Salute e medicina di genere

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Salute e medicina di genere
ISSN 0392-4505
Anno XXXII - Settembe-Ottobre 2011
Rivista bimestrale
di politica sociosanitaria
Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria
Salute e Medicina
di genere
Salute e Territorio - Registrazione al Tribunale di Firenze n. 2582 del 17/05/1977
Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - Regime libero - 70% - CNS/CBPA - CENTRO 1
Una filosofia “per” la Medicina
Patient satisfaction
Lo sviluppo di una nuova governance
Settembre-Ottobre 2011
E 15,00
188
Presentazione
Le diseguaglianze
Epidemiologia delle differenze
Malattie cardiovascolari
Oncologia al femminile
Sex-gender pharmacology
Salute e sicurezza sul lavoro
La violenza esercitata sulle donne
La specificità del disagio psicologico
La prospettiva ospedaliera di genere
Esiste il nursing di genere?
Organizzazioni sanitarie e salute di genere
Contributi
Monografia
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Territorio
Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Francesco Carnevale
Bruno Cravedi
Laura D’Addio
Gian Paolo Donzelli
Claudio Galanti
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Benedetta Novelli
Mariella Orsi
Daniela Papini
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
Comitato Editoriale
Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina
e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze
Mario Del Vecchio, Professore Associato Università
degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi
Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi
e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze
Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria - FORMAS
188 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
Anno XXXII - Settembre-Ottobre 2011
Sommario
258
I. Cavicchi
Una filosofia “per” la Medicina
265
A. Marcon, F. Bravi, D. Tedesco, Patient satisfaction
D. Gibertoni, T. Carradori,
M.P. Fantini
270
S. Bernardini, C. Catalani,
S. Fini
Lo sviluppo di una nuova governance
Monografia
Salute e Medicina di genere
277
L. Turco
Presentazione
278
L. Canavacci
Le diseguaglianze
282
F. Cipriani
Epidemiologia delle differenze
Segreteria di redazione
Simonetta Piazzesi
349/4972131
286
A. Zuppiroli
Malattie cardiovascolari
291
L. Fioretto, F. Martella,
A.S. Ribecco
Oncologia al femminile
Segreteria informatica
Marco Ramacciotti
295
F. Franconi, A. Sassu,
S. Occhioni, I. Campesi
Sex-gender pharmacology
Direzione, Redazione
[email protected]
http://www.salute.toscana.it
298
D. Scala
Salute e sicurezza sul lavoro
302
V. Dubini
La violenza esercitata sulle donne
Edizioni ETS s.r.l.
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158
[email protected]
www.edizioniets.com
307
P. Trotta
La specificità del disagio psicologico
311
C. Capanni
La prospettiva ospedaliera di genere
313
P. Mondini, C. Braschi
Esiste il nursing di genere?
Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 ottobre 2011
316
L. Turco, A. Bassetti,
A. Mannocci
Organizzazioni sanitarie e salute
di genere
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€ 50,00
Estero € 60,00
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Territorio
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Ivan Cavicchi
Docente Organizzazione
sanitaria di Filosofia
della Medicina,
Università Tor Vergata, Roma
N
on so se è “politically
correct” iniziare un discorso da un ricordo
personale. Si da il caso che vi
siano certi “insignificanti
episodi” che, non si sa perché, restano nella memoria
come se fossero chissà quali
esperienze. Evidentemente
non sono così insignificanti
come si pensa. Anni fa dirigevo una bella rivista che si occupava dei problemi della Medicina e che tentava di affrontarli studiandoli da più
punti di vista, etico, scientifico, economico. Si chiamava
Keiron. In un suo numero decisi di affrontare la delicata
questione “dell’evidenza”. Era
il tempo in cui l’EBM impazzava come l’ultima delle verità infrangibili. Ai miei occhi
si trattava di un fenomeno da
approfondire, in quanto mi
colpiva come esso contrastasse con un secolo, che si era
appena chiuso, all’insegna di
grandi dubbi proprio sulle verità infrangibili e sulle verità
apodittiche, quali le evidenze. Fu questa ragione che mi
indusse a dedicare “all’evidenza” prima un libro “La
Medicina della scelta” (Cavicchi 2000) poi successivamente, un numero di Keiron. Ne
vennero fuori critiche a non
finire. Soprattutto da parte
degli epidemiologi. Per loro
era incomprensibile dire che
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Una filosofia
“per” la Medicina
l’evidenza supposta come verità infrangibile era frangibile
come qualsiasi verità statistica. Devo dire che il tempo ha
finito da “galantuomo” quale
in genere esso è, per dare ragione ai miei dubbi. Oggi l’evidenza non è più considerata una verità infrangibile. Ma
in quegli anni la comunità
medico-scientifica la pensava
in modo diverso. In “Medicina della scelta” avevo ricordato il ’600, il secolo del Barocco ossessionato in tutti i
settori sociali dall’evidenza,
dall’ostensione della verità, e
dalla ricerca della “sensata
certitudo”, ma che con l’Illuminismo andò praticamente
in frantumi, fino a costringere Diderot e D’Alembert a rubricare, nella loro celebre enciclopedia, l’evidenza, come
una complessa categoria della metafisica. Oggi in Medicina è accaduto più o meno la
stessa cosa:l’evidenza da caposaldo di una certa idea di
scienza, usata per combattere
sprechi, inutilità, arbitrarietà, abusi, ma soprattutto
per garantire risparmi, ha
inevitabilmente manifestato i
suoi limiti metafisici in quanto, quale verità assoluta, alla
prova dei fatti non ha retto.
Che cosa è lo scientismo?
È l’atteggiamento di chi considera la scienza come unica
Le sfide da affrontare per il superamento
dello scientismo
forma valida di sapere e quindi superiore a qualsiasi altra
forma di conoscenza, in grado di fornire all’uomo un sapere completo appagandone
tutti i bisogni anche quelli
spirituali, etici, culturali, sociali. Lo scientismo, storicamente, è maturato nel clima
del positivismo ottocentesco
e con esso dissoltosi, conoscendo più tardi, una sorta di
revival con il neopositivismo
per poi entrare nuovamente
in crisi con l’epistemologia
post-positivista. Oggi in Medicina il vero problema costituito dallo scientismo è il suo
anacronismo cioè l’essere un
pensiero fuori tempo come
un rottame di altre epoche.
In Medicina forme di scientismo sono il biologismo, il determinismo, il meccanicismo,
il fisicismo, il naturismo, il
clinicismo, il molecolarismo,
il genetismo, il proceduralismo ecc. Queste conoscenze
scientifiche che in quanto tali hanno un enorme valore,
quando diventano “ismi” cioè
“visioni del mondo” diventano un grande problema. Oggi
in Medicina proprio per limitare i danni dello scientismo
non facciamo altro che appic-
cicare un prefisso dietro l’altro:paradigma bio-psico-sociale, oppure bio-etico-sociale, ecc a indicare una complessità che oggettivamente
sfugge al riduzionismo dello
scientista. L’anacronismo dello scientismo consiste, davanti a intricate complessità
di proporsi non come una
“soluzioni sbagliata” ma come una “non-soluzione”. I
custodi della scienza, non
propongono mai soluzioni.
Nella seconda metà del XIX
secolo, fino ai primi decenni
del XX, il termine “scientismo” era addirittura assunto
con orgoglio. Ma oggi non è
più così. Ho sempre pensato e
continuo a pensare che gli
scientisti, diversamente dagli
scienziati non abbiano un
proprio pensiero, ma rappresentino ciò che gli inglesi
chiamerebbero expertise, cioè
una conoscenza di settore,
quella che, a torto o a ragione, li autorizza a rilasciare discutibili certificati di autenticazione circa ciò che è
scientifico e circa ciò che non
lo è. Gli scientisti non hanno
Albi professionali, né Ordini o
Collegi, ma si comportano come se la scienza fosse un par-
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tito al quale essi sono iscritti.
In questo multiforme partito
virtuale gli scientisti sarebbero l’ala dura, estremista, radicale. Cioè dei veri massimalisti. Anch’io e molti altri, che
come me portano avanti da
anni un progetto di rinnovamento della Medicina, sono
iscritti al partito della scienza, ma le mie critiche allo
scientismo non depongono
contro la scienza ma al contrario sono pensate in favore
della scienza. Chi mistifica
questo è a disagio per problemi suoi e sospetto con un
zinzino di malafede. In tempi
davvero non sospetti (Cavicchi 2004), ho confutato a
Corbellini la rigidità eccessiva delle sue tesi. Per esempio
nel saggio “Filosofia della
Medicina” (Corbellini 2003),
egli ripropone la vecchia idea
di “filosofia della Medicina”
cioè qualcosa che si limiti ad
illustrare la razionalità medica in tutte le sue forme, prigioniero, senza saperlo, di un
ortodossismo lontanissimo
mille anni luce da quello che
sta accadendo fuori e dentro
la Medicina, ignaro del tutto
della crisi che sta vivendo
proprio la Medicina scientifica. Comprendo quindi che di
fronte alla mia proposta di
voltare pagina, egli deve essersi sentito quanto meno delegittimato. In un articolo
“La Biomedicina non ha la
Bioetica che si meriterebbe”
(Corbellini 2004), egli dà per
scontato un mucchio di cose.
Per esempio riduce la filosofia a Bioetica, è convinto che
la Medicina debba essere solo
Biomedicina ignorando che
un’intera società chiede, come dicevo prima, un mucchio
di prefissoidi di altro tipo e
quindi dà per scontato che
l’unica filosofia per la Medicina debba essere la Bioetica, o
meglio la Bioetica scientista
cioè una fede incontrastata
nella scienza. Oltre il bioorizzonte lo scientista non
ammette altro. Per uno come
me che vive tutti i giorni, da
dentro, i problemi della Medicina, degli operatori, dei malati, da svariati decenni, è risibile ricondurre le grandi
aporie della Medicina contemporanea alla bio-etica e
allo scientismo. In Medicina,
a partire dagli anni ’80, la
Bioetica, come ho già spiegato (Cavicchi 2004), è apparsa
come una forma di scientificizzazione della filosofia ma
in funzione dell’esclusione
della filosofia. Agli scientisti
come Corbellini, non sembrava vero poter riattualizzare i
vecchi precetti della Medicina sperimentale, per ridefinire la Medicina come bioscienza con una propria bioetica. In una società in tumulto, traversata da profondi
cambiamenti, dentro transiti
epocali, quindi per certi versi
instabile e transeunte, alla
domanda di cambiamento sociale lo scientismo medico rispondeva con le bio-verità.
In questo contesto si comprende perché l’EBM abbia
avuto un così grande successo. Alla società che avanza
dubbi e perplessità nei confronti della Medicina, gli
scientisti attraverso la Statistica, l’Epidemiologia, la
Bioetica laica, rispondono, ai
nuovi bisogni sociali dell’esigente (non più paziente) riproponendo il valore apodittico della scienza senza “se e
senza ma”, cioè con un solo
prefisso “bio” (Cavicchi 2000).
Nel frattempo un pezzo consistente di società ricorre
sempre più alle Medicine
complementari, un altro pezzo al contenzioso legale, la
stragrande maggioranza dei
medici si rifugia nella Medicina difensivistica, si afferma
una clinica opportunistica
cioè un procedularismo senza
metodologia; le restrizioni
economiche imposte alla Sanità condizionano sempre
più l’atto clinico, fraintesi
aziendalismi fanno dell’etica
una variabile dipendente della parità di bilancio. Insomma un bel casino.
Scientismo: il lato debole
dell’ortodossia
Oggi la Medicina è spaesata,
in mezzo, tra società ed economia, è come in surplace,
cioè bloccata sulla pista.
Sembra che non abbia alcuna
voglia di ripensarsi dando addirittura l’impressione di resistere al cambiamento. Gli
scientisti è come se fossero
“in difesa”. Non a caso il termine che in certi ambienti è
stato proposto è quello di
“resilienza” ovvero una metafora ripresa dalla fisica
meccanica e che riguarda la
capacità dei metalli di resistere agli urti. La Medicina
deve essere resiliente, cioè
resistere agli urti dell’economia, del contenzioso legale,
della delegittimazione sociale, a costo di diventare una
gigantesca “Medicina difensivistica”. Gli scientisti non si
rendono conto di questo pericolo e si dimostrano indisponibili ai ripensamenti ma non
per cattiveria, in realtà essi a
ben vedere si sforzano di essere conformi alla tradizione
scientifica. Cioè essi sono
niente più e niente meno che
dei rigidi ortodossi.
Per ortodossia, in generale, si
intende la “retta credenza”,
la conformità alle verità che
reggono e dirigono, nel caso
della Medicina, la sua opera.
Essa è la garanzia che obbliga
la Medicina a funzionare
conformemente ai suoi principi fondativi, di non sgarrare
dalle regole ma anche di non
cambiare, se le regole, per
una ragione o per l’altra, non
dovessero funzionare più.
L’ortodossia degli scientisti è
apologetica con il fine di
provare la perfezione e la verità della scienza contro le
dottrine avversarie e i contesti che provano a cambiarla.
Per esempio gli argomenti
della Medicina scientifica
contro le Medicine non convenzionali sono in larga parte apologetici, come quelli
contro l’invadenza dell’economia aziendale.
L’ortodossia si oppone al cambiamento non tanto perché
deve dimostrare le sue verità,
che per essa sono già dimostrate, ma perché, dentro una
continua competizione di
idee e di spinte al cambiamento, essa deve amministrare le sue verità e difenderle
nel modo più vantaggioso.
L’uso competitivo dell’apologetica avviene, in genere, con
il ricorso a inattaccabili argomenti scientifici, con la veste
apparentemente rigorosa della correttezza e del rispetto,
ma in realtà essa non esita ad
avvalersi dei poteri di cui dispone, delle rendite di posizioni, delle relazioni privilegiate, degli interessi consolidati, dei giornali sui quali
scrive.
L’ortodossia non tutela solo le
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proprie verità ma anche i legittimi sistemi di interessi
che quelle verità hanno sancito e che rischiano di venire
meno con il cambiamento o
quantomeno di declinare rispetto a nuovi scenari. Dire,
come nel mio caso che serve
una filosofia “per”la Medicina
significa dire che la filosofia
“della” Medicina è quanto
meno insufficiente. Questo
non può far piacere a coloro
che grazie alla “filosofia della
Medicina” si sono, come si
suol dire, “ritagliati un ruolo”. Però nel momento in cui
lo scientismo diventa una banalissima difesa di interessi
l’apologetica degenera in
conservatorismo.
L’intransigenza dello scientismo
“Gli scientisti sono, tutto
sommato, degli intransigenti
nel senso letterale del termine cioè che non sono capaci
di giungere ad una transazione” (v. transigere). Essi oggi
sono un grande problema
perché oggi si ha bisogno di
transigere, cioè di intese e di
accordi sociali.
Proprio perché intransigente
lo scientismo ha un carattere
impositivo, rispetto ad una
società che al contrario vorrebbe una Medicina diversa.
Oggi nel campo della Medcina
niente può essere imposto ad
una società che non corrisponda ai suoi bisogni. E se si
forza la mano sono dolori.
Non si tratta di rinunciare alla fondazione razionale della
scienza medica ma di comprendere i grandi problemi
che, un certo tipo di Medicina, ha nei confronti di una
società segnata da grandi
cambiamenti.
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Una Medicina da ripensare
Ormai la pretesa dello scientismo di delineare una ragione
scientifica, che stabilisca autonomamente le condizioni
di possibilità della Medicina,
è implausibile. Oggi la società
e l’economia, per ragioni diverse, hanno adottato nei
suoi confronti, atteggiamenti
di aperta confutazione.
Quindi è evidente l’incapacità
degli scientisti di dialogare
con la propria società di riferimento. Il loro linguaggio
non è per nulla riferito ai malati e ai cittadini di questa
società, meno che mai ai suoi
problemi economici. L’unica
eccezione sono certi medici
illustri quando a loro volta si
ammalano, e che raccontano
nei loro libri la loro esperienza di malati, dimostrando da
malati quanto essi siano stati
da medici scientisti. È significativo che un medico per riuscire a fare una critica al suo
scientismo debba diventare
un malato. Come se essere
medici obbligasse ad essere
scientisti ed essere malati obbligasse ad essere relativisti.
Questa contrapposizione è assurda. Da medici si è convinti
che la ragione medica sia “a
priori” cioè indipendente dai
malati e dalle risorse disponibili. Da malati ex-medici la
ragione medica crolla sotto il
peso della condizione disumana della malattia.
Lo scientismo interpreta, attraverso la ragione medica, il
mondo della malattia incurante che le sue concezioni
siano palesemente incongrue
rispetto a quelle sociali. La
ragione medica, oggi, pur
avendo goduto di uno straordinario sviluppo scientifico,
resta ancorata ad un pensiero
tardo ottocentesco che, nei
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suoi fondamenti, non è mai
stato seriamente ripensato.
Oggi le “responsabilità”della
Medicina, non sono tanto
nelle sue difficoltà a rispondere agli spiazzamenti del
cambiamento ma, soprattutto, sono nell’aver accumulato
ritardi su ritardi circa gli adeguamenti che sarebbero stati
necessari nel corso del tempo,
a causa soprattutto di uno
scientismo intransigente. Lo
scientismo oggi è in contrasto
con l’attualità. Questo ha costi etici, sociali e economici
tutt’altro che trascurabili.
L’Università tra conservazione e cambiamento
L’ortodossia degli scientisti è
qualcosa di ambivalente: è un
disvalore perchè ostacola il
cambiamento, nello stesso
tempo è il valore disponibile,
dal cui nucleo di fondo non si
può prescindere. Le idee per
ripensare la Medicina, non
sono ricavabili da un modello
altro di Medicina ma dai limiti e dai problemi della sua ortodossia. Verrebbe da dire che
oggi più che cambiare la Medicina si tratta di ripensarne
l’ortodossia. Lo scientismo
quindi è una patologia dell’ortodossia. La forza dello
scientismo medico in questi
anni è stata tale da neutralizzare spesso importanti tentativi di innovazione. È accaduto con la qualità, la complessità, l’evidenza, la narrazione,
la centralità del malato, la relazione terapeutica, le teorie
del nursing, l’errore, il rischio, l’immissione di nuove
tecnologie, (per citare gli argomenti più comuni dei dibattiti). Tali questioni, pur
rappresentando notevoli potenziali di ripensamento, non
sono in realtà riuscite a mettere seriamente in discussione lo scientismo prevalente.
La qualità, ad esempio, è stata ridotta a linee guida, la
complessità banalizzata e immiserita a logiche lineari,
l’errore spiegato con difetti
dell’organizzazione, la relazione ad amabilità ecc. Le Facoltà di Medicina spesso sono
additate come la causa di tutto ciò perché sono inevitabilmente considerate come le
case dell’ortodossia e dello
scientismo. Esse si avvalgono
naturalmente di professori
ortodossi cioè giustamente
conformi ai programmi didattici ed hanno il dovere di insegnare l’ortodossia e lo
scientismo in tutti i suoi
aspetti disciplinari. La famosa
tabella 18 è la prova che le
Facoltà di Medicina insegnano ad essere soprattutto
scientisti. Quello dell’Università non è un discorso semplice. Ripensare la ragione medica non è solo una questione
di programmi ma di decidere
prima a quale paradigma medico i programmi devono ispirarsi. Ha senso introdurre
nuovi insegnamenti, nuove
mentalità didattiche, se vi è
un accordo su come ripensare
la Medicina. Tale accordo non
è delegabile all’Università. È
una questione politica e culturale allo stesso tempo che
deve coinvolgere i tanti soggetti circoscritti dalla nozione di Medicina e non solo.
L’Università, certamente non
è scevra da responsabilità, ma
fino a quando non si deciderà
di ridiscutere la Medicina, essa non può che attenersi alla
tabella 18, anche se è platealmente scientista. Forse una
critica ragionevole che si può
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Una Medicina da ripensare
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avanzare all’Università è di
non fare abbastanza per promuovere questo ripensamento, e di avere poche idee in
proposito. In fin dei conti
un’istituzione come l’Università non può restare indifferente a quello che bolle in
pentola. Il ripensamento più
importante al quale l’Università, dovrebbe porre mano è
proprio un ridimensionamento del suo scientismo. Per me
la Medicina ha bisogno di una
nuova base filosofica, cioè di
un nuovo “pensiero primo”da
cui ricavare un apparato concettuale più adeguato.
Oggi la Medicina ha un aspetto paradossale:nonostante il
suo inestimabile valore etico
e scientifico, appare, alla società attuale, per molti versi
inadeguata e, all’economia,
eccessivamente costosa.
Inadeguata perchè essa continua a limitarsi a curare
maggiormente corpi malati
anzichè persone malate. Costosa perchè crescono le ragioni del risparmio.
Servirebbe, quindi, un’idea
di Medicina sensibile alle
questioni filosofiche e a
quelle economiche, idea non
facile da digerire per nessuno. Digerire un bisogno di filosofia e digerire l’ingerenza
dell’economia non è facile.
Fino a quando i malati sono
stati docili “pazienti” e i costi delle cure sono stati bassi, la Medicina non è mai
stata un problema, ma da
quando essa è entrata nel
post-welfarismo ed è a carico
della fiscalità, essa è sempre
più in discussione.
