibilità di partecipazione a questi ultimi del Ministero per i beni e le attività culturali ai sensi dell’art.10 qui esaminato, va dunque riferito più alle peculiarità del regime degli enti privatizzati, ove permangono elementi pubblicistici, che alla capacità giuridica dei soggetti pubblici (oltre al Ministero, le università) ammessi a parteciparvi. 21 strumentali e di valorizzazione delle attività culturali (come appalto di servizi, dunque, andrebbe qualificata anche la c.d. “concessione” di servizi aggiuntivi), sarà appalto di lavori pubblici (legge 109/1994 e relativo regolamento) quando ha ad oggetto (esclusivo o prevalente) la manutenzione e il restauro di beni immobili pubblici, mentre sarà da qualificare come affidamento di servizio pubblico quando sia trasferito al soggetto esterno non un singolo compito ma l’insieme della produzione di beni o di servizi destinati alla collettività relativi ad un determinato bene o attività culturale. In tal caso, la disciplina sarà da rinvenirsi nel Tuel (art. 112 ss) se si tratta di un servizio pubblico locale mentre a livello centrale si dovrà fare riferimento alla nuova normativa introdotta dall’art.22 della legge finanziaria 2002 e, comunque, ai principi generali in tema di concessione. Detto questo, si tratta ora di applicare a queste discipline le altre variabili, perché alcune di queste richiedono una caratteristica soggettiva (la qualità di imprenditore, per i lavori pubblici) che è estranea ad esempio ai soggetti non-profit mentre un elemento contrattuale come il corrispettivo, richiesto anche per l’appalto pubblico di servizi (che è sempre un contratto a titolo oneroso) può essere assente nei casi in cui il destinatario sia una fondazione o altro organismo consimile, con il risultato di collocare queste ipotesi al di fuori dell’applicazione del regime astrattamente corrispondente (v. modalità concorsuali di individuazione dei soggetti, forme di gestione, strumenti di regolazione o di controllo, ecc.). In conclusione, per ogni accordo si tratta di verificare quale sia la disciplina astrattamente in gioco e se siano soddisfatti, in concreto, i requisiti (soggettivi e oggettivi) richiesti per la sua applicabilità: quando questi mancassero, il rapporto posto in essere fuoriesce da queste normative di settore e va riferito al regime generale della concessione o dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione. 4.3. Gli accenni appena compiuti bastano ad indicare fino a che punto le esternalizzazioni verso soggetti privati nel settore della cultura siano peculiari e quanto, di conseguenza, necessitino di una disciplina adeguata. Il ricorso puro e semplice alla normativa ordinaria, infatti, può essere sufficiente quando è in gioco il principio della libertà di concorrenza ma mostra per intero la corda nei casi in cui o non c’è competizione o la competizione non è retta dalle regole del mercato ma da quelle del pluralismo sociale e culturale, e comunque per l’impresa culturale in quanto tale (81). In questi casi il problema non solo è diverso, ma si presenta in forme diverse e richiede risposte diversificate sia sul lato del pubblico, le cui premesse e la cui necessarietà vanno verificate alla luce dei principi costituzionali che si sono ricordati, sia su quello dei soggetti privati non-profit i quali possono anche essere in competizione (non di mercato) tra loro o con il pubblico sul piano della gestione, ma devono comunque vedersi riconosciuto un proprio ruolo nel momento, cruciale, della individuazione dei bisogni e delle domande della collettività e in quello della verifica dei risultati. Si tratta di profili di grande delicatezza e complessità, e dunque non stupisce che su questi punti si sia registrata più di una battuta d’arresto. Ma tale, appunto, va considerata per evitare il prolungarsi di una situazione come quella che è emersa e che rischia di risolversi in uno sdoppiamento schizofrenico fatto di regole senza esternalizzazioni e di esternalizzazioni senza regole, rafforzando il sospetto di una maliziosa (81 ) L. Prato, Le forme di gestione, in Impresa e cultura. L’apporto dei privati nella gestione dei beni e delle attività culturali, atti convegno di Roma (24.2.1999), Roma, 1999, p.35 ss. 22 strategia centrale tesa a valorizzare l’outsourcing più come antidoto ai trasferimenti verso il governo locale che come effettiva opzione per l’apertura ai privati. 