Notizie su Mamma Tilde e Aldo Peno
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Notizie su Mamma Tilde e Aldo Peno
Notizie su Mamma Tilde e Aldo Peno Du e pe rs on ag gi s igni f ic ati vi p er l a s to ri a d el l a ci tt à di C uo rg nè e pe r l a no st r a s c uo l a Una storia da raccontare Nessun momento dell’anno è mai poco opportuno per meditare sulla Shoah, ma il 27 gennaio in particolare è il giorno dedicato alla riflessione e al rinnovamento della memoria di quei fatti: la nostra memoria passa attraverso la memoria di coloro che li hanno vissuti, e si fonda sulle loro testimonianze, sulle loro storie. Massimo Foa ha una storia da raccontare. I suoi genitori, Guido Foa ed Elena Recanati, si erano sposati nell’agosto del ’42: lei aveva rinunciato a seguire i suoi genitori, suo fratello e le sue sorelle, che si erano messi in salvo all’estero, chi in Argentina, chi in Messico e chi in Palestina. Costretti a lasciare Torino a causa dei bombardamenti, i Foa si erano stabiliti a Cuorgnè, dove l’8 novembre del 1943 nacque il figlio Massimo. In seguito, avvertiti dal messo comunale che era arrivato ordine di arrestarli, dovettero lasciare la cittadina, e si spostarono dapprima a Prascorsano e poi a Canischio. Qui, il 9 agosto del ’44, secondo anniversario del loro matrimonio, in seguito a delazione di ignoti, Guido Foa ed Elena Recanati furono arrestati dalla X MAS, insieme al padre di Guido, Donato, ed al figlioletto Massimo, che aveva appena compiuto nove mesi. Portata dapprima alla caserma di Cuorgnè, il giorno successivo l’intera famiglia venne trasferita nelle Carceri Nuove di Torino, dove i due coniugi vennero separati. Dopo otto giorni, però, grazie alla bontà e al coraggio della superiora, Suor Giuseppina De Muro, il bambino fu fatto uscire di nascosto dalla prigione, in mezzo alle lenzuola sporche mandate in lavanderia. Questo gesto gli salvò la vita, perché, come raccontò in seguito sua madre, quando i genitori lasciarono le carceri il 27 agosto i tedeschi volevano anche lui, e più tardi, nel lager di Bolzano dove furono portati, all’appello fu chiamato anche il suo nome. “Se fossimo arrivati ad Auschwitz insieme saremmo andati direttamente al crematorio tutti e due…” scrive Elena Recanati, in una lettera inviata alle sorelle in Palestina il 30 ottobre 1945, subito dopo il suo ritorno. Già, perché ella tornò, e riuscì a sopravvivere alla terribile esperienza dei lager. Suo marito e suo suocero non furono altrettanto fortunati: Donato Foa, che era già avanti con gli anni, fu mandato alle camere a gas appena arrivato ad Auschwitz, a fine ottobre. Nella foto a sinistra la signora Tilde Mamma Tilde “Mio suocero è stato subito selezionato. - scrisse in seguito sua nuora - Posso dire oggi, dopo aver vissuto in quella bolgia che è stato meglio per lui. Così almeno non ha sofferto troppo. Sarà stata questione di pochi minuti, ma poi avrà trovato pace… purtroppo non avrebbe potuto resistere ugualmente e avrebbe solo penato di più”. Poi fu trasferita a Bergen Belsen: “Fame, botte, freddo, fango, paglia sudicia, contatti con gente perfida, abbruttita dalle privazioni, inferocita dalla fame, appelli interminabili, febbre, le prime piaghe incominciavano a farmi soffrire… lavoro pesante ed inutile sotto la neve in un abbigliamento oltre che inverosimilmente lacero e sporco, anche inadeguato alla stagione…” Di Guido invece si persero le tracce. Nel ’45 sua moglie si aggrappava ancora tenacemente alla speranza che egli potesse tornare, ma in realtà non tornò mai. Forse morì durante la marcia forzata per abbandonare Auschwitz, poco prima della liberazione del campo. A metà dicembre un altro trasferimento: fu portata a Breuschweig, dove lavorò tutto l’inverno in condizioni terribili, a spalare macerie al freddo “con indosso un abitino di tela senza maniche, un paltoncino senza fodera e tutto strappato, un paio di zoccoli di legno, e senza calze…”. Elena Recanati invece rimase ad Auschwitz solo quattro giorni. Ecco la descrizione che ne fece: “Sono arrivata in un momento di caos tremendo. Incominciava già l’evacuazione del campo, in tutti quei giorni ho potuto mangiare una sola volta pochi bocconi di zuppa: sono stata in appello per delle ore consecutive di giorno, di notte, continuamente, ho ricevuto tante di quelle botte quante non avrei potuto mai immaginare, ho assistito per lo meno a tre selezioni, ho visto scene di orrore inenarrabili, ho sentito quell’indimenticabile, caratteristico odore di crematorio, ho fissato come un’allucinata le fiamme dei forni in cui forse stavano bruciando le spoglie mortali del padre di Guido…” Molto malata, fu infine portata via insieme ad altre. “Eravamo tutte convinte di andare a finire al crematorio. Ed io ne ero contenta. Ve lo assicuro. Non ne potevo proprio più di tante sofferenze, di tante umiliazioni!”