Una cosa è certa: i vecchi
equilibri novecenteschi tra
etica e economia oggi sono
saltati e non solo in Medici-
na. Bisogna quindi trovarne
di nuovi e di più efficaci.
La Medicina nel post-welfarismo
Uno dei problemi più inquietanti della Medicina oggi, del
tutto ignorato dallo scientismo, è quindi il post-welfarismo. Con questa espressione
si possono indicare due interpretazioni diverse:
– Una situazione negativa,
di sgretolamento dei valori, che viene semplicemente dopo il welfarismo del
’900, quindi dopo la conquista dei diritti, le lotte
per l’emancipazione di tutto l’emancipabile, la riforma sanitaria, il servizio sanitario pubblico ecc.
– Una situazione positiva
nella quale il welfarismo è
ripensato, nelle sue forme,
nella sua organizzazione,
nella sua spesa, nella sua
Medicina scientifica ma a
parità di valori di riferimento, quindi senza rinunciare né all’universalismo, né alla solidarietà, e
ne ai diritti e neanche alla
scientificità, nel tentativo
soprattutto di risolvere le
contraddizioni che riguardano le embricazioni strette tra etica scienza ed economia.
La Medicina oggi si trova
esattamente come l’asino di
Buridano tra questi due
“mucchi di fieno”. ”Una filosofia per la Medicina” (Cavicchi 2011) è il tentativo di rifiutare il post-welfarismo come decadenza contrapponendogli una Medicina ripensata,
cioè adeguata al proprio tempo. Le grandi manovre finanziarie che tutta l’Europa ha
messo in campo sono tutte
orientate a ridimensionare la
spesa pubblica, nella quale
gran parte è rappresentata
dalla Sanità e dalla Medicina,
questi “tagli” sono irreversibili, cioè senza la possibilità
di un ritorno indietro, essi
sanciscono un passaggio d’epoca, perché non sono i soliti
“taglietti” che abbiamo avuto
in questi anni, ma sono delle
“amputazioni” che mettono
in discussione l’integrità financo dei paradigmi, cioè
delle basi fondative della Medicina stessa. Per cui la Medicina oggi può scegliere:
– O si rassegna ad una lenta
agonia accettando di essere sempre più burocratizzata e minimizzata e quindi facendosi sempre più
condizionare dal limite
economico.
– O cambia ridefinendosi
dentro le nuove sfide del
post-welfarismo.
Il dilemma è reso acuto anche
da grandi inadempienze. Nei
confronti soprattutto della
Medicina, settore mai veramente riformato, (diversamente dalla Sanità che in
trent’anni ha fatto ben 5
riforme), si può parlare di
riformismo disatteso. Oggi
vengono molti dubbi sulla
plausibilità delle politiche
adottate in questi anni, nel
senso che viene il sospetto
che sia stato uno sbaglio accanirsi sulla organizzazione
della Sanità considerando la
Medicina come una invarianza. In molti erano convinti
che per affrontare il cambiamento, sarebbe bastato gestire meglio la Sanità, riorganizzare, razionalizzare, compatibilizzare. È stato uno sbaglio
rispondere ad un grande cambiamento sociale, economico
culturale, antropologico, come quello che si annunciava
tra gli anni ’60 e ’70, intervenendo solo sui “contenitori”,
quindi sulla Sanità e ignorando completamente i “contenuti”, quindi la Medicina. Negli anni ’90 ci si è di fatto invaghiti della svolta aziendalista, pensando all’Azienda come ad una panacea. Oggi le
promesse legate al gestionalismo dell’Azienda sono state
disattese, e la Medicina dentro l’Azienda sta deperendo
addirittura nei suoi valori più
sacri. Il guaio è che se una leva archimedea, come è stato il
gestionalismo, non è più efficace e non se ne ha un’altra di
riserva, si finisce con il credere che l’unica cosa che resta
da fare è rassegnarsi al proverbiale destino “cinico e baro”. L’Azienda, poveraccia,
con le condizioni date, ha fatto quello che poteva, ma alla
fine ha tradotto il bisogno di
cambiamento della società
tutta, in termini di limiti negativi, pur potendolo teoricamente interpretare in termini
di possibilità positive. In questi anni hanno vinto i limiti,
non le possibilità. Probabilmente avremmo dovuto esplicare fino in fondo la teoria del
cambiamento della riforma
del ’78. Quella riforma avrebbe dovuto estendersi alle facoltà di Medicina delle Università, al ripensamento di un
genere nuovo di operatore, al
ripensamento di una forma
post-tayloristica dei servizi,
ed altre cose ma soprattutto
avrebbe dovuto ripensare le
forme anacronistiche dello
scientismo medico. Ma niente
di ciò è avvenuto. In genere
quando si parla di Sanità si
sottolineano le criticità legate
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a quello che è stato fatto,
nessuno esamina le criticità
causate da quello che non è
stato fatto ma che si sarebbe
dovuto fare. Purtroppo le
omissioni non sono poche.
Oggi, si mettano l’anima in
pace gli scientisti, ma se vogliamo che il post-welfarismo
esprima una nuova teoria del
cambiamento sulla base di
una nuova alleanza tra diritti
e risorse, tra etica ed economia, tra etica e scienza, il ripensamento della Medicina
non è eludibile. Oggi milioni
di malati, in pieno post-welfarismo, cioè nel momento in
cui si rompe una storica alleanza tra etica ed economia,
chiedono alla Medicina di ridiscutersi, di ripensarsi, fino
a considerare la possibilità di
mettere mano a quella che
“Teoria”, la rivista di filosofia
diretta da Adriano Fabris, ha
chiamato “critica della ragione medica”. Non si tratta di rinunciare alla scienza, (come
potrebbe essere!), al contrario
si tratta di ribadirne il valore
riattualizzandola e ricontestualizzandola. È allo scientismo che si deve rinunciare,
ma non alla scienza.
In sintesi:
– La Medicina, in ragione di
tanti cambiamenti… limiti
di ogni tipo…, contraddizioni a non finire… pesanti problemi finanziari. ed
altro ancora… deve essere
ripensata.
– La ragione medica, cioè il
sistema di regole, criteri,
principi, norme che dirige
e sovraintende per intero
la pratica medica, è l’oggetto del ripensamento.
Tutte, ribadisco tutte, le
più spinose questioni in
Medicina, oggi, conduco-
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Una Medicina da ripensare
no, in un modo o nell’altro, a tale problematica.
– Anche se la questione del
ripensamento è chiara
quasi a tutti, da parecchi
anni, sino ad ora, poco o
nulla di significativo è stato fatto.
– Coloro che potrebbero fare
qualcosa è come se arretrassero davanti all’indicibile complessità della questione, e non sapendo dove mettere le mani tirano a
campare rimandando i problemi a chi verrà dopo.
– Che la Medicina non sia facile da ripensare, è vero. È
vero che le cose complesse
sono complesse, e che i limiti limitano… ma che ci
possiamo fare… la Medicina sulla propria complessità non fa sconti.
Dalla filosofia “della” Medicina alla filosofia “per”
la Medicina
L’ortodossia della ragione medica e quindi le ragioni dello
scientismo, oggi si possono
desumere:
1. Dall’insieme della conoscenza biologica della malattia.
2. Dalla metodologia che regola tale conoscenza.
3. Dall’etica o dalla deontologia che la sovraintende.
4. Dall’insieme delle prassi
che la mettono in atto.
Queste quattro grandi questioni sino ad ora sono state
descritte, dalla cosidetta “filosofia della Medicina”, un
discorso più che una disciplina accademica, e spesso relegata a pochi appassionati.
“Della” è una preposizione
articolata che indica, in modo
inequivocabile, che trattasi di
un pensiero di proprietà della
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Medicina, quale spiegazione
della propria ortodossia. In
questo senso ortodossia, ragione e razionalità, scientismo coincidono.
La “filosofia della Medicina”
almeno fino a questo momento ha svolto prevalentemente
compiti chiaramente “ortodossografici”. I filosofi della
Medicina sono per lo più medici o storici, cioè autori di
opere sui principi della razionalità medica.
I titoli delle loro opere sono
molto significativi:
– “Il procedimento clinico,
analisi logica di una diagnosi”.
– “Manuale di metodologia
clinica”.
– “La diagnosi clinica:principi metodologici del procedimento decisionale”.
– “I fondamenti del metodo
in Medicina clinica e sperimentale”.
– “Riflessioni metodologiche”.
– “Logica clinica”.
– “Epistemologia contemporanea e clinica medica”.
– “Elementi di logica medica” ecc.
Ragione, razionalità, logica,
procedimento, metodo in
questi titoli sono la base dell’ortodossia della ragione
medica ma anche del loro
scientismo.
Per ripensare tutto ciò oggi
abbiamo bisogno di un pensiero, di idee, di proposte, di
ipotesi di lavoro e per quanto
ad alcuni filosofi e ad alcuni
scientisti dispiacerà, dobbiamo renderci conto che:
1. È finito il tempo della “filosofia della medicina” attraverso la quale la Medicina orgogliosamente spiegava agli altri, il suo pen-
siero, il suo modo di curare, di diagnosticare, di
operare, di trattare le malattie, di ragionare.
2. È arrivato il momento di
una “filosofia per la Medicina” cioè di proporre alla
Medicina un pensiero nuovo, ascoltando le ragioni
degli altri, dei cittadini,
dei malati, di intere comunità, tenendo conto dei
cambiamenti culturali di
questa società, considerando le ragioni dell’economia che ormai contrappongono i diritti alla disponibilità delle risorse.
Ai filosofi della Medicina e
agli scientisti dico affettuosamente di aprire gli occhi: siamo nel tempo del post-welfarismo, quindi chiedo loro di
dare una mano per un ripensamento. La strada obbligata
è quella di ripensare la Medicina dentro una nuova relazione sociale semplicemente
facendo ricorso a quello che, i
post-positivisti, definiscono
il principio della meaning variance, cioè una situazione in
cui i significati, i concetti, le
categorie, dipendono anche
dal contesto teorico-sociale
ed economico in cui vengono
adoperati. Nessun concetto
della Medicina, oggi, può essere considerato come avente
lo stesso significato che aveva
alla sua nascita. Termini come “malattia”, “malato”, “cura” “causa”, “osservazione”
“trattamento”e tanti altri,
funzionano come termini
omofoni, cioè che hanno lo
stesso suono, ma con significati diversi se sono usati o dai
medici o dai cittadini, o nel
secondo millennio o nel terzo
millennio.
Ma ripensare la Medicina vale
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Una Medicina da ripensare
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anche come aggiornare una
“visione del mondo, quindi
adeguare la filosofia dalla
quale è nata, per ricavarne
un apparato concettuale più
coerente. Per tutto questo è
necessario interpretare il proprio tempo storico, la propria
società, le proprie possibilità
scientifiche e cercare un accordo sociale. Si tranquillizzino quindi gli scientisti ripensare la Medicina non vuol dire
rinunciare alla scienza, o diventare “relativisti”, come dice Corbellini, ma più semplicemente vuol dire rendere più
attuale la scienza.
Se gli scientisti non si prendono mai la responsabilità di
una proposta io che non sono
ne scientista, né relativista,
questa responsabilità me la
voglio prendere. Si tratta di
una responsabilità rispetto al
mio tempo storico e rispetto
alle convinzioni e agli ideali
ai quali sino ad ora mi sono
attenuto. Per cui propongo
un manifesto in 10 punti. Esso riassume quelli che secondo me dovrebbero essere i ripensamenti fondamentali a
cui porre mano.
Dieci ripensamenti: proposta per un manifesto
1. Attualità
A quale idea, valore, principio
deve riferirsi la ragione medica, per far sì che i suoi modi
di pensare, conoscere, operare siano coerenti con i bisogni che le vengono rivolti. Sino ad ora l’idea di riferimento
è stata la scientificità nei
confronti del mondo fisico
della malattia, quindi la razionalità della conoscenza,
oggi questo non basta più.
L’idea che contiene la complessità organica della malat-
tia, quella della persona malata, del contesto e della situazione in cui il malato si
trova, si chiama “attualità”.
Assumere il principio di attualità come riferimento generale della ragione medica è
il primo ripensamento.
2. Natura
In una concezione fisica, biologica, corporea della malattia, il riferimento principale
della ragione medica è la “natura”. Sino ad ora si è tentato
di sommare, a tale tradizionale concezione, altre concezioni sociali o psichiche o ambientali della malattia, oggi si
tratta di ridefinire alla base
tale idea e attualizzarla. Senza questo passaggio non si
potrà fare alcuna seria “umanizzazione”. Questo è il secondo importante ripensamento.
3. Malato, essere e persona
Nel momento in cui la malattia si esplica nell’attualità del
malato, la ragione medica si
deve ripensare rispetto alla
complessità del soggetto malato, inteso come essere e
persona. È il terzo grande ripensamento necessario.
4. Ontologia come conoscenza
Se la ragione medica non basta più per conoscere l’attualità del soggetto malato, quale altra conoscenza è possibile? L’unica possibile è quella
filosofica, cioè quella che si
incarica della riflessione, della comprensione, della ricerca
di tutto quanto concerne l’attualità dell’essere e della persona, oltre le sue implicazioni biologiche, dentro le relazioni, le contingenze e le
situazioni. Si tratta di un
genere di conoscenza non
nozionistica come quella
scientifica, ma orientata a
formare e a accrescere le sensibilità degli operatori, le loro
abilità, la loro perspicacia, le
loro virtù. Il quarto ripensamento riguarda quindi la definizione di un genere filosofico di conoscenza che affianchi, integri, rafforzi persino,
la conoscenza scientifica.
5. Relazione
Ma quale è il luogo, la circostanza, l’occasione, in cui conoscere l’attualità della persona malata, in cui servirsi
non solo dei vari saperi disponibili, ma da cui ricavare
delle conoscenze ontologiche? Tale luogo, circostanza,
occasione è la “relazione”
con il malato, al di fuori di
essa nessun tipo di ripensamento è possibile. Per la conoscenza biologica della malattia le relazioni non servono, ma per la conoscenza dell’attualità di una persona malata, sono indispensabili.
Questo è il quinto ripensamento fondamentale.
6. Linguaggio
Le persone nelle relazioni si
esprimono prima di tutto con
il linguaggio a partire dal
quale avviene il dialogo, la
comprensione reciproca, la
trasmissione delle conoscenze, l’espressione delle scelte e
delle esperienze. Il linguaggio è il primo importante riferimento della relazione, la
comunicazione è successiva.
Esso oltre alla sintomatologia
diventa l’altro oggetto di conoscenza della persona malata e dell’operatore. Questo
equivale ad un allargamento
della base conoscitiva della
ragione medica. La conoscen-
za nella relazione attraverso
il linguaggio è il sesto importante ripensamento.
7. Razionalità clinica
La conseguenza inevitabile
che deriva dai precedenti ripensamenti è il dover ripensare coerentemente, il caposaldo della ragione medica, vale
a dire la “razionalità clinica”.
La razionalità clinica resta la
base della conoscenza medica
ma va svecchiata. Rendere la
razionalità clinica la più adeguata nei confronti dell’attualità della persona malata e
della relazione con essa, è il
settimo ripensamento.
8. Razionalità ragionevole
Il risultato dell’accordo tra
razionalità medica, attualità,
relazione e contesti, è “la razionalità ragionevole”. Essa è
un modo di conoscere comunque rigoroso nelle sue logiche scientifiche, ma libero
da visioni assolute e dogmatiche. Essa è anche un particolare modo di “fare e agire”
pratico, concreto, realista,
pragmatico. L’ottavo ripensamento riguarda il modo di
usare praticamente il buon
senso.
9. Scelta
La razionalità ragionevole deve scegliere la cosa giusta da
fare rispetto all’attualità della persona malata. Come si
decide? Come si sceglie? Quale autonomia e quale responsabilità di chi decide? Sino ad
ora la scelta del medico o dell’infermiere, era come predecisa dalle regole metodologiche della clinica. L’assunzione dell’attualità impone per
forza che si scelga rispetto alla relazione e che a scegliere
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sia, da una parte il malato, e
dall’altra il medico. Ripensare
la scelta all’interno di un
orizzonte di codecisionalità è
il nono grande ripensamento.
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Una Medicina da ripensare
10. Limiti
La razionalità ragionevole
non sarebbe tale se non accettasse la realtà incontrovertibile dei suoi diversi limiti nei confronti dell’attualità,
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compresi quelli economici ai
quali la ragione medica sarà
sempre più esposta. Assumere il limite ma come una possibilità è il decimo fondamentale ripensamento.
A questo punto che la discussione abbia inizio, liberamente, onestamente, con convinzione, ricordando a tutti noi
che di tempo se ne è già perso tanto.
Bibliografia
Cavicchi I. (2004), Ripensare la medicina, restauri, reinterpretazioni,
aggiornamenti, Bollati Boringhieri, Torino.
Keiron, Evidence n. 4, settembre 2000.
Corbellini G. (2003), Filosofia della medicina, in N. Vassallo (a cura
di), Filosofie delle scienze, Einaudi, Torino.
Cavicchi I. (2000), La medicina della scelta, Bollati Boringhieri, Torino.
Corbellini G. (2011), Medicina relativa, no grazie, recensione, Il Sole
24 Ore, 24 luglio.
Corbellini G. (2004), La biomedicina non ha la bioetica che si meriterebbe, in Innovazione scientifica e welfare europeo. La questione delle biotecnologie, a cura della Fondazione Cespe, Editoriale il Ponte, Milano.
Cavicchi I. (2011), Filosofia per la medicina, Dedalo, Bari.
Critica della ragione medica, Teoria, XXXI/2011/1.
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La qualità relazionale
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Anna Marcon1
Francesca Bravi1,2
Dario Tedesco1
Dino Gibertoni1
Tiziano Carradori2
Maria Pia Fantini1
Patient satisfaction
1
Dipartimento di Medicina
e Sanità pubblica, Università
degli Studi, Bologna
2 Azienda USL, Ravenna
“Q
ualunque sia la
diagnosi, la prognosi, la risposta
alle terapie, non esistono tumori di scarsa rilevanza. Il
cancro rappresenta sempre,
per il paziente e per la sua
famiglia ma anche per i terapeuti, una prova esistenziale
sconvolgente. Questa prova
riguarda tutti gli aspetti della vita: il rapporto con il proprio corpo, il significato dato
alla sofferenza, alla malattia,
alla morte, così come le relazioni familiari, sociali, professionali” (1). Il trattamento, in quest’ottica, deve proporsi come obiettivi principali, oltre a quelli clinici
(quali guarigione, contenimento della malattia, riabilitazione), il miglioramento
della qualità della vita e la riduzione del rischio di conseguenze psicopatologiche tali
da condizionare la vita futura della persona con neoplasia. Su questa linea si muovono le conclusioni del documento presentato, su richiesta del National Institute of
Health (NIH), dall’Institute of
Medicine statunitense, in cui
si afferma che “non è oggi
più possibile valutare come
qualitativamente valide le
cure oncologiche che non affrontino i bisogni di salute
psicosociale”. A ciò fa eco il
documento del Council of the
European Union del 23 giugno 2008 che, affermando la
necessità di implementare
nella cura del cancro “un approccio comprensivo, interdisciplinare e psicosociale”
(art. 5), invita gli Stati membri dell’UE a considerare tra
le priorità in Oncologia l’attenzione ai bisogni psicosociali (art. 19). Letti in questi
termini, i diritti delle persone colpite da cancro non riguardano solo, come ribadito
in molti documenti, inclusa
la recente Declaration della
International Union Against
Cancer (UICC) o il Noncommunicable Diseases Action Plan
dell’OMS, l’accesso alle cure e
ai trattamenti oncologici, la
promozione dei comportamenti rivolti alla salute, il
potenziamento delle politiche di prevenzione e controllo, ma anche il diritto delle
persone colpite dal cancro ad
un’assistenza adeguata sul
versante psicosociale (2). Ma
quando e perché un tipo di
assistenza può essere definita adeguata? Per Cifaldi et al.
(3) “per offrire una buona assistenza sanitaria occorre tener conto del livello di soddisfazione dei pazienti (customer satisfaction) in termini
Dall’analisi della letteratura ad alcune
indicazioni di ricerca-azione in campo oncologico
di qualità percepita delle
prestazioni e di espressione
delle loro volontà: agli occhi
della collettività, il successo
della prestazione medica appare non solo come corretta
diagnosi ed adeguata terapia, bensì come la sommatoria di diversi fattori, quali
l’accoglienza alberghiera, la
competenza, l’umanità e la
comprensione da parte del
medico e dell’équipe assistenziale”. Dalla definizione
precedente emergono due costrutti principali, quello di
“qualità percepita” e di “soddisfazione dei pazienti”, che
sebbene siano spesso considerati sinonimi, presentano
una sostanziale differenza in
quanto la qualità è determinata dal rispetto di determinati requisiti tecnico-strutturali mentre la soddisfazione è data dalla coincidenza
tra le aspettative di qualità e
la relativa percezione da parte dell’utenza: paradossalmente può esistere un servizio di alta qualità che non
soddisfa il paziente, proprio
perché non corrisponde ai sui
reali bisogni (4).
