relazione dott.ssa Irene Tricomi per la Scuola Superiore

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relazione dott.ssa Irene Tricomi per la Scuola Superiore
Scuola Superiore della Magistratura
Incontro di studio
“La disciplina dei licenziamenti” (P 15080)
“Il licenziamento discriminatorio, nullo o inefficace”
rel. dott.ssa Irene Tricomi
Consigliere della Corte di cassazione
Scandicci 12 novembre 2015
A) Eguaglianza e non discriminazione. Costituzione e fonti sovranazionale.
Cenni. B) La rilevanza della causale discriminatoria o della nullità del licenziamento in
relazione alla disciplina sostanziale e processuale. C) La nuova disciplina del
licenziamento: profili sostanziali. D). Licenziamento discrimatorio, nullo e inefficace e
profili processuali. E) Licenziamento invalido e regime processuale delle decadenze.
F) La tutela antidiscriminatoria: compatibilità. G) Licenziamento discriminatorio o
nullo. H). Licenziamento discriminatorio. I) La Prova della discriminazione. L) Il
giudizio di uguaglianza e non discriminazione. M) Il Licenziamento nullo.
§§§§
A) Eguaglianza e non discriminazione. Costituzione e fonti sovranazionale.
Cenni.
1. Il principio della parità di trattamento, è presente nella Costituzione italiana,
in ragione dell’affermazione sia del generale principio di eguaglianza “senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali”, proclamato dall’art. 3, primo comma, Cost., sia del principio di
eguaglianza specifico, che è quello contenuto nell’art. 37, primo comma, Cost., laddove
è proclamato che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che spettano al lavoratore”.
All’eguaglianza formale si affianca quella sostanziale, di cui all’art. 3, secondo
comma, Cost., diretta alla rimozione di quegli ostacoli di fatto o giuridici che in
concreto limitano ancora una effettiva eguaglianza.
2. La Corte Costituzionale ha contribuito all’affermazione di detti principi.
In particolare ricordo la sentenza, sia pur risalente ma significativa, n. 422 del
1995, con la quale la Corte affermava che «nel corso degli anni dal suo insediamento
ad oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni suscettibili di
pregiudicare il principio di parità fra uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni
forma di discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la
parità effettiva (…) misure non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma
piuttosto volte a promuovere l’eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari
dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale» (sentenza
Corte cost. n. 422 del 1995).
3. Da tempo l’ordinamento giuridico comunitario, oggi dell’Unione europea, ha
sviluppato una importante normativa per contrastare le più diffuse forme di
discriminazioni (sesso, c.d. origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità,
età e orientamento sessuale).
Il principio di uguaglianza ha trovato una sua prima enunciazione nel Trattato
di Roma del 1957 (art. 119 Trattato CEE), anche se limitato al profilo retributivo.
Le novità di Amsterdam hanno costituito una significativa tappa.
In particolare, tra l’altro, il principio di parità tra donne e uomini è stato
introdotto tra le missioni della Comunità europea (art. 2 TCE) in una dimensione
1
trasversale, applicabile a tutte le politiche comunitarie (art. 3 par. 2 TCE). La parità
di retribuzione è stata poi integrata con la previsione di azioni positive volte a
garantire un’eguaglianza reale (art. 141 TCE).
Dall’art.13 del Trattato di Amsterdam (il Consiglio, agendo all’unanimità su
proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, adotta
misure idonee a combattere le discriminazioni basate sul sesso, sulla razza o sull’origine
etnica, sulla religione o sul credo personale, sull’handicap, sull’età o sull’orientamento
sessuale), è poi scaturita l’evoluzione odierna della tutela antidiscriminatoria.
A tale disposizione si ricollega l’adozione delle Direttive del Consiglio
2000/43/CE (cd. Direttiva sull’origine etnica) e 2000/78/CE (Direttiva del Consiglio che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro).
Con le suddette direttive si è ampliato il campo di azione della tutela
estendendosi ad ogni forma di discriminazione; si è affermato dunque il principio di
parità di trattamento in ogni esplicazione della personalità umana tutelandosi il valore
della persona in quanto tale senza più distinzione di sesso, razza o origine etnica,
religione o convinzioni personali, handicap, età, tendenze sessuali.
I concetti centrali delle Direttive si rinvengono nell’individuazione della
struttura della discriminazione, dei campi di applicazione (oggettivo e soggettivo), delle
istituzioni di parità, delle azioni di intervento offrendo in tal modo un quadro unitario
degli strumenti di tutela del diritto antidiscriminatorio.
4. In attuazione delle stesse in Italia sono state emanati il d.lgs. n. 215 del 2003
e n. 216 del 2003, così svolgendosi un costante e doveroso dialogo tra i due
ordinamenti.
5. Importante il ruolo svolto dalla Corte di Giustizia. Ricordo e rinvio ai
principi enunciati nel caso Feryn C-54 07, i quali costituiscono un punto fermo, in
materia, per l’adeguamento della normativa nazionale a quella sovranazionale di
riferimento, in particolare con riguardo al regime dell’onere della prova su cui tornerò
dopo.
Dovendo verificare con quanto rigore il giudice nazionale debba valutare la
controprova che deve essere fornita quando sussiste la presunzione di discriminazione,
ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 (...). Se una presunzione di
discriminazione ai sensi dell’art. 8, n. 1, della direttiva 2000/43 (…) possa essere
confutata da una semplice dichiarazione unilaterale del datore di lavoro alla stampa in
cui questi afferma di non discriminare, o di non discriminare più, e che gli operai
immigrati sono i benvenuti; e/o dalla semplice dichiarazione da parte del datore di
lavoro che presso di lui, ad eccezione della sua consociata, tutti i posti di operaio sono
occupati e/o dalla comunicazione che è stata assunta una donna delle pulizie tunisina;
e/o se siffatta presunzione, avendo riguardo ai fatti su cui verte il giudizio principale,
possa essere confutata esclusivamente dall’effettiva assunzione di operai alloctoni o/e
dal rispetto degli impegni presi nel comunicato stampa comune, la Corte ha affermato
che: «Dichiarazioni pubbliche con le quali un datore di lavoro rende noto che,
nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi
una determinata origine etnica o razziale sono sufficienti a far presumere l’esistenza di
una politica di assunzione direttamente discriminatoria ai sensi dell’art. 8, n. 1, della
direttiva 2000/43. Incombe quindi al detto datore di lavoro l’onere di provare che non vi
è stata violazione del principio della parità di trattamento. Lo potrà fare dimostrando che
la prassi effettiva di assunzione da parte dell’impresa non corrisponde a tali
dichiarazioni. Al giudice del rinvio compete verificare che i fatti addebitati siano
accertati, nonché valutare se siano sufficienti gli elementi addotti a sostegno delle
2
affermazioni del detto datore di lavoro secondo le quali egli non ha violato il principio
della parità di trattamento».
6. In continuità con le disposizioni del Trattato di Amsterdam, in particolare
con riguardo alla parità uomo-donna, la Commissione europea ha adottato una strategia
fondata su un duplice approccio, da un lato l’integrazione della dimensione di genere in
tutte le politiche e le azioni comunitarie, dall’altro il ricorso a misure specifiche (atti
legislativi, campagne di sensibilizzazione, programmi di finanziamento) a favore delle
donne per eliminare le ineguaglianze strutturali persistenti. Alla Strategia relativa al
periodo 2006-2010 è seguita la Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini (20102015) che ha confermato le priorità tematiche individuate nella Carta per le donne
adottata l’8 marzo 2010: indipendenza economica, pari retribuzione per lo stesso lavoro
o per un lavoro di pari valore, parità nel processo decisionale, dignità, integrità e fine
della violenza sulla donne, parità tra donne e uomini nelle azioni esterne.
7. Vi è poi l’art. 19 del TFUE che in modo analogo al citato art. 13, sancisce che
il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e
previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni
per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la
religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
8. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE ha enunciato il divieto di
discriminazione sulla base del sesso (art. 21) e la parità tra donne e uomini (art. 23)
come diritti fondamentali di tutti gli individui. Viene in rilievo, come vedremo anche
l’art. 30 relativo al licenziamento ingiustificato.