. Lei e le sue compagne furono invece portate in una baracca ospedale. Con gli Alleati ormai alle porte, le prigioniere furono portate qua e là senza meta per qualche giorno, fino a che giunsero a Ravensbrück, dove i forni crematori da venti giorni ormai avevano smesso di funzionare. Quando il lager fu evacuato, lei rimase là con altre malate, e fu liberata dai Russi il primo maggio del 1945. Mamma Tilde Questo breve riassunto certo non rende né la portata della tremenda esperienza, né l’emozione che traspare dalla bellissima lettera di Elena Recanati dalla quale le frasi citate sono tratte: lettera che andrebbe letta nella sua interezza per avere un’idea delle sofferenze patite da questa donna. Massimo Foa, ancora oggi, quando viene invitato a parlare della Shoah non fa altro che rileggere a voce alta questa lettera, che considera la sua testimonianza, il testamento lasciatogli dalla madre. Elena Recanati si ricongiunse al figlio il 16 ottobre del ’45. Ma dov’era stato il piccolo Massimo per tutto quel tempo? Questa è un’altra storia che vale la pena di essere raccontata. Nonostante fosse pericoloso nascondere bambini ebrei, e le delazioni fossero lautamente ricompensate, “Mamma Tilde”, la cui famiglia viveva in condizioni modestissime, tenne ugualmente il bambino. Sua figlia Antonietta ricordava che una sera due tedeschi entrarono in casa loro. Il bambino muoveva allora i primi passi appoggiandosi al sofà, e i due chiesero alla signora Tilde chi fosse. Lei rispose che era suo nipote, figlio di uno dei suoi figli che si trovava sul fronte russo. La signora Clotilde Roda Boggio, nata a Cuorgnè nel 1896 e morta il 18 maggio del 1989, il 19 settembre del 1986 ricevette dal Console di Israele l’attestato e la medaglia di “Giusta fra le Nazioni”. A Gerusalemme, sulla collina del Viale dei Giusti, fu piantato un albero in sua memoria. La brava donna diceva sempre di non aver fatto nulla di speciale (“Avevo forse alternative? Potevo lasciare morire un bambino?”) e la sua modestia arrivò al punto che ella non raccontò mai il fatto ai nipoti. Uno di essi, Don Paolo, oggi caro amico di Foa, non ne era assolutamente al corrente fino a pochi anni fa. “I Giusti sono persone che fanno cose eccezionali come se fossero normali”. dice Massimo Foa. “Giusti sono le persone che restano normali quando la maggioranza degli altri non lo è più”. “Quando Suor Giuseppina mi fece evadere, racconta Massimo Foa - mia madre le disse di affidarmi a una signora di Cuorgnè che aveva conosciuto, Tilde Boggio, una povera vedova con tre figli poco più che adolescenti che guadagnava qualcosa facendo la balia. Disse che l’avrebbe pagata quando fosse uscita, ma poi i miei furono deportati”. Nell’aprile del 2003, poi, il comune di Cuorgnè intitolò a suo nome una scuola per l’infanzia. Mamma Tilde Da “La Stampa “ del 29 maggio 1986 UN ALBERO RICORDERÀ A TUTTI MAMMA TILDE Quasi una favola . Protagonisti, un bimbo ebreo e una vedova piemontese alle prese col problema quotidiano di mettere insieme il pranzo con la cena per i figli. Strappato alle persecuzione nazista, il bambino fu adottato e allevato dalla nuova mamma, che gli salvò la vita senza pensare ai pericoli cui si esponeva. Oggi, a oltre 40 di distanza, Tilde Boggio, di Cuorgnè, è uscita senza volerlo dall’anonimato in cui si era calata volontariamente, il suo gesto coraggioso e la sua generosità sono stati portati alla conoscenza di tutti: il Governo di Israele l’ ha insignita dell’alta onorificenza di “Benemerita dei diritti umani” e il suo nome è presente sul “Viale dei Giusti”, a Gerusalemme. IL DISCORSO DEL SINDACO Non vi nascondo la commozione con cui prendo la parola per salutare con voi la nostra concittadina, la signora Clotilde Roda Boggio, che oggi riceve un’ importante riconoscimento dallo Stato di Israele, uno dei più alti riconoscimenti che possono essere concessi, perché esso premia la bontà, il coraggio, la dedizione, il silenzio sacrificio di chi, nel buio della notte cupa, ha saputo e voluto accedere una luce per mezzo della quale tutti si sentissero meno soli ed in tutti continuasse a vivere la speranza e la fede nell’ancora lontana vittoria della Giustizia e dell’Amore. Sempre, quando le tragedie dell’uomo giungono a dimensioni incommensurabili e la disperazione trionfa per la malvagità di molti, la storia offre all’umanità donne sublimi, che dall’umiltà della loro condizione si ergono ad eroine di un popolo; qui sono oggi rappresentati uomini che riconoscono il sacro