5. Elementi di comparazione. E’ utile, a questo punto, un cenno alle soluzioni istituzionali accolte in materia dagli altri paesi europei, con l’avvertenza che i dati disponibili sono limitati, molto eterogenei e tratti dalla legislazione, con il risultato di privilegiare la visibilità solo di alcune ipotesi, quali quelle relative alla gestione di strutture (musei in particolare), servizi connessi, o agevolazioni fiscali, che per loro natura richiedono, appunto, una apposita disciplina normativa e lasciare invece nell’ombra gli interventi operati con semplice convenzione, accordo o singolo provvedimento. Inoltre la loro interpretazione è fortemente condizionata da elementi di contesto, sia istituzionale (rapporti centro-periferia, tipo di amministrazione e burocrazie, ecc.) che socioeconomico (sistema generale delle relazioni tra amministrazione e soggetti privati, forza ed estensione dei gruppi associativi e dei soggetti sociali, ecc.), che ovviamente sono assenti in questi brevi accenni. Pur con questi evidenti limiti, emerge qualche indicazione degna di essere sottolineata: - il ruolo, non solo finanziario, dell’intervento pubblico nella gestione dei beni e dei servizi culturali resta determinante anche nei paesi ove quest’ultimo, per tradizione o per più recenti politiche pubbliche, tende ad essere contenuto: il caso inglese è paradigmatico (82). Perciò, tolto l’appalto di servizi che qui non rileva, più che esternalizzazione verso il privato abbiamo la diffusa previsione di forme di partecipazione o associazione di quest’ultimo al governo o al funzionamento della struttura pubblica; - il museo, sopratutto nella sua versione aggiornata di tutela e conservazione cui aggiunge promozione e valorizzazione, mostra la tendenza ad assumere un ruolo centrale nel settore dei beni e delle attività culturali, come mostrano l’insistenza e lo sforzo di sperimentazione in materia da parte di tutti i paesi esaminati; - non esistono modelli univoci di decentramento: si va dalla variante federale tedesca, poggiante interamente sui Lander (ma non dimentichiamo, in questo caso, il peso della commissioni centrali miste nella ripartizione dei fondi) alla separazione per livelli funzionali spagnola (gestione ai livelli locali, funzioni amministrative alle Comunità autonome, funzioni di particolare delicatezza come il restauro o la manutenzione straordinaria al centro), al decentramento gestionale (ma con modelli di codecisione stato/ente locale) in Olanda. Il modello francese si distacca dagli altri non (tanto) perché più accentrato (il che, come si dirà, è relativo) ma per essere prevalentemente statale. In altre parola, il rapporto centro/periferia in questo caso non passa per le relazioni stato-enti locali ma per il rapporto centro-organi statali decentrati. In termini tecnici: mentre negli altri paesi il decentramento è istituzionale (cioè ha come interlocutore il governo locale) qui il decentramento è amministrativo e passa in misura rilevante per linee interne agli apparati (centrali e periferici) dello Stato. Questo, tuttavia, non significa affatto una gestione unilaterale e separata, sia per la tradizionale diffusione di forme pattizie tra amministrazione statale, centrale e periferica, e collettività locali (83), sia perché a partire dal 1990 è stata avviata una forte esternalizzazione verso figure associative vicine ai consorzi ma allargate anche ai privati e, sopratutto, verso le fondazioni; - il ruolo di queste ultime, insieme al ben noto rilievo delle forme di agevolazione fiscale (84), sono elementi comuni ad ogni esperienza. In particolare: Austria Con una legge del 1998 si è stabilito che entro la fine del 2002 nove grandi musei federali siano trasformati in enti autonomi di diritto pubblico. Le collezioni restano di proprietà dello Stato e vengono affidate ai singoli musei per la “conservazione e la cura” (85). (82 ) Sul punto M. Linklater, Privatizzazione della cultura: la Gran Bretagna e il patrimonio culturale, in Economia della cultura, 3/1997, p.185 ss, che sottolinea come il settore della cultura sia rimasto estraneo alla politica di privatizzazioni della Thatcher, e le riflessioni di M.Trimarchi, Privatizzare la cutura in Italia: obbiettivi, vincoli ed effetti, ivi. (83 ) P. Beghain, Le competenze condivise, ovvero il paradosso francese, in Economia della cultura, 2/1999, p.175 ss. (84 ) Per riferimenti anche a realtà non richiamate in testo (Cile, Australia, Romania, Irlanda e Rhode Island (Usa), in materia di agevolazioni fiscali, cfr. J. Mark Schuster, L’altra faccia della “Musa assistita”: un riesame del sostegno indiretto, in Economia della cultura, 1/1999, p.3 ss. (85) F. Foradini, Così i musei austriaci diventano autonomi, in Il Giornale dell’Arte, n. 170, ottobre 1998, 12. 23 Francia Il museo pubblico è tradizionalmente concepito come articolazione dell’ente pubblico, non come impresa o organizzazione autonoma: la gestione, dunque, può essere considerata diretta. Lo Stato gestisce o controlla i 38 musei nazionali, tra cui il “Museo centrale delle arti”, ossia il Louvre, secondo un’impostazione amministrativa fortemente centralizzata. L’organo centrale di gestione e amministrazione è la Direzione dei Musei di Francia (DMF) (86), i cui compiti e funzioni sono fissati dal regolamento del Ministro della Cultura 5/8/1991, cui spetta proporre ed attuare le politiche statali, organizzare la cooperazione tra le diverse amministrazioni, vigilare su conservazione, protezione, restauro, valorizzazione dei beni museali e