Ad oggi sono ancora pochi gli
studi che hanno cercato di
esplorare i reali bisogni,
compreso il supporto psicologico delle persone con neoplasia e di verificare, di conseguenza, l’adeguatezza della risposta dei servizi sanitari
e delle associazioni (5) attive
in uno specifico territorio.
Nella maggior parte degli
studi, ci si è limitati alla rilevazione del grado di soddisfazione del paziente, che
per molti autori, già fornisce
“una valutazione della qualità della prestazione ricevuta” (4) e, di conseguenza, dà
un feedback agli operatori
sulla capacità dell’organizzazione di sintonizzarsi con i
bisogni del paziente (6). La
soddisfazione del paziente è
diventata quindi uno degli
obiettivi principali del sistema di cura tanto più che persone soddisfatte mostrano
una più alta compliance alla
terapia (7-8), una maggiore
cooperazione con il personale sanitario, migliori esiti di
salute e di qualità di vita
(QoL) (9-10) e tendono a riutilizzare gli stessi Ospedali/
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Servizi e a raccomandarli agli
altri (11-13). Una difficoltà
che si riscontra nel trarre
delle conclusioni dagli studi
sulla soddisfazione del paziente deriva dall’ampia eterogeneità dei contributi esistenti che si differenziano rispetto al tipo di neoplasia,
alla specificità della popolazione considerata (14) e ai
diversi strumenti di rilevazione utilizzati (15), fatta
eccezione per alcuni contributi in contesto europeo.
L’European Organization for
Research and Treatment of
Cancer (EORTC), organizzazione internazionale no-profit deputata allo sviluppo e
coordinamento della ricerca
clinica sul cancro nel territorio europeo, ha infatti messo
a punto e diffuso alcuni strumenti di rilevazione, validati
in più lingue, utilizzabili sul
territorio dell’UE al fine di
permettere dei confronti inter-nazionali; significativi a
riguardo sono il QLQC30 e il
IN-PATSAT32 (16-17) che rilevano rispettivamente la qualità di vita del paziente con
neoplasia e la qualità della
cura ricevuta durante la degenza ospedaliera.
Al di là di tali contributi, in
una recente revisione della
letteratura scientifica dal titolo Distribution and determinants of patient satisfaction
in oncology (14) è stata sottolineata la difficoltà a circoscrivere il significato semantico di “soddisfazione del paziente” e, di conseguenza, a
trarre delle considerazioni di
carattere generale.
Alla luce di queste criticità, il
presente studio si propone di
analizzare la letteratura
scientifica al fine di:
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La qualità relazionale
a) evidenziare il modo in cui
è stata concettualizzata la
patient satisfaction;
b) descrivere le differenze tra
i concetti di patient satisfaction e quality;
c) individuare classi semantiche (cluster) trasversali.
Metodologia
Per rispondere alle domande
di ricerca è stato strutturato
uno studio qualitativo testuale sugli abstract dei lavori, reperibili nella banca dati
MedLine al 5 marzo 2011.
Nello specifico sono stati selezionati i lavori che avevano
nel titolo la parola chiave
“patient satisfaction” e nell’abstract le parole “oncology
or cancer”. Ciò ha permesso di
selezionare i lavori che erano
direttamente ed esplicitamente centrati sul tema della
soddisfazione dei pazienti in
oncologia. L’analisi dei dati
testuali è stata effettuata
tramite il software T-LAB Pro
versione 4.1 (www.tlab.it),
che consente l’estrazione, la
comparazione e la mappatura
dei contenuti di dati testuali
(18). Il corpus, classificato in
base alla variabile anno di
pubblicazione, comprende
116 testi-abstract e un totale
di 30.986 occorrenze. Nell’analisi sono state considerate
le parole con una soglia di
frequenza N = 11 per un totale di N = 2.487 lemmi, ossia
insiemi di parole classificate
secondo i criteri linguistici
definiti dalla lemmatizzazione automatica, che di norma
comporta che le forme dei
verbi vengano ricondotte all’infinito presente (esempio
“lavorano” → “lavorare”),
quelle dei sostantivi e degli
aggettivi al maschile singola-
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re. Il corpus risultante è stato sottoposto ad analisi delle
associazioni di parole, per individuare la rete semantica
che gravita attorno a “patient satisfaction”. Come indice di associazione tra le parole è stato utilizzato il coefficiente del coseno (18). In seconda battuta, è stata utilizzata l’analisi del confronto
tra parole chiave per individuare eventuali differenze
tra i termini “patient satisfaction” e “quality” (18).
L’intero corpus è stato infine
sottoposto a cluster analysis
per individuare le classi semantiche trasversali, formate
da unità di contesto elementari in cui co-occorrono un
certo numero di termini. Come misura della significatività della co-occorrenza delle
forme verbali in ciascun cluster è stato utilizzato il test
del Chi Quadrato (18).
Risultati
Termini associati a “patient
satisfaction”
Come appare dalla Fig. 1 “patient satisfaction” si associa
soprattutto a termini che
pongono attenzione a:
– condizioni cliniche (cancer, symptom, patient, follow-up, treat);
– ricerca e tentativo di misurazione (study, evaluate,
measure, assess, questionnaire, outcome, investigate, baseline);
– qualità (quality) di diversi
aspetti (treatment; care;
hospital; relationship, Qol;
life).
È significativo riscontrare che
la parola maggiormente associata a patient satisfaction è
quality, analizziamone ora le
sovrapposizioni e differenze.
Satisfaction e quality a confronto
I risultati ottenuti dall’analisi
“confronto tra parole chiave”
Fig. 1. Parole associate al lemma “Patient satisfaction” e indice
di associazione (coefficiente del coseno)*.
* Il coefficiente ha valori compresi tra 0 e 1: coefficienti più vicini a 1 indicano
maggiore associazione.
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hanno evidenziato una parziale sovrapposizione tra i costrutti quality e patient satisfaction. I due termini condividono infatti alcuni lemmi
che fanno principalmente riferimento agli aspetti di cura
della persona in termini sanitari (treatment, patient, case,
reconstuction, practitioner,
health-care) e psico-sociali
(life, health related, EORT,
treatment, heathcare) (Tab.
1). Al di là di aspetti condivisi patient satisfaction si differenza da quality perché si associa a lemmi che danno importanza agli aspetti comunicativi (consultation, doctorpatient, express, decision,
ask, discuss) e clinici (diagnosis, disease, history, distress,
skin sparing mastectomy,
performance, colonscop, flap,
pain, skin, infection). In altri
termini, nella soddisfazione è
basilare la comunicazione, il
confronto tra paziente e operatori sociosanitari in tutte le
varie fasi della storia clinica
della persona (dalla diagnosi,
al trattamento, alla gestione
del dolore…). La qualità invece è definita in maniera
univoca solo da termini che
indicano la scelta (choose) del
singolo (subject). Consideriamo ora nuovamente l’intero
corpus testuale al fine di individuare dei cluster tematici
trasversali.
Cluster analysis
L’analisi dei cluster è simile ad
un’analisi fattoriale e permette di individuare all’interno
del testo considerato delle
classi semantiche principali.
Nel nostro caso sono emersi 3
cluster che spiegano rispettivamente l’83,83% della varianza complessiva (cluster
Tab. 1. Termini condivisi e non da “Patient satisfaction” e “Quality”.
1), l’8,42% (cluster 2) e il
7,76% (cluster 3) (Tab. 2). Il
primo cluster, denominato
“care satisfaction”, comprende lemmi che richiamano l’utilizzo di specifici strumenti
(questionnaire, IN-PATSAT32)
per rilevare la qualità percepita di alcune componenti della
cura (communication, nurse,
hospital, information, physician, support, consultation,
doctor, practitioner). Il secondo cluster “clinical domains”
comprende una serie di lemmi
che fanno riferimento a specifici trattamenti (reconstruction, mastectomy, implant,
prophylactic,) e condizioni sanitarie (flap, immediate, skin
sparing mastectomy, breast,
undergo, saline, local, skin,
complication). Infine il terzo
cluster “life satisfaction” include lemmi che sottendono
un’attenzione alla qualità di
vita percepita dalla persona
(QLI, QOL, QLQC30), conside-
rando gli effetti (effects, decline) che la neoplasia e la sua
cura (history, treatment) hanno sul fisico (health, physical), sulla psiche (psychological), sulla vita socio-familiare
(social, family, relationship).
È inoltre significativo riscontrare che i tre cluster si associano diversamente alla variabile anno di pubblicazione
(Tab. 2). In particolare, gli abstract del 2001 descrivono gli
aspetti clinico-medici (cluster
2) connessi alla soddisfazione, quelli del 2002, 2004,
2005 pongono maggiore attenzione alla soddisfazione
dai pazienti nei confronti della cura ricevuta (cluster 1);
infine, è negli abstract del
2007-2008 che diventa centrale l’attenzione alla storia
(history) della persone colpite
da neoplasia, alla loro qualità
di vita, alla percezione degli
effetti dei trattamenti sulla
loro quotidianità (cluster 3).
Discussione
Le analisi effettuate hanno
evidenziato che la patient satisfaction è stata concettualizzata in modo da richiamare:
a) lo studio e la ricerca scientifica che si è sviluppata
attorno al costrutto ed ai
suoi determinanti;
b) la centralità delle relazioni, delle informazioni ricevute e della comunicazione più in generale.
In particolare poi è emerso
che il concetto patient satisfaction si differenzia da
quello quality per la presenza
di termini che fanno riferimento ad aspetti comunicativi e di scambio relazionale
che dovrebbero essere presenti durante l’iter terapeutico. Queste considerazioni si
pongono in linea con le recenti evidenze scientifiche,
che dimostrano quanto la patient satisfaction sia influenzata dal comportamento del
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Tab. 2. Lemmi caratteristici dei 3 cluster e rispettivi pesi specifici.
personale sanitario (medici,
infermieri) (5, 14); in altri
termini, pazienti soddisfatti
sentono che lo staff di cura è
in grado di dare da un lato
considerazione e supporto
emotivo (19-23) e dall’altro
adeguate informazioni sulla
condizione clinica e sul programma di trattamento (19,
22, 24-25). Infatti, sebbene i
pazienti non siano spesso in
grado di valutare realmente
l’adeguatezza e solidità della
diagnosi e del piano di trattamento, possono comunque
verificare se si sentono soddisfatti del sostegno e delle
informazioni ricevute durante tutto il percorso. Gli studi
e le ricerche sulla soddisfazione del paziente oncologico
quindi “danno valore ed importanza […] a quella Medicina basata sul dialogo, sul
confronto, sulla relazione
umana (26). In altri termini,
nell’area della patologia oncologica, il messaggio che si
inizia a diffondere e realizzare è che “in ogni momento
del ‘cammino’ intrapreso, il
malato non resterà solo, potendo egli contare sulle risorse umane e sugli strumenti
terapeutici della struttura cui
si è affidato” (27). In realtà è
soprattutto negli abstract più
recenti (dal 2007) che viene
data maggiore attenzione alla persona nel suo complesso.
Solo ponendo attenzione al
modo in cui il paziente vive e
valuta l’intero percorso di cura è possibile superare le critiche mosse nei confronti delle ricerche sulla soddisfazione in cui i pazienti e le loro
famiglie giudicano i diversi
servizi in maniera frammen-
taria e non sulla base del loro
coordinamento e della continuità dell’intera assistenza
ricevuta.
Un costrutto presente nella
letteratura più recente è proprio quello di Continuity of
Care (28), ove per continuità
si intende il grado con cui
una serie di eventi sanitari
sono percepiti come coerenti,
connessi e consistenti con i
bisogni avvertiti dal paziente.
Affinché un percorso sia vissuto in termini di continuità,
è necessario che siano garantiti tre aspetti: informativi
(informational continuity), relazionali (relational continuity), organizzativi (management continuity).
L’informational continuity si
riferisce alla continuità delle
informazioni condivise tra gli
operatori socio-sanitari che
hanno in cura la persona; tali
informazioni riguardano non
solo lo stato di malattia, ma
anche altri aspetti come le
preferenze per i trattamenti.
La relational continuity indica
la presenza di un gruppo di
professionisti che lavora con
la persona e che svolge una
funzione di ponte tra trattamenti passati, presenti e futuri. Questo collante garantisce che le prestazioni sanitarie siano erogate in modo
complementare e tempestivo
(management continuity),
anche se da professionisti diversi. Nel momento in cui
questi tre aspetti sono garantiti, la persona si sente accompagnata in un percorso e
vengono meno quelle sensazioni di solitudine, isolamento, mancanza o scarsità di
dialogo con e tra professionisti, che appesantiscono un
percorso di per sé complesso.
Non secondaria è inoltre la
necessità di garantire la continuità di scambi e collaborazione fra servizi (siano essi
sanitari che socio-sanitari) e
le associazioni di familiari e
pazienti che assolvono a numerose ed importanti funzioni (5, 29-30) entro la rete assistenziale. Altre ricerche sono necessarie in questa direzione perché ancora sono
troppo pochi gli studi (31-33)
che hanno analizzato il costrutto della continuità della
cura in persone con neoplasie, ma la posta in gioco è alta perché si tratta della “[…]
umanizzazione dell’intero sistema sanitario: a partire da
quella dei rapporti tra équipe
assistenziale e malato (34)”.
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Bibliografia
(1) Società Italiana di Psico-oncologia (1998), Standard, Opzioni e
Raccomandazioni per una buona pratica in psico-oncologia, p. 3. Documento Disponibile al sito internet: http://www.siponazionale.it/
pdf_2008/LINEE%20GUIDA%20SIPO.pdf
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La qualità relazionale
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Sae l ute
Territorio
270
Sarah Bernardini1
Corrado Catalani2
Simone Fini3
1
Filosofo bioeticista
Direttore UO Educazione
e promozione della salute AUSL
3 Pistoia
3 Coordinamento Dipartimento
Processi amministrativi integrati
e sviluppo servizi sociosanitari
della montagna AUSL 3, Pistoia
2
L
a crisi economica internazionale spinge la riorganizzazione del lavoro
verso una maggior efficienza
ed una riduzione dei costi di
produzione. Alla perdita di
posti di lavoro nell’Industria
si aggiunge un incipiente
processo di flessibilizzazione
e precarizzazione dei rapporti
di lavoro. Sono quindi rafforzate ed incrementate condizioni sociali che espongono le
popolazioni coinvolte a rischi
di deterioramento delle condizioni di vita e di salute. Le
politiche europee e nazionali
per l’integrazione sociale abbinano oltre agli obiettivi di
occupazione, anche quelli di
occupabilità (un percorso a
fasi alterne di lavoro, formazione e non lavoro) che favoriscono, attraverso un’apposita legislazione, lo sviluppo di
nuovi ruoli professionali. Un
aspetto critico del caso italiano è che questo processo sia
in corso nonostante gli status
relativi siano incompleti riguardo alle tutele. Le carriere
nel settore del lavoro a tempo
determinato, occasionale, in-
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Organizzazione giuridico-amministrativa
N. 188 - 2011
Lo sviluppo di una
nuova governance
terinale sembrano però essere, più che una libera scelta,
una condizione subita e segnata dallo stigma dell’insicurezza del reddito e del ruolo sociale.
Quanto e come incidono questi processi sulla salute? Nell’attuale situazione di mercato, sono da considerare come
possibili determinanti di cattiva salute. L’impatto negativo della disoccupazione e
dell’insicurezza del lavoro
sulla salute psichica e fisica è
ampiamente documentato da
una lunga tradizione di ricerca che testimonia un’interazione complessa i cui effetti
si differenziano secondo la
fase e la durata del periodo di
disoccupazione o di “non-lavoro”, il tipo di disoccupato o
di lavoratore precario, il contesto socioculturale, la tipologia del welfare e del supporto sociale. Esso non è limitato al periodo dell’evento,
ma condiziona la traiettoria
di vita delle persone che lo
subiscono, provocando un
accumulo degli svantaggi, e
si estende alla collettività.
Gli effetti della crisi economico-occupazionale
sul diritto alla salute e sullo Stato di diritto
Questo scenario rischia di
mettere in crisi il welfare e
nello specifico la tutela del
diritto alla salute1.
Il collegamento della salute
alla categoria del diritto è
fondamentale; dal punto di
vista istituzionale è legato
strettamente alla Costituzione della Repubblica che dichiara: “La Repubblica tutela
la salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti” (art. 32, comma 1).
Il Sistema sanitario è indicato prospetticamente nella Costituzione come lo strumento
tecnico perché tutti possano
usufruire del diritto alla salute. La salute, di fatto, è una
qualifica, un’aggettivazione,
uno degli indicatori della vita, nel senso che per salute si
indica uno stato del vivente.
Secondo la definizione classica dell’OMS, la salute non è
assenza di malattia. La salute
è uno stato della vita che ha
come eccezione l’avere una
malattia. L’OMS ha definito la
salute come “la perfetta fruizione di tutto ciò che ha a
che fare con la vita”, è quindi
l’espressione della pienezza
del vivere.
Il diritto alla salute è una
sorta di promemoria che ci ricorda che dobbiamo entrare
in un circolo di dialogo sulle
cose che contano per la vita,
altrimenti si rischia di accontentarsi di un linguaggio che
invece di rivelare i diritti li
nasconde, mettendoli in capitoli leggibili solo dagli addetti ai lavori. Il dialogo e la trasparenza verso i degenti dovrebbero essere alla base delle decisioni e delle politiche
in campo sanitario. Deve essere creata una cultura che
sia in grado di entrare in relazione con chi ha bisogno di
cure.
A. Ahs, G. Burrel, R. Westerling, Care or not care-that is the question: predictors of healthcare utilisation in relation to employment status, Int.
J. Behav. Med, 2010.
1
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Le origini dello Stato di
diritto
Lo “Stato di diritto”, espressione della dottrina dei diritti
soggettivi, ha origini nella
cultura europea, prima in
Gran Bretagna (rule of law)
poi nell’Europa continentale.
Come afferma Danilo Zolo: “Il
tentativo di fare del diritto
positivo uno strumento di
controllo del potere politico e
di riduzione dell’arbitrio, pur
con tutti i suoi limiti pratici e
la sua crisi attuale, è un’esperienza senza uguali nel mondo e che (…) deve essere
energicamente tutelata. È la
garanzia di alcune libertà
fondamentali delle persone,
della loro autonomia nei confronti dello Stato, della responsabilità del potere politico nei confronti dei cittadini
e, nello sviluppo welfarista
dello Staro liberal-democratico, di alcune essenziali aspettative di sicurezza sociale da
parte dei cittadini…”2.
Egli sostiene inoltre che lo
Stato di diritto sia privo di
qualsiasi fondamento universale, ma che abbia origine da
una particolare fase della storia europea. Questo non significa delegittimare la teoria
e la pratica dei diritti soggettivi, ma riconoscerne il carattere fortemente storicizzato:
pretenderne l’affermazione
nel resto del mondo costituisce, per Zolo, “un vero e proprio imperialismo culturale”.
Proprio il carattere storicizzato dello Stato di diritto ne determina un valore contestuale da difendere e tutelare. Se
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Organizzazione giuridico-amministrativa
Territorio 271
l’Azienda sanitaria è quindi lo
strumento fondamentale per
mettere in atto il diritto alla
salute quali considerazioni si
possono fare su limiti e criticità correnti in grado di interferire con il raggiungimento di questo obiettivo prioritario? E quale profilo di responsabilità è tracciabile sulla base degli attuali assetti di
governance?
La corporate governance
nelle Aziende sanitarie
Il processo per l’aziendalizzazione del Servizio sanitario
nazionale ha avuto inizio con
il D.Lgs 502 del 1992 subendo
continui adeguamenti normativi sia livello nazionale che
regionale. Con il D.Lgs 229 del
1999 l’impianto organizzativo
del sistema sanitario ha subìto una forte trasformazione
dando un sostanziale impulso
all’attuazione di un moderno
servizio sanitario. Con la modifica del titolo V della Costituzione le singole Regioni
hanno normato modelli spesso sufficientemente diversi
l’uno dall’altro, generando,
pertanto, sistemi a “velocità”
diverse con luci ed ombre, che
a livello di efficienza-efficacia
si discostano notevolmente.
Alcuni aspetti sono, comunque, univoci come, fra gli altri, quelli relativi alla corporate governance che, a tutt’oggi,
rimane saldamente nelle mani
quasi esclusive delle Direzioni
generali. La costituzione dei
Consigli dei sanitari, in maggioranza elettivi, e soprattutto dei Collegi di Direzione,
avrebbero dovuto “calmierare” il potere del direttore generale, generando un sistema
di governance basato sul concetto di governo clinico. Questo, in molti casi non è avvenuto, continuando le Direzioni ad avere una esclusività
sulle varie nomine dirigenziali e soprattutto sui c.d. “poteri di gestione”. Infatti, a differenza di quanto avviene in
tutte le altre amministrazioni
pubbliche indicate nell’art. 1,
comma 2, del D.Lgs 165/01 e
smi, ove si applica il principio
generale della separazione fra
poteri di indirizzo e controllo
da quelli di gestione, il D.Lgs
502 testualmente riconosce al
direttore generale “Tutti i poteri di gestione…”.
