cavallo (4) - Persona e Danno
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cavallo (4) - Persona e Danno
"CAVALLO SPINTO AL SUICIDIO: NON E' UN FILM FANTASY, MA L'ESITO DI UN PALIO" A margine della sentenza Cassazione penale n. 5471/2014 A cura di Annalisa GASPARRE - Legal Advisor - Perfezionata in Diritto e Procedura Penale e in Criminologia Clinica Si dice che i cavalli siano matti: una follia “diagnosticata” fino a diventare stereotipo... ma con quali parametri? Quelli umani? Forse, se ci pensiamo senza pregiudizi, i cavalli sono solo animali che devono vivere nella loro libertà, osservati, guardati con rispetto e “distacco”: solo così quella “follia” si mostrerà per essere solo una peculiarità, una diversità che eleva l‟armonia e la bellezza dell‟universo vivente. Certamente folle è, invece, stata la corsa cui è stato spinto il cavallo nel caso al vaglio della Cassazione. Ma di chi è responsabilità? MALTRATTAMENTO PLURIAGGRAVATO. Con la sentenza in commento, i giudici hanno confermato la condanna per maltrattamento aggravato di animali a carico del proprietario del cavallo, con diniego delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge (sospensione condizionale della pena e non menzione). All‟imputato veniva ascritto di aver provocato la morte del cavallo perché gli aveva somministrato sostanze vietate (caffeina, teofilina, fenibuazione), sostanze che avevano interagito sul sistema nervoso dell‟animale così da portarlo a lanciarsi in una corsa furiosa fino a che scivolava, sbatteva e moriva sul colpo. L‟imputazione conteneva una doppia contestazione di aggravanti. La prima era contestata perché al maltrattamento era seguita la morte dell'animale (co. 3 dell‟art. 544 ter c.p.), aggravante (speciale) frequente nei casi di maltrattamento di animali e che comporta l‟aumento nella misura fissa di metà della pena. La seconda aggravante contestata era quella dei motivi abietti o futili, circostanza generale che trova domicilio nell‟elenco di cui all‟art. 61 n. 1 c.p. VINCERE UN PALIO E’ FUTILE MOTIVO. A chi scrive pare che quello in commento sia il primo caso in cui viene contestato e riconosciuto il futile motivo nei reati contro gli animali. Piuttosto, di solito si assiste all‟invocazione di una sorta di scriminante, di “zona franca” in cui, in determinati settori in cui si articola l‟utilizzo e, non di rado, lo sfruttamento degli animali, si tenta di attenuare o, addirittura, obliterare l‟illiceità di quei comportamenti che integrano reato. Tentativi, come noto, del tutto strumentali e destinati a non trovare alcun seguito dal punto di vista giuridico, l‟unico che qui interessa (per tutte, Cass. pen. n. 11606/2012, Penalecontemporaneo, 20.7.2012, con nota di Giacometti; preceduta da giurisprudenza di merito, Trib. Milano, n. 1440/2012, su questa Rivista, 30.4.2012). Più spesso, invece, l‟assenza di motivo o il motivo appunto “futile” viene utilizzato per confermare l‟assenza di necessità di un comportamento maltrattante nei confronti degli animali (nel vigore del vecchio art. 727 c.p., può leggersi del calcio a un cane “senza alcuna giustificazione” definito dai giudici come comportamento avente natura futile, Cass. pen. n. 46291/2003 o, più di recente, il caso del gatto ucciso con una carabina dal vicino di casa che era “infastidito” dalla presenza del felino, Cass. pen. n. 44422/2013, volendo su Personaedanno, 5.11.2013). Nel caso in esame, l‟aggravante dei futili motivi veniva riconosciuta nella circostanza per cui il proprietario si era mosso come descritto perché voleva far raggiungere al cavallo una migliore prestazione al Palio di una città del distretto di Catania; a giudizio di chi scrive, si tratta di contestazione corretta che non duplica affatto il disvalore di un aspetto della vicenda sotto diverso profilo dell‟assenza di necessità, requisito, invece, indispensabile per la configurazione dell‟elemento oggettivo della fattispecie de qua (a meno che la fattispecie sia connotata dall‟alternativo requisito della crudeltà). Invero il rischio di definizioni troppo lassiste o superficiali – specie giornalistiche o “popolari” – che definiscono futile quello che invece è mera assenza di necessità è quello di ritenere che sia futile (e, pertanto, costituisca una circostanza aggravante) il motivo che determina l‟assenza di necessità, il che potrebbe duplicare – illegittimamente – il disvalore e, soprattutto, confondere l‟analisi della fattispecie. L‟errore interpretativo