sull’effettivo espletamento della loro funzione culturale ed educativa. Negli anni ’90 si è voluto ovviare allo storico accentramento attraverso le politiche di déconcentration e décentralisation, ovvero il ritiro dell’amministrazione centrale e la sperimentazione della formula della trasformazione di alcuni musei in enti pubblici: il Louvre , il museo D’Orsay, il Centre George Pompidou. Il decreto 22/12/1992, n. 1338, che disciplina la trasformazione del Louvre, all’art. 5 prevede la possibilità che il museo possa affidare in concessione attività (si ritiene anche culturali)(87) a enti pubblici o organizzazioni private. Vi sono forme di gestione museale che utilizzano associazioni costituite tra i Comuni, enti pubblici, privati, Università, perseguendo gli stessi fini che spetterebbero all’ente locale (88). Sotto questo profilo, si può dire che anche questa è una forma di “esternalizzazione” della gestione, perché la partecipazione dell’ente pubblico alla costituzione di una persona giuridica privata, che gestirà il museo, corrisponde a quanto in Italia è previsto dall’art. 10 del d.lg. 368/1998, comma 1, lett. b). Ancora, si rileva la presenza delle fondazioni culturali, definite normativamente dalla legge 23/7/1987, n. 571, sullo sviluppo del mecenatismo. Ma è la legge 4/7/1990, n. 559 a creare la fondamentale distinzione tra fondation d’entreprise e fondation reconnue d’utilité publique (89). Mentre i tratti giuridici della seconda sono quelli tipici comuni anche alle fondazioni italiane (mancanza dello scopo di lucro ecc.), la fondazione d’impresa ha la caratteristica di essere concepita esclusivamente in via strumentale al finanziamento di un’attività: ha pertanto un fine di remunerazione (non nel senso di lucro soggettivo di spartizione degli utili tra i fondatori, ma di lucro oggettivo a vantaggio della organizzazione). Esse vengono create solo per un periodo determinato (di solito 5 anni, rinnovabili) per costituire, gestire o finanziare istituzioni culturali e il loro programma di azione è approvato dall’autorità amministrativa (90). Qui, invece, è più dubbio che si possa parlare di esternalizzazione: sembra più probabile che le fondazioni, costituendo o gestendo istituzioni culturali, non compiano altro che attività private, non riconducibili alle logiche di affidamento di servizi o compiti pubblici, e che si tratti di un vero e proprio museo privato. Troviamo inoltre i raggruppamenti di interesse pubblico (decreto 28/11/1991, n. 1215), dotati di personalità giuridica, costituibili per convenzione fra Stato, enti locali, enti pubblici, associazioni e altre persone giuridiche private (società) per esercitare per periodi determinati attività in campo culturale e costituire o gestire imprese o servizi di interesse comune che siano necessari a tali attività culturali. I raggruppamenti svolgono attività commerciali strumentali all’attività museale (servizi aggiuntivi, pulizie, sorveglianza ecc.) e sottostanno alle regole del diritto privato, salvo che non siano costituiti esclusivamente da enti pubblici. Questo schema, dunque, rientra nel tradizionale affidamento di servizi commerciali e/o aggiuntivi a società collegate al museo. La dottrina ha poi proposto l’utilizzazione della figura della società a partecipazione mista (societé d’economie miste, SEM) (91) come concessionaria del servizio museale vero e proprio. Tale utilizzazione è però osteggiata poiché tali società possono perseguire sì l’autofinanziamento, ma non lo scopo di divisione degli utili, tratto tipico delle società. Vi sono alcuni esempi (rari) di affidamento della gestione di musei pubblici a organizzazioni esterne all’amministrazione, tramite convenzioni: le organizzazioni sono costituite da associazioni di persone (86) S. Foà, L’organizzazione giuridica dei musei in Francia: decentramento e servizio pubblico culturale, in G. Cofrancesco (a cura di), I beni culturali, profili di diritto comparato ed internazionale, Ist. Poligr. Stato, 1999, 85 ss. (87) Così S. Foà, cfr. nota precedente, 92. (88) Così S. Foà, cfr. nota 1, 96. (89 ) Su cui v. P.Jacques, Le cadre juridique général des fondations en droit francais, in L’autonomia delle fondazioni non pubbliche, cit. p.95 (90) Comunicazione della Commissione europea sulla promozione del ruolo delle associazioni e fondazioni in Europa. (91) S. Foà, cfr. nota 1, 107. 