B) La rilevanza della causale discriminatoria o della nullità del
licenziamento in relazione alla disciplina sostanziale e processuale.
1. Non è semplice affrontare un tema interessato negli ultimi tre anni da rilevanti
modifiche normative che dall’originario testo dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori
hanno portato al sistema di tutele differenziate di cui al d.lgs. n. 23 del 2015, e che
hanno previsto peculiari meccanismi processuali.
2. La nullità del licenziamento ha sempre avuto peculiare rilievo, basti pensare
al tema trattato dalla sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, n. 19665 del
2014, rel. Amoroso (relativa al ripristino del rapporto previdenziale in caso di
illegittimità del licenziamento).
Ed infatti, nel distinguere le diverse ipotesi di illegittimità del recesso datoriale,
si è affermato che: l’illegittimità del licenziamento, quale presupposto dell’ordine di
reintegrazione, si presta ad un duplice inquadramento in ragione del tipo di vizio che
inficiava il recesso datoriale: da una parte inefficacia o nullità del licenziamento (quale
ad es. il licenziamento discriminatorio); d’altra parte il licenziamento annullabile perché
intimato in mancanza di giusta causa o di giustificato motivo. Se c’è un vizio di nullità
che affetta il licenziamento, la sentenza, che contiene l’ordine di reintegrazione, è
dichiarativa, (l’obbligo contributivo è riconosciuto ora per allora e quindi c’è una vera e
propria omissione contributiva con la conseguente debenza delle sanzioni civili); se
invece c’è un vizio di annullabilità che inficia il licenziamento, la sentenza, che contiene
l’ordine di reintegrazione, è costitutiva di accoglimento dell’azione di annullabilità del
licenziamento (e quindi l’obbligo contributivo è ripristinato ex tunc senza che ci sia
omissione contributiva con conseguente non debenza delle sanzioni civili).
3. La tipologia di licenziamenti sui quali ci dobbiamo confrontare
(discriminatorio, nullo, inefficace) è quella tutelata in modo più forte.
L’aver posto il licenziamento ingiustificato, cioè privo di giusta causa o di
giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, fuori dall’area di applicabilità della tutela
reintegratoria piena, attribuisce maggiore importanza alla figura del licenziamento
3
discriminatorio che costituisce ipotesi preminente conservata nel vecchio regime
reintegratorio della tutela reale.
È dunque centrale la nozione di discriminazione alla quale si affianca sia pure in
modo residuale la nullità del recesso per motivo illecito o per altre ipotesi che siano
state previste dalla legge.
Come si è visto, il sempre maggior rilievo dei principi di non discriminazione in
ragione dell’influenza del diritto comunitario, richiede una riflessione ed un impegno
per la loro effettività, a cui contribuisce il giudice.
Tenendo conto della distinzione operata dal Ferrajoli1 tra effettività primaria ed
effettività secondaria: la prima assicurata dall’osservanza (o dall’inosservanza ) e
perciò dall’effettività (o dall’ineffettività) delle norme primarie- norme prescrittive di
obblighi e divieti-; la seconda invece assicurata dall’attuazione (o non attuazione) delle
garanzie secondarie dell’annullabilità e della responsabilità per violazione delle
garanzie primarie e dei connessi diritti, e quindi dall’effettività (o dalla ineffettività)
delle relative norme secondarie –norme prescrittive di sanzioni, alla quale, è evidente, a
mio avviso, che a quest’ultima contribuisce in modo determinante il giudice.
Ciò richiama il giudice a peculiare attenzione nell’applicare la disciplina contro
la discriminazione, dovendo trovare un corretto bilanciamento degli interessi che
vengono in rilievo.
C) La nuova disciplina del licenziamento: profili sostanziali.
1. La legge delega n. 183 del 2014 (art. 1, comma 7, della legge delega n. 183
del 2014), stabiliva che «Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo
del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i
contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del
contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il
Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più
decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle
tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri
direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni
internazionali», per l’esercizio della suddetta delega, prevedeva, tra l’altro, alla lettera
c), il seguente criterio direttivo: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a
tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo
per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto
di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di
servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e
a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo
termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
2. Con il decreto legislativo n. 23 del 2015 si è data attuazione a tali principi
articolando il regime delle tutele su quattro piani, in modo analogo allo schema di cui
all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012:
a) (art. 2 d.lgs. n. 23 del 2015), tutela reintegratoria piena per il licenziamento
discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e succ.
modificazioni, ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla
legge; per il licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale; per
difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del
1
L. Ferrajoli, Effettività primaria e effettività secondaria. Prospettive per un costituzionalismo globale, in
Dimensioni dell’effettività, tra teoria generale e politica del diritto, a cura di A. Catania, Milano 2005,
129 ss.
4
lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12
marzo 1999, n. 68. Integrale risarcimento del danno (un’indennità commisurata
all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto,
corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo
svolgimento di altre attività lavorative, e comunque non inferiore a 5 mensilità);
b) (art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015), una tutela reintegratoria attenuata
con risarcimento limitato a dodici mensilità, per i soli licenziamenti disciplinari di cui
sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestati al
lavoratore, indipendentemente da valutazioni circa la non proporzionalità del
licenziamento;
c) (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015), una tutela indennitaria forte con
condanna al pagamento dalle quattro alle ventiquattro mensilità, qualora, salvo quanto
disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o
giusta causa;
d) (art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015), una tutela indennitaria debole, dalle due alla
dodici mensilità per vizi formali o procedurali
3. Tale disciplina opera con riguardo alla data di instaurazione del rapporto di
lavoro (rapporti di lavoro sorti dalla data di entrata in vigore del d.lgs., 7 marzo 2015) e
non alla data di intimazione del licenziamento.
Pertanto, per un lungo periodo, vivranno insieme sia il regime giuridico dettato
dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come mod. dalla legge n. 92 del 2012, sia la
nuova disciplina sopra richiamata.
I primi tre commi dell’art. 18 dovrebbero rimanere vigenti, peraltro, per i
dirigenti esclusi dal d.lgs. 23 del 2015.
4. Occorre, allora richiamare anche le novità dell’art. 18, ricordando che già
l’art. 15 della legge n. 300 del 1970, come modificato a seguito della attuazione della
direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro, stabiliva «È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: (…)
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o
mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti
pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua
partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano
altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua
o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni
personali»
Mentre il testo originario dell’art. 18 prevedeva l’istituto della reintegra, con le
relative conseguenze risarcitorie in termini economici per i licenziamenti individuale
intimati ai dipendenti non aventi qualifica dirigenziale, qualunque fosse la natura del
vizio del recesso del datore di lavoro, fermo restando il requisito dimensionale, la
novella del 2012 , affianca alla tutela reintegratoria, piena o attenuata differenti tutele di
tipo indennitario, in ragione del vizio dell’atto di recesso del datore di lavoro.
L’attuale testo dell’art. 18 stabilisce “Il giudice, con la sentenza con la quale
dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi
dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui
all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia
di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26
marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri
5
casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai
sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal
motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal
datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito
dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore
non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il
caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il
regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace
perché intimato in forma orale”.
D. Licenziamento discrimatorio, nullo e inefficace e profili processuali.
1. Disciplina sostanziale e processuale si intersecano. L’art.1, comma 47, della
legge n. 92 del 2012 ha stabilito che «Le disposizioni dei commi da 48 a 68, il cd. Rito
Fornero,
si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei
licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300,
e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro»2.
2
La domanda avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con
ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all'articolo 125
del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di
cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. A seguito
della presentazione del ricorso il giudice fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti. L'udienza
deve essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il giudice assegna un termine per la
notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell'udienza, nonché un termine,
non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente. La notificazione
è a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata. Qualora dalle parti siano prodotti
documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia.
49. Il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo
che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d'ufficio, ai
sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente
esecutiva, all'accoglimento o al rigetto della domanda.
50. L'efficacia esecutiva del provvedimento di cui al comma 49 non può essere sospesa o revocata fino
alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio instaurato ai sensi dei commi da 51 a
57.