è presto evidenziato almeno agli occhi dello studioso del diritto. L‟assenza di necessità è elemento integrativo della fattispecie e, quindi, almeno quando non vi sia l‟alternativo elemento della presenza della crudeltà, è elemento ineludibile per la sussistenza del reato. Al contrario, il motivo futile (ai sensi dell‟art. 61 c.p.) è qualcosa in più (e di ulteriore) e rappresenta un modo di manifestarsi del reato, cioè una circostanza concreta che aggiunge disvalore giuridico ad una fattispecie già completa nella sua tipicità normativa, determinando un aggravamento del trattamento sanzionatorio. DANNO ALLA SALUTE. La Corte d‟appello, confermando la condanna per maltrattamento di animale pluriaggravato, precisava che in discussione non era la somministrazione di sostanze stupefacenti o dopanti bensì di trattamenti che procuravano un danno alla salute dell‟equino. Provato era che al cavallo erano state somministrate sostanze e farmaci in dosi tali da determinare uno stato di eccitazione e malessere che inducevano l‟animale a lanciarsi in una corsa impazzita, che i giudici definivano “sostanzialmente suicida”. Le lesioni che il cavallo si era procurato erano eziologicamente riconducibili allo stato di alterazione fisica (con particolare riguardo al sistema nervoso). In tal senso le dichiarazioni testimoniali del veterinario della Asl, prezioso strumento per comprendere le sequenze causali della penosa vicenda. Sembra leggersi nella sentenza di legittimità – stante l‟impossibilità di analizzare in proprio la motivazione delle sentenze di merito – un riconoscimento di responsabilità in capo al proprietario che, con coscienza e volontà, aveva realizzato una condotta attiva generatrice di uno stato di incapacità in danno dell’animale e tale per cui lo stesso – alterato nel sistema nervoso con riferimento alla capacità di comprendere il significato degli stimoli esterni e di seguire l‟istinto di conservazione animale proprio dell‟etologia – provocava la propria morte. Sulla tematica del suicidio negli animali, si legga il contributo di Daniele Tedeschi in calce al commento. SOMMINISTRATI SENZA MOTIVO: CONDOTTA NON NECESSITATA. Sul proprietario del cavallo, inoltre, incombeva l‟obbligo di munirsi di ricetta medica nonché di annotare nell‟apposito registro l‟avvenuta somministrazione dei farmaci. FARMACI Accertate erano le omissioni sotto questo profilo: dalla perquisizione presso il domicilio dell‟imputato alcun indizio tale da deporre per la regolare prescrizione di farmaci veniva rinvenuto. Non solo. Neppure la difesa aveva indicato malattie di cui potesse essere affetto il cavallo. Tutti questi elementi deponevano per l‟ipotesi della somministrazione di farmaci eccitanti in assenza di necessità terapeutica. Sotto il profilo dell‟analisi della sussumibilità della condotta nella fattispecie astratta, l‟attività di somministrazione di farmaci – peraltro, non innocui sulla salute dell‟animale – integra l‟assenza di necessità del “maltrattamento” dell‟animale (verificabile, in alternativa, con la condotta di cagionare una lesione ovvero di sottoporre a sevizie o a comportamenti o fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche). EVENTO CONCAUSATO? La difesa aveva tentato di sostenere che, prima della gara, l‟animale non aveva manifestato segni di malessere o di eccitazione e che l‟incidente era stato determinato dall‟erronea partenza intimata dallo start man che aveva aperto le gabbie quando il cavallo era ancora privo del fantino, il quale ha la funzione di condurre e domare il cavallo da corsa. Nella fattispecie, secondo la difesa, il cavallo era partito in modo scomposto e irrefrenabile perché stimolato dallo start sonoro e dall‟apertura delle gabbie, lanciandosi in una pazza corsa, senza il necessario controllo del fantino. La Cassazione, in proposito, evidenziava che, anche laddove fosse dimostrato quanto asserito dalla difesa, e cioè che il cavallo era partito scosso per un errore degli addetti alla partenza, la circostanza poteva costituire concausa dell‟evento, non idonea di per sé a escludere la responsabilità dell’imputato. Merita ricordarsi infatti che l‟art. 41 c.p. dispone che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l'evento” (principio di equivalenza delle cause). DOPING O NO, IL REATO RESTA. Sotto altro (contraddittorio?) profilo, la difesa sosteneva che, a seguito dei prelievi ematici effettuati sul cadavere del cavallo, erano state rilevate sostanze