24 pubbliche e Comuni, SEM e Comuni, società private e Accademia delle belle arti, cui vengono affidati in concessione tutti i servizi (pubblici) inerenti al museo (anche la manutenzione, la protezione dei beni), in un contesto non lucrativo. Si vedano i casi del museo di Lille, del Mémorial di Caen e di Villa Ephrussi a Saint Jean Cap Ferrat. In ultimo è da segnalare la figura della Fondation du patrimoine, istituita con legge 2/7/1996, n. 590. Tale fondazione ha lo scopo di promuovere la conoscenza, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio nazionale, sovvenzionando enti pubblici e privati, contribuendo alla formazione del personale, acquistando altresì beni a rischio o chiedendo allo Stato che i procedimenti di espropriazione o prelazione vengano esercitati a suo favore (art.8). In ogni caso, a parte l’indubbio interesse che questo strumento, simile alla Sibec Spa, può suscitare, non sembra trattarsi di “esternalizzazione”: la fondazione, infatti, gestisce direttamente solo beni di cui abbia acquisito la proprietà. Sul terreno fiscale, l’art. 39 del Codice generale e delle imposte dispone la deducibilità per le imprese delle spese sostenute per contribuire alla valorizzazione del patrimonio artistico (comma 7), ma non precisa a che tipi di organizzazioni tali dazioni possano essere effettuate. L’art. 238 bis dello stesso Codice prevede la deduzione delle spese effettuate da società a favore di opere o organizzazioni di interesse generale che contribuiscano alla valorizzazione (mise en valeur) del patrimonio artistico, in particolare quando i versamenti siano a favore di una fondazione d’impresa (comma 1) oppure di fondazioni e associazioni riconosciute d’utilità pubblica (comma 2). L’art. 200 stabilisce invece una detrazione dell’imposta sul reddito per i privati per le somme versate a fondazioni o associazioni di utilità pubblica che svolgano attività di valorizzazione o a favore di opere o organismi di interesse generale che contribuiscano a tale valorizzazione. Germania A quanto risulta, l’unica funzione che la legge fondamentale tedesca riconosce in ordine ai beni culturali (il termine usato è “monumenti”) è la tutela, riservata alla competenza legislativa dei Lander. Non si parla quindi di valorizzazione, né tantomeno di esternalizzazione della gestione dei beni (92). Si può rilevare, al più, una tendenza al decentramento funzionale nella gestione dei maggiori musei, che si sono staccati dai Ministeri delle Finanze dei Lander da cui dipendevano strettamente (93). Per quanto attiene alla legislazione fiscale, il regolamento del Ministero dell’economia per la concessione di sovvenzioni destinate alla conservazione e alla cura di monumenti (8 ottobre 1997) dispone agevolazioni per le associazioni di scopo, le istituzioni e fondazioni di diritto pubblico (art.2.3) e le persone giuridiche private riconosciute di utilità pubblica (art.2.5). Si noti, in ogni caso, che l’attività esercitata concerne sempre manutenzione e restauro, e non l’affidamento della gestione. Gran Bretagna (94) Le strutture corrispondenti ai Ministeri sono due: il Department of the environment, transport and the regions, responsabile per i beni culturali immobili (il cultural heritage) e il Department of national heritage, media and sport, responsabile per i musei, le biblioteche e le gallerie. La gestione dei palazzi e dei parchi reali è attuata da due agenzie del Department of culture. Nel sistema britannico non esiste il “bene culturale”: è soggetto a protezione solo il cultural heritage, ossia solo i beni immobili (listed buildings). Vi è un modello unico e tipico di “tutela diffusa”, vale a dire realizzata da più soggetti: apparati del governo centrale, organismi semi pubblici, autorità locali, Chiesa anglicana e istituzioni della società civile, dunque soggetti privati (95). Tra essi il più importante è il National Trust. Detti soggetti operano acquistando beni in degrado e ristrutturandoli, per poi valorizzarli anche economicamente. (92) Così in M. Di Stefano, La protezione dei beni culturali in Germania, in G. Cofrancesco (a cura di), I beni culturali, profili di diritto comparato ed internazionale, Ist. Poligr. Stato, 1999, 131 ss. (93) Così in un riferimento a Il Giornale dell’Arte, n. 158, settembre 1997, 96. (94) G. Cofrancesco, Aspetti diacronici e sincronici nella disciplina britannica di tutela del cultural heritage, in G. Cofrancesco (a cura di), I beni culturali, profili di diritto comparato ed internazionale, Ist. Poligr. Stato, 1999, p.177 ss. Materiale interessante è disponibile nel sito www.english-heritage.org.uk sulla protezione dei beni e dei costi relativi, dell’organizzazione statale che esercita le funzioni sui beni, del campo del volontariato impegnato nella conservazione e del monitoraggio sullo stato dei beni (Enriching ); sulla protezione dei beni culturali, del sistema dei listed buildings (immobili vincolati), degli strumenti di conoscenza, dei modi per incentivare i privati proprietari a prendersi cura dei propri beni (sgravi fiscali, contributi pubblici), delle politiche di sviluppo e miglioramento per la conservazione (Caring) . (95) G. Cofrancesco, Aspetti diacronici, cit. p. 183. 