legame comune della Bibbia, che conoscono la storia di Debora, divenuta giudice e profetessa contro le angherie dei Cananei; di Ruth, la vedova che aiuta pietosamente l’indifesa e vecchia suocera Noemi e che, per sopravvivere va a spigolare nel campo dei ricchi; dell’altra la vedova Giuditta, che si ribella ai soprusi ed abbatte il tiranno; Ester, la giovane ebrea che salva il suo popolo dallo sterminio e rispecchia l’ideale di una nazione che pratica pacificamente la sua fede ma è pronta a difenderla con la forza. Mamma Tilde ha veramente qualcosa di queste donne bibliche: l’umiltà, la semplicità, la generosità, l’eroismo e quel silenzio che attraverso l’azione finisce di gridare più forte di ogni voce e di ogni parola. E vi aggiunge il sentimento divino della maternità, con quel suo chinarsi a raccogliere un bambino sfuggito alle persecuzioni che gli hanno disperso in una tragica diaspora, tutta la famiglia, e a raccoglierla come suo, per dividere con lui, assieme ai figli nati dal suo grembo. Mamma Tilde Mamma Tilde ha 90 anni, vive nella cascina della figlia Antonietta, in frazione Ronchi. Fino a poco tempo fa abitava in un vecchio stabile del centro storico di Cuorgnè, in via Trieste, dove, nel ‘ 43, è cominciata questa storia di solidarietà. Sola, con tre figli da mantenere, ha fatto mille mestieri: venduto stracci, rammendato vestiti, stirato camice. Malgrado i tanti problemi, quando seppe di un bambino ebreo strappato ai nazisti e al triste destino della sua famiglia non ebbe esitazioni: “Chiunque avrebbe fatto lo stesso – raccontò la donna -. Non era certo un piatto in più a farmi paura”. Mamma Tilde ha veramente qualcosa di queste donne bibliche: l’umiltà, la semplicità, la generosità, l’eroismo e quel silenzio che attraverso l’azione finisce di gridare più forte di ogni voce e di ogni parola. E vi aggiunge il sentimento divino della maternità, con quel suo chinarsi a raccogliere un bambino sfuggito alle persecuzioni che gli hanno disperso in una tragica diaspora, tutta la famiglia, e a raccoglierla come suo, per dividere con lui, assieme ai figli nati dal suo grembo. Aldo Peno Aldo Peno È uno dei primi giovani Cuorgnatesi che diedero la vita nella guerra di liberazione. Aveva vestito l’abito clericale attratto dall’ideale del sacerdozio, ma dovette interrompere la vita di seminario perché ancora soggetto all’obbligo del servizio militare. Invece di presentarsi al Distretto prese però la via dei monti. Per parecchi mesi visse per conto suo tra le baite montane: scendeva qualche volte a notte alta e vedeva la mamma e il prete. Aveva deciso di lasciare l’abito talare e di studiare medicina. Di forte e marcata idealità vibrava di vero amore per la sua Patria e gli pesava tremendamente la sua solitudine. Di nascosto dalla mamma si iscrisse alla 5° Dimensione Alpino, partecipò ad una prima azione e chiese di far parte delle squadre d’azione. Era smanioso del movimento partigiano. Dalla testimonianza di Don Domenico Cibrario, dal Bollettino Parrocchiale di Cuorgnè del 1973/74 troviamo scritte queste parole: “Aldo Peno, nato il 3-6-1922 in Cuorgnè ; già militare del servizio sanitario, entrava dopo l’armistizio, nella Resistenza, prestandovi la sua preziosa e concreta opera di infermiere qualificato. Nel corso di un duro combattimento contro il nemico rifiutava di rimanere nelle retrovie portandosi in posizione avanzata dove, prima come porta munizioni e poi come tiratore di mitragliatrice, alimentava la lotta contro l’incalzare agguerrito avversario. Ferito più volte non desisteva di impiegare efficacemente l’arma per rendere possibile lo sganciamento dei suoi commilitoni, finchè colpito a morte, cadeva da prode per gli altri ideali di libertà”. Il Ministro per la Difesa rilasciò in sua memoria una medaglia, ma questa ebbe numerose perizie prima di giungere a destinazione, alla sorella di Aldo che si trovava in America e poi a Rueglio. La consegna ufficiale avvenne solamente il 4 novembre 1972, a Torino. L’edificio attuale della scuola primaria “Aldo Peno” di Cuorgnè Provveditorato e Ministero della Pubblica Istruzione accolsero poi la proposta del Collegio dei Docenti di intitolare a lui la scuola di Cuorgnè e di ricordarlo anche perché proprio in questo edificio frequentò dal 1928 al 1933 le scuole elementari. Questo lavoro è frutto del lavoro di ricerca, di rielaborazione e di copiatura delle classi 3°A – 3°B – 3°C e 4°A del plesso “Aldo Peno” di Cuorgnè. Si ringraziano vivamente tutti i bambini, le loro famiglie, le insegnanti impegnate in questo progetto, la Dirigente Scolastica, la dottoressa Cavallo e la signora Alessandra Boggio per tutto il materiale fornitoci.