51. Contro l'ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma 49 può essere proposta opposizione
con ricorso contenente i requisiti di cui all'articolo 414 del codice di procedura civile, da depositare
innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni
dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore. Con il ricorso non possono essere
proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate
sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o
dai quali si intende essere garantiti. Il giudice fissa con decreto l'udienza di discussione non oltre i
successivi sessanta giorni, assegnando all'opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima
dell'udienza.
52. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato, anche a mezzo di
posta elettronica certificata, dall'opponente all'opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per la
sua costituzione.
53. L'opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le
decadenze di cui all'articolo 416 del codice di procedura civile. Se l'opposto intende chiamare un terzo in
causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva.
54. Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107 del codice di
procedura civile, il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi sessanta giorni, e dispone che siano
notificati al terzo, ad opera delle parti, il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l'atto di
costituzione dell'opposto, osservati i termini di cui al comma 52.
55. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell'udienza fissata, depositando la
propria memoria a norma del comma 53.
6
Diversamente, l’art. 11 del d.lgs. n. 23 del 2015 ha previsto che “Ai
licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da
48 a 68 dell’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92”.
2. La complessità del rito Fornero è nota.
Tali disposizioni regolano il processo e costituiscono rito speciale finalizzato
all’accelerazione dei tempi del giudizio, nonché della stessa proposizione
dell’impugnativa avendo il legislatore voluto che la questione della reintegrazione - e
più in generale dell’impugnativa del licenziamento per l’accesso alle tutele di cui all’art.
18 cit. - sia subito portata innanzi al giudice e decisa in tempi rapidi.
3. Il carattere peculiare di questo nuovo rito sta nell’articolazione del giudizio di
primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra,
definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado.
4. Come ha precisato la Corte di cassazione (cfr. Cass. S.U., ordinanza n. 19674
del 2014), nel ritenere esperibile il regolamento di giurisdizione nella prima fase, il
procedimento d’impugnazione del licenziamento previsto dalla legge 28 giugno 2012,
n. 92, art. 1, commi 47 ss., si caratterizza per l’articolazione del giudizio di primo grado
in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di
opposizione, a cognizione piena nello stesso grado.
56. Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale non è fondata su fatti costitutivi identici a
quelli posti a base della domanda principale il giudice ne dispone la separazione.
57. All'udienza, il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle
parti nonché disposti d'ufficio, ai sensi dall'articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede con
sentenza all'accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il
deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell'udienza di discussione. La sentenza, completa di
motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall'udienza di discussione. La
sentenza è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale.
58. Contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso reclamo davanti alla corte d'appello. Il reclamo
si propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla
notificazione se anteriore. (13)
59. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga
indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado
per causa ad essa non imputabile. (13)
60. La corte d'appello fissa con decreto l'udienza di discussione nei successivi sessanta giorni e si
applicano i termini previsti dai commi 51, 52 e 53. Alla prima udienza, la corte può sospendere l'efficacia
della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi. La corte d'appello, sentite le parti, omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione ammessi e provvede con sentenza all'accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove
opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell'udienza di
discussione. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni
dall'udienza di discussione.
61. In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l'articolo 327 del codice di
procedura civile.
62. Il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta
giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore. La sospensione dell'efficacia
della sentenza deve essere chiesta alla corte d'appello, che provvede a norma del comma 60.
63. La Corte fissa l'udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso.
64. In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l'articolo 327 del codice di
procedura civile.
65. Alla trattazione delle controversie regolate dai commi da 47 a 64 devono essere riservati particolari
giorni nel calendario delle udienze.
66. I capi degli uffici giudiziari vigilano sull'osservanza della disposizione di cui al comma 65.
67. I commi da 47 a 66 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in
vigore della presente legge.
68. I capi degli uffici giudiziari vigilano sull'osservanza della disposizione di cui al comma 67.
7
Mentre la prima fase è caratterizzata dalla mancanza di formalità, poiché rispetto
al rito ordinario delle controversie di lavoro non è previsto il rigido meccanismo delle
decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. e l’istruttoria,
semplificata, è limitata agli “atti di istruzione indispensabili”, la seconda fase è invece
introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso contenente i requisiti di cui
all’art. 414 c.p.c.
Precisano le Sezioni Unite che tale opposizione “non è una revisio prioris
istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di
massima al modello ordinario, con cognizione piena a mezzo di tutti gli “atti di
istruzione ammissibili e rilevanti” (cfr. citata Cass. s.u. n. 19674 del 2014 cit.). In
sostanza “dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata - mirata a riconoscere,
sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad
assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente
opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce
dei soli ‘atti di istruzione indispensabili’ - il procedimento si riespande, nella fase
dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le
parti a tutti gli ‘atti di istruzione ammissibili e rilevanti”. L’esigenza di “evitare che la
durata del processo ordinario si risolva in un pregiudizio per la parte che intende far
valere le proprie ragioni” (Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 26) va coniugata sempre con
l’effettività e pienezza della tutela. La diversità e peculiarità della materia giustificano un binario accelerato nei limiti in cui - come ha avvertito la Corte costituzionale con
riferimento a moduli processuali speciali finalizzati ad accelerare la definizione delle
controversie (C. cost. 10 novembre 1999 n. 42) – ‘non sia pregiudicato lo scopo e la
funzione del processo e non sia compromessa l’effettività della tutela giurisdizionale’
(...)”.
5. Con ordinanza Cass. n. 24790 del 2014, si è data applicazione ai suddetti
principi rilevando, come già nella pronuncia delle S.U. che la prima fase del giudizio di
primo grado è semplificata e sommaria e la sommarietà riguarda le caratteristiche
dell’istruttoria, e non una sommarietà della cognizione del giudice, ne’ l’instabilità del
provvedimento finale. L’idoneità al giudicato è espressamente prevista per la sentenza
resa all’esito dell’opposizione ma, come rileva la Corte nella citata ordinanza, non può
essere esclusa per l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, irrevocabile fino alla
conclusione di quella di opposizione.
6. Già in precedenza Cass. S.U., ordinanza n. 17443 del 2014, aveva risolto in
senso affermativo la questione dell’ammissibilità, o no, nella prima fase a cognizione
sommaria del procedimento legge n. 92 del 2012, ex art. 1 della declaratoria di
incompetenza e del regolamento di competenza.
In continuità con tale ordinanza da ultimo richiamata vi è poi Cass., VI sezione
civile, ord. n. 24790 del 2014, che ha affermato «Tra la causa proposta con il rito di cui
all’art. 1, commi 48 e segg. della legge 28 giugno 2012, n. 92, per l’accertamento della
legittimità del recesso datoriale, pendente in fase di opposizione, e quella concernente
l’impugnativa del medesimo licenziamento, pendente nella fase sommaria dello stesso
rito dinanzi a diverso tribunale, pure in astratto territorialmente competente, sussiste un
rapporto di continenza, sicché, ai fini della determinazione del giudice competente,
occorre aver riguardo esclusivamente al criterio della prevenzione - con riferimento alla
data di deposito del ricorso - a prescindere dall’individuazione della causa contenente e
di quella contenuta, nonché dall’esame di profili processuali relativi alla domanda
proposta davanti al giudice preventivamente adito».
7. Sotto altro profilo, la Corte di cassazione ha avuto modo di precisare con la
sentenza n. 23021 del 2014, con riguardo a tale nuove disciplina che «Nulla, invero, è
detto nella normativa di riferimento per il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di
8
secondo grado introdotto dal reclamo e quindi vi è necessità di integrazione della
disciplina pur speciale dettata dalla legge n. 92 del 2012, art. 1, commi 58 e 61. In
ragione della ritenuta possibilità di integrare la disciplina del reclamo con quella
dell’appello nel rito del lavoro, trovano conseguentemente applicazione, nel giudizio di
cassazione, anche l’art. 348 ter c.p.c., comma 3, che prevede che, quando è pronunciata
l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso
per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello, nonché il
medesimo art. 348 ter c.p.c., successivo comma 4, che prevede che, quando
l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a
base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al terzo comma può
essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, nn. 1, 2, 3 e 4, (quindi
con esclusione del vizio di motivazione di cui al n. 5».