25 Sul terreno della esternalizzazione, va segnalato che i musei nazionali sono gestiti in modo autonomo e decentrato dai Boards of trustees (consigli di amministratori) dei singoli musei, dopo che le competenze statali, le collezioni e gli edifici che ospitano i musei sono stati trasferiti ai Trust alla fine degli anni ’80 (96). Il Trust ha natura pubblicistica, è dotato di autonomia gestionale e finanziaria, ed è sostenuto da contributi pubblici, da erogazioni private e dai proventi della propria attività (biglietti ecc.), avvicinandosi dunque ad una sorta di fondazione pubblicistica. Alcuni di essi sono classificati Charitable trusts: in questo caso non possono avere come oggetto lo svolgimento di attività economiche se non come strumento per il finanziamento dell’oggetto principale e solo se per un limitato periodo. I musei degli enti locali sono gestiti direttamente dalle autorità locali, cui si aggiungono molti musei privati gestiti in modo autonomo da organizzazioni costituite da Università, fondazioni, gruppi di volontari. Una particolarità: il Trust che amministra il British Museum di Londra (il principale museo britannico) attualmente è diretto, oltre che dal collegio di trustees, da due co-direttori. Infatti al tradizionale “direttore”, che si occupa della direzione scientifica, è stato affiancato un managing director, responsabile della direzione finanziaria e del conseguimento dei progetti e obiettivi finanziari (97). Nella legislazione fiscale (98) si evidenzia la sola figura del Trust. Olanda Ventuno musei statali olandesi sono stati tra il 1988 e il 1996 privatizzati tramite il trasferimento a fondazioni99 (la legge prevedeva la possibilità di scelta tra la figura della fondazione e quella della Public limited company, equivalente alla s.r.l.). La preferenza per la figura della fondazione è stata determinata da motivazioni di carattere fiscale, poiché le p.l.c. pagano le imposte sui profitti ottenuti da attività collaterali a quelle strettamente museali, mentre le fondazioni ne sono esonerate. Lo Stato resta proprietario dei beni e stipula con le fondazioni contratti di gestione, con cui vengono concesse in uso trentennale le collezioni mentre vengono dati in locazione gli edifici che le ospitano. Le fondazioni sono dotate di un consiglio di sorveglianza, che nomina e revoca, sentito in Ministro, il direttore del museo, fornisce pareri agli amministratori e approva le decisioni più importanti. I membri del consiglio sono nominati dal Ministro della Cultura, scelti in base all’esperienza in campo museale; alcuni di essi provengono dal mondo dell’industria e delle banche. Può dunque considerarsi una esternalizzazione della gestione dei beni e servizi museali, affidati a una figura mista, privata nella forma e pubblica nella sostanza. Spagna La gestione dei musei statali di norma, salvo rari casi, è attribuita alle amministrazioni locali, con una ripartizione dei compiti che vede attribuite alle Comunità Autonome le funzioni di organizzazione amministrativa, della gestione del personale e delle spese correnti, mentre al Ministero della cultura la manutenzione straordinaria e gli interventi di restauro e sistemazione delle collezioni (100). Restano gestiti dallo Stato i due musei statali autonomi (del Prado e Centro di arte contemporanea regina Sofia), paragonabili ai nostri musei-soprintendenza. In materia fiscale, la legge 24/11/1994, n. 30 detta la disciplina delle fondazioni. Si tratta di organismi senza scopo di lucro, con patrimonio durevolmente destinato alla realizzazione di uno scopo di interesse generale (art.1). Tra i fini che le fondazioni possono perseguire compare il fine “culturale”(art.2) e, qualora esse abbiano come finalità esclusiva o principale la conservazione o il restauro dei beni del patrimonio storico, non sono soggette al divieto di cui al comma 3 dell’art. 2 (finalità di destinazione delle prestazioni al coniuge o a parenti del fondatore) (comma 4). Hanno personalità giuridica (art. 3) e possono essere costituite da persone fisiche e giuridiche, pubbliche o private (art.6.1). Il Titolo II tratta degli incentivi fiscali alla partecipazione privata in attività di interesse generale. Sono considerate senza scopo di lucro le fondazioni iscritte nel registro delle fondazioni e le associazioni dichiarate di utilità pubblica (art. 41, disp. agg. XIII), che perseguano “fini … culturali” e che destinino almeno il 70% delle rendite nette di qualsiasi provenienza alla realizzazione di tale fine (art.42). (96) M. Angioni, La privatizzazione tutta speciale degli Olandesi: i nuovi diritti e le nuove responsabilità dei musei, in Il Giornale dell’Arte, n. 162, gennaio 1998, 68. (97) M. Bailey, Il British avrà un managing director, in Il Giornale dell’Arte, n. 174, febbraio 1999, 59. (98) Tiley and Collison’s UK Tax Guide 1998-99. (99) M. Angioni, La privatizzazione tutta speciale degli Olandesi: i nuovi diritti e le nuove responsabilità dei musei, in Il Giornale dell’Arte, n. 162, gennaio 1998, 68, e E. Bellezza, F. Florian, Le fondazioni del terzo millennio, cit., 45 ss. (100) A. Amelotti, La gestione del bene culturale nei Paesi a regionalismo forte: il sistema autonomico spagnolo, in G. Cofrancesco (a cura di), I beni culturali, profili di diritto comparato ed internazionale, Ist. Poligr. Stato, 1999, 123. 