Ciò ha prodotto un sistema di
governance basato principalmente sull’istituto della delega, ovvero di “trasferimento”
della titolarità della funzione
gestionale, mentre nelle altre
amministrazioni con la nomina il dirigente assume già direttamente i poteri e le competenze che caratterizzano il
proprio incarico. Orbene, se
questo fenomeno non assume
particolare rilevanza nell’esercizio diretto di professioni
specifiche, in particolare
quelle sanitarie, in quanto
qualunque titolo professionale possieda il direttore generale non potrà mai sostituirsi
nella funzione specifica di
professioni “certificate”, assume caratteristiche “anomale” in un moderno governo di
sistema aziendale complesso
come quello sanitario. Infat-
ti, avendo la possibilità di
esercitare tutti i poteri di gestione, in qualunque momento, anche se con le modalità
che ogni atto aziendale (Statuto) dovrebbe prevedere, potrà sempre “avocare”, “richiamare”, “assumere” qualunque
funzione precedentemente
“delegata” al singolo dirigente. Le conseguenze possono
essere molteplici ma, quella
che maggiormente interessa
questa breve disamina, concerne la “precarietà” dell’esercizio gestionale da parte
del soggetto formalmente responsabile della funzione,
anche se questa ultima avuta
per delega3.
Riflessi sui processi di valutazione
Questo aspetto “interventistico” può generare una linea
di collegamento dirigente-direttore di forte subalternità
che, qualora esercitato con
frequenza, inquina non solo
il sistema di valutazione,
qualunque esso sia, ma soprattutto può generare nella
dirigenza un senso di appiattimento e accondiscendenza.
La conseguenza più diretta è
proprio nel Collegio di Direzione, massimo organismo
del governo clinico, i cui
componenti, oltre ad essere
logicamente nominati dal direttore generale, sono legati
a questo ultimo dai legami
relazionali sopra indicati e
quindi, con poche possibilità
di contrastare eventuali decisioni in qualche misura
“già decise” o comunque non
www.giornaledifilosofia.net, Intervista a Danilo Zolo, I filosofi e la politica/6, 17-2-2008.
In merito è interessante la disamina effettuata nella Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2002, Collana Editoriale ANCI, Ed.
CEL, Foggia, parte 54° “Il Servizio Sanitario Nazionale”, capitolo III, paragrafo 4.2, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli, S. Fini, M. Galligani.
2
3
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condivisibili dalla maggioranza di questo organismo.
Pertanto, qualunque sistema
di valutazione della dirigenza
sia adottato, in particolare
per i responsabili di strutture
complesse, lo stesso dovrebbe
tenere conto, almeno nella
misurazione della performance, della presenza di fenomeni “inquinanti” che in un moderno modello di governance
non dovrebbero esserci. Inoltre, il dirigente deve essere
valutato sui risultati ma solo
dopo aver garantito un identico ed egalitario accesso ai
service aziendali, alle risorse
del sistema azienda, a relazioni oggettivamente equilibrate4. In buona sostanza, in
molti casi, il modello aziendale non ha favorito la diffusione dei centri decisionali,
l’applicazione di principi interni di autogoverno e trasparenza, con presenza di
diffuse procedure di controllo
e verifica, continuando in
una corporate-governance
quasi di tipo “padronale” da
piccola impresa familiare.
In merito vi sono state alcune
Regioni che hanno introdotto
modelli che tendono al superamento di questi fenomeni
distorsivi. Si cita solo per
esempio la Regione Toscana,
che ha previsto nel proprio
ordinamento del Servizio sanitario la presenza di un Ufficio di Direzione, per ogni
Azienda, che deve contribui-
re, supportando la Direzione
aziendale, per l’adozione degli atti di governo, con modalità previste nel singolo Statuto, con convocazioni a cadenza almeno mensile ed i
cui pareri, sulle materie previste nello Statuto, sono obbligatori anche se non vincolanti5. Sarebbe estremamente
interessante verificare nello
specifico quante Aziende si
sono dotate di questo strumento e di come sia utilizzato, soprattutto per applicare
un sistema direzionale di governance maggiormente “diffusa”. Certo è che qualora non
adottato e soprattutto allorché non utilizzato potrebbe
creare diversi problemi di legittimità agli atti assunti
senza l’obbligatorio parere
previsto da una fonte normativa primaria, in particolare
nel caso che la singola Azienda abbia indicato espressamente le materie da sottoporre a parere successivamente
mai richiesto.
Appare, però, importante che
i vari organismi precedentemente citati, ovvero Collegio
di Direzione, Ufficio di Direzione, Consiglio dei sanitari
siano inseriti in un contesto
direzionale fortemente “organizzato” e con definiti e
strutturati rapporti relazionali, altrimenti vi è il rischio
che rappresentino solo un
aspetto formale del sistema
aziendale senza alcuna reale
valutazione “centralizzata”
con forti possibilità di fenomeni inquinanti.
272
possibilità di incidere nello
stesso6.
Altro esempio interessante di
modelli organizzativi sociosanitari che evidenziano uno
sforzo del legislatore regionale al superamento di una governance monocratica e centralizzata è quello delle Società della salute, ove la governance è distribuita all’interno di una Assemblea e di
una Giunta composte dalla
Azienda sanitaria e dagli Enti
locali di riferimento, mentre
l’attività gestionale è competenza del “direttore della
SdS”7. Questa ultima è una figura dirigenziale individuata
congiuntamente dalla Giunta
della SdS e dalla Regione.
Nonostante i vari tentativi,
sembra comunque persistere
nelle singole Aziende un forte senso di accentramento del
“potere”, ancora più evidenziabile proprio in quelle ove
vi erano strumenti normativi,
sia di fonte primaria che regolamentare, che tendevano
a porre almeno alcuni vincoli
applicando un sistema di governo maggiormente diffuso.
Il sistema “valutazione” conseguentemente ne risentirà
con una incidenza ancora
maggiore, proprio perché si
evidenzia, nelle Aziende sopra indicate, una scelta di
fondo di mantenere una governance “dominante” con
l’appiattimento di tutti i vari
correttivi e quindi con una
Le asimmetrie nel sistema
aziendale
Appare, infatti, come la “valutazione” – sia del singolo
operatore che dell’intera
struttura cui appartiene –
possa essere analizzabile sotto diversi aspetti: sociologico, economico, psicologico,
amministrativo, comunicazionale, in sintesi in un concetto multidisciplinare che al
termine di un percorso prestabilito (durata incarico, periodo contrattuale, esecuzione progettuale), ne analizzi
l’efficienza e l’efficacia misurandone gli effetti. Ora qualora la valutazione sia in qualsiasi misura “inquinata” ne
consegue una sicura incertezza, quando non imparzialità
del giudizio, generando asimmetrie valutative che, se non
altro, produrranno sicure
conseguenze sul clima interno, sui rapporti relazionali,
sul benessere organizzativo.
I provvedimenti normativi
emanati dal ministro Brunetta si inseriscono, pertanto, in Sanità, in un contesto
sicuramente più difficile di
altri, con ricadute che se
non ben disciplinate a livello
regionale e governate dalle
singole Aziende potrebbero
aumentare il “disagio valutativo”.
In merito vedi il concetto di “anomalie di potere” in Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2010, Collana Editoriale ANCI-ComuniCare, Editore EdK, Rimini, parte 52°, da p. 2334 a p. 2335, “Il Servizio sanitario nazionale”, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli, S. Fini, M. Sammartino.
5 LRT 40/05 e smi, art. 57.
6 Alcune osservazioni in relazione al contesto aziendale sono evidenziate in Comunicazione Interna ed Esterna degli URP, Anno 2008, Regione
Toscana, a cura Agenzia per la Formazione, Maggio Giugno 2008, Raccolta relazioni docenti, da p. 48 a p. 52, parte relativa al “Contesto Aziendale”,
S. Fini, corso di formazione regionale.
7 In merito vedi Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2008, Collana Editoriale ANCI, Ed. CEL, Foggia, parte 54° “Il Servizio
sanitario nazionale”, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli, S. Fini, M. Sammartino, nonché la recente sentenza Corte Costituzionale 325/2010.
4
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Inoltre, nel mondo aziendale
sanitario esiste, da sempre,
una problematica condensabile nel concetto di “Alta valutazione”, ovvero come misurare i risultati di scelte di alta
strategia e come eventualmente “giudicarne” la responsabilità. Queste scelte, come
precedentemente analizzato,
sono fortemente ancorate al
livello di Direzione aziendale,
ed anche se in molti casi necessitano di una parere obbligatorio ma non vincolante da
parte del Consiglio dei sanitari, o del Collegio di Direzione
o, come previsto in alcune
normative regionali di un altro organismo (Ufficio di Direzione), composto normalmente dai responsabili dipartimentali, la loro adozione è indissolubilmente legata alla
“Direzione”, con un apporto
della governance diffusa che
per i motivi sopra esposti
può, normalmente, essere di
ben poco conto.
Per comodità di esposizione si
cita, ad esempio, solo le decisioni che riguardano l’organizzazione aziendale che,
qualora non perfettamente
funzionale potrà generare
continue criticità anche a livello di gestione ordinaria del
sistema. In questo caso la valutazione può andare a penalizzare il dirigente o la struttura da lui diretta quando
gran parte dell’insuccesso dovrebbe gravare sul modello
adottato e del quale ben poca
responsabilità può essere imputata a questi ultimi. Inoltre, le imperfezioni di un sistema organizzatorio o di una
strategia di Alta Direzione si
evidenziano con vettori temporali ben diversi da quelli
della valutazione ordinaria;
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infatti l’asimmetria temporale
fra la durata degli incarichi
della tecnostruttura e quelli
dell’ Alta Direzione, in sistemi
non perfettamente equilibrati, può contribuire a generare
incertezze nella valutazione e
nell’individuazione delle varie
responsabilità che non si
identifichino con i classici canoni della responsabilità conosciuta a livello giuridico
(penale, civile, amministrativa, in alcuni casi politica).
Responsabilità di sistema
Questa responsabilità può essere definita “di sistema” ed
è in buona sostanza quella
che è generata da scelte di alto livello politico-strategico e
che non si manifesta direttamente in azioni o comportamenti censurabili sotto il profilo giuridico, ma che genera
un terreno fertile perché
azioni o comportamenti possano avere l’assenza del crisma delle tre E (efficienza,
economicità, efficacia).
Inoltre, l’insuccesso di questa
tipologia di scelte si può manifestare, spesso, in periodi
temporali medio lunghi, quindi con Alte Direzioni diverse, e
con indicatori sia di natura sanitaria sia economica. Per l’adozione di un modello organizzatorio che dopo anni produce un aumento della mortalità per una certa patologia,
casomai perché era stata privilegiata la risoluzione di un
problema immediato, esempio
creazione di una nuova struttura operativa per rispondere
ad una esigenza di politica
territoriale, rispetto alla strutturazione di un sistema di
prevenzione di tale patologia,
sarà ben difficile riuscire ad
individuare una qualsiasi for-
ma di responsabilità giuridica
da imputare ad un soggetto.
Al contrario il sistema di valutazione aziendale può esprimere un giudizio negativo sul
responsabile di quella struttura in quanto l’indicatore di
mortalità supera gli standard
riconosciuti in letteratura.
La presenza di un sistema di
valutazione, anche raffinato
ed avanzato tecnicamente,
come ad esempio il sistema
MeS della Regione Toscana,
dell’Alta Direzione, difficilmente potrà rilevare una “responsabilità di sistema” generata, casomai, molti anni
prima, correndo, altresì, il rischio di imputare l’insuccesso
alla “nuova Direzione”.
La Conferenza dei Sindaci, altro soggetto che ha il compito di esprimere valutazioni
sulla Direzione, troppo spesso
non ha strumenti raffinati di
verifica, dovendosi, pertanto,
basare su giudizi “localistici”
o comunque sufficientemente legati al periodo della legislatura comunale.
Inoltre, una Direzione generale, non ha direttamente una
responsabilità politica di
mandato, ma può solo essere
“sollevata” o non rinominata
da parte della Regione, senza,
peraltro, particolari conseguenze se non quella, appunto, di cessare dall’incarico.
Alcuni recenti episodi, che
hanno avuto forte risalto anche sulla stampa, in merito a
responsabilità dell’Alta Direzione sulla redazione di atti
come il Bilancio aziendale,
aprono nuovi scenari proprio
su un’eventuale ricerca di responsabilizzazione delle Direzioni ed offriranno sicuri spazi di analisi giuridico-amministrative ai vari cultori e pro-
fessionisti della materia. Responsabilità che, comunque,
non potrà che essere tradotta,
qualora esistente, in termini
delle classiche “responsabilità
giuridiche”, ovvero, in primis
quella amministrativa.
Questo fenomeno della responsabilità traslata nel tempo è, ovviamente, presente
anche in molte altre organizzazioni, ad esempio nelle
grandi imprese private, ma in
questo caso tale responsabilità si concretizza in un “danno” economico (esempio minori ricavi o redditività) che
l’impresa stessa subirà.
Ma anche nelle Amministrazioni Pubbliche troviamo frequenti esempi di responsabilità che è possibile rilevare solo in periodi temporali sufficientemente lunghi, si cita
solo per comodità di lettura
l’esempio di un piano strutturale approvato da un Comune
le cui conseguenze sono evidenziate negli anni successivi. In questo caso, però, la responsabilità politica in qualche misura interviene sia nei
confronti della maggioranza
del governo dell’Ente (il cittadino può sempre non votarla), sia nel caso di periodi
temporali lunghi a livello di
consenso per la parte politica
che la citata maggioranza
rappresentava. In Sanità, invece, la Direzione è svincolata
dai fenomeni di consenso politico diretto, anche se nominata dalla Regione, e difficilmente vi potranno essere fenomeni traslativi nei confronti della parte politica che ha
espresso il manager che dopo
anni risulti aver errato scelte
strategiche fondamentali.
Da queste premesse preme fare alcune osservazioni:
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– Esiste una zona grigia di
terreno alquanto inesplorato, definibile “responsabilità di sistema”, che si trova oltre la responsabilità
giuridica strictu sensu ed
oltre la responsabilità di
politica aziendale valutabile dal livello politico. Questa responsabilità di sistema, i cui principali indicatori, fra gli altri, sono quelli epidemiologici rilevabili
solo in vettori temporali
difficilmente compatibili
con la permanenza in carica di una singola Direzione.
– Questa responsabilità di sistema è in qualche modo
identificabile come responsabilità etica?
– I Sistemi sanitari regionali
raggiungono livelli di efficienza diversi anche sulla
base della velocità di analisi e quindi di valutazione
delle Direzioni aziendali
delle loro Aziende sanitarie regionali.
– Le singole Aziende dovrebbero utilizzare gli strumenti già esistenti per applicare una governance maggiormente equilibrata e soprattutto autodisciplinarsi tramite l’atto aziendale di diritto privato (Statuto); solo
con una governance-corporate maggiormente in linea
con i tempi attuali è possibile applicare con linearità,
equilibrio, trasparenza e
reale “pesatura del merito”
il sistema valutativo.
La governance partecipativa
L’idea di una nuova governance democratica, che coinvolge
gli stakeholder nei processi
deliberativi di policy making,
si è estesa gradualmente dal
mondo accademico alla prati-
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Organizzazione giuridico-amministrativa
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ca politica “quotidiana”. Una
gestione democratica dei processi decisionali, con una forte componente deliberativa,
implica la partecipazione di
tutti quegli stakeholder che
prevedibilmente subiranno
l’impatto della decisione. Un
ruolo importante è giocato
dalla presenza e dal coinvolgimento di comunità che costituiscono il complesso mosaico
della società contemporanea;
sono di grande influenza sulla
percezione del rischio da parte del pubblico e contribuiscono a creare nei cittadini la fiducia per operare come cittadini attivi. Il Consiglio europeo intende approfondire e
ampliare il lavoro con la società civile organizzata, verso
un sistema in continua evoluzione, capace di adattarsi alle
sfide della società moderna.
Nonostante il favorevole contesto democratico europeo di
questo periodo, buona parte
dei Paesi si trova, operando
attraverso le Istituzioni e le
procedure tradizionali, in una
crescente difficoltà su questo
tema. Nel 2004 la Conferenza
del Consiglio europeo The future of democracy in Europe è
stata un’opportunità per affrontare questa difficile questione della democrazia contemporanea e dibattere nuove
proposte per una riforma democratica. La raccolta Reflections on the future of democracy in Europe, Council of Europe, 2005, contiene la maggior parte dei contributi di
questa Conferenza. Le questioni scientifiche e tecnologiche hanno un ruolo essenziale
nella nostra società e le controversie che accendono i dibattiti pubblici nelle società
industrializzate, sempre più
Queste difficoltà, che sono
sovente la conseguenza di
esperienze non di successo
nella governance del rischio,
aggiungono complessità nel
contesto del processo decisionale.
Si assiste ormai da anni a
questa parte ad una svolta
dall’approccio tecnocratico
tradizionale verso un approccio che porti alla creazione di
mutua fiducia. In Europa una
spinta verso questa direzione
è stata data anche dalla pubblicazione White Paper on European Governance, che fra gli
altri obiettivi, indica la necessità di democratizzare la
conoscenza scientifica in particolare nelle aree sensibili
della salute e della sicurezza.
Nel Summary Report of the
3rd Villigen Workshop, 2003 il
paragrafo Practical Guidance
on Stakeholder Parteicipation
in Radiological Decision
Making presenta un elenco di
domande che emergono
quando ci si confronta con la
necessità di coinvolgere gli
stakeholder e alle quali tenta
di dare delle risposte:
– Quando dovrebbero essere
coinvolti gli stakeholder?
– Chi degli stakeholder deve
essere coinvolto nella partecipazione?
– In che cosa si differenzia
la partecipazione degli
stakeholder da quanto viene fatto normalmente?
– In quali fasi è prevista la
loro partecipazione?
– Quanto estesa deve essere
la loro partecipazione?
– Quale tipo di questioni
può essere discusso all’interno di un processo partecipativo?
– Chi è responsabile o chi sono i responsabili?
spesso chiamano in causa la
scienza e le sue applicazioni,
che si trovano quindi sempre
più spesso presenti nelle
agende dei vari Governi. Tuttavia, in genere, la discussione non si focalizza sulla soluzione tecnico-scientifica della
controversia, bensì sul confronto fra”idee del mondo” in
cui valori e ragioni di natura
sociale, culturale, politica,legale, etica o religiosa giocano
un ruolo fondamentale.
La comunità scientifica si
trova in contatto con quella
politica, quella economica e
con il pubblico e quando una
questione scientifica diventa
un argomento per la società,
sulla stessa si addensano elementi di opinione di carattere etico, culturale, politico o
economico, che assumono valenze importanti quanto il
punto di vista scientifico.
I processi decisionali considerano quindi, oltre alle ragioni
scientifiche, altri tipi di ragioni che sono espressione
degli attori sociali
Le difficoltà incontrate nel
processo decisionale tradizionale si possono riassumere in:
– una generale perdita di fiducia da parte degli attori
non coinvolti;
– il riconoscimento di una
distribuzione non equa del
rischio nella vita del pubblico;
– l’erosione della credibilità
e legittimazione dei decisori e degli esperti;
– un crescente sospetto da
parte del pubblico nei confronti dello sviluppo tecnologico;
– l’erosione di credibilità fra
gli stessi stakeholder, gli
esperti e gli amministratori.
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– Quando questo funziona e
quando non funziona?8
Emergono quindi una serie di
criteri qualificanti che possono essere di aiuto per impostare un processo partecipativo di risk governance applicabile nella maggior parte dei
contesti:
– dare autorità agli individui
e gruppi coinvolti;
– operare in una atmosfera di
mutuo rispetto e fiducia;
– creare le condizioni affinché gli stakeholder facciano proprie le rilevanti evidenze scientifiche;
– fornire feed-back agli
stakeholder coinvolti nelle
decisioni prese;
– essere riconosciuti come
legittimati e moralmente
probi da parte degli
stakeholder;
– produrre decisioni e strategie che siano flessibili e
aperte a possibili revisioni
nel tempo;
– indurre una cultura condivisa di risk governance fra
gli attori coinvolti.
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Viene inoltre suggerita un’
applicazione step by step del
processo decisionale, in cui si
riconoscono una prima fase di
decision framing e una seconda di decision taking. La prima fase, descritta come un
dialogo aperto e libero, ha l’obiettivo di creare una condizione tale da dare a tutti gli
attori la possibilità di farsi
un’idea del problema al vaglio
e la possibilità quindi di vedere e valutare le possibili opzioni. Questa parte del processo è anche utile per identificare le categorie di attori locali, nazionali e internazionali da coinvolgere e comprende l’identificazione iterativa delle questioni e delle loro diverse dimensioni (sanitaria, economica, sociale, etica,
tecnica, politica…). Contribuisce inoltre a definire basi
comuni e affidabili di conoscenze fra tutti i partecipanti
al processo. La fase finale del
processo, quella di decision
taking è principalmente a carico di chi ha la responsabi-
Bibliografia
Commission of the European Communitties (2000), White Paper on
European Governance. Enhancing democracy in the European Union,
Brussels, October 2000, SEC 2000 1547/7.
Comunicazione Interna ed Esterna degli URP, Anno 2008, Regione Toscana, a cura Agenzia per la Formazione, Maggio Giugno 2008, Raccolta relazioni docenti, da p. 48 a p. 52 , parte relativa al “Contesto
Aziendale”, S. Fini, corso di formazione regionale.