che avevano indicazioni terapeutiche e che erano state somministrate per la cura dell‟animale. Come si è detto, tuttavia, a prescindere dall‟uso di sostanze di per sé vietate, quel che rileva nel caso di specie è la somministrazione di farmaci, in assenza di specifiche prescrizioni terapeutiche, da cui si deve inferire che al “paziente” veniva senz‟altro provocato un danno alla salute (alterazione del sistema nervoso), nonché – quale conseguenza di questo – un comportamento (auto)distruttivo che ne provocava ulteriori lesioni e, finanche, la morte. CORSA AUTORIZZATA NON FA RIMA CON DIMINUZIONE DEL DISVALORE. Un altro argomento utilizzato dalla difesa per sostenere l‟errore dei giudici di merito quanto al trattamento sanzionatorio, era quello che faceva leva sul “luogo” ove si svolgevano i fatti. Non si trattava di una corsa clandestina, bensì di un palio regolarmente autorizzato. L‟argomento, come posto, era giudicato manifestamente infondato. La Corte distrettuale aveva ritenuto non concedibili le attenuanti ex art. 62 bis c.p. sulla scorta di un elevato grado di offensività della condotta delittuosa. A fronte di ciò, l‟imputato ricorrente non aveva allegato alcuna circostanza di rilievo suscettibile di giustificare conclusioni diverse. FATTISPECIE LIMITROFE. A margine deve rilevarsi che, nei casi di corse di cavalli è teoricamente applicabile l‟art. 544 quater c.p. rubricato “Spettacoli o manifestazioni vietati” il quale prevede che “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro. 2. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in relazione all'esercizio di scommesse clandestine o al fine di trarne profitto per sé od altri ovvero se ne deriva la morte dell'animale”. A parte la clausola di riserva iniziale e il confronto con la pena-base prevista al co. 1 (che coincide con quella prevista dall‟art. 544 ter c.p.) è da rilevare che il compito della pubblica accusa è più oneroso nel caso di contestazione dell‟art. 544 quater perché la norma fa riferimento a chi “organizza o promuova” spettacoli e l‟onere della prova di tali condizioni soggettive grava sull‟accusa, divenendo peraltro particolarmente ardua laddove vi sia un clima, quale quello proprio delle corse clandestine, caratterizzato da profonda omertà e complicità. Tralasciando questa considerazione, la rubrica della norma – che fa riferimento a spettacoli o manifestazioni “vietati” – non deve far equivocare su cosa sia vietato. Non si tratta di spettacoli o manifestazioni non autorizzati (leggasi: clandestine) ma di situazioni che diventano vietate se e nella misura in cui comportino sevizie o strazio per gli animali. È solo il co. 2 della norma che – nel determinare un‟aggravante – si riferisce alle scommesse clandestine o finalizzate dal perseguimento di lucro (l‟aggravante si configura anche nell‟ipotesi di morte dell‟animale). L‟aumento di pena è compreso in una forbice da un terzo alla metà. In assenza di questi connotati, lo spettacolo o la manifestazione, se danno luogo a strazio o sevizie per gli animali, rimangono “luogo” di realizzazione del reato: quello previsto dall‟art. 544 quater c.p. nel caso si tratti di organizzatori o promotori oppure quello previsto dall‟art. 544 ter c.p. se l‟agente sia un altro soggetto (“chiunque”) che cagioni una lesione oppure sottoponga un animale a sevizie o a comportamenti o fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche. Non solo. La norma che segue – art. 544 quinquies c.p. – si riferisce (ai combattimenti e) alle competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l’integrità fisica e punisce chi promuove, organizza o dirige le stesse con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50.000 a 160.000 euro. Questo è propriamente l‟ambito delle corse (già) clandestine. Puniti con una pena più bassa sono coloro che, fuori dei casi di concorso nel reato, destinano sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi alla loro partecipazione ai combattimenti oppure siano proprietari o detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni, se consenzienti (la pena è la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro). SE IL REATO INCONTRA L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE. Sia la fattispecie prevista dall‟art. 544 ter che quelle previste dagli artt. 544 quater e quinquies c.p. consentono di contestare anche il reato associativo, ma un sommario monitoraggio delle pronunce mostra che il titolo di reato contestato, anche