E) Licenziamento invalido e regime processuale delle decadenze.
1. Tali disposizioni vanno coordinate con il nuovo regime di decadenza ed
inefficacia introdotto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, il cui i comma 1, come
modificato, ha sostituito l’art. 6 della legge n. 604 del 1966, stabilendo il termine di
decadenza di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e il termine
di inefficacia di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale, e il comma 2
ha stabilito «le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come
modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di
invalidità del licenziamento».
2. Poiché è rimasto invariato l’art. 10 della legge n. 604 del 1966 che prevede
«le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che
rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’articolo 2095 del Codice
civile e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l’assunzione
diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto
di lavoro», in In presenza di licenziamento del dirigente per giustificato motivo
oggettivo che venga impugnazione per discriminazione si pone il problema della
applicabilità del nuovo art. 6 della legge n. 604 del 1966.
Sul tema si richiama Tribunale di Firenze, sentenza n. 279 del 2 marzo 2015 che
ha affermato: L’art. 32, comma 2, legge n. 183 del 2010 ha esteso il regime della
decadenza a carico del lavoratore, allo scopo di assicurare una razionalizzazione del
contenzioso, secondo la previsione che alla tempestiva impugnazione stragiudiziale di
determinati atti seguisse entro un congruo periodo di tempo anche l’impugnazione
giudiziale, riducendo in tal modo gli effetti negativi sulla organizzazione
imprenditoriale degli annullamenti di tali atti a distanza di molto tempo e, precludendo
azioni tese a lucrare sul ritardo nella instaurazione del processo.
3.Con riferimento al licenziamento, la giurisprudenza intervenuta nella vigenza
della vecchia formulazione dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 faceva coincidere la
disciplina della decadenza con la stessa legge n. 604 del 1966 e successive modifiche.
Pertanto non riteneva sottoposto a decadenza una serie di fattispecie esterne a tale
disciplina (il recesso intimato in violazione dei divieti di licenziamento delle lavoratrici
madri o in caso di matrimonio; il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2112 c.c.
o della disciplina del comporto art. 2110 c.c., ecc.).
L’art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010 ha inteso estendere
l’applicazione degli oneri di impugnazione regolati dall’art. 6 L. n. 604 del 1966 nuova
formulazione alle fattispecie di licenziamento esterne al sistema della L. n. 604 del 1966
e difatti ha disposto l’applicabilità del riformato art. 6 L. n. 604 del 1966 cit. “anche a
tutti i casi di invalidità del licenziamento”.
9
Dunque è centrale la nozione di invalidità del licenziamento tramite la quale è
estesa la disciplina della decadenza a fattispecie in precedenza escluse, secondo la ratio
dell’intervento normativo.
Sono certamente ricompresi nei licenziamenti invalidi i licenziamenti nulli (tra
essi i licenziamenti discriminatori, comminati in violazione di norme imperative, per
motivo illecito determinante di cui all’art. 18 comma 1, L. n. 300 del 1970).
Anche il licenziamento orale (fino alla modifica di cui si parla ritenuto dalla
giurisprudenza escluso dalla disciplina della decadenza in quanto normativa di stretta
interpretazione) rientra nei licenziamenti invalidi, poiché nullo per mancanza di forma
scritta ad substantiam (Cass., sent. n. 18087/2007; Cass., sent. n. 10651/2005).
Del resto, lo stesso art. 18, comma 1, della legge n. 300 del 1970 nella nuova
formulazione, richiamata l’inefficacia del licenziamento orale, lo equipara nel
trattamento sostanziale agli altri casi di licenziamento nullo e rispetto ad essi non si
ravvisano i motivi per i quali esso dovrebbe essere assoggettato ad una disciplina meno
rigorosa in punto di decadenza.
Posto che l’inefficacia del licenziamento è un vizio che da luogo alla sua
invalidità, anche sotto tale profilo il licenziamento verbale deve ritenersi ricompreso
nell’area di applicazione della nuova normativa.
Non mi sembra assuma carattere decisivo la circostanza che l’art. 6 della legge
n. 604 del 1966 faccia decorrere la decadenza stragiudiziale dalla ricezione del
licenziamento per iscritto, se si considera che l’art. 32 della legge n. 183 del 2010
ricollega la decadenza anche ad altre fattispecie di recesso che possono intervenire
oralmente, art. 32 comma 2 lett. b), per le quali non è prevista alcuna forma scritta di
comunicazione.
Pertanto si ritiene che i termini di decadenza decorrano dalla comunicazione,
scritta, se intervenuta, o orale, del recesso.
4. Dunque la natura discriminatoria che determina la nullità del licenziamento
rileva sia quanto alle tutele sia quanto ai termini per l’impugnazione.
5. Come si vedrà, fattispecie che prima la giurisprudenza riconduceva agli artt.
1421 e 1422 cc, come il licenziamento per maternità, dovrebbero ora incorrere nei
suddetti termini (Cass. civ. Sez. lavoro, n. 13692 del 2015 (sentenza C.d.A. del 2010), e
analoga considerazioni si pone per i licenziamenti per cause di nullità.
F) La tutela antidiscriminatoria: compatibilità.
Peraltro, va ricordato, sotto il profilo della tutela, che l’art. 44 del d.lgs 286 del
1998, e poi le previsioni del Codice delle pari opportunità, hanno stabilito che quando
il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una
discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza
geografica o religiosi, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per
domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti
della discriminazione, e alle relative controversie così come a quelle di cui all’art. 4 del
d.lgs. n. 215 del 2003 e dell’art. 4 del d.lgs. n. 216 del 2003, come previsto dall’articolo
28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, che disciplina le controversie in
materia di discriminazione3, si applica il rito sommario di cognizione e cioè il
procedimento ex art. 702 –bis cpc. Il citato art. 28 riporta la disposizione in materia di
onere probatorio analoga a quella già sopra esposta con riguardo ai d.lgs. n. 215 e n. 216
del 2003.
Tale normativa mette, infatti, a disposizione di chi lamenti una discriminazione
per uno dei fattori di rischio da essa indicati strumenti sostanziali e soprattutto
3
Sulla sovrapponibilità delle tutela, si veda Cass., n.5581 del 2014.
10
procedurali particolarmente efficaci e celeri, tra cui la possibilità di invertire l’onere
della prova a carico del convenuto, qualora il ricorrente fornisca “elementi di fatto,
desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti,
patti o comportamenti discriminatori”. Il giudice che ritenga provata una
discriminazione, inoltre, “può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel
provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.
La questione dell’accesso a tale normativa può assumere quindi una rilevanza
affatto significativa, alla luce della ripartizione dell’onere probatorio e dea potere del
giudice di adottare provvedimenti particolarmente incisivi e potenzialmente di grande
impatto sulla possibilità del convenuto di organizzare liberamente a propria attività
produttiva nel futuro.
In generale, si pongono alcune problematiche in relazione al rapporto tra
processo antidiscriminatorio e processo sul licenziamento.
La nuova normativa pone in proposito problemi interpretativi delicati e
complessi, rispetto ai quali il testo della legge e le connessioni con il sistema
processuale civile in generale e del lavoro in particolare, sembrano a volte consentire
più soluzioni.
In questi casi, si è osservato (Curzio) sarà opportuno tener sempre presente
l’indicazione teleologica espressa dal legislatore nell’incipit della normativa. La
chiarezza della disposizione (“procedimento giudiziario specifico per accelerare la
definizione” delle controversie in materia di licenziamenti) e la sua collocazione
all’inizio dell’art. 1, indicano che ogni volta che l’interpretazione letterale o sistematica
del testo possa dare luogo a più soluzioni, bisognerà privilegiare quella che risponde
meglio alla finalità della normativa.