Ahs A., Burrel G., Westerling R. (2010), Care or not care-that is the
question: predictors of healthcare utilisation in relation to employment
status, Int. J. Behav. Med.
Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2002 Collana Editoriale ANCI, Ed. CEL, Foggia, parte 54° “Il Servizio Sanitario Nazionale”, capitolo III, paragrafo 4.2, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli, S. Fini, M.
Galligani.
Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2008 Collana Edi-
lità di prendere la decisione.
È necessario sottolineare che
ad una partecipazione nella
fase di decision framing è raramente associata la partecipazione nel decision taking
ovvero che la governance inclusiva non significa necessariamente che debba essere
presa una co-decisione. Inoltre, promuovere la fiducia
nelle autorità, negli esperti,
nonché nei percorsi decisionali stessi, richiede tempi
lunghi; l’inclusività non può
essere vista come una situazione statica, ma piuttosto
come un work in progress; che
i frutti degli sforzi fatti devono essere valutati solo a lungo termine e che la qualità
dei risultati ottenuti in processi decisionali complessi o
in ambiti sociali complessi,dipende da una serie contestuale di fattori e di modalità
di sviluppo del processo.
Lo sviluppo di una nuova governance ridefinisce i confini
del modello decisionale tradizionale aprendo nuovi ruoli
ad attori vecchi e nuovi.
La principale implicazione di
questa nuova prospettiva è
che il singolo individuo si
trova coinvolto in un circuito
di posizionamenti etici in cui
i valori, i comportamenti, i
modelli culturali sono veicolati attraverso il coinvolgimento e il dialogo con tutti i
referenti contestuali. Si mettono in discussione i propri
punti di vista con altri referenti del mondo sociale e attraverso la comunicazione si
ricercano obiettivi condivisi.
L’azione individuale si inscrive così in un quadro di consapevolezza degli effetti delle
proprie azioni, delle regolazioni del comportamento in
considerazione del fatto che
ha implicazioni e conseguenze ad un livello extra-individuale, collettivo, sociale. Se
l’individuo agisce responsabilmente in un ambiente che
produce comportamenti responsabili il circolo virtuoso
della responsabilizzazione è
destinato ad autoalimentarsi.
toriale ANCI, Ed. CEL, Foggia, parte 54° “Il Servizio Sanitario Nazionale”, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli, S. Fini; M. Sammartino, nonché la recente sentenza Corte Costituzionale 325/2010.
Guida Normativa per l’Amministrazione Locale, Anno 2010 Collana Editoriale ANCI-ComuniCare, Editore EdK, Rimini, parte 52°, da p. 2334 a
p. 2335 “Il Servizio Sanitario Nazionale”, P.F. Bernacchi, F. Ciccarelli,
S. Fini, M. Sammartino.
La Codeterminazione nel Sistema della Partecipazione Aziendale in Germania, Hans Bockler Stiftung.
Practical Guidance on Stakeholder Parteicipation in Radiological Decision Making, in Stakeholder Participation in Radiological Decision
Making: Processes and Implications. Summary Report of the 3rd Villigen
Workshop, October 2003, NEA/OECD Paris 2004.
Reflections on the future of democracy in Europe, September 2005,
Council of Europe, www.coe.int.
www.giornaledifilosofia.net, Intervista a Danilo Zolo, I filosofi e la politica /6, 17-2-2008.
Recenti esperienze di governance partecipative sono state messe in atto con successo anche economico in Germania, La Codeterminazione nel
sistema della partecipazione aziendale in Germania, Hans Bockler Stiftung.
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Una salute differente
SALUTE E MEDICINA
DI GENERE
Le diseguaglianze e l’epidemiologia delle differenze
La prospettiva cui fare riferimento nella pratica clinica
La necessità di una cultura della diversità
fra i professionisti della salute
Linee guida e percorsi assistenziali
I Servizi sociosanitari dedicati alla persona
L’opportunità di rivedere la prescrizione ed il consumo dei farmaci
attualmente non diversificata per genere
Monografia a cura di Lucia Turco e Claudia Capanni
Centro studi Salute di genere – Azienda sanitaria Firenze
[email protected]
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Salute e Medicina di genere
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Presentazione
L’approccio di genere alla salute è una importante innovazione. Il genere è un determinante di salute e da tempo l’Organizzazione mondiale della sanità, le Conferenze internazionali sulla salute e le Direttive dell’Unione europea raccomandano di considerare e promuovere la prospettiva di genere nella erogazione delle cure mediche e dei servizi sanitari. Vi
sono importanti “differenze di genere” nella salute e nella malattia, nei comportamenti e nel ricorso all’assistenza sanitaria. Vi sono profonde differenze nella epidemiologia, nei fattori di rischio, nella fisiologia e fisiopatologia, nella modalità di insorgenza delle malattie, nella risposta ai farmaci. Le donne sono da sempre paradossalmente sottostimate nelle
sperimentazioni farmacologiche e negli studi clinici.
Di conseguenza, le cure mediche rivolte alle donne sono compromesse da un vizio di fondo: i metodi utilizzati nelle sperimentazioni farmacologiche e cliniche e la successiva analisi dei dati risentono di una prospettiva maschile che sottovaluta le variabili sesso-genere.
La ricerca biomedica e la letteratura scientifica in questo settore danno ogni giorno più evidenza al ruolo del determinante genere nella salute. Nonostante ciò l’approccio di genere rimane una criticità. I professionisti e il mondo sanitario
non hanno ancora oggi le conoscenze e gli strumenti per affrontare questo aspetto.
Riconoscere le differenze biologiche, anche quelle relative alla dimensione sociale e culturale del genere, è essenziale per
delineare programmi ed azioni, per organizzare l’offerta dei servizi, per indirizzare la ricerca, per analizzare i dati statistici, per giungere a decisioni cliniche basate sull’evidenza sia nell’uomo che nella donna.
Un Centro studi per la Salute di genere è quanto concretamente è emerso dagli operatori che si sono impegnati in questo
settore ed è il percorso che l’Azienda Sanitaria di Firenze sta esplorando per dare una risposta integrata, sostenuta dalla
Medicina basata sull’evidenza, per rispondere alle molte domande ancora aperte e per favorire quel percorso che lo scenario disegnato sta fortemente chiedendo.
Con questa monografia abbiamo cercato, con l’apporto di discipline scientifiche ed umanistiche, di dare uno spaccato e
spunti di riflessione su questa ampia tematica, auspicando di portare un contributo di conoscenza.
Ringrazio tutti gli autori per la collaborazione e per la grande partecipazione a questa iniziativa.
Un particolare ringraziamento a Flavia Franconi “pioniera” e grande esperta di questa materia, per la passione e l’entusiasmo che ci ha saputo trasmettere accompagnandoci in questo percorso.
Lucia Turco
Responsabile Centro studi Salute di genere
Azienda sanitaria Firenze
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Laura Canavacci
Segreteria scientifica
della Commissione regionale
di Bioetica - Regione Toscana
Because of the numbers of people
involved and the magnitude of
the problems, taking action to
improve gender equity in health
and to address women’s rights to
health is one of the most direct
and potent ways to reduce health
inequities and ensure effective
use of health resources.
World Health Organization, 20071
I
l principio di eguaglianza
di tutti gli esseri umani è
uno dei capisaldi sui quali
le società occidentali hanno
costruito le proprie identità
moderne, il fondamento per la
realizzazione dello Stato di
diritto e l’organizzazione democratica degli Stati. La stessa idea di eguaglianza è centrale in tutte le teorie filosofiche della moralità 2, nonché
importante riferimento per le
principali confessioni religiose. A tale principio si ispirano
la nostra Costituzione (art. 3:
“Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. È compito
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Salute e Medicina di genere
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Le diseguaglianze
della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico
e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”); i più importanti codici
etici internazionali (Dichiarazione universale dei diritti
umani, art. 1: “Tutti gli esseri
umani nascono liberi ed
eguali in dignità e diritti”;
Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, capo
terzo, art. 21: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione
fondata, in particolare, sul
sesso, la razza, il colore della
pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o
le convinzioni personali, le
opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali”); e, per
quel che concerne l’ambito
della salute, i codici deontolo-
Un approccio complessivo per superare tutte
le diversità di tutela della salute fra i generi
gici (Codice di deontologia
medica, art. 3: “Dovere del
medico è la tutela della vita,
della salute fisica e psichica
dell’Uomo e il sollievo dalla
sofferenza nel rispetto della
libertà e della dignità della
persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia,
di religione, di nazionalità, di
condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in
tempo di guerra, quali che
siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”) e i principali indirizzi etici internazionali (Dichiarazione universale sulla Bioetica e
i diritti umani dell’UNESCO,
art. 21: “Si deve rispettare la
fondamentale uguaglianza di
tutti gli esseri umani in dignità e diritti, così che tutti
siano trattati in modo giusto
ed equo”). Anche solo riflettendo su questo incompleto e
sommario elenco, appare evidente come il principio di
eguaglianza, più che un valo-
re descrittivo (ricordare la comune appartenenza al genere
umano), possieda invece un
valore normativo, ovvero vincoli all’esercizio dell’uguaglianza come indicatore del
grado di civiltà cui una società è giunta: le differenze
che caratterizzano ciascun individuo come unico e differente da tutti gli altri, non
possono dare ragione ad una
sua discriminazione sul piano
del riconoscimento dei diritti
che gli appartengono come
essere umano e cittadino, e
obbligano invece la società ad
un impegno attivo per la rimozione di quegli ostacoli
che, proprio in ragione delle
differenze, dovessero limitarne la libertà di esercizio.
Il rapporto tra uguaglianza e
differenza, tema centrale di
tanta riflessione delle donne,
non è di opposizione, poiché
l’eguaglianza si oppone alle diseguaglianze e non alle differenze3. L’eguaglianza, infatti,
World Health Organization (2007), Unequal, unfair, ineffective and inefficient - gender inequity in health: why it exists and how we can change it,
Final report of the Women and Gender Equity Knowledge Network of the Commission on Social Determinants of Health, Geneva.
2 I. Carter, L’idea di eguaglianza, Feltrinelli, Milano 2001, con saggi di R.J. Arneson, R. Dworkin, T. Nagel, A. Sen, B. Williams.
3 “Rivendicata l’esistenza di due sessi come fonte di una nuova comprensione del mondo e di un nuovo ordine sociale, si è pensato, con un certo
1
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Salute e Medicina di genere
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non cancella le differenze,
poiché esse fanno parte della
sua stessa ragion d’essere: ma
se riconosciamo il valore delle
differenze, in che cosa allora
siamo tutti eguali4? Per il solo
ambito di cui ci stiamo occupando, la salute (che è già
imbarazzante parlare di temi
come questi che portano al
seguito millenni di storia della riflessione filosofica), l’obiettivo da raggiungere per
tutti è quello indicato già nel
Preambolo all’atto costitutivo
dell’OMS (1946): “il possesso
del miglior stato di salute che
è capace di raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano,
quali che siano la sua razza,
la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione
economica e sociale”, laddove
per salute si intendeva e si intende “uno stato di completo
benessere fisico, mentale e
sociale”, e non solo l’assenza
di malattia o di infermità. Un
obiettivo alto, dunque, soprattutto se si considera che,
come precisato nel 1986 dall’OMS nella Carta di Ottawa,
godere della salute significa
anche essere in grado di identificare e realizzare le proprie
aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente o adattarvisi. Un concetto, quello di salute, che
negli ultimi anni è stato spesso riletto alla luce delle riflessioni del premio Nobel
Amartya Sen e della studiosa
Martha Nussbaum5, nella prospettiva delle “capacità umane”, ovvero di ciò che le persone sono effettivamente in
grado di essere e di fare, e che
devono essere accresciute per
produrre salute o, laddove
compromesse, ripristinate
con interventi di cura.
La salute di fronte alla quale
siamo, o dovremmo essere,
tutti eguali, è dunque una risorsa della vita quotidiana di
pertinenza non esclusiva del
settore sanitario, i cui requisiti devono essere visti in
un’ottica intersettoriale 6 e
promossi al fine di mantenere, promuovere o migliorare
lo stato di “salute possibile”
di ciascuno che, tuttavia, non
potrà che essere diverso da
soggetto a soggetto. Rispetto
alla salute, dunque, quali e
quante diseguaglianze è possibile accettare7. Non tutte le
diseguaglianze di salute, infatti, sono inique: alcune di-
pendono dalla variabilità biologica, altre dal caso o da
comportamenti che sono liberamente scelti da coloro
che ne sono poi danneggiati.
Quelle che creano responsabilità collettiva, invece, sono le
differenze non necessarie,
prevedibili, evitabili e dunque ingiuste8. Non intervenire su tali differenze è fonte di
ingiusta discriminazione proprio perché fare parti uguali
tra persone differenti, senza
tentare di correggere o compensare gli svantaggi, viola il
principio etico di eguaglianza
dei diritti.
La questione dell’equità nelle
opportunità di godere di una
buona salute è un tema centrale per la sanità pubblica
che, negli ultimi decenni, ha
focalizzato in particolare la
propria attenzione sull’analisi di quelle diseguaglianze
che caratterizzano, anche se
con profili differenti, tutte le
società: mi riferisco alle differenze di salute tra uomini e
donne9.
Il tema delle differenze tra
uomini e donne si è inserito
nel dibattito sui diritti delle
donne e nella riflessione femminista già dagli anni ’80,
quando l’approccio basato
sulla rivendicazione della parità dei diritti, pur avendo
conseguito fondamentali risultati nella conquista dei diritti fondamentali per le donne, mostrò il proprio limite
proprio nella incapacità di fare luce sulle differenze che
caratterizzano la biologia e il
vissuto femminile, mancando
quindi di riconoscerne le peculiarità e avvalorando un
processo di assimilazione nel
quale le donne non si riconoscevano e fallivano nel tentativo di realizzarsi e di realizzare il proprio potenziale di
salute10.
Le differenze tra uomini e
donne, come è ovvio, sono in
parte da riferire al sesso, ovvero a quelle caratteristiche
biologiche e fisiologiche che
differiscono tra i sessi; ma in
larga parte esse dipendono
dall’insieme dei ruoli sociali,
storicamente prodotti, che
caratterizza i due sessi: è in
questa seconda prospettiva
che si parla di diseguaglianze
di genere, di quelle differenze
che spesso penalizzano il
mondo femminile e che sono
appunto condizionate da fattori ambientali e culturali e
eccesso di ingenuità, che la differenza fosse una novità epistemologica tale da superare l’eguaglianza come principio etico-politico della convivenza, e addirittura da inficiarne il valore normativo. Si è visto nell’eguaglianza il valore che di per sé cancella le differenze e occulta l’esclusione: lo
strumento di un accordo tra maschi per escludere le donne dalla cittadinanza. (…) Come ha osservato Sylviane Agacinski, si tratta di un errore filosofico: la differenza si oppone all’identità, non all’eguaglianza; l’eguaglianza si oppone alla diseguaglianza, non alla differenza”. C. Mancina, Oltre il femminismo, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 8-9.
4 A.K. Sen, Eguaglianza, di che cosa?, in Scelta, benessere ed equità, Il Mulino, Bologna 1962.
5 A.K. Sen, Capabilities and Commodities, Elsevier, Amsterdam 1985; M. Nussbaum, A.K. Sen (eds.), The Quality of Life, Oxford University
Press, Oxford 1993.
6 Si veda la Dichiarazione La salute in tutte le politiche, Conferenza dei Ministri della salute dei 27 Paesi della UE, Roma, 18 dicembre 2007.
7 C. Arnsperger, P. Van Parijs, Quanta disuguaglianza possiamo accettare?, Il Mulino, Bologna 2003.
8 Comitato Nazionale per la Bioetica, Orientamenti bioetici per l’equità nella salute, 2001; M. Whitehead, The concept and principles of equity
and health, International Journal of Health Services, 22 (3), 1992, pp. 429-45.
9 W.A. Rogers, Feminism and public health ethics, Journal of Medical Ethics, 32, 2006, pp. 351-4.
10 R. Braidotti, Il paradosso del soggetto femminile femminista. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender teorie, in Aa.Vv., La differenza
non sia un fiore di serra, Franco Angeli, Milano 1991; M.L. Boccia, C. Buffa, L’eclissi della madre, Nuove Pratiche, Milano 1998; F. Restaino, A.
Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999; F. Sartori, Differenze e diseguaglianze di genere, Il Mulino, Bologna 2009.
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Salute e Medicina di genere
da quei costrutti sociali che
determinano, diversamente
per ciascuna società e nei diversi periodi, i ruoli, i comportamenti, le attività e le
qualità adeguati alle donne e
agli uomini.
Le diseguaglianze di genere,
associate ad altri determinanti, come le condizioni socio-economiche11, l’età o l’etnia, producono in tutto il
mondo diseguaglianze nello
stato di salute di uomini e
donne e nell’accesso alle cure
mediche, che, sistematicamente, si traducono in perdita di salute per le donne e loro minore capacità di accesso
alle risorse di salute 12 . Tali
caratteristiche variano di luogo in luogo e non sono statiche nel tempo: ciò spiega la
complessità di un’analisi di
genere finalizzata alle politiche sanitarie, ma anche il forte impegno che in questo settore deve essere profuso, poiché, in ragione del gran numero di persone coinvolte e
del ruolo cruciale che le donne svolgono all’interno delle
società (anche come “health
provider” formali e informali), contenere le diseguaglianze di genere significa
mirare ad un sostanziale miglioramento dell’equità in salute e ottenere un effettivo
guadagno in salute per tutti,
bambini, uomini e donne.
Per le ragioni sopra riportate
assistiamo negli ultimi anni
ad una straordinaria proliferazione di documenti e programmi d’azione prodotti dalle principali organizzazioni
internazionali che, affiancati
alla sterminata letteratura in
tema di gender studies e diseguaglianze di genere, rende
ad oggi assai ricco il panorama in materia. A fronte di tale ricchezza nella riflessione
teorica e programmatica, si
riscontra però una realtà ancora fortemente sfavorevole
alle vita e alla salute delle
donne13: nel mondo le donne
sono ancora più povere, meno
istruite, con minor reddito,
con minori diritti civili. Anche nei Paesi ad alto sviluppo
come il nostro, la maggioranza delle donne resta ancora
esclusa dai luoghi decisionali
delle istituzioni, della politica, della produzione. Per
quanto concerne la salute, le
donne vivono mediamente
più a lungo degli uomini, ma
non vivono vite più sane e gli
anni guadagnati rispetto alla
vita degli uomini sono spesso
afflitti da malattia e disabilità. Vi sono condizioni (come
la gravidanza e il parto) che
riguardano solo le donne e
che le espongono a rischi gravi per la salute e la vita e che
ancora oggi sono affrontate
con non sufficiente attenzione ai bisogni specifici delle
donne (per non considerare
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la loro sistematica medicalizzazione e commercializzazione). Altre malattie colpiscono sia gli uomini che le donne, ma hanno un impatto
maggiore sulle donne sebbene non siano affrontate dai
sistemi sanitari con una prospettiva adeguata alle specificità femminili. Altre malattie, infine, colpiscono egualmente uomini e donne, ma
vedono queste ultime in maggiore difficoltà nell’accedere
alle cure necessarie. Inoltre,
le diseguaglianze di genere
limitano sostanzialmente la
capacità delle donne di proteggere e promuovere la loro
salute. Senza considerare poi
la condizione delle donne che
vivono nei Paesi a basso sviluppo, nei quali, sebbene
molti programmi siano avviati e molto sia stato fatto, la
salute delle donne è ancora
un obiettivo in larga parte
mancato (il 99% delle morti
per parto ogni anno avviene
nei Paesi in via di sviluppo,
dato questo che fa riflettere
su quanto debba ancora essere fatto in materia di morti
evitabili).
A rendere ancora più complesso il lavoro per affrontare
e contenere le iniquità generate delle differenze di genere concorre poi la difficoltà di
disporre di dati aggiornati e
attendibili sulle condizioni,
le malattie e le cure riguar-
danti le donne: è il caso della
sperimentazione clinica, che,
per ragioni ben note, manca
sistematicamente di arruolare un numero sufficiente di
donne e che soffre sostanzialmente di una visione improntata all’universo maschile che
la rende incapace di progettare la ricerca in modo utile a
far luce sulle specificità femminili. Più in generale, la Medicina nel suo complesso e i
Sistemi sanitari, sono strutturati coerentemente al sistema di potere proprio delle società nelle quali operano, e,
come queste, adottano obiettivi, metodologie, strumenti
non rispondenti ai bisogni
propri delle donne.
Il danno di salute derivante
dalle iniquità di genere, è
subìto dalle donne soprattutto quando divengono anziane: considerati gli effetti della transizione demografica ed
epidemiologica, nonché quelli economici e sociali della
crisi che stiamo attraversando (ricordiamo che, in tutte
le situazioni di conflitto, di
crisi o di emergenza, le donne
pagano un tributo di salute
più alto degli uomini), appare
ancora più chiaro perché
l’OMS, e con lei tutte le maggiori organizzazioni internazionali14, abbiano individuato in questo settore una vera
e propria emergenza.