per le corse clandestine, è proprio l‟aspecifico “maltrattamento”. Che questo corrisponda alla difficoltà probatoria di individuare i promotori o organizzatori oppure ad un atteggiamento che disdegna il reato di “spettacoli e manifestazioni vietati” rimane un interrogativo aperto. Nutrita è la giurisprudenza che riconosce il vincolo associativo, specie in tema di corse clandestine. Vi sono stati alcuni arresti che hanno riconosciuto l‟associazione per delinquere finalizzata al maltrattamento di animali (Cass. pen. n. 12736/2012, in Personaedanno, 16.4.2012). Nel caso citato si discuteva di un veterinario – concorrente esterno – che avrebbe “scientemente agevolato” il sodalizio criminale che organizzava le corse dei cavalli; il maltrattamento degli animali consisteva nella sottoposizione dei cavalli ad addestramenti massacranti, nella somministrazione di farmaci anabolizzanti e nell‟impiego in corse non confacenti alle loro caratteristiche etologiche tali da esporli al pericolo per la loro incolumità. Emblematica è anche la pronuncia del Tribunale di Reggio Calabria (n. 4358/2011) in cui il capo di imputazione contestava il reato di maltrattamento perché gli imputati “sottoponevano numerosi cavalli di cui avevano la disponibilità o la proprietà a maltrattamenti, addestrandoli e facendoli correre in condizioni non adeguate alle loro caratteristiche etologiche, nonché somministrando agli stessi farmaci (omissis) con modalità dannose per la loro salute, con l’intento di migliorarne le prestazioni agonistiche”. Non mancano neppure sentenze che configurano il vincolo associativo in relazione al delitto di “competizioni” (art. 544 quinquies c.p.). Tale reato è stato, ad esempio, ritenuto sussistere, in concorso con il reato di maltrattamenti, nel caso descritto dalla sentenza Cass. pen. 7671/2012. Nella fattispecie era emersa un‟associazione a delinquere finalizzata all‟organizzazione di corse clandestine di cavalli: gli animali erano sottoposti ad addestramenti massacranti, sottoposti a somministrazione di farmaci per potenziare la muscolatura e le prestazioni fisiche, nonché obbligati a correre in condizioni non confacenti alle loro caratteristiche etologiche tali da metterne in pericolo l‟incolumità. oooOoooOooo Quale che sia il contesto normativo concretamente applicato, un dato è certo: a dieci anni dall‟entrata in vigore della legge 189/2004 si sono moltiplicate le pronunce che hanno raffinato, precisato e interagito con il disposto legislativo, adattandolo all‟infinità realtà di forme di utilizzo e sfruttamento di tutti gli animali. Finalmente sono una “specie in via di estinzione” gli operatori del diritto che, nei primi anni, sconoscevano la portata penale di condotte che definivano solo “moralmente rilevanti” e dipendenti dalla “sensibilità”. Ne è passata di acqua sotto i ponti… Il suicidio nell'animale – a cura del Dott. Daniele Tedeschi - Biologo PhD CeBioFF Il suicidio! ma è la forza di quelli che non hanno più forza, è la speranza di quelli che non credono più, è il sublime coraggio dei vinti! Probabilmente Guy de Maupassant non pensava ad un animale e tantomeno ad un cavallo. Ma già la sfinge (animale o mostro?) si suicidò in seguito alla risposta di Edipo; un esempio documentato dei nostri giorni di quello che Ariosto definiva "il passo acerbo e forte" è Posillipo, un cavallo che agli inizi del 2013 compì l'atto estremo lanciandosi contro un muro di recinzione a testa bassa sfracellando così il cranio. Cody un ragazzo di oltre 200 Kg era stato caricato sul cavallo con un montacarichi: la coppia avrebbe dovuto infatti effettuare un esercizio di salto ad ostacoli, una Pet Terapy estrema, per dimostrare che quella disfunzione di massa potesse essere superata. Nessuno dei due superò l'ostacolo, anzi, il ragazzo cadde dal cavallo che si piantò senza riuscire ad effettuare il benché minimo salto. Per superare il disagio, oltrepassare il limite, il montacarichi alzò ancora Cody sulla groppa di Posillipo che, disperato, decise altrimenti. La disperazione è altamente correlata ad un evento suicidio (Beck et al. 1990) desolante identificazione dell'aspettativa di un cambiamento associato alla certezza di non poterlo realizzare (Hendin 1991). Uno dei primi report giornalistici sul suicidio animale fu riportato nel 1845, un cane che desiderava annegare (Anon 1845 „Singular case of suicide by a dog‟. Illustrated London News). Esiste un pensiero comune, oggi sempre meno diffuso, che