L’enunciazione legislativa costituisce una declinazione accentuata del principio
costituzionale della ragionevole durata del processo. Principio fondamentale, che non
deve prevalere su ogni altro interesse costituzionalmente tutelato, come riconosce anche
il legislatore, in particolare nella normativa sull’istruttoria laddove indica il limite del
principio del contraddittorio, ma che segna il carattere dell’intervento legislativo e
costituisce quindi per l’interprete un criterio guida4.
Con l’introduzione della disciplina del rito speciale ai sensi dell’art. 1 commi da
47 e ssg. della legge n. 92/2012, ci si chiede se il lavoratore possa ugualmente scegliere
tra questo rito o quello richiamato dall’art. 28 d.lgs 50/2011, e se la esclusione di questo
nuovo rito per il futuro consenta la compatibilità.
Il dato testuale contenuto nell’art 1 comma 48 della legge 92 del 2012, dovrebbe
far propendere per la esclusività del rito laddove si impugni un licenziamento rientrante
nelle ipotesi previste dall’art. 18 (nuovo testo). Tale espressione, è ad esempio diversa
da quella utilizzata nell’art 702- bis c.p.c. ove è previsto che: “la domanda può essere
proposta con ricorso al tribunale competente”, il legislatore quindi ha previsto una tutela
sommaria autonoma necessaria e quindi non lasciata la scelta al ricorrente tra varie
soluzioni.
D’altra parte, si è fatto notare, in senso contrario, che il dato testuale non
contiene necessariamente “un imperativo categorico” (Tribunale di Napoli, sentenza
25.09.2013), ma che “quando il comma 48 (dell’art. 1 legge n. 92/2012) detta che la
domanda “si propone”, più che prescrivere intende descrivere le cadenze del
procedimento anticipato dal comma precedente” (Verde), così venendo meno
parzialmente la tesi dell’obbligatorietà.
Secondo coloro che sostengono la facoltatività del rito Fornero, sarebbe la parte
che intraprende un giudizio di impugnativa di licenziamento rientrante nell’art. 18 legge
4
Pietro Curzio, “Il nuovo rito per i licenziamenti”.
11
n. 300/70 a valutare se, nel caso concreto, sia più utile procedere con il procedimento
previsto dalla riforma o con un ricorso ex art. 414 cpc (ad esempio, perché la domanda
si associa ad ulteriori richieste afferenti il rapporto di lavoro: differenze retributive,
diverso inquadramento, ecc.).
G) Licenziamento discriminatorio o nullo.
1. Dunque sono riconducibili al licenziamento discriminatorio o nullo:
Art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015:
-licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 15 della legge 300 del 1970
(licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei
trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa
della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno
sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti
diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di
handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);
-licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità espressamente previsti da
legge, che costituisce clausola generale di chiusura del sistema discriminatorio;
-difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica
del lavoratore
Art. 18 vecchio testo e art. art. 15 legge 300 del 19705
Licenziamento inefficace (comunicato senza forma scritta), licenziamento
intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero nullo a norma della legge
stessa6
Art. 18 novellato legge 92 del 2012:
licenziamento perché discriminatorio7 ai sensi dell’articolo 3 della legge 11
maggio 1990, n. 108 (Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi
dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 -determinato da ragioni di credo
politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad
attività sindacali-, e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come
modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903);
ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del
codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile
2006, n. 198 (nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio);
o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e
9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della
maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e
5
La norma dell' art. 3 legge n. 108/1990 sull'estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di
cui all' art. 4, legge n. 604/1966 e all' art. 15, legge n. 300/1970, delle conseguenze previste dall'art. 18
della medesima legge n. 300/1970 , a prescindere dal numero dei dipendenti e anche a favore dei
dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo e, in
particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia
Cass., n. 5635 del 2006)
6
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, basato su inesistenti ragioni organizzative che trova
la sua reale motivazione nella partecipazione a uno sciopero da parte del lavoratore, deve essere
dichiarato nullo perché discriminatorio. Le conseguenze sono quelle di cui all'art. 18 SL così come
previsto dal combinato disposto dell'art. 3 L 11 maggio 1990 n. 108 e dell'art. 15 legge 300 del 1970,
Trib. Milano, 7 ottobre 2004, Florio c. Baglioni Hotels s.p.a.
7
Il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dall' art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall' art. 15
della legge n. 300 del 1970 e dall' art. 3 della legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di interpretazione
estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o
rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento
espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il
recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass., n. 6282 del 2011)
12
successive modificazioni, (gravidanza, congedo parentale, malattia del bambino,
adozione, affidamento8);
ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge 9 o
determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice
8
Cass. civ. Sez. lavoro, n. 13692 del 2015 (sentenza C.d.A. del 2010)
Il divieto di licenziamento sancito dall'art. 2 della legge n. 1204 del 1971 opera in relazione allo stato
oggettivo di gravidanza o puerperio, implicando, ai sensi dell'art. 54, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001,
la nullità del licenziamento intimato nonostante il divieto. Ciò detto, il termine di sessanta giorni per
l'impugnazione del licenziamento previsto dall'art. 6 della legge n. 604 del 1966, norma eccezionale e non
applicabile, pertanto, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità di licenziamenti non rientranti nella
previsione della citata legge n. 604, non si applica ai licenziamenti previsti dall'art. 1 della legge n. 7 del
1963, nonché dal summenzionato art. 2 della legge n. 1204 del 1971, cui vanno invece applicati i principi
generali ex artt. 1421 e 1422 c.c.
«Come è stato più volte affermato da questa Corte, "il licenziamento intimato alla lavoratrice dall'inizio
del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino in violazione della L. n. 1204
del 1971, art. 2, comma 2 è affetto da nullità, a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991,
ed è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il
datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i
danni derivanti dall'inadempimento, in ragione dal mancato guadagno" (v. Cass. 15-9-2004 n. 18537,
Cass. 10-8-2007 n. 17606).
Del resto "il divieto di licenziamento di cui alla L. n. 1204 del 1971, art. 2 opera in connessione con lo
stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, comporta, ai sensi del D.Lgs. 26 marzo 2001, n.
151, art. 54, comma 5 la nullità del licenziamento intimato nonostante il divieto" (v. Cass. 1-12-2010 n.
24349, Cass. 1- 2-2006 n. 2244).
Tanto premesso, come è stato chiarito da questa Corte "il termine di sessanta giorni per l'impugnazione
del licenziamento previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 deroga al principio generale - desumibile dagli
artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere
fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l'azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne
consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da
considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di
nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata L. n. 604 del 1966 .
E' pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l'impugnativa sia applicabile ai
licenziamenti previsti dalla L. n. 7 del 1963, art. 1 (sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa
di matrimonio) e dalla L. n. 1204 del 1971, art. 2 (sulla tutela delle lavoratrici madri), ai quali vanno
invece applicati i principi generali di cui ai citati artt. 1421 e 1422 cod. civ.».
Cass. civ. Sez. lavoro, n. 8683 del 2015 (sentenza CdA del 2011)
Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante il periodo di interdizione del recesso per
maternità, in violazione del divieto posto dall'art. 2 della L. n. 1204/1971, è sottratto al regime
sanzionatorio di cui all'art. 18 della L. 300/1970 ed è invece soggetto al regime ordinario della nullità di
cui all'art. 1418 c.c., sicché a fronte dell'inadempimento, la sanzione del risarcimento del danno va
applicata con riferimento a tutto il periodo di permanenza degli effetti dell'evento lesivo, ovvero, secondo
il regime ordinario della mora del creditore, fino alla formulazione al lavoratore dell'offerta reale della
retribuzione.
9
Ed invero, in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma
anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione di norma imperativa, di cui
all'art. 2110 c.c. - che vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore -, e non già
temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza: il
superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi del citato art. 2110 c.c., una situazione
autonomamente giustificatrice del recesso, che deve, perciò, esistere già anteriormente alla
comunicazione dello stesso, per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest'atto, ove di esso
costituisca il solo motivo (Cass. 21 settembre 1991 n. 9869; Cass., 26 ottobre 1999, n. 12031).