È certamente vero che anche
11 N.E. Moss, Gender equity and socioeconomic inequality: a framework for the patterning of women’s health, Social Science a Medicine, 54,
2002, pp. 49-661.
12 WHO, Karolinska Istitutet, Unequal, Unfair, Ineffective and Inefficient. Gender Inequity in Health: Why it exists and how we can change it,
2007. Final Report to the WHO Commission on Social Determinants of Health. WHO, Women and health: today’s evidence tomorrow’s agenda,
2009; European Communities, Data and information on women’s health in the European Union, 2009.
13 In aggiunta ai documenti già segnalati in nota 12, si legga, per lo specifico dell’Italia: Ministero della Salute, Primo rapporto sui lavori della
Commissione “Salute delle donne”, 2008; Ministero della Salute, La salute delle donne. Un diritto in costruzione, 2008.
14 Si veda, ad esempio, The World Bank, World development report 2012. Gender equality and development, Washington DC 2011.
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la Medicina ha preso atto della necessità di riorientare le
proprie conoscenze e i propri
strumenti in una dimensione
più responsabile rispetto alle
diseguaglianze di genere: la
Medicina di genere, infatti,
nasce proprio con l’intento di
studiare le differenze tra uomini e donne, non solo quelle
anatomo-fisiologiche, ma anche le differenze biologiche,
funzionali, psicologiche, sociali e culturali che caratterizzano le malattie e la risposta alle cure. Allo stesso modo anche la Sanità pubblica e
i Governi degli Stati cominciano a raccogliere la sfida alla salute rappresentata dalle
differenze di genere, spinti in
questa direzione da una pressione sempre più costante da
parte dell’OMS15.
In tutti i settori, dunque,
tanto scientifici che politici,
è ormai evidente come sia necessario identificare, studiare
e orientare gli interventi in
modo tale da fronteggiare le
iniquità derivanti dai differenti ruoli svolti da uomini e
donne e dell’iniqua divisione
del potere tra i due, al fine di
ridurre le conseguenze negative di queste diseguaglianze
sulla vita, la salute e il benessere delle donne. Adottare
una prospettiva di genere,
tuttavia, non significa unicamente aggiungere dati e
obiettivi di genere alla normale programmazione (scientifica o politica che sia); non
significa neppure creare nuove specializzazioni o nuovi
uffici preposti. Pensare il genere implica infatti un cambiamento paradigmatico che
vincola ad adottare sempre
un’ottica differenziata, per
uomini e donne, e per singoli
individui. Se poi, al momento
attuale, l’acquisizione di dati
disaggregati per genere e di
conoscenze specifiche relative alle condizioni della donna
costituiscono un primo passo
necessario, l’obiettivo deve
tuttavia essere molto più ampio: accanto alla lotta per la
difesa dei diritti delle donne
e per il riconoscimento della
loro piena cittadinanza e l’accesso ai ruoli di leadership, vi
sono altre strategie ormai
consolidate e che devono essere sempre tenute in considerazione. In primo luogo l’idea di empowerment delle
donne: aumentare la capacità
delle donne di compiere scelte consapevoli per la loro salute e di trasformare tali scelte nelle azioni e nei risultati
voluti16. Associata all’idea di
empowerment vi è poi quella
strategica di gender mainstreaming 17 : tale approccio
nasce dalla consapevolezza
che nessuna strategia tecnica
sarà mai sufficiente a migliorare la condizione delle donne a meno che non si contrasti la discriminazione e l’iniquità che permea la struttura
dei Governi e delle Organizzazioni, anche quelle sanitarie:
ciò implica che l’attenzione
al genere sia praticata in ogni
intervento o azione, mediante una sistematica analisi di
genere (che comporta anche
un bilancio di genere sull’impatto degli interventi, delle
strategie e delle politiche) e
un impegno costante per bilanciare in maniera equa tra
uomini e donne il potere e la
distribuzione delle risorse
utili per la salute. Un tale
obiettivo implica ripensare
completamente l’attività di
ciascuno e i propri progetti,
poiché richiede che la prospettiva di genere non sia più
il fine, ma il mezzo con cui si
costruisce l’azione stessa 18.
Tutti gli operatori sanitari
dovrebbero dunque avere le
conoscenze necessarie e la
consapevolezza di come il genere agisce sulla salute e, in
ogni intervento, quando appropriato, prendere in considerazione le questioni di genere al fine di rendere più efficace ed equa la loro azione:
questo non è solo un indirizzo operativo, sempre più necessario, ma anche un imperativo etico che esorta ciascuno all’assunzione di una
specifica responsabilità, nell’accezione anglosassone di
accountability: superare l’apparente neutralità delle politiche e degli interventi, dando conto delle differenze e
soprattutto delle diseguaglianze inique che possono
essere superate.
WHO, ‘En-gendering’ the Millennium Development Goals (MDGs) on Health, 2003; WHO, Strategy for integrating gender analysis and actions into the work of WHO, 2007; The World Health Assembly, Resolution WHA60.25 on the Strategy for integrating gender analysis and actions
into the work of the World Health Organization (WHO Gender Strategy), 2007; WHO, How can gender equity be addressed through health systems?, 2009; WHO, Human rights and gender equality in health sector strategies: how to assess policy coherence, 2011.
16 Per l’uso di questo concetto applicato quale strategia di promozione femminile, si veda la Quarta conferenza mondiale sulla condizione della
donna nel mondo, tenutasi a Pechino nel settembre 1995.
17 WHO, Mainstreaming gender equity in health: the need to move forward. Madrid statement, 2001; WHO, Gender mainstreaming in WHO:
where are we now: report of the baseline assessment of the WHO gender strategy, 2011; WHO, Human rights and gender equality in health sector
strategies: how to assess policy coherence, 2011; WHO, Gender mainstreaming for health managers: a practical approach, 2011.
18 T. Agostini, Alle radici della disuguaglianza. Manuale di pari opportunità, Marcianum Press, Venezia 2011.
15
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Francesco Cipriani
Coordinatore Osservatorio
di Epidemiologia
Agenzia regionale di Sanità
della Toscana
[email protected]
T
ra gli epidemiologi è regola consolidata analizzare ed interpretare i
dati dei loro studi descrittivi
o analitici separatamente per
maschi e femmine. L’esperienza insegna, infatti, che le
statistiche sulla distribuzione
dell’insorgenza e degli esiti di
molte condizioni patologiche
differiscono spesso per genere. Con variazioni che tendono a essere più marcate nelle
età che corrispondono al periodo fertile femminile, di
meno in età prepubere e dopo
i 50 anni. Scorriamo le evidenze più macroscopiche.
Anche se di poco, nascono
sempre ed ovunque più maschi che femmine. Ma già in
età adulta – intorno ai 40 anni – le femmine in Italia sorpassano numericamente i maschi, staccandoli con inesorabile progressione con l’avanzare dell’età, tanto che quelle
che arrivano a dopo gli 80 anni si ritrovano ad essere il
doppio dei maschi. È un dato
demografico storicamente
consolidato: le donne muoiono meno degli uomini. Dunque vivono di più. Mediamente ad oggi oltre 5 anni in più
dei maschi. Perché nel corso
della vita hanno mantenuto
stili di vita e comportamenti
più adeguati e moderati o anche perché biologicamente
avvantaggiate. Almeno quelle
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Salute e Medicina di genere
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Epidemiologia
delle differenze
che nei Paesi ad economia
avanzata superano senza problemi gravidanze e maternità. Qualcosa forse di scritto
nel braccio corto che l’uomo
ha perso nel suo Y. Forse meccanismi filogenetici di protezione che hanno a che fare
con la perpetuazione della
specie. In ogni caso, oggi una
neonata può attendersi di vivere almeno 84 anni se nata
in Italia e quasi 85 se nata in
Toscana, mentre un neonato
italiano può contare su 79
anni, e qualche mese in più
se toscano (Grafico 1). Valori
leader nel mondo e che la
prestigiosa rivista “Science”
alla fine degli anni ’90 indicava già come limite per la specie umana. Di fatto invece già
superati oggi dal Giappone e
rivisti al rialzo nelle stime internazionali per il 2050: 88,4
anni per le donne e 82,5 per i
maschi se nati in Italia – e
per i toscani dovrebbe essere
ancora qualcosina in più.
In pratica negli ultimi 50 anni l’aspettativa di vita alla
nascita è cresciuta a livello
nazionale di tre mesi ogni anno. Il guadagno di anni di vita negli anni ’60 era sostenuto perlopiù dalla diminuzione
della mortalità infantile e
giovanile, mentre fin dagli
anni ’80 è causato dalla riduzione progressiva della mortalità nelle età più anziane.
Comportamenti e stili di vita che favoriscono
la maggiore longevità femminile
Sono soprattutto le donne di
oltre 65 anni ad avvantaggiarsi dai maggiori guadagni
di sopravvivenza, anche se in
misura minore dopo gli 80
anni.
Le malattie cardiovascolari
sono quelle che più hanno inciso sull’incremento di vita
negli ultimi 50 anni, con riduzione della mortalità per
questa causa in tutte le età,
anche dopo gli 80 anni, ed in
misura maggiore nelle femmine rispetto ai maschi. Tumori
e incidenti stradali sono le altre cause rilevanti che influenzano il guadagno di anni di vita, in modo diverso
però per classe di età e per
sede tumorale.
La sopravvivenza in aumento
degli italiani – soprattutto
delle italiane – si accompagna a un incremento della
popolazione anziana e molto
anziana, dove si concentra la
condizione di fragilità, che
aumenta vistosamente dopo i
75 anni. Con questa, aumenta inevitabilmente la multimorbosità e la conseguente
disabilità, così da creare un
differenziale di genere questa
volta a svantaggio delle donne: quasi la metà delle donne
dopo gli 80 anni è disabile rispetto al 36% dei maschi. È
soprattutto la disabilità più
grave che si concentra nell’ultimo periodo di vita delle
donne.
Dunque, le donne muoiono
meno dei maschi, ma rispetto
a loro si ammalano di più, soprattutto con l’avanzare dell’età. Con il superamento dell’età fertile, con l’arrivo della
menopausa, i processi di decadimento biologico sembrano accelerare di più rispetto
ai coetanei maschi. Come nel
caso delle lesioni ateromatose, meno frequenti nelle donne rispetto ai maschi in età
relativamente giovanile, ma
con più rapido accrescimento
negli anni dopo la menopausa. Nel corso del 2010, infatti, quasi il 9% delle donne
italiane dichiara di sentirsi
male o molto male, rispetto al
5% dei maschi. In Toscana le
cose sono simili anche se
vanno un po’ meglio per le
donne (7% nelle femmine e
5% nei maschi). E anche la
frequenza dichiarata di gravi
limitazioni nelle attività è
maggiore nelle femmine rispetto ai maschi.
Sono soprattutto gli stili di
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Grafico 1. Aspettativa di vita alla nascita in Toscana dal 1995 al 2008. Maschi e Femmine.
Da: ARS, 2011.
vita – fumo, alcol, alimentazione, attività fisica – a determinare la salute di maschi
e femmine, e ad a incidere
sulla frequenza delle principali malattie croniche: malattie cardiovascolari e respiratorie, tumori, diabete. Scelte
individuali, ma fortemente
condizionate dal contesto
ambientale e dalla pressione
sociale dove si vive. Dalle indagini nazionali e regionali
sappiamo che le donne sono
sempre più morigerate dei
maschi.
Rispetto ai maschi sono meno
spesso fumatrici, e se fumano, sono meno spesso forti
fumatrici. Fuma una su 6, e
così era ancora trent’anni fa.
Quando i maschi invece per
oltre la metà erano fumatori,
ma poi – grazie anche a politiche efficaci di prevenzione
– hanno cominciato a smettere, tanto che i maschi fumatori adesso sono il 30% del
totale. I messaggi salutistici
evidentemente hanno avuto
per ora minore presa sulle
donne. Le più giovani, ancora
adolescenti, iniziano a fumare sempre prima, prima dei
maschi e più di prima, con effetti negativi sulla salute che
già si fanno sentire e che aumenteranno nei prossimi anni – vedi incremento del tumore del polmone nelle donne adulte.
Dallo studio toscano triennale sui comportamenti a rischio dei ragazzi, emerge con
chiarezza che tra i 14 ed 17
anni sono più le ragazze dei
ragazzi a fumare e sono anche più precoci. Poi dopo i 18
anni le cose si invertono. I
giovani maschi sembrano
aver imboccato strade più
virtuose, anche grazie alla
crescente cura per l’estetica
del corpo, pur con rilevanti
differenze di classe sociale.
Sembra che le donne sul fumo siano in ritardo sui trend
generazionali dei comporta-
menti di vita. Con un chiaro
effetto della classe sociale in
direzione opposta per maschi
e femmine: fumano di meno i
maschi di classe sociale più
elevata e di più le femmine di
pari classe sociale, in una
sorta di emancipazione tardiva. E questo è coerente con la
più alta frequenza attualmente di donne fumatrici
nelle Regioni del centro-nord
rispetto a quelle del sud, e
viceversa per i maschi (più
fumatori al sud rispetto al
centro-nord).
L’alcolismo
Discorso un po’ più complesso
per l’alcol. Le donne in tutto
il mondo bevono meno dei
maschi – almeno la metà. Ma
secondo i dati più recenti, in
Italia ed in Toscana nell’età
adolescenziale e giovanile le
differenze di genere si stanno
assottigliando. Le ubriacature nell’ultimo anno hanno riguardato più di un ragazzo o
una ragazza tra i 14 e 15 anni
su tre, con queste spesso più
precoci dei loro coetanei. Poche differenze di genere anche per il bere smodato – 5 o
più bicchieri o bicchierini di
alcolici in un’unica occasione. Per le ragazze ed i ragazzi
siamo vicini ormai ai modelli
di approccio all’alcol tipico
dei Paesi nord europei – bere
per l’effetto psicotropo piuttosto che per il gusto – in un
chiaro processo di omologazione e convergenza internazionale degli stili di vita.
I più adulti, invece, risentono
ancora della tradizione e cultura mediterranea, dove il bere si accompagna al mangiare
ed è cosa più “da uomini”.
Nelle Regioni del nord e centro si beve più che al sud, e
questo è vero in entrambi i
generi. Ovunque però i maschi consumano quasi il doppio delle femmine. La dieta
alcolica in entrambi i sessi è
dominata dal consumo di vino – oltre l’80% del consumo
totale di alcol – mentre la birra ha spazio maggiore solo tra
i più giovani. Tenendo conto
che 20 grammi di alcol al
giorno per le femmine e 40
per i maschi rappresenta il limite di sicurezza per evitare
problemi di salute – le donne
sono più sensibili agli effetti
nocivi biologici dell’alcol – in
Italia oltre una donna su 10
si trova nell’area del consumo
eccessivo (femmine: 12%;
maschi: 9,0%), che le espone
a rischi sanitari. Secondo le
stime toscane, quasi 2 decessi
su 100 nelle donne sono causati da consumo inadeguato
di alcol (4% nei maschi).
Nei giovani, la guida sotto
l’effetto dell’alcol è al momento un comportamento
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diffuso – quasi il 10% dei ragazzi che guidano lo ha fatto
in questo stato nell’ultimo
anno – più tra i maschi che
tra le femmine. In generale,
le donne appaiono più prudenti, meno amanti dell’azzardo e rispettose del Codice
della strada.
Attività fisica
Su attività fisica e peso corporeo le donne italiane sono
messe un po’ peggio dei maschi. Ma questo è vero in quasi tutto il mondo e l’OMS segnala una tendenza al peggioramento. Attualmente
quasi la metà delle donne italiane è sedentaria e solo una
su 6 pratica qualche attività
sportiva continuativa. In età
giovanile – tra 14 e 19 anni –
le sedentarie sono quasi una
su tre, valore pressoché doppio rispetto ai coetanei maschi. Un comportamento che
ha dei riflessi sui maggiori livelli di stress, depressione e
malattie invalidanti nell’età
più avanzata delle donne. Le
femmine sono più sedentarie
dei maschi a tutte le età, con
un differenziale massimo dopo i 70 anni. La sedentarietà
è più diffusa nelle classi più
svantaggiate, nelle Regioni
del sud e nell’età avanzata.
Anche tra i ragazzi toscani si
conferma la tendenza maggiore delle femmine a non
praticare sport rispetto ai loro coetanei, anche se qualche
punto di incremento percentuale si rileva negli ultimi anni. I nuovi modelli estetici
della cura del corpo facilitano
probabilmente questa tendenza. Siamo ancora lontani
però dalle raccomandazioni
internazionali per una vita
attiva e dinamica.
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Salute e Medicina di genere
Il peso corporeo
Il peso corporeo, sappiamo,
dipende dalla alimentazione,
attività fisica e – in misura
modesta – dai tratti genetici.
Dai dati toscani ed italiani
emerge che dall’adolescenza
in poi sovrappeso ed obesità
sono più frequenti nei maschi
rispetto alle femmine, con
minori differenze se si tratta
di obesità. Negli adulti il sovrappeso interessa 4 maschi
su 10 e meno di tre femmine
su 10, mentre l’obesità interessa 1 maschio su 10 e un
po’ meno tra le femmine
(0,8%). Solo dopo i 75 anni
l’obesità è più frequente nelle
femmine. Obesità e sovrappeso sono in aumento in Italia,
anche se ancora non ai livelli
epidemici di altri Paesi, segnando non più di due punti
percentuali di incremento
nell’arco degli ultimi 10 anni.
È evidente un gradiente geografico di peggioramento dell’obesità e sovrappeso da
nord a sud, così come una
diffusione maggiore nelle
classi sociali più svantaggiate. La condizione di sottopeso è più frequente nelle donne a tutte le età, con massimo differenziale di genere tra
i 18 ed i 24 anni. Il sottopeso
patologico legato all’anoressia, sebbene raro, è tipico di
questo periodo della vita
femminile, in aumento negli
anni più recenti e con abbassamento dell’età d’esordio.
Incrementi di disturbi del
comportamento alimentare
sono segnalati negli anni più
recenti anche nei maschi. In
indagini scolastiche campionarie, si è stimato che il 12%
delle ragazzine e il 3% dei ragazzini sono a rischio di disturbi alimentari.
N. 188 - 2011
I comportamenti alimentari
Poco sappiamo dei normali
comportamenti alimentari
degli italiani. Nel 2010 solo il
5% consuma almeno le 5 porzioni/die di frutta e verdura
raccomandati, mentre la
metà consuma dolci tutti i
giorni. Le donne sembrano
più attente al consumo di
frutta, verdura, latte e formaggio, rispetto ai maschi
che invece consumano un po’
più carne, salumi, pasta,
snack e dolci. Sembrano perciò più orientate a consumi
alimentari salutistici.
I comportamenti sessuali
Molto poco sappiamo sui comportamenti sessuali. Nello studio toscano sui ragazzi di 1418 anni, emerge con chiarezza
che tra quelli sessualmente
attivi, l’uso del profilattico diminuisce con il crescere dell’età e del numero dei partner,
soprattutto tra le ragazze.
Il profilattico è percepito come strumento di prevenzione
della gravidanza e non come
protezione da rischi per la salute – AIDS e malattie a trasmissione sessuale. Peraltro,
anche tra i metodi anticoncezionali utilizzati dalle ragazze
sessualmente attive, tra il
2005 ed il 2008 diminuisce
l’uso del profilattico (dal 57%
al 53%) a favore della pillola
(da 20% al 22%) e di nessun
metodo contraccettivo (dal
14% al 17%). Importante anche il rilievo che tra le ragazze
con meno di 14 anni, ben il
13% ha fatto uso di sostanze
stupefacenti nel periodo che
precede il rapporto sessuale, a
fronte del 10% dei coetanei
maschi. Alcol e stupefacenti
sono di ostacolo maggiore all’uso del profilattico.
Uso di droghe
Riguardo all’uso di droghe, da
tutte le indagini – internazionali e nazionali – sappiamo
che la proporzione di consumatori è sempre più elevata
nei maschi, anche se si osserva una tendenza alla convergenza tra i due generi negli
anni più recenti. È un comportamento correlato all’età
giovanile, più sviluppato nei
Paesi industrializzati e con
bassa mortalità generale. Secondo l’ultimo rapporto europeo, l’Italia si colloca tra i Paesi con la popolazione di 15-64
anni a più elevato consumo
nell’ultimo anno di cannabis
(14%) e cocaina (2%). Nell’indagine nazionale – ormai del
2007 – il consumo di cannabis
nella popolazione generale di
15-64 anni, almeno una volta
nell’ultimo anno, è più elevato
nei maschi rispetto alle femmine (18% e 12% rispettivamente), e doppio per cocaina
(M: 3,1%; F: 1,5%) ed eroina
(M: 0,5%; F: 0,2%). Tra i decessi per overdose, le femmine
rappresentano una parte minoritaria, circa il 13% del totale. Anche nelle rischiose
condizioni correlate ad abuso
di droghe, le femmine sembrano più morigerate.
Le malattie croniche
Significative differenze di genere si riscontrano anche rispetto ad altri fattori di rischio che favoriscono le malattie croniche. Secondo l’ultima datata rilevazione nazionale di dieci anni fa, circa una
donna su tre è ipertesa – e lo
stesso è vero per gli uomini –
e di queste una su tre non è
trattata farmacologicamente
(la metà nei maschi). Dopo la
menopausa l’ipertensione è
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più frequente nelle donne e
costituisce un fattore di rischio maggiore per eventi
cardiovascolari rispetto ai maschi. Una donna su 4 – ed un
uomo su 5 – è ipercolesterolemica e di queste solo il 15% è
trattata – come per i maschi.