l'animale non abbia un'idea della propria vita così come ce l'ha l'essere umano. L'inesattezza di questo modello è resa evidente dalla stessa premessa: l'uomo (animale) così come l'animale (non umano) , segue ciò che gli piace ed evita ciò che non gli piace, quindi sceglie! Evitare ciò che non piace è vantaggioso dal punto di vista della conservazione della specie (sia per l'uomo che per l'animale dunque) e ciò e ampiamente assodato, ma il desiderio di abbandonare la vita (sempre che se ne abbia consapevolezza, della vita o della morte?), quella che non piace, diventa più forte rispetto all'istinto di non procurarsi un danno fisico anche letale. L'istinto?, se dovessimo basare quindi la consapevolezza del suicidio sull'istinto, allora di certo l'animale (non uomo) avrebbe maggiore probabilità di essere consapevole del suicidio stesso rispetto all'uomo. Consapevolezza di vivere è correlata alla conservazione della specie ed alla autoconservazione, quindi la consapevolezza esiste, ma l'uomo ha certificato per anni la non esistenza di una consapevolezza estrema nell'animale. La questione probabilmente è più semantica che reale: il suicidio è un atto teso a provocare la propria morte consapevolmente. Un animale (tutti) può a causa di uno stress o di una condizione psicofisica estrema smettere di desiderare la propria vita? Si: nel momento in cui la consapevolezza è quella di ottenere con una azione/reazione estrema di terminare una esistenza in quel momento disperata (ecco l'attimo in cui l'animale, tutti gli animali, decide) e senza soluzione di sorta, senza una diversa via di uscita, avendo la consapevolezza, questo si, di non avere azioni alternative rispetto a quella presa in quel momento (il suicidio dello scorpione circondato dal fuoco(*) ne è un esempio come i tentativi di suicidio dell'orso della luna a cui viene estratta la bile tanto da essere privato di zanne ed unghie,.etc...). Esiste l'aspettativa del cambiamento, come già ricordato, e di fatto il cambiamento c'è, di fatto l'animale (e l'uomo) muore e questo è reale. Secondo Schopenauer l'obiettivo è quello di liberarsi dal dolore dell'esistenza, il superare la volontà di vivere. L'istinto di sopravvivenza e l'istinto di conservazione non coincidono più ecco l'affermazione che sento di affermare etologicamente in maniera forte. Sopravvivenza e Conservazione: il suicidio come momento critico di scelta (di tutti gli animali) per liberarsi dal dolore dell'esistenza. Una vita in cui le condizioni negative superano ciò che fino a quel momento era certo: l'autoconservazione che è (era) la manifestazione della volontà di vivere. Suicidio o autosoppressione, la reazione di difesa (super)compensatrice del complesso di inferiorità (Adler). Esistono esempi di suicidi di massa nel mondo animale (mucche cani uccelli calamari e via dicendo) tranne il mito del suicidio dei Lemmings costruito ad arte negli anni 50 dalla Walt Disney e purtroppo fuorviante, tanto da essere utilizzato anche da chi ancora oggi cerca di dimostrare la mancanza di volontà e di pensiero degli animali non umani. Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 05-12-2013) 04-02-2014, n. 5471 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Dott. FIALE Aldo - Presidente Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere Dott. DI NICOLA Vito - rel. Consigliere Dott. GAZZARA Santi - Consigliere Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: M.G., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 08/04/2013 della Corte di appello di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. Con sentenza emessa in data 8 aprile 2013, la Corte di appello di Catania confermava la pronuncia di condanna alla pena di Euro 6.000,00 di multa resa dal medesimo Tribunale ed appellata da M.G.. All'imputato era contestato il reato di cui all'art. 544 ter c.p., commi 2 e 3, art. 61 c.p., n. 2 perché somministrava al cavallo (OMISSIS) sostanze vietate (caffeina, teofillina, fenilbuazone) tali da interagire sul sistema nervoso portando l'animale a lanciarsi in una corsa furiosa fino a che non scivolava e sbatteva morendo sul colpo. Con l'aggravate di aver agito per motivi abbietti e/o futili consistiti nel voler far raggiungere al cavallo una migliore prestazione al Palio della città di (OMISSIS). La Corte territoriale confermava la penale responsabilità dell'imputato osservando come correttamente il Tribunale avesse ritenuto integrata una condotta non già di