26 Si disciplina (capitolo II del titolo II) il regime tributario dei versamenti effettuati a favore di enti senza scopo di lucro disponendo: a) detrazione d’imposta per i versamenti effettuati da persone fisiche per la conservazione, manutenzione, restauro dei beni “riconosciuti” (art. 59, comma 3); b) detrazione d’imposta per le persone fisiche che donino opere d’arte a istituzioni che perseguono fini come la realizzazione di musei e lo sviluppo e diffusione del patrimonio artistico e che si impegnino ad esporre al pubblico tali opere (art. 59.1); c) deduzione dei versamenti effettuati da persone giuridiche a favore di associazioni e fondazioni, sempre per le attività di conservazione sopra viste (art. 63, lett. c); d) deduzione per la donazione di opere d’arte da parte di persone giuridiche (art. 63, lett. a), mentre la XV disp. agg. affronta di federazioni e associazioni di enti senza scopo di lucro. 6. Per concludere. E’ il momento di riprendere i fili principali del discorso, il decentramento e le esternalizzazioni, alla luce di quanto fin qui si è avuto modo di osservare. 6.1. C’è un primo livello di elementi, un piano per così dire macro, che abbiamo visto concretamente rilevante per l’oggetto della nostra analisi e che, di conseguenza, va ripreso in questa sede. Ebbene, il punto cruciale è costituito dal fatto che non solo, come si è visto, decentramento ed outsourcing sono risultati tra loro (in fatto) del tutto indipendenti almeno tanto quanto in astratto avrebbero dovuto invece intrecciarsi, ma entrambi versano in una situazione di impasse ad alto rischio. Il rapporto tra centro e autonomie locali, una volta esclusa la via dei trasferimenti ed optato per un modello dualistico fortemente sbilanciato verso il ministero che tutela da solo e condivide la valorizzazione, avrebbe comunque dovuto essere affidato a robusti relais di coordinamento e cooperazione reciproca in grado di assicurare la rappresentazione e la selezione delle rispettive domande, la composizione degli inevitabili conflitti, la circolazione delle informazioni. A questo, avrebbe dovuto aggiungersi la valorizzazione delle sedi periferiche (ministeriali) in modo da evitare che la titolarità statale si risolvesse in una (peraltro insostenibile) gestione centralizzata. Come si è visto, questo non è avvenuto (anche se qualche spiraglio per il decentramento interno forse resta aperto) e così, invece di una riforma del sistema alla francaise, ci ritroviamo con un sistema dualistico privo di elementi di integrazione e dunque tendente alla frammentazione e allo squilibrio non solo in verticale, tra realtà (centrali e locali) che marciano in modo indipendente, ma anche in orizzontale e a livello periferico, tra aree abbastanza robuste da marciare comunque e aree non in grado di farlo. Tra l’altro, gli esempi (realizzati) di cooperazione tra ministero e autonomie rischiano di aprire un fronte ulteriore e più sottile, quello cioè della concentrazione sulla regione di funzioni e poteri degli enti locali sottostanti: l’esperienza degli accordi di programma-quadro fin qui sottoscritti, e sopratutto quelli di cui disponiamo dei primi commenti (101) confermano tale rischio. Sull’altro fronte, quello delle esternalizzazioni, le cose non stanno meglio, sospese tra regole e strumenti di outsourcing con scarne applicazioni (ministero) (102) e la forte crescita a livello locale di (101 ) con Lombardia e Piemonte, su cui v. M.Renna, Al via la concertazione, cit. e S.Foà, L’accordo di programma quadro, cit. (102 ) Tra le esternalizzazioni omesse, va ricordato l’intero versante dei (possibili) rapporti tra ministero e università che pure, con le dovute messe a punto, sarebbe strategico per ognuna delle due parti: in proposito v. D.Manacorda, Università e tutela dei beni archeologici: prospettive di cooperazione, in Aedon, 1/1999. 27 sperimentazioni (per lo più in via strutturale e con forte presenza pubblica) costrette ad optare tra strumenti non adeguati e soluzioni pragmatiche non prive di rischi. Questa situazione di doppio stallo, di per sé già seria in tempi normali, lo diviene ancora di più in ragione di due elementi destinati ad accentuare le carenze della situazione attuale: - il primo è costituito dal fatto che mentre avanza la scelta di principio in favore della sussidiarietà orizzontale (103) l’esternalizzazione nel settore della cultura non può rimanere confinata in una dimensione “aziendale”, del tutto apprezzabile nel resto della amministrazione pubblica, ma impropria in un ambito nel quale la medesima va considerata innanzitutto per gli effetti sul pluralismo delle opzioni culturali, il che richiede la identificazione di regole del gioco appropriate e comuni. Un centro assente su questi aspetti ed enti territoriali che procedono in modo empirico sono la premessa di situazioni ancora più critiche di quelle attuali. Lo stesso ricorso alla normativa dei servizi pubblici locali, già discutibile per le ragioni