Nelle donne l’incremento del
colesterolo si manifesta perlopiù dopo la menopausa, mentre nei maschi tende ad incrementare già dai 30 anni. Nelle
donne il rischio cardiovascolare correla meglio con i livelli
plasmatici di trigliceridi che
non con il colesterolo totale e
LDL, come invece accade per i
maschi.
La procreazione
Considerando la maternità e
gli esiti del parto, il fenomeno
forse più evidente è il continuo incremento dell’età media
al parto, che ha ormai superato quota 32 anni nelle donne
italiane – 29 nelle straniere –,
con un raddoppio in quasi dieci anni della proporzione di
donne che partoriscono dopo i
40 anni – oggi al 6,8%. Negli
ultimi 10 anni, in Italia la proporzione di straniere sul totale dei parti è cresciuta fino al
17% del 2008. Le donne italiane sono ai vertici mondiali,
con le messicane, per ricorso
al taglio cesareo – 38,4% su
100 nati vivi nel 2007-, con
progressivo aumento nel tempo, e con un gradiente geografico nord-sud in peggioramento. Insieme al Friuli VG e
le Province di Trento e Bolzano, la Toscana è tra le Regioni
più virtuose (26% di cesarei).
La percentuale di cesarei aumenta progressivamente con
l’età della madre ed è più ele-
vato nelle Case di cura private
(62%). E ciò nonostante che
mediamente un po’ in tutti i
Paesi, Italia compresa, le donne dichiarino che preferirebbero partorire in modo spontaneo (88% delle preferenze).
Il numero dei cesarei è minore
nelle strutture con maggiori
volumi di parti, ed il cesareo
si accompagna ad una maggiore mortalità e morbilità.
D’altra parte ancora nel 2008
il 23% dei parti in Italia avviene in strutture che non raggiungono gli 800 parti/anno.
Il rapporto di abortività spontanea – numero aborti spontanei per 1.000 nati vivi da
donne di età 15-49 anni – è in
costante incremento dagli anni ’80 fino ai valori di 135,7
per 1.000 nati vivi del 2007.
Permangono differenze geografiche con valori più elevati
al centro Italia, seguiti dal
nord e dal sud, forse anche
per le corrispondenti differenze nell’età al matrimonio
ed al parto in queste aree.
L’età della donna al parto è un
fattore di rischio noto per l’abortività spontanea che, infatti, cresce al crescere dell’età della donna, ad esclusione delle giovanissime (< 20
anni) che hanno tassi di abortività superiori a quelle della
classe di età successiva.
Diminuisce progressivamente
invece l’abortività volontaria
(IVG) nel corso degli anni in
Italia, fino ad un tasso di 8,6
per ogni 1.000 donne di età
15-49 anni del 2007. Dimezzata in un trentennio. Dei
circa 115.000 IVG del 2010,
3.800 sono realizzate con la
pillola Ru 486 (autorizzata
nel luglio 2009). Si tratta di
valori di IVG tra i più bassi a
livello europeo, soprattutto
tra le minorenni. La riduzione si è verificata un po’ in
tutte le classi di età. Nel corso del tempo si sono ridotte
significativamente anche le
differenze territoriali. L’abortività volontaria nelle minorenni (15-17 anni) è assestata sul 3 per 1.000 a livello nazionale, con una tendenza all’incremento, pur con lievi
oscillazioni. Elevato il ricorso
all’IVG da parte delle donne
straniere, pari al 33% di tutte
le IVG del 2009, di cui oltre la
metà di donne dell’Europa
dell’est, anche se negli ultimi
anni si osserva una tendenza
alla flessione.
Le donne, abbiamo detto, vivono più a lungo dei maschi,
ma si ammalano di più. Tra le
condizioni patologiche, quelle con maggior differenziale a
sfavore delle femmine sono
l’osteoporosi, le malattie della tiroide, la depressione ed
ansietà, la cefalea e emicrania, l’Alzheimer, la cataratta,
artrosi ed artrite, la calcolosi
e la disabilità. Tra le malattie
esclusivamente femminili,
l’endometriosi interessa una
donna su 10, e tre su dieci
donne infertili. È diagnosticata tardivamente – in media
dopo 9 anni – inducendo invalidità, sofferenza ed elevati
costi sociali. Le donne sono
anche le maggiori consumatrici di farmaci.
Gli infortuni domestici interessano in misura decisamente superiore le femmine rispetto ai maschi. In quanto
casalinghe ed anziane, passano più tempo in casa. Fino a
14 anni, invece, gli incidenti
domestici sono più frequenti
nei maschi. La mortalità per
incidenti domestici è invece
simile nei due sessi. In generale i maschi hanno una psicomotricità che li espone a
maggiori rischi di infortuni,
di tutti i tipi. Gli incidenti
stradali, soprattutto quelli
gravi, sono più frequenti nei
maschi, in parte perché più
spesso delle femmine sono alla guida di veicoli, ma anche
perché hanno comportamenti
più aggressivi. Gli incidenti
stradali sono in aumento, come in aumento è il traffico
veicolare, ma la mortalità è in
diminuzione.
Conclusioni
In conclusione, in Italia le
donne vivono più a lungo dei
maschi, ma si ammalano di
più, con maggiore esito in disabilità, soprattutto a partire
dal periodo post menopausale. Pur avendo comportamenti e stili di vita più adeguati e
moderati rispetto ai maschi,
nella fase adolescenziale le
giovani donne corrono rischi
nuovi e poco conosciuti.
Scarsa attività fisica e sportiva, più fumo, alcol e droghe
assunte con modalità sconosciute alle generazioni precedenti, minore attenzione alla
sicurezza nei rapporti sessuali, impongono un’attenzione
specifica a questa fascia di
età femminile ed interventi
di prevenzione appropriati.
La salute delle donne di domani si gioca nei comportamenti di oggi.
(segue a pag. 301)
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286
Alfredo Zuppiroli
Direttore Dipartimento
cardiologico - Azienda sanitaria
di Firenze
Presidente Commissione
regionale di Bioetica,
Regione Toscana
[email protected]
Gli organismi sono differenza.
Charles Darwin
Odio gli indifferenti.
Antonio Gramsci
A
nche nel settore delle
Malattie cardiovascolari (MC) vige il cosiddetto “paradosso donna”: le donne vivono più a lungo degli
uomini, ma in peggiori condizioni di salute. Le MC sono la
causa principale di morte per
le donne nei Paesi industrializzati e la loro incidenza non
è in calo come negli uomini.
Si stima che circa una donna
su due morirà per cardiopatia
o ictus, a fronte di una su 25
per carcinoma della mammella, tanto che la mortalità cardiovascolare nelle donne è 4
volte maggiore della somma
della mortalità per cancro del
seno, broncopneumopatia
cronica, incidenti, cancro del
polmone. Le donne muoiono
più degli uomini nel primo
anno dopo un infarto o dopo
un intervento di bypass aortocoronarico, ed hanno un’incidenza doppia di scompenso
cardiaco. Sebbene morbilità e
mortalità per MC stiano diminuendo sia per gli uomini che
per le donne, il calo della
mortalità è meno pronunciato
nelle donne, dove anzi si assiste ad un incremento nelle
età <55 anni. Nonostante
questi dati, l’approccio clinico
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Malattie
cardiovascolari
e la ricerca restano sostanzialmente in-differenti al genere, tanto che la malattia coronarica è spesso considerata
una malattia maschile. A 20
esatti di distanza restano
purtroppo sempre attuali le
parole con cui Bernardine
Healy nel 1991 definiva la
“Sindrome di Yentl”: “In una
professione dominata dagli
uomini, i sintomi delle donne
sono presi in minor considerazione ed i trattamenti sono
inferiori per qualità e quantità”. E questo, nonostante la
Cardiologia rappresenti l’area
in cui lo studio delle differenze di genere è nato, le raccomandazioni delle periodiche
conferenze internazionali
sulla salute, le direttive dell’Unione europea, l’impegno
dell’American Heart Association e della Società europea di
Cardiologia e, per venire al
nostro Paese, precisi obblighi
legislativi – a partire dall’articolo 3 della Costituzione:
“Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso…” – e
deontologici: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della
persona umana senza distinzioni di …sesso…”. Parados-
Il “paradosso donna” in un settore
che richiederebbe un’attenzione particolare
salmente, la neutralità rispetto al sesso ed al genere, quando questi sono precisi fattori
di differenze nell’incidenza e
nell’esito di molte patologie,
si risolve in un potente fattore di disparità ed iniquità! Riconoscere le differenze è dunque un preciso dovere etico e
civile, oltre che professionale.
La Medicina, la Sanità non
possono più non tenere in
adeguata considerazione tale
questione nell’ambito delle
politiche di prevenzione, di
diagnosi e di cura.
Il contesto generale
Se la prevenzione, in particolare quella secondaria, significa individuare e prendersi
cura dei soggetti con MC nota, dei soggetti con diabete
mellito e di quelli che sono ad
altissimo rischio di sviluppare
una MC, ed in particolare curare e riabilitare quei pazienti
che hanno avuto una sindrome coronarica acuta o uno
stroke, sempre al fine di evitare nuovi eventi cardio- o cerebrovascolari, possiamo amaramente constatare come politiche e prassi quotidiane vadano in una diversa direzione.
Praticamente tutte le Società
scientifiche presentano nei
loro siti i rispettivi programmi
di prevenzione, e tutti partono dalla constatazione che,
nonostante sia noto che intervenire sui fattori di rischio
migliori significativamente
gli esiti, i programmi di implementazione nella realtà
quotidiana sono ancora troppo rari e sporadici e rarissimamente tengono conto delle
differenze di genere. Eppure
sappiamo che interventi mirati di controllo dei fattori di rischio possono aumentare la
sopravvivenza, migliorare la
qualità della vita, diminuire
la necessità di ricoveri ripetuti e di ulteriori procedure diagnostico/terapeutiche, ridurre l’incidenza di ulteriori
eventi acuti. Non bastassero
le patologie croniche organiche, le crescenti comorbilità,
le tante malattie che possono
coesistere nella stessa persona, soprattutto se anziana,
rendendola sempre più fragile, larghe fasce di popolazione
in età relativamente più giovane sono sempre più preoccupate per la salute, al punto
che la domanda di salute può
diventare ingovernabile. Perverse dinamiche di mercato e
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politiche utopistiche di promozione della salute incentivano infatti sia il salutismo
che la medicalizzazione. L’estrema fase di questo processo è il disease mongering, cioè
quel fenomeno di negoziazione fra potenziali clienti/pazienti e fornitori di servizi
(medici e imprese farmaceutiche) per trasformare in malattie da trattare alcune condizioni che non sono necessariamente malattie. Ne deriva
un impatto non significativo
dal punto di vista della sanità
pubblica ma che può risultare
invece estremamente positivo
per i profitti dei professionisti
o delle Industrie. Un lungimirante esempio dei rischi di
medicalizzazione epidemica ci
è stato fornito quasi un secolo fa da Jules Romains, quando fa dire al suo giovane Dr.
Knock che “Un sano non è altro che un malato che non sa
ancora di esserlo”. Ed in tutto
questo scenario è dolo(ro)samente assente una prospettiva di genere!
È ovvio che non si deve
confondere la doverosa responsabilità che ogni cittadino deve avere nei confronti
della propria salute, nell’ottica di una prevenzione che
non può non partire da noi
stessi, con la colpevolizzazione se non si sono seguiti quegli stili di vita che sappiamo
epidemiologicamente essere
associati ad una minore incidenza di patologie. Ben lungi
dal valorizzare l’autonomia
del paziente, atteggiamenti
di repressione morale o peggio ancora economica nei
confronti della malattia configurano un approccio culturale orientato al dovere di curarsi, e non al diritto alla sa-
lute. Gli esempi di medicalizzazione della società non
mancano: dalla sistematica
revisione al ribasso delle soglie che definiscono il “patologico” (ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, ecc),
che tende a trasformare milioni di persone soggettivamente sane in individui oggettivamente malati, alla generalizzazione della diagnosi
precoce (screening, check-up,
ecc.) i cui risultati in termini
di costo-efficacia sono sempre più discussi. E paradossalmente si tras-cura, non ci si
prende cura di quelle donne
che i fattori di rischio ce li
hanno, spesso tutti insieme,
e a livelli elevatissimi!
Ben diverso, sotto una prospettiva etica ma anche di razionale uso delle risorse, il
concetto di cura che si trasforma da strumento per recuperare una perduta salute a
mezzo per mantenere il precario equilibrio della cronicità. La transizione epidemiologica ci ha ormai messo di
fronte a stati morbosi che
non possono essere “guariti”,
ma “curati”. E la cura non può
essere più vista soltanto come quella ippocratica, quando la cura cioè deve rispondere ad un bisogno espresso
dall’ammalato (modernamente classificabile con un NNT =
1); si fa strada sempre di più
anche una cura rivolta a chi
ha la probabilità di ammalarsi, e anche solo la possibilità
(NNT = n): è evidente come
soltanto un rigoroso controllo etico, direi politico di questo tipo di cura sia necessario, per evitare che sia il mercato a governarlo, con il rischio di concentrare solo nelle fasce più forti (economica-
mente, socialmente, culturalmente), gli strumenti di prevenzione, che infatti vengono riservati più spesso e con
maggior impegno agli uomini
piuttosto che alle donne. Parole come “empowerment” ed
“enhancement”, che descrivono come la Medicina si stia
orientando non più solo ai
malati, ma anche ai sani, per
aumentarne le capacità (patients/unpatients), devono
trovare in una seria politica
di orientamento e governo
della domanda/offerta di salute la loro giusta collocazione. Il rischio da evitare è che
si mantengano ed anzi si accentuino le tante disparità,
che sono sì di genere, ma che
le trascendono se è vero, come è vero, che i peggiori risultati tra i Paesi avanzati sono ottenuti dal Paese che
spende di più, sia nella sanità
privata che in quella pubblica, per l’inefficienza dovuta
alla mancanza di un sistema
che coordina e pianifica sull’intero territorio nazionale le
attività sanitarie. Gli USA sono infatti ultimi nel G7 per
mortalità dovuta a malattie
croniche (460 ogni 100.000
abitanti, contro una media di
398), e la vita media è 75 anni per i maschi (2 anni in meno della media) ed 80 anni
per le donne (3 anni in meno
della media).
La prevenzione
Per quanto riguarda la prevenzione della cardiopatia ischemica, può essere opportuno
partire da un autorevole riferimento, costituito dalla risoluzione del Parlamento europeo del 12 luglio 2007 sulle
iniziative per contrastare le
MC. Vista, tra gli altri docu-
menti, la Carta europea per la
salute del cuore del giugno
2007, meritano di essere sottolineate alcune delle considerazioni ivi contenute: “In
base alle statistiche europee
sulle malattie cardiovascolari
per il 2005, tali malattie rappresentano la principale causa
di morte per gli uomini e le
donne nell’Unione europea,
provocando 1,9 milioni di decessi; le donne e gli uomini
non vengono colpiti in egual
misura dalle malattie cardiovascolari, le donne sono più
soggette degli uomini alla
morte per ictus o attacco cardiaco e le MC nelle donne
spesso non vengono diagnosticate e curate in modo adeguato. Le MC causano circa la
metà di tutti i decessi nell’Unione europea, con una percentuale pari al 42%. Il costo
totale delle MC nell’UE ammonta a 169 miliardi EUR, di
cui 105 miliardi EUR sono spesi per il trattamento di tali
malattie e 64 miliardi EUR sono dovuti alla perdita di produttività e al costo delle cure
informali…Gli indicatori OCSE
2005 affermano che in media
solo il 3% delle spese sanitarie
si riferisce alla prevenzione e
ai programmi di sanità pubblica…È possibile prevenire la
maggior parte delle malattie
cardiovascolari attraverso un
cambiamento dello stile di vita unito all’identificazione
precoce dei soggetti ad alto rischio e a una diagnosi corretta. L’OMS riconosce che i metodi più efficaci sul piano dei
costi per ridurre i rischi su
un’intera popolazione sono
costituiti da interventi rivolti
a tutta la popolazione, che
combinino politiche efficaci e
politiche ampie di promozione
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della salute. Vi sono forti discrepanze tra gli Stati membri
per quanto riguarda la prevalenza, la prevenzione e il trattamento delle MC e spetta all’UE lottare contro queste ineguaglianze e colmare il divario. Il genere rappresenta un
fattore determinante nello
sviluppo, nella diagnosi, nella
cura e nella prevenzione delle
MC; considerando che nel settore sanitario non viene prestata sufficiente attenzione al
genere, ciò si ripercuote negativamente sul trattamento
delle malattie vascolari che
colpiscono le donne”. Sulla base di questa premessa, ricca di
forti basi epidemiologiche e di
dati incontrovertibili, ecco
una risoluzione con cui il Parlamento europeo formula una
serie di inviti, sia alla Commissione europea che agli Stati membri: “Presentare una
raccomandazione relativa alle
MC, inclusa l’ipertensione,
nonché all’identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio e a strategie di prevenzione in Europa, tenendo conto delle differenze di genere
in modo da assicurare la parità
di genere nel settore sanitario… Adottare o riesaminare
le rispettive strategie nazionali di sanità pubblica per includervi la promozione della
salute e strategie per la gestione precoce dei rischi elevati in materia di salute cardiovascolare. Definire linee
guida nazionali per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, incluse linee guida
standard relative alle migliori
prassi per identificare i soggetti ad alto rischio… Concentrarsi sulla necessità della
parità di accesso alla prevenzione, al trattamento, alla
diagnosi e al controllo delle
malattie per tutti i cittadini
europei”. Si tratta di inviti ed
esortazioni assolutamente
condivisibili, anche se troppo
sbilanciate sugli aspetti del
controllo dei fattori di rischio
e con scarsa enfasi sul fatto
che gli stessi fattori di rischio,
le abitudini di vita scorrette,
sono maggiormente diffuse
nelle fasce più svantaggiate
sotto il profilo sociale, culturale ed economico.
Se da una parte si osserva
una maggiore prevalenza nelle donne dei fattori di rischio
quali diabete, ipertensione,
ipercolesterolemia, nonché di
scompenso cardiaco e vasculopatia periferica, è ormai accertato che le tradizionali
“carte del rischio” basate sui
classici fattori di rischio cardiovascolare sottostimano la
probabilità di eventi nelle
donne. Perciò, quando questi
fattori di rischio sono presenti nelle donne, soprattutto in quelle più giovani, essi
dovrebbero essere considerati
molto più seriamente di
quanto non avvenga oggi,
per l’erronea convinzione
che, siccome le donne hanno
una minore incidenza rispetto all’uomo di MC in età più
giovane, modificare questi
fattori di rischio sia meno
importante. Particolare attenzione va posta al diabete,
che determina un aumento
del rischio cardiovascolare di
3,5 volte nelle donne e “solo”
di 2,1 volte negli uomini; se
gli uomini con diabete hanno
avuto negli ultimi 30 anni
una riduzione del 43% della
mortalità correlata, arrivando a pareggiare quasi quella
dei non diabetici, per le donne diabetiche la strada è an-
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cora lontana, con una mortalità doppia rispetto alle non
diabetiche. Inoltre, l’effetto
positivo dell’acido acetilsalicilico, considerato ormai una
pietra miliare nella prevenzione delle MC, è stato ben
dimostrato nell’uomo fin dal
1988, ma non era mai stato
studiato nella donne fino al
2005, quando il Women’s
Health Study ha dimostrato
che l’aspirina riduceva l’incidenza di stroke ma non di
cardiopatia ischemica acuta.
Ancora, la maggior parte delle donne e dei medici sottovaluta il fatto che patologie
della gravidanza quali eclampsia, ipertensione, diabete ed
obesità aumentano significativamente il rischio di MC negli anni successivi. Infine,
dato che oltre il 60% delle
donne che muoiono all’improvviso non ha mai avuto in
passato sintomi specifici e
che i fattori di rischio tradizionali sottostimano il rischio cardiovascolare nelle
donne, è necessario identificare altri indicatori per definire il rischio nella donna.
Ad esempio, i neuroormoni
del sistema renina-angiotensina, o biomarker quali la
proteina reattiva C o i peptidi
natriuretici potrebbero risultare utili. Ancora, marker
surrogati di aterosclerosi e di
rischio cardiovascolare – tra
cui si possono includere l’ipertrofia ventricolare sinistra, lo spessore medio-intimale delle carotidi, la proteinuria e la microalbuminuria,
la disfunzione endoteliale, le
calcificazioni coronariche,
l’anemia – potrebbero risultare utili in una stratificazione
del rischio più precisa nelle
donna.