somministrazione al cavallo di sostanze stupefacenti o dopanti bensì una condotta di somministrazione di trattamenti che procurarono un danno alla salute del cavallo. Secondo il giudice di appello, con riferimento alla condotta illecita contestata all'imputato e ritenuta in sentenza, è stata acquisita la prova che all'animale erano stati somministrati farmaci e/o sostanze in dose tale che in condizioni palesemente innaturali di eccitazione e malessere, il cavallo, benché senza fantino, ebbe a lanciarsi, nel corso di una competizione, in una corsa impazzita, sostanzialmente suicida, circostanza, quest'ultima, che rendeva configurabile anche l'aggravante contestata sul rilievo che il cavallo moriva proprio a causa delle lesioni che si era procurato per lo stato di accentuata alterazione delle condizioni fisiche ed in particolare del sistema nervoso. Non concedibili le attenuanti generiche, neppure reclamabili sulla sola base dell'incensuratezza del prevenuto, la Corte territoriale riteneva congrua anche la pena irrogata in prime cure, stimando insussistenti i presupposti per la concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione. 2. Per l'annullamento della sentenza impugnata ricorre per cassazione M.G., a mezzo del suo difensore, affidando il gravame a tre concorrenti motivi. 2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 544 ter cod. pen.. Assume il ricorrente come il giudice di appello abbia completamente travisato il fatto ed abbia del tutto omesso di rispondere alle puntuali censure che erano state mosse con i motivi di gravame alla sentenza di primo grado. Nessuna parola in sentenza circa il fatto che le sostanze somministrate al cavallo non fossero nè stupefacenti, nè dopanti e nessuna motivazione sul fatto che, come dichiarato da un teste di accusa e come emerso dai risultati delle analisi, dette sostanze avessero addirittura precise indicazioni terapeutiche. Deduce il ricorrente come sia poi palesemente illogica l'argomentazione utilizzata dalla Corte territoriale per inferire che il cavallo, benché senza fantino, datosi ad una folle corsa suicida, fosse stato sottoposto a trattamenti produttivi di danno alla salute, essendo stato viceversa accertato, innanzitutto, che l'animale, prima dell'inizio della gara, non aveva manifestato alcun segno di malessere o di eccitazione e, in secondo luogo, che l'irrefrenabile ed impazzita corsa del cavallo fu dovuta ad una erronea partenza intimata dallo start man, il quale aprì le due gabbie quando sul cavallo non era ancora salito il fantino, la cui funzione è notoriamente quella di condurre ed eventualmente domare gli istinti del cavallo da corsa che, nella specie, si diede ad una partenza scomposta ed irrefrenabile perché sollecitato dallo start sonoro e dall'apertura del box e si lanciò in una corsa impazzita, completamente sprovvisto del necessario ed irrinunciabile controllo esercitato dal fantino. 2.2. Con il secondo motivo, al primo intimamente collegato, il ricorrente denuncia il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 544 ter c.p., comma 3. Deduce il ricorrente come ancora una volta la Corte territoriale abbia dato per presupposto che il cavallo fosse in preda ad una alterazione fisica, giammai processualmente accertata, dalla quale sarebbe scaturita la morte dell'animale, omettendo tuttavia di motivare sulle deduzioni difensive, oltre ad ignorare le risultanze dibattimentali, e quindi non considerando che l'incidente in cui incorse il cavallo fu cagionato non da trattamenti nocivi per la salute ma per la mancanza del fantino che avrebbe controllato e guidato il cavallo, evitando l'impatto con l'auto e dunque la morte, con la conseguente inconfigurabilità della ritenuta aggravante. 2.3. Con il terzo ed ultimo motivo, il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla legalità del trattamento sanzionatorio sul rilievo che le gravi carenze motivazionali si ripercuotono anche sulla commisurazione della pena, essendo state ingiustamente negate all'imputato le attenuanti generiche nonché i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione. Sostiene il ricorrente come non si sia considerato che le sostanze rilevate all'esito dei prelievi ematici dopo la morte del cavallo avevano indicazioni terapeutiche ed erano state somministrate per la cura dell'animale; né è stato considerato che l'imputato, con il suo cavallo, stesse partecipando ad un palio e non a corse illecite, circostanze che dovevano