Dalla nullità del licenziamento discende, secondo un orientamento cui questo Collegio intende dare
continuità, la possibilità di rinnovazione dell'atto. Essa, risolvendosi nel compimento di un negozio
diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 c.c. (che è norma diretta ad impedire la sanatoria
di un negozio nullo con effetto ex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la
manifestazione della propria autonomia negoziale). In tal senso, Cass. 6 novembre 2006, n. 23641, e
Cass., 19 marzo 2013, n. 6773. In particolare, quest'ultima sentenza conferma la giurisprudenza secondo
cui è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma (purché siano
adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione) in base agli stessi motivi sostanziali
13
civile (Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo
esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe).
H). Licenziamento discriminatorio.
1. È evidente che per dare effettività alla tutela conto il licenziamento
discriminatorio occorre riempire di contenuto tale nozione, e nel fare ciò, il giudice è
chiamato a confrontarsi con l’ordinamento sovranazionale e con quello nazionale.
2. La nozione di parità di trattamento la troviamo nella direttiva 43/2000/CE,
all’art. 2, ove si afferma “Ai fini della presente direttiva, il principio della parità di
trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a
causa della razza o dell’origine etnica”.
La direttiva 2000/78 CE, all’art. 2, offre poi la seguente nozione di
discriminazione:
«1. Ai fini della presente direttiva, per "principio della parità di trattamento" si
intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi
di cui all’articolo 1 (n.d.r. religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro).
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi
di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata
o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una
prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio
le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le
persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una
particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:
i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da
una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari; o che
ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o
qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato
dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di
cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio
o tale prassi.
3. Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione
in caso di comportamento indesiderato adottato per uno dei motivi di cui all’articolo 1
avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto, il concetto
di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati
membri».
3. Come ho già ricordato, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE ha
enunciato il divieto di discriminazione sulla base del sesso (art. 21) e la parità tra donne
e uomini (art. 23) come diritti fondamentali di tutti gli individui.
La stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 30, afferma
che “ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato,
conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. In base
all’art. 6 del Trattato di Lisbona, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei
determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia
ancora sub iudice (Cass., n. 24525 del 2014).
14
trattati e, pertanto, è vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri, che devono
adeguare la propria legislazione ai principi ivi indicati.
In realtà, l’art. 30 della Carta di Nizza prescrive soltanto il divieto di un
licenziamento meramente arbitrario: alla base del recesso datoriale deve esserci una
motivazione, una giustificazione, appunto. Non indica, però, quali possano essere le
giustificazioni valide, rimandando, in pratica, alle legislazioni e prassi nazionali.
Dal combinato disposto con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, però, emerge con chiarezza quali motivazioni non possano
assolutamente costituire ragioni di licenziamento: “È vietata qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o
l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le
convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad
una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali”
Un ulteriore invito all’armonizzazione in materia di licenziamenti emerge
dall’art. 153, comma 1 lett. d), del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,
che, per conseguire la finalità di una comune politica sociale, attribuisce all’Unione
Europea la competenza di adottare direttive anche in materia di “protezione dei
lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro”.
4. A sua volta, l’art. 14 CEDU stabilisce “Il godimento dei diritti e delle libertà
riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la
religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra
condizione”. Il panorama giurisprudenziale pone in evidenza come la violazione
dell’art. 14 venga associata alla violazione di una o più ulteriori norme della
Convenzione (quali art. 8, diritto rispetto vita privata e familiare, e art. 1,
riconoscimento diritti e libertà Convenzione), pur sussistendo la natura “autonoma” del
citato art. 14 (sentenza Caso linguistico Belga).
La prima decisione di riferimento per il citato art. 14, risale al 1968 (caso:
“Régime linguistique de l’enseignement en Belgique”,); essa fissa alcuni punti che sono
rimasti fermi nel tempo, come posto in luce dalla dottrina (Bin):
- l’art. 14 non ha un’applicazione indipendente, ma vale solo in relazione ai
diritti e alle libertà garantite dalla sez. I della Convenzione. Tuttavia un provvedimento
che di per sé non sarebbe in contrasto con gli articoli che tutelano tali diritti e libertà
può violare l’art. 14 a causa della sua natura discriminatoria;
- l’art. 14 va letto nel senso più preciso in cui è espresso nel testo inglese della
Convenzione (“without discrimination”) piuttosto che nella versione meno stringente
del testo francese (“sans distinction aucune”). Le autorità nazionali possono
differenziare le soluzioni giuridiche con cui attuano la protezione dei diritti, per esempio
al fine di correggere le differenze di fatto tra le persone (in modo analogo al tema del
rapporto tra l’eguaglianza formale dell’art. 3, comma 1 Cost., e l’eguaglianza
sostanziale dell’art. 3, comma 2, Cost.);
- la differenza di trattamento diventa discriminazione, con conseguente
violazione dell’art. 14, quando la distinzione non ha giustificazione obiettiva e
ragionevole.
- vi è infrazione dell’art. 14 quando manchi una ragionevole relazione di
proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito.
- I criteri fissati nel caso “Régime linguistique de l’enseignement en Belgique”
restano alla base di tutta la giurisprudenza successiva degli organi della Convenzione.
Deve essere chiarito però che la tutela apprestata dall’art. 14 è accessoria o sussidiaria
15
nel senso che se un provvedimento non è giudicato lesivo della tutela accordata da un
articolo della prima parte della Convenzione, esso può essere però giudicato lesivo
dell’art. 14 perché comporta una restrizione discriminatoria, cioè non ragionevolmente
giustificabile, della tutela accordata.
È stato osservato che una conseguenza del carattere accessorio della tutela
apprestata dall’art. 14 è che il suo àmbito di applicazione si espande man mano che si
espande, per via di interpretazione (o di integrazione della Convenzione), l’àmbito di
applicazione di ogni singolo diritto sostanziale riconosciuto dalla Convenzione.
5. La regola dell’uguaglianza nella materia del lavoro è centrale, basti pensare
all’art. 36 Cost. e al diritto all’equa retribuzione, ai diritti sociali di cui all’art. 28, al
diritto di sciopero di cui all’art. 40, all’art. 37 sulla parità tra donna e uomo
lavoratrice/lavoratore.
Il diritto del lavoro è uno dei primi settori in cui si sono introdotti divieti
discriminazione, in particolare attraverso la legge 9 dicembre 1977 n. 903 e la
successiva legge 10 aprile 1991, n. 125.
In precedenza, è stata promossa la protezione della donna lavoratrice (legge 26
agosto 1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri; legge 9
gennaio 1963, n. 7, modificativa di quella del 1950, che ebbe anche ad introdurre il
divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio; legge 9 febbraio
1963, n. 66, che ammise la donna ai pubblici uffici, compresa la magistratura, ed alle
professioni, rimuovendo una vistosa discriminazione di genere). Lo Statuto dei
lavoratori (legge n. 300 del 1970) ha poi introdotto il principio di non discriminazione
sindacale, politica e religiosa, ma non di genere. Con la già citata legge 9 dicembre
1977, n. 903, è stato esteso il principio di non discriminazione alla discriminazione di
genere.
La legge n. 903 del 1977 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di
lavoro), adottata in attuazione delle direttive 117 del 1975 e 207 del 197610, affermava ,
infatti « È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda
l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma,
indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di
attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale ».
La legge n. 125 del 1991 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomodonna nel lavoro), prevedeva all’art. 1 «Le disposizioni contenute nella presente legge
hanno lo scopo di favorire, l’occupazione femminile e di realizzare, l’uguaglianza
sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure,
denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto
impediscono la realizzazione di pari opportunità».
Questo sviluppo è rilevante perchè in questo modo si amplia la nozione di
discriminazione fino a comprendere nella stessa la discriminazione indiretta. Ed infatti
l’art. 4 della legge n. 125 del 1991 prevede le due fattispecie.