già viste, dovrebbe in ogni caso essere preceduto dalla analisi che la domanda di servizi culturali trovi già altre risposte da parte dei privati e, soprattutto, del terzo settore. Se infatti per le ordinarie attività di impresa l’assunzione del servizio è subordinata, in base ai principi comunitari, a situazioni di deficit del mercato, a maggiore ragione la cosa dovrebbe valere in materia di servizi culturali nei quali non solo le modalità di gestione, ma prima ancora la legittimazione stessa dell’ente territoriale alla assunzione del servizio, presuppongono la sussistenza di situazioni peculiari, caratterizzate da condizioni di bisogno o di domanda di servizi culturali da parte della comunità che non trovino adeguata risposta (104) o da elementi perturbatori del pluralismo che il precetto costituzionale vuole garantito; - il secondo è legato all’affermazione (sia pure incompleta) di un sistema politico bipolare nel quale, come di norma avviene, il settore della cultura non è più un elemento di coesione (e dunque, in qualche modo, fuori dalla mischia come nelle prassi consociative della seconda metà del secolo scorso) ma di dura e diretta competizione tra schieramenti opposti. Da questo il bisogno di spazi e forme, insieme, di espressione dei gruppi in gioco e del loro reciproco bilanciamento. Se questo è vero, attraverso i rapporti centroautonomie e pubblico-privato sono destinate a passare anche queste nuove dinamiche, con il risultato che le conseguenze della situazione di stallo che si è segnalata vanno ben oltre i profili di funzionalità amministrativa e istituzionale del settore. Per uscirne, allora, si impongono insieme un nuovo assetto istituzionale e nuove regole del gioco. Per il decentramento non mancano proposte ed ipotesi, le migliori delle quali optano per soluzioni a geometria variabile di vario genere: per aree territoriali, per regioni, per progetti. Si tratta di prospettive tutt’altro che astratte perché, come tra breve si dirà, l’esito positivo del referendum del 7 ottobre 2001 sulla riforma del titolo V della Costituzione riapre in modo significativo il tema dei rapporti centro-autonomie (103 ) Ormai positivamente affermato dall’ordinamento vigente: cfr. l’art.4.3. lettera a) legge 59/1997, l’art.3.5 Tuel e da ultimo, a livello costituzionale, con l’art.118.4 del nuovo titolo V. Per un approfondimento della portata e delle implicazioni del principio, in Italia e negli ordinamenti europei, v. A.Rinella, L.Coen e R.Scarciglia (a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto, Padova, 1999. (104 ) In questo senso L. Antonini, Sussidiarietà e settore cultura, cit., .233. 28 anche in tema di beni culturali introducendo, tra l’altro, la possibilità di soluzioni territorialmente differenziate (105) senza ulteriori modifiche costituzionali. 6.2. I presupposti e i criteri di riferimento delle esternalizzazioni in materia culturale, invece, richiedono insieme nuove regole e nuove politiche di settore. Una amministrazione aperta all’outsourcing, infatti, non può mantenere il proprio assetto organizzativo immutato, e se non lo cambia ci sono solo due possibilità: o vuole continuare nella tradizionale gestione diretta, tradendo le ragioni della esternalizzazione, o intende disinteressarsi di lì in avanti del bene culturale che ne è oggetto, abdicando alle necessarie funzioni di regolazione. Dunque, la via per esternalizzare non conosce scorciatoie e presuppone la messa a punto di una pluralità di elementi riguardanti l’impostazione concettuale della materia e il piano della organizzazione e delle regole. Per quanto riguarda l’impostazione concettuale, il dato cruciale è comprendere che in concreto la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale sono “strettamente interdipendenti, sicché non può esservi tutela se non attuando concretamente prassi di corretto uso e di efficace gestione dei beni culturali” (106). L’attuale separazione tra l’una e gli altri, accentuata dall’essere proprio questo l’elemento fondante del riparto di competenze tra Ministero e governo locale, è dunque doppiamente negativa perché genera un dualismo concettualmente infondato e praticamente disfunzionale che non può che risolversi in esiti di segno diverso ma parimenti inaccettabili: o il completo assorbimento all’interno della tutela del profilo della gestione, con conseguente “statalizzazione” e ingestibilità dell’intero settore, o la rivendicazione di una piena autonomia della gestione, il che contraddice la necessaria interdipendenza e porterebbe, in ogni caso, a conseguenze altrettanto dannose. La soluzione più ragionevole resta probabilmente quella di distinguere un nucleo ristretto e definito di tutela “legale” del bene culturale (in pratica, quello dell’esercizio dei poteri autoritativi di identificazione, vincolo e vigilanza) da mantenere allo Stato (107), rispetto ad un ambito più ampio nel quale la tutela si intreccia a elementi e politiche di settore necessariamente