essere valutate per la determinazione della pena anche in ossequio al disposto dell'art. 133 cod. pen.. Motivi della decisione 1. Il ricorso è manifestamente infondato. I primi due motivi di gravame, essendo tra loro connessi, possono essere congiuntamente valutati. Con essi il ricorrente, pur formalmente denunciando il travisamento della prova e/o la illogicità della motivazione, sottopone alla cognizione della Corte di cassazione censure non consentite, sollevando questioni relative alla ricostruzione del fatto e alla valutazione del materiale probatorio, il cui apprezzamento rientra alla esclusiva competenza del giudice di merito, cercando, in tal modo, di ottenere una interpretazione del fatto diversa e alternativa rispetto a quella posta a base del provvedimento impugnato. A tal riguardo, giova premettere i limiti del controllo di legittimità quando ci si trova di fronte, come nella specie, a una doppia sentenza di condanna e quando la doglianza (travisamento della prova, carenza di motivazione) è caratterizzata dalla diversa lettura degli atti processuali. Va allora precisato che, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè ad una doppia conforme decisione (di condanna), le sentenze di primo e secondo grado vanno apprezzate nel loro complesso, onde valutarne la conformità al diritto ed alla logica, sì da poterne considerare la tenuta in sede di legittimità. Parimenti, va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, alla luce della rinnovata formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è ora sindacabile il vizio di "travisamento della prova", che si ha quando nella motivazione si fa uso di un dato di conoscenza considerato determinante, ma non desumibile dagli atti del processo, o quando si omette la valutazione di un elemento di prova decisivo sullo specifico tema o punto in trattazione. Tale vizio può essere fatto valere, però, solo nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, ma non nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato l'anteriore decisione (cosiddetta "doppia conforme"), posto in questo caso il limite posto dal principio devolutivo, che non può essere valicato, con coeva intangibilità della valutazione di merito del risultato probatorio, se non nell'ipotesi in cui il giudice di appello abbia individuato - per superare le censure mosse al provvedimento di primo grado - atti o fonti conoscitive mai prima presi in esame, ossia non esaminati dal primo giudice (Sez. 2, n. 42353 del 12/12/2006, P.M. in proc. De Luca, Rv. 235511; Sez. 2, n. 38788 del 09/11/2006, Levante, Rv. 235509). Nella specie, il giudice di primo grado, cui si è uniformato il secondo rispondendo al nucleo delle censure elevate con l'atto di appello, ha esaustivamente spiegato come le sostanze somministrate al cavallo avessero un effetto eccitante (per averlo dichiarato il veterinario dell'ASL esaminato come teste); che, somministrati farmaci al cavallo, il proprietario aveva l'obbligo, dovendo l'animale gareggiare, di munirsi di ricetta e procedere ad un'annotazione nell'apposito registro delle somministrazioni nonché di segnalarlo in sede di gara, oneri - questi ultimi - del tutto inosservati; che, in sede di perquisizione, nulla era stato rinvenuto presso il domicilio dell'imputato quanto a registri, né tantomeno indizi di prescrizione di farmaci regolarmente prescritti all'animale; che neppure la difesa aveva dedotto malattie di cui potesse essere affetto il cavallo; che erano comprovato al di là di ogni ragionevole dubbio che al cavallo fossero state somministrati farmaci eccitanti senza che vi fosse alcuna necessità terapeutica; che, anche il cavallo era partito scosso dalle gabbie per un errore degli addetti alla partenza, ciò poteva costituire una concausa dell'evento non idonea di per sè ad escludere le responsabilità dell'imputato. A fronte di ciò il ricorrente si limita a proporre una lettura alternativa degli atti processuali obliterando che il sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali non può mai comportare una rivisitazione dell'iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi diretti ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito come, anche a seguito della modifica dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di cassazione rimanga circoscritto nell'ambito di un controllo di sola legittimità, con la conseguenza che la possibilità, attribuitale dalla norma, di desumere