10
Sulle tutele: In caso di comportamenti datoriali discriminatori, il giudice competente, su ricorso del
lavoratore, è tenuto ad ordinare, qualora ne ricorrano le condizioni di legge a seguito dello speciale
procedimento previsto dall' art. 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, la cessazione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti, senza che, però, attraverso l'esperimento di tale rimedio giudiziale,
il lavoratore che si ritenga discriminato possa ottenere il riconoscimento in proprio favore di una specifica
progressione in carriera ad un apposito livello o ad una certa categoria e con riferimento ad un tempo
determinato, a preferenza di altri soggetti dell'altro sesso. In proposito, anche l'art. 4 della successiva
legge 10 aprile 1991, n. 125 , appresta ai lavoratori, in presenza di un atto o di un comportamento
discriminatorio di carattere collettivo per ragione di sesso, una tutela di carattere interdittivo mediante
l'ottenimento di un ordine del giudice al datore di lavoro di definire un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate, che, però, non comporta di per sé l'attribuzione diretta ed immediata di
posizioni lavorative superiori come reclamate. Cass., n. 11661 del 2006.
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Successivamente è intervenuto il d.lgs. 286 del 1998, che all’art. 43, fermo
restando che costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata
sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le
pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il
riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e
delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni
altro settore della vita pubblica, ha stabilito, tra l’altro, che compie un atto
discriminatorio «il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15
della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre
1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o
comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche
indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un
gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza.
Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente
all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori
appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad
una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non
essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa»11.
A seguito della direttiva 2000/78/CE12, è stato adottato il d.lgs n. 216 del 2003
che reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone
11
L’art. 43 e l'articolo 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o
discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri
dell'Unione europea presenti in Italia.
12
Il fondamento dell’efficacia del diritto dell’Unione europea e delle pronunce della Corte di Giustizia
nell’ordinamento giuridico italiano si rinviene negli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione.
La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, ha enunciato il principio fondamentale
secondo cui i due ordinamenti, comunitario e statale, sono “distinti ed al tempo stesso coordinati”
(secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dai Trattati istitutivi) e le norme del primo
vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere “diretta applicazione” in quest’ultimo, pur rimanendo
estranee al sistema delle fonti statali. L’effetto di tale diretta applicazione - ha precisato la Corte - non è
quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da
parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è
attratto nell’ambito del complesso normativo comunitario.
Tale principio, desumibile dal Trattato istitutivo della Comunità europea, per il tramite della sua legge di
esecuzione, è coerente con l’art. 11 Cost. che riconosce la possibilità di limitazioni alla sovranità statuale,
quale può qualificarsi l’effetto di “non applicazione” della legge nazionale. Peraltro l’ordinamento statale
non si apre incondizionatamente alla normazione comunitaria giacché in ogni caso vige il limite del
rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della
persona umana, con conseguente sindacabilità, sotto tale profilo, della legge di esecuzione del Trattato
(cd. controlimiti).
Le statuizioni della Corte di Giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie
direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni (sentenze n. 284
del 2007, n. 389 del 1989 e n. 113 del 1985).
L’effetto diretto delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia secondo l’art. 267 (ex art.234) del
TUEF è quello di vincolare il giudice a quo a conformarsi, nel decidere il caso concreto, alle soluzioni dei
problemi di diritto in essa contenute, con efficacia erga omnes.
La Corte costituzionale ha delineato, quindi, il rapporto fra gli ordinamenti secondo le seguenti linee
esemplificative:
I giudici nazionali le cui decisioni sono impugnabili hanno il compito di interpretare il diritto comunitario
e se hanno un dubbio sulla corretta interpretazione hanno la facoltà e non l’obbligo di operare il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenerla e farne applicazione, se necessario a preferenza delle
contrastanti norme nazionali.
Il giudice di ultima istanza ha l’obbligo di operare il rinvio, a meno che non si tratti di una interpretazione
consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi.
17
indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età
e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di
lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di
discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse
forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, in una prospettiva che si
può dire oggettiva in quanto prescinde dalla sussistenza di un intento quale elemento
costitutivo della fattispecie discriminatoria.
Alla discriminazione sono equiparate le molestie e cioè le molestie ovvero quei
comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1,
aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 3, commi 3, 4 e 6, del suddetto d.lgs. 216 del 2003,
nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia
legittima, nell’àmbito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di
trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali,
all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura
dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello
svolgimento dell’attività medesima.
Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di
trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate
convinzioni personali che siano praticate nell’àmbito di enti religiosi o altre
organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali,
Sempre in ragione dell’art. 11 Cost., questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e
prima ancora dell’amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di
effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa;
ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale
quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto. È, infine, in forza delle
limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. che la Corte ha riconosciuto la portata e le diverse
implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali (sentenza n.
126 del 1996), individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto
costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona.
Quanto all’art. 117, primo comma, Cost., nella formulazione novellata dalla riforma del titolo quinto,
seconda parte della Costituzione, la Corte ne ha precisato la portata, affermando che tale disposizione ha
colmato la lacuna della mancata copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, ivi
compresa la Convenzione di Roma dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), escluse
dalla previsione dell’art. 10, primo comma, Cost. (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). L’art. 117, primo
comma, Cost. ha dunque confermato espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all’art. 11
Cost., e cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario.
Il limite all’esercizio della funzione legislativa imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., è tuttavia solo
uno degli elementi rilevanti del rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, rapporto che,
complessivamente considerato e come disegnato da questa Corte nel corso degli ultimi decenni, trova
ancora “sicuro fondamento” nell’art. 11 Cost. Restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla
riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte
le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano
sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e i giudici ( sentenza n. 227 del 2010).
La Corte di Cassazione ha affermato che L’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di
giustizia, ha efficacia “ultra partes”, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in
sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto
comunitario, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il
significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito della Comunità (Cass., n.
22577 del 2012).
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per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il
contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e
giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.
Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2
quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano
giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati
e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo
svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e
l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in
via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia
minorile.
Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2
quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano
giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati
e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo
svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e
l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in
via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia
minorile. Le tutele, come si è detto, sono quelle del d.lgs 286 del 1998, con la
previsione tentativo di conciliazione, con semplificazione dell’onere della prova per la
vittima della discriminazione. L’art. 4, comma 4, del d.lgs n. 216 del 2003 come, già
l’art. 4, comma 3 del d.lgs. 215 del 2003 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la
parita’ di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica),
prevede un più favorevole riparto dell’onere della prova “Il ricorrente, al fine di
dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno,
puo’ dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini
gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo
comma, del codice civile”.
Con il d.lgs n. 145 del 2005 (Attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di
parità di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l’accesso al lavoro,
alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro), sono state
modificate la legge n. 903 del 1977 e la legge n. 125 del 1991, integrando la nozione di
discriminazione
e prevedendo come discriminazione indiretta “quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in
una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che
riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché
l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari”.
Proprio la pluralità di fonti alle quali si è fatto cenno ha determinato l’adozione
del d.lgs. n. 198 del 2006 che reca il Codice della pari opportunità tra uomo e donna.
Il Codice è stato poi in parte innovato dal d.lgs. 5/2010 adottato in attuazione
della direttiva 2006/54 della Commissione europea . La nozione di discriminazione è
stata estesa ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza,
nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e
dell’esercizio dei relativi diritti.
Si è quindi giunti al testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela
e sostegno della maternità e paternità (d.lgs. n. 151 del 2001).
6. Dopo questo excursus dobbiamo tornare alla legge n. 92 del 2012, poiché
come abbiamo visto il licenziamento discriminatorio è espressamente contemplato con
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la tutela della reintegra che opera in ogni caso indipendentemente dal numero di
lavoratori addetti all’impresa e dal motivo formalmente addotto dal datore di lavoro.
Naturalmente questo punto richiede una valutazione accurata perché bisogna
verificare se il datore di lavoro non abbia usato una ragione oggettiva (come quella
tecnico organizzativa) per celare ragioni discriminatorie, in quanto fondate sulla
diversità del singolo soggetto che ha subito il licenziamento. In proposito è fatta salva la
facoltà del lavoratore di provare la natura discriminatoria del licenziamento13.
I) La Prova della discriminazione
1. Nel nuovo quadro normativo, nell’ottica del lavoratore, la dimostrazione della
discriminatorietà del licenziamento assume un rilievo fondamentale.