connesse (basti pensare, per fare un solo esempio, alla formazione e selezione del personale tecnico-scientifico operante in materia, quale che sia l’amministrazione pubblica o il soggetto privato di appartenenza) e che dovrebbe essere affidato alla necessaria cooperazione tra i diversi livelli di governo. Tale impostazione, già emersa in sede di redazione del decreto 112/1998 (108) anche se poi esclusa nella versione definitiva, sembra trovare oggi ulteriori ragioni di sostegno nel nuovo testo del titolo V della Costituzione poiché, se l’accezione di tutela accolta dall’art.117.2 lettera s) fosse quella praticata dalle leggi attualmente vigenti, non si vede quale potrebbe essere l’oggetto delle “forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali” la cui definizione l’art.118.3 Cost. demanda ad apposita legge. (105 ) La cui utilizzazione è già stata preannunciata, ad esempio dalla regione Toscana, anche se non è ancora chiaro se l’intesa tra Stato e regione prevista dall’art.116 u c. del nuovo testo sia immediatamente praticabile, come pare a chi scrive, o richieda invece una previa disciplina del relativo procedimento, come da qualche parte si sostiene. (106) P. Petraroia, Chi non vuole sentire regioni?, in Rapporto regioni (Il Giornale dell’Arte, ottobre 2001), p.2 (107) Almeno di norma, perché l’art.116.3 del nuovo testo costituzionale consente “forme e condizioni particolari di autonomia” concordate tra Stato e singole regioni anche in materia di tutela dei beni culturali (art.117.2 lettera s). (108) Cfr. Bozza dei gruppi tecnici Bassanini, in Aedon, 1/1998. 29 In ogni caso, è evidente che fino a quando questo nodo non verrà sciolto, ogni innovazione sul terreno della gestione sarà o impraticabile (perché esposta ad interventi di tutela ad alta discrezionalità e a nessuna prevedibilità, con l’ulteriore conseguenza di impedire ogni affidamento da parte del gestore) o decisamente sconsigliabile (per il rischio del venir meno del necessario controllo sul bene culturale) Venendo poi al secondo elemento, l’organizzazione delle amministrazioni che operano nel settore e soprattutto quella statale andrebbe attrezzata in modo da aumentare la trasparenza e il controllo delle scelte discrezionali, che vanno mantenute tali senza ridurne l’ampiezza mediante automatismi; da separare chi regola da chi gestisce (il che è possibile solo con intensi e circolari flussi informativi reciproci); da costringere chi regola a dettare le proprie prescrizioni prima e, salvo circostanza eccezionali e imprevedibili, a tacere dopo, poiché altrimenti si apre una commistione di volontà e decisioni che porta il regolatore all’interno della gestione e il gestore a non poter contare su nessun affidamento (109). Non c’è bisogno di sottolineare di nuovo, in tutto questo, il ruolo cruciale da riconoscere al personale che vi opera e ai requisiti di professionalità che in un sistema del genere sono richiesti. Qualcosa, qua è là, si muove, ma il più resta da fare. Per quanto infine riguarda le regole, c’è un nucleo di elementi che non può non essere definito nello stesso modo e per tutti: si tratta di elementi attinenti al regime delle attività, come l’auspicabile trasferimento all’area dell’appalto di servizi di interventi, come l’esempio del restauro di beni culturali mobili, oggi collocati all’interno dell’area dei lavori pubblici o i chiarimenti necessari in tema di fondazione di partecipazione, alle forme di affidamento che dovrebbero essere sottoposte ad una disciplina speciale in modo analogo a quanto di recente avvenuto per i servizi alla persona (110), ai rapporti di regolazione tra ente pubblico e destinatario della esternalizzazione (prevedendo, ad esempio, il contratto di servizio quando l’outsourcing abbia come oggetto un servizio pubblico), alla durata dell’affidamento e alla stabilità dei trasferimenti pubblici nel medio periodo, agli aspetti riguardanti le garanzie dei singoli e dei gruppi (dalla tutela della libertà di ricerca, per gli studiosi di beni culturali, alla tutela del singolo utente rispetto al gestore, alle questioni poste dagli effetti diretti e indiretti delle agevolazioni fiscali). Un decentramento, che non sia frammentazione, e una esternalizzazione, che non sia abbandono, passano per queste politiche e per queste regole. (109) Si ricordi che proprio il fatto di avere modificato la preesistente organizzazione comunale (e, in particolare le funzioni del City Council passate da responsabile della gestione diretta dei musei a quelle della definizione delle politiche e degli obbiettivi generali in materia) è considerato uno dei fattori di successo dell’esperienza del Museums & Galleries Trust istituito dalla città di Sheffield: cfr. Rapporto di ricerca Crora, cit., p.99. (110 ) Cfr. il recente Atto di indirizzo e coordinamento sui sistema di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell’art.5 della legge 328/2000, Dpcm 30 marzo 2001 in GU 14 agosto 2001. 30