la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo" non le conferisce il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, bensì quello di valutare la correttezza dell'iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all'annullamento quando la prova omessa o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (Sez. 6, n. 752 del 18/12/2006, dep. 16/01/2007, Romagnolo, Rv. 235732). Ne consegue che, anche di fronte alla previsione di un ampliamento dell'area entro la quale il controllo sulla motivazione deve operare, non muta affatto la natura del sindacato di legittimità, che rimane limitato alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento impugnato e non può comportare una diversa lettura del materiale probatorio, anche se plausibile, sicché, per la rilevazione dei vizi della motivazione, occorre che gli elementi probatori indicati in ricorso siano decisivi e dotati di una forza esplicativa tale da vanificare l'intero ragionamento del giudice del merito (Sez. 3, n. 37006 del 27/09/2006, Piras, Rv. 235508). 2. Va conclusivamente chiarito che i giudici di merito hanno, in conformità all'imputazione, ritenuto la somministrazione non di sostanze dopanti, come assume il ricorrente, bensì la somministrazione di sostanze vietate (caffeina, teofillina, fenilbuazone) tali da interagire sul sistema nervoso, cagionando dunque lesioni al cavallo, tanto che l'animale si lanciò in una corsa sfrenata dalla quale ne derivò la morte. Sul punto la Corte territoriale ha opportunamente precisato come dovesse essere ritenuta anche l'aggravante di cui all'art. 544 ter c.p., comma 3 proprio sul rilievo che il cavallo moriva a seguito delle lesioni che si procurava per lo stato di accentuata alterazione delle condizioni fisiche ed in particolare del sistema nervoso, così sussumendo la condotta contestata nell'ambito dell'art. 544 ter cod. pen., comma 1 e, per l'effetto, rigettando uno dei motivi di appello proposti in tal senso. 3. Anche il terzo motivo di gravame, in quanto aspecifico, è manifestamente infondato. Con esso si contesta il diniego delle circostanze attenuanti generiche, con conseguente ricaduta sulla determinazione della pena, e la mancata concessione dei benefici di legge, ivi censurandosi un potere discrezionale il cui esercizio è stato oggetto di attenta ponderazione e congrua motivazione da parte della Corte territoriale, che sul punto ha fatto riferimento ai criteri di dosimetria della pena già utilizzati nella decisione del Giudice di primo grado, confermando sostanzialmente le ragioni poste alla base delle relative determinazioni sanzionatone, ed in tal guisa esprimendo la piena giustificazione di un apprezzamento di merito come tale non assoggettabile ad alcuna forma di sindacato in questa Sede. A fronte di una motivazione con la quale la Corte distrettuale ha ritenuto non concedibili le attenuanti generiche, in assenza di elementi che potessero patrocinarne la concessione e in presenza di un elevato grado di offensività della condotta delittuosa, il ricorrente ha sostanzialmente riproposto gli stessi generici riferimenti all'art. 133 cod. pen. contenuti nell'atto di appello e stigmatizzati dalla Corte di merito, che ha evidenziato come, rispetto all'approdo conseguito dal Tribunale sulla mancata concessione delle attenuanti generiche, sulla dosimetria della pena e sulla mancata concessione della sospensione condizionale e della non menzione, il ricorrente non abbia allegato alcuna circostanza di rilievo che avesse potuto giustificare una diversa conclusione. Va ricordato che i motivi di gravame costituiscono una parte essenziale ed inscindibile della impugnazione e, pur nella riconosciuta libertà della loro formulazione, debbono essere, ai sensi dell'art. 581 cod. proc. pen., lett. c) articolati in maniera specifica: devono cioè indicare chiaramente, a pena di inammissibilità, le ragioni su cui si fonda la doglianza. In mancanza di ciò, viene meno l'obbligo del giudice di fornire una risposta a tutte le questioni proposte, in quanto tale obbligo trova un limite nella genericità della censura. Ne consegue che la denuncia di difetto di motivazione della sentenza di appello, in ordine a motivi genericamente formulati, non ha alcun fondamento, a nulla rilevando che il giudice di merito non abbia in concreto rilevato tale vizio (Sez 1, n. 4713 del 28/03/1996, Bruno, Rv. 204548). Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2013. Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2014