Centrale è il tema dell’onere probatorio, soprattutto se si considera che il
principio affermato in tema di licenziamento, secondo il quale l’onere della prova del
carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore,
con la conseguenza che il lavoratore che in sede di legittimità censuri la sentenza di
merito per aver negato il carattere ritorsivo del licenziamento adottato dal datore di
lavoro, ha l’onere di non limitarsi a dedurre la mancata considerazione da parte del
giudice di merito di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma di
indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità fra le
circostanze asseritamente non valutate e l’asserito intento ritorsivo del datore di lavoro
(Cass., n. 10047 del 2004, cui adde Cass., n. 3986 del 2015 secondo cui non può
considerarsi ritorsivo un licenziamento palesement ,anche se erroneamente, basato
sull’inosservanza di direttive aziendali, qualora manchi la prova, il cui onere incombe
sul lavoratore, della sussistenza di un motivo illecito determinante.
Ricordo, però anche l’orientamento (Cass., n. 6501 del 2013) secondo cui
l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento
intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della
legge 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del
recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul
lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico
e determinante del recesso.
2. Voglio però ricordare l’art. 8 della direttiva 2000/43 CE e l’art. 10 della
direttiva quadro 2000/78/CE che assicurano a chi si afferma discriminato un peculiare
regime dell’onere della prova.
L’art. 10
afferma “Gli Stati membri prendono le misure necessarie,
conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone
che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della
parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente,
fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta,
incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della
parità di trattamento” (casi Danfoss sentenza del 17 ottobre 1989, causa C-109/8814, ed
Enderby).
13
L'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera
il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l'esistenza
della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno
apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque,
l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Cass., n. 6501 del 2013.
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Afferma la sentenza “Stando così le cose, si debbono risolvere le questioni 1 a) e 3 a) dichiarando che
la direttiva sulla parità delle retribuzioni va interpretata nel senso che, qualora un'impresa applichi un
sistema di retribuzione caratterizzato da una totale mancanza di trasparenza, il datore di lavoro ha l'onere
di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri,
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3. La Corte di Giustizia ha, altresì, affermato (sentenza resa nel procedimento
C-303/06, Coleman) Le norme in materia di onere della prova devono essere adattate
quando vi sia una presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si
verifichi, l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiede che
l’onere della prova sia posto a carico del convenuto. Non incombe tuttavia al convenuto
provare la religione di appartenenza, le convinzioni personali, la presenza di un
handicap, l’età o l’orientamento sessuale dell’attore .
La richiamata disciplina dell’onere della prova, adottata anche in altre direttive
successive in materia di parità tra i generi, trae origine dalle statuizioni affermate dalla
Corte di Giustizia nei leading cases, richiamati sopra, Danfoss e Enderby, e muove, da
un lato, dall’esigenza di garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria, dall’altra
dalla constatazione di una <<differenza fattuale nella posizione iniziale delle parti
interessate>> a detta tutela, giacché chi denuncia un trattamento diverso e
discriminatorio non ha di regola <<accesso a dati sufficienti a consentirgli di
identificare le cause di una disparità di trattamento>>. Come si è osservato,
l’accertamento di una discriminazione implica, non semplicemente la verifica
dell’esistenza in fatto di una differenziazione nel trattamento di soggetti diversi, ed in
ipotesi dell’applicazione ad uno dei due di un trattamento deteriore, bensì la prova della
riferibilità della differenza ad un fattore di discriminazione, id est ad una delle
caratteristiche protette (età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni
religiose o personale, origine etnica come indicate riassuntivamente nella direttiva
quadro 2000/78/CE), poiché la specifica complessità della prova della discriminazione
consiste precisamente nella dimostrazione della natura illecita di una differenziazione.
In tale spazio elaborativo opera la presunzione di cui alla direttiva, che facilita il
ricorrente nella dimostrazione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e
fattore di discriminazione, una volta che egli abbia provato l’esistenza in fatto del
trattamento differenziato rispetto ad un termine di comparazione da lui indicato.
Dimostrata dall’attore l’esistenza di un trattamento differenziato in suo danno
rispetto al tertium comparationis (un soggetto ritenuto comparabile rispetto al quale non
si dia il fattore di protezione che si assume leso), spetterà al convenuto di provare
l’inesistenza della discriminazione, e quindi di allegare e dimostrare fatti specifici,
obiettivamente verificabili, dai quali sia desumibile l’esistenza di una ragione non
discriminatoria del trattamento differenziato alternativa a quella normativamente
presunta.
Tale regime giuridico è vincolante nel nostro ordinamento ed è richiamato dalla
disciplina in materia di discriminazione (il testo dell’art. 4, comma 3, del d. lgs. 215 del
2003 prevede: «Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di
carattere statistico, idonei a fiondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione
dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere
di provare l’insussistenza della discriminazione), c’è da chiedersi se può trovare
applicazione anche in caso di licenziamento discriminatorio, indipendentemente dal rito
promosso e cioè nelle forme diverse da quelle dell’art. 28 del d.lvo 150/2011.
L) Il giudizio di uguaglianza e non discriminazione
Provo a delineare un percorso:
1) individuazione dei termini del confronto implicito nel giudizio di eguaglianza,
al fine di mettere a fuoco tra quali situazioni si ponga la distinzione, ossia la
discriminazione denunciata.
su un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso
femminile è inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile.
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Occorre quindi verificare se le situazioni poste a confronto siano analoghe o
diverse, in ragione delle circostanze di fatto e di diritto
2) Una volta verificato che le situazioni poste a confronto sono simili, è
necessario vagliare se la differenziazione dei trattamento risponda ad una ragione
giustificatrice secondo quanto previsto dal legislatore.
3)
giudizio di proporzionalità per valutare il corretto bilanciamento degli
interessi, meritevoli di tutela, che vengono in rilievo.
M) Il Licenziamento nullo
Contigua alla ipotesi del licenziamento discriminatorio è quella del
licenziamento nullo perché determinato da un motivo illecito determinante ai sensi
dell’art. 1345 cc, alla quale pure si applica il regime della tutela reintegratoria piena. Il
motivo illecito inficia il recesso indipendentemente dal motivo formalmente addotto dal
datore di lavoro. Si tratta di un’applicazione dell’art. 1345 che prevede che il contratto
è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un
motivo illecito comune ad entrambe, disposizione applicabile anche agli atti negoziali
unilaterali. In vero il primo comma del novellato art. 18 non si limita ad un mero
richiamo dell’art. 1345 cc, ma richiede che il motivo sia determinante, laddove la
disposizione codicistica prescrive che il motivo, perché eccezionalmente rilevi per il
contratto, deve essere esclusivo e comune alle parti. La qualificazione di determinante
del motivo illecito comporta che deve risultare provato che il licenziamento non sarebbe
stato intimato se non ci fosse stato tale motivo; il quale risulta essere la reale ragione
del recesso, la vera causa unica del licenziamento che può essere dedotta dal lavoratore
come vizio di nullità del recesso indipendentemente dal motivo formalmente addotto dal
datore di lavoro (Amoroso).
Qualora il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo agisca in
giudizio, chiedendo di essere reintegrato in virtù del fatto che il recesso deve ritenersi
nullo per la sussistenza di un motivo illecito determinante (ad esempio ritorsione della
società per il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere una lettera di dimissioni), occorre
chiarire se per evitare che la disciplina del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo sia sempre ed in ogni caso assorbita da quella per licenziamento nullo, il
licenziamento può considerarsi nullo «soltanto quando il motivo discriminatorio o
ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso ai sensi del
combinato disposto degli artt. 1418 comma 2, 1345 e 1324 c.c.».
Il problema, a mio avviso, si intreccia con art. 30 della legge 183 del 2010 cd.
collegato lavoro, come mod. art. 1, comma 43 legge 92 del 2012, che ha aggiunto
l’ultimo periodo, e il cui testo sancisce :« In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge
nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63,
comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali,
ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei
poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato
esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento
del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle
valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al
committente. L’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia
di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che
competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di
norme di diritto».
Irene Tricomi
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