La cura
Le donne accedono ai servizi
sanitari in età ed in stati più
avanzati di malattia, e con
una proporzione maggiore di
fattori di rischio quali ipertensione, dislipidemia, diabete. Le cause di queste differenze sono molteplici, e tra
queste si possono elencare sia
le diversità nella percezione e
nell’espressione dei sintomi
che la più bassa accuratezza
diagnostica ed il minor valore
predittivo nella donna di alcuni test non-invasivi. Per
quanto riguarda i sintomi legati all’ischemia miocardica,
le donne hanno più spesso
sintomi cosiddetti atipici
quali dispnea, stanchezza,
malessere generale, e ciò può
ritardare la diagnosi. Ma certamente non si può trascurare quanto è già noto in letteratura da molti anni, e che
purtroppo resta un pesante
fattore di discriminazione nel
rapporto medico-paziente: la
modalità stessa di comunicazione di un sintomo può influenzare notevolmente il
successivo percorso clinico.
Sappiamo infatti (ma ce ne
dimentichiamo troppo spesso!) che, sebbene noi medici
siamo chiamati a valutare pazienti che hanno la stessa
storia clinica, parola per parola, gli stessi dati strumentali e di laboratorio, e siamo
in presenza di identiche probabilità di cardiopatia ischemica, la nostra decisione sull’iter diagnostico-terapeutico
da seguire può essere fortemente influenzata dallo stile
con cui il/la paziente presentano la propria storia. Un’altra causa di ritardata diagnosi risiede nel fatto che le strategie diagnostiche attuali si
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focalizzano sull’ostruzione al
flusso coronarico, più frequente nell’uomo, e non sono
in grado di studiare accuratamente la disfunzione del tono vascolare, le alterazioni
del microcircolo – più frequenti nelle donne – o anche
altre patologie aterosclerotiche non ostruttive.
Anche per questi motivi le
donne arrivano più tardi ad
effettuare la coronarografia,
e ricevono meno procedure di
rivascolarizzazione miocardica, sia di tipo percutaneo che
chirurgico; le differenze nella
prognosi fra uomini e donne
dopo angioplastica coronarica sono indipendenti dalla
diversità di sesso ma sono legate a un diverso profilo di
rischio. Eppure, dovremmo ricordarci che più donne che
uomini muoiono per MC; considerando gli ormai assodati
benefici della rivascolarizzazione miocardica con angioplastica percutanea nel ridurre le complicanze fatali e non
fatali nei pazienti con infarto
miocardico acuto e con sindrome coronarica acuta ad alto rischio, è francamente
inaccettabile che solo un terzo della procedure di rivascolarizazione percutanea sia effettuato nel genere femminile. In proposito, nelle donne
è riportato un maggior rischio di complicanze vascolari periferiche dopo angioplastica (per il fatto che i vasi
sono più piccoli e perché più
spesso le procedure sono effettuate in urgenza a causa
di una presentazione clinica
più tardiva). Questo non giustifica il minor accesso nel
sesso femminile alle procedure di rivascolarizzazione, soprattutto in caso di sindromi
coronariche acute a rischio
medio-elevato, perché è dimostrato come l’incidenza
delle complicanze vascolari
possa diminuire, se si adottano regimi di anticoagulazione meno aggressivi e tarati
sul peso e se si scelgono dispositivi medici di dimensioni appropriate.
Anche nella nostra realtà,
quella dell’Azienda sanitaria
di Firenze, abbiamo dimostrato significative differenze di
genere, sia nel post-infarto
che nello scompenso cardiaco. In tema di prevenzione
secondaria sappiamo che il
trattamento con statine è in
grado di ridurre la mortalità
ed il rischio di nuovi eventi
cardiovascolari a lungo termine in pazienti dopo un infarto miocardico acuto. Nonostante ciò, nell’anno successivo all’infarto sono state
prescritte statine nell’88%
degli uomini e nel 70% delle
donne, e tra i pazienti con
prescrizioni di statine, la prevalenza di alta compliance era
minore nelle donne (63%) rispetto agli uomini (76%); tali
differenze si mantenevano significative anche aggiustando le proporzioni per età. All’analisi multivariata, il sesso
femminile era indipendentemente associato ad una minor probabilità di utilizzo
delle statine e di bassa compliance, mentre abbiamo dimostrato come un’alta compliance alla terapia con statine fosse indipendentemente
associata ad un minor rischio
di mortalità ad un anno.
Sappiamo anche che il trattamento con statine è in grado
di migliorare la prognosi a
lungo termine in pazienti con
scompenso cardiaco. Eppure,
sempre nella nostra ASL fiorentina abbiamo rilevato che
sono state prescritte statine
nel 37% degli uomini e nel
22% delle donne con scompenso cardiaco, e che tra i pazienti con prescrizioni di statine la prevalenza di alta
compliance era minore nelle
donne (32%) rispetto agli uomini (43%); anche in questo
caso le differenze si mantenevano significative dopo aggiustamento per età. All’analisi multivariata, il sesso femminile risultava essere indipendentemente associato ad
una minor probabilità di prescrizione di statine e ad una
maggior probabilità di bassa
compliance. E così come per
l’infarto miocardico, anche
per lo scompenso cardiaco
un’alta compliance alla terapia con statine è risultata essere un determinante indipendente di ridotta mortalità
ad un anno.
Nelle donne minori prescrizioni, minor compliance…
ma perché? Dobbiamo mettere in evidenza l’estrema importanza di vari fattori psicosociali, tutti maggiormente
prevalenti nelle donne (e tutti legati a una peggiore prognosi delle MC), quali depressione, ansia, risorse socioeconomiche scarse, stress legato alla condizione coniugale o di caregiver. Fattori che
hanno un diverso effetto nell’uomo rispetto alla donna –
ad esempio sappiamo che il
matrimonio riduce il rischio
di MC nell’uomo, ma lo aumenta nelle donne. Infine,
dopo un evento acuto, le
donne adottano più spesso
comportamenti che hanno un
impatto negativo sulla prognosi, come la non aderenza
alla prescrizioni terapeutiche, la sedentarietà, squilibri
alimentari. Nella stessa direzione vanno i dati della periodica indagine della Società
europea di Cardiologia sull’andamento della prevenzione cardiovascolare in Europa:
i risultati dell’EUROASPIRE III
(2007) mostrano che le donne raggiungono meno degli
uomini gli obiettivi in tema
di pressione arteriosa, colesterolemia ed emoglobina glicata dopo un evento coronarico acuto e che questo gap
non accenna a ridursi a partire dalla prima indagine del
1994.
Conclusioni
Finché le donne resteranno
sottorappresentate nella ricerca, compresi i grandi trial
– la media delle donne arruolate nei trial è del 33%, e solo
il 50% dei trial completati dal
2006 in poi riporta i risultati
in una prospettiva di genere –
i dati specifici di genere saranno sempre insufficienti.
Sussiste ancora, nella ricerca
biomedica, l’assimilazione
della donna all’uomo, nella
sbagliata prospettiva di una
generalizzazione dei fenomeni organici, seppur anch’essa
necessaria, senza prestare
sufficiente attenzione alle
differenze, oltre che di sesso,
anche di età, di disabilità, di
condizioni socioeconomiche,
di etnicità. Nel campo dei farmaci si riscontra che, se da un
lato si rileva un aumento nel
consumo dei farmaci da parte
delle donne rispetto agli uomini, dall’altro lato risulta
che gli effetti dei farmaci sulle donne sono meno o non
adeguatamente studiati rispetto alla specificità femmi-
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nile. Le donne sono maggiormente esposte a possibili reazioni avverse al momento dell’assunzione di farmaci dopo
l’immissione in commercio e
si riscontra una minore efficacia nell’uso di farmaci, con effetti collaterali e indesiderati
più frequenti e più gravi rispetto agli uomini. Le aree di
criticità e svantaggio delle
donne si evidenziano, in particolare, nell’ambito delle sperimentazioni di farmaci per
patologie non specificamente
e tradizionalmente femminili
(anche se scarsi sono i dati riportati, proprio a conferma di
tale disinteresse). La maggior
parte delle sperimentazioni
non prevede una differenza
tra maschi e femmine al momento dell’arruolamento e
dell’analisi dei dati. La percentuale di donne (se confrontata con quella degli uomini) reclutate nella sperimentazione rimane bassa: ciò
non consente di misurare la
reale efficacia dei farmaci su
di loro, ma potrebbe avere anche limitato l’identificazione
di farmaci specifici per le
donne. Ad esempio, nell’ambito della sperimentazione
dei farmaci attivi sulle MC si
rilevano prevalenze di soggetti di sesso femminile inaccettabilmente basse per farmaci
diventati poi di uso quotidiano: 21% per i betabloccanti,
23% per gli antiaritmici, 24%
per gli antiaggreganti e trombolitici, 27% per gli antitrombotici. Inoltre, dai dati AIFA
risulta che delle 412 sperimentazioni cliniche su donne
censite nel periodo 20002006, una sola riguardava il
settore delle MC, mentre la
stragrande maggioranza era
rappresentata dall’oncologia
(62%), seguita dall’ostetricia
e ginecologia (ovviamente),
dalle malattie dell’apparato
muscolo-scheletrico e dall’en-
290
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N. 188 - 2011
docrinologia. Dunque, pochi
studi tengono conto della
specificità delle donne, e questo soprattutto nel campo
delle MC, che invece ne rappresentano la prima causa di
morbilità e mortalità!
In sintesi, non si può che sottoscrivere le parole del Comitato nazionale per la Bioetica, quando “intende sottolineare il principio etico fondamentale della doverosità di
una sperimentazione farmacologica sia su uomini che su
donne, in condizioni effettive di parità, senza esclusioni
o marginalizzazioni indebite,
ritenendo necessaria l’identificazione e la rimozione delle
cause delle iniquità… Il CNB
auspica che già a livello della
ricerca biomedica sia incentivato lo studio specificamente
rivolto all’analisi delle condizioni di salute delle donne
(malattie diffuse, fattori di
rischio, incidenza ecc.), an-
che e soprattutto alla luce dei
recenti cambiamenti della
condizione psicologico-sociale e culturale, al fine di individuare le aree di carenza del
sistema sanitario nella risposta ai nuovi e variabili bisogni femminili. In tale direzione andrebbe implementato lo
studio sugli aspetti fisiologici
e psicologici, oltre all’analisi
dei fattori sociali e culturali e
alle loro interazioni con la salute femminile”.
Il concetto di “pari opportunità” si deve dunque estendere anche alla opportunità
di avere un trattamento adeguato in caso di cardiopatia
ischemica, nello spirito con
cui Amartya Sen intende il
concetto di equità della salute: “non già cure uguali per
tutti, né cure estese ugualmente a tutti, ma cure tali
per cui tutti possano avere
uguali probabilità di godere
di buona salute”.
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Luisa Fioretto1
Francesca Martella2
Angela S. Ribecco3
Azienda sanitaria di Firenze
1 Direttore Dipartimento
oncologico
2 Dirigente medico oncologo
SC Oncologia medica
3 Direttore FF SC Oncologia
medica
L’
Organizzazione mondiale della sanità e le
direttive dell’Unione
europea raccomandano di
considerare e promuovere la
prospettiva di genere nell’erogazione delle cure mediche
e dei servizi sanitari, alla luce
della rilevazione di differenze
fra i due sessi nella salute e
nella malattia, nei comportamenti e nel ricorso all’assistenza sanitaria. Di tutto
questo deve tener conto anche l’Oncologia per delineare
programmi ed azioni, per organizzare l’offerta dei servizi,
per indirizzare la ricerca e per
analizzare i dati statistici.
Nell’ambito dell’Oncologia di
genere inteso come accezione
biologica l’Oncologia “maschile” si differenzia da quella “femminile” per i distinti
profili fisiopatologici, da cui
derivano neoplasie “specifiche” di genere come i tumori
della prostata, della mammella e degli apparati genitali.
Una prospettiva di genere,
intesa sia come accezione
biologica che sociale, applicata in ambito oncologico
deve tener conto della dimensione e della complessità
dello specifico settore. Oggi,
in Italia i tumori rappresentano nel complesso la seconda causa di morte dopo le pa-
Oncologia
al femminile
tologie cardiovascolari, confermandosi addirittura prima
causa di morte nella popolazione generale con meno di
70 anni. In particolare questo è vero nel sesso femminile, dove il cancro rappresenta
fino al 60% delle cause di
morte tra i 30 ed i 75 anni,
rispetto ad un dato del 45%
nel sesso maschile (ISTAT
2007, Fig. 1).
In realtà, l’approccio di genere in Oncologia è ancora oggi
inusuale, per quanto alcuni
aspetti distinguano sin dall’incidenza l’Oncologia femminile da quella maschile, in
virtù dell’interazione di molteplici fattori ambientali e
costituzionali. Per esempio,
l’abitudine al fumo di sigaretta è stata ed è ancora un
elemento che risente pesantemente degli aspetti culturali, socioeconomici ed etnici
ed è al contempo uno dei
principali fattori di rischio
nell’insorgenza di molti tumori. Nella differente evoluzione dell’abitudine al fumo
nei due sessi negli ultimi
vent’anni, risiede probabilmente il motivo per cui nell’ultimo decennio si è assistito ad un ridotto decremento
d’incidenza ed ad una maggiore mortalità per cancro
polmonare nel sesso femmi-
Le specificità psicologiche, sociali e culturali
che dovrebbero porsi come riferimento
per l’organizzazione dei Servizi
nile rispetto a quanto registrato in quello maschile
(1,2,3). Infatti, se è vero da
una parte che incidenza e
mortalità per tumore polmonare si sono ridotte, è anche
vero dall’altra che ciò risulta
interamente attribuibile ad
una netta riduzione di questa patologia nel sesso maschile, associato ad un incremento proporzionale invece
nel sesso femminile, parallelamente al diverso andamento dell’abitudine al fumo nei
due sessi (Fig. 2). Tuttavia,
la variabilità tra uomini e
donne non si limita a differenze in termini di incidenza
ma si allarga anche a caratteristiche clinico-patologiche
(3) con ulteriori differenziazioni etniche. Per esempio,
l’incidenza assoluta del tumore polmonare nell’ultima
decade è addirittura aumentata nelle donne indiane d’America e native dell’Alaska in
controtendenza rispetto a
tutte le altre etnie (1,2).
L’Oncologia di genere si va
progressivamente delineando
come una interessante area
multidisciplinare, possibile
oggetto di ricerche volte a
identificare le diversità nella
fisiopatologia delle neoplasie
nei due sessi, a descrivere e
definire eventuali differenze
in termini di manifestazioni
cliniche ed efficacia degli interventi diagnostici e terapeutici, a sviluppare azioni
mirate al trasferimento dei risultati degli studi generespecifici nella pratica clinica.
La maggior parte degli studi
clinici ad oggi non tiene conto di possibili variabili di genere a partire da quelle farmacocinetiche, farmacodinamiche e inerenti il metabolismo epatico dei farmaci; ciò
comporta che in una fase successiva vengano applicati alla
popolazione femminile i risultati di ricerche scarsamente mirate.
Le problematiche che l’Oncologia deve affrontare come
“peculiarità di genere” sono
molteplici, di seguito un breve accenno descrittivo per alcune di esse.
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Menopausa e obesità
L’obesità e lo stile alimentare
sono riconosciuti quali importanti fattori predisponenti
all’insorgenza di alcuni tumori e di potenziale impatto
prognostico (4,5). Nelle donne in menopausa, Berrino ha
dimostrato con gli studi DIANA che una dieta con meno
zuccheri raffinati e grassi
animali riduce i livelli di testosterone, estradiolo libero,
insulina ed IGF-1 che sono gli
ormoni legati sia ad un maggior rischio di tumore mammario recettori-positivi e sia
ad una maggior recidività degli stessi (6,7,8).
L’aumento ponderale, se non
proprio l’obesità, si associa
spesso all’ingresso della donna in menopausa, momento in
cui emerge anche la problematica della terapia sostitutiva
ormonale. Tale tipo di terapia
sembra correlare con una
maggiore incidenza di tumore
mammario invasivo con recettori positivi, come è emerso
dalla correlazione tra una riduzione del 26% dell’incidenza di tale tumore nella popolazione in esame tra il 2000 e
il 2006 nello studio canadese
e riduzione del 64% dell’utilizzazione nello stesso periodo
di terapia ormonale sostitutiva (9,10). Tuttavia, tale trattamento ha dimostrato negli
anni importanti risvolti positivi in termini di salute sia fisica (ad esempio per quanto
riguarda le problematiche cardiovascolari) sia psichica nelle
donne in menopausa e le relazioni fra questi aspetti e quelli oncologici che richiederebbero adeguati approfondimenti, risultano ad oggi complesse e non prive di implicazioni
di ordine etico/sociale.
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Fig. 1
ISTAT 2007 - dati relativi all’anno 2002
Screening, tumore e fertilità
La partecipazione allo screening mammografico e la richiesta di accertamenti alla
comparsa di sintomi risentono di un’interazione non solo
con il sesso femminile, ma
anche con il contesto socioeconomico e culturale in cui le
donne vivono. Le donne con
minori livelli socio-finanziari
sviluppano un maggior distress dopo la diagnosi di tumore mammario e si rileva
una minore partecipazione ai
programmi di screening delle
donne con maggiori livelli di
istruzione(11). Le interazioni
tra screening, tumore e fertilità assumono particolare rilievo in caso di giovani donne
ancora desiderose di prole. La
prospettiva di una maternità
può essere alterata dal tumore in se stesso, quando que-
sto colpisce l’utero o le ovaie,
o dai trattamenti che possono indurre amenorrea od infertilità, effetti talora vincolati all’efficacia degli stessi,
come nel caso dell’ormonoterapia. Rare, ma ancora più
complesse, le situazioni in
cui il tumore viene diagnosticato in corso di gravidanza.
In questi casi, la diagnosi è
frequentemente tardiva a
causa di eventuali fattori
confondenti legati alla gravidanza stessa (sintomatologia
gastro-intestinale, turgore
mammario, edemi arti inferiori, ecc.); possono essere
adottati specifici protocolli
diagnostici non dannosi per il
feto. Successivamente, l’età
gestazionale determinerà l’iter ed il timing terapeutico
più appropriato. Il trattamento medico del tumore primitivo, quando indicato, im-
pedisce l’allattamento nella
maggior parte dei casi, alterando ulteriormente un fragile equilibrio.
Terapie alternative e complementari
L’impiego di trattamenti alternativi e/o complementari
risulta decisamente maggiore nelle donne di età media,
con un alto livello culturale
ed economico e per lo più affette da tumore mammario
(12). L’utilizzo di tali trattamenti è stato tale da aver
fatto registrare un netto incremento della spesa sanitaria nazionale degli Stati Uniti ad esse dedicato negli ultimi 10 anni. Nel 2006, anche
l’European Society of Mastology (EUSOMA) ha riconosciuto la rilevanza delle terapie complementari sottoscrivendo un documento che ne
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Fig. 2
definisse il ruolo nelle donne
con cancro mammario operato (13).
Nella Regione Toscana è avviato da alcuni anni un processo di governo e integrazione delle terapie complementari in Oncologia indirizzato
verso una possibile definizione di: livelli di evidenza, requisiti degli operatori coinvolti, campi di applicabilità,
identificazione delle interazioni negative con trattamenti convenzionali, monitoraggio dell’impiego, ecc. Le
peculiarità di genere in tale
ambito dovrebbero rappresentare una ulteriore importante variabile a cui porre
adeguata attenzione.
Comunicazione e compliance
alle terapie oncologiche
La comunicazione della diagnosi, della prognosi e delle
terapie da intraprendere riveste in Oncologia un’importanza primaria. La comunicazione risulta efficace quando
l’operatore sanitario sa coniugare una corretta informazione sulla patologia con
la gestione del distress correlato al contenuto che la stessa veicola, fondando la base
per la costruzione e lo sviluppo di una buona relazione terapeutica. In Oncologia, settore in cui quotidianamente
ci si confronta con dilemmi
esistenziali fondamentali,
una delle dimensioni più cri-
tiche e impegnative del processo comunicativo, sia per il
paziente che per l’operatore,
riguarda gli aspetti emotivi,
che presentano problematiche differenziate rispetto al
genere maschile e/o femminile. Il distress è associato
più spesso all’informazione
sulla chemioterapia piuttosto
che ad altre informazioni inerenti le malattia oncologica
(stadio, prognosi, ecc.); esso
risulta decisamente maggiore
nelle donne rispetto agli uomini e nelle giovani donne
affette da tumore alla mammella rispetto alle più anziane. Fallowfield già in passato
evidenziava una frequenza di
comorbidità psichiatriche (in
particolare ansia e depressione) doppia nelle donne che
riferivano di aver ricevuto
informazione inadeguate rispetto a quelle che ritenevano di averle ricevute in modo
appropriato (14). La dimensione interattiva e il raggiungimento di una “realtà” condivisa tra medico e paziente è
uno degli aspetti cruciali della comunicazione in Oncologia, in quanto punto di incontro tra l’esperienza “soggettiva” di sofferenza del paziente (illness) e la visione
medico-scientifica “oggettiva” del medico (disease). Ad
esempio, il dolore, spesso ritenuto sintomo evocativo del
cancro, può essere percepito
con una intensità che non è
proporzionale né al tipo, né
all’estensione del danno tissutale cancro-correlato, ma
può derivare dall’interazione
di fattori fisici, psicologici,
culturali e spirituali; ciò sembra essere più rilevante nei
pazienti di sesso maschile
che non in quelli di sesso
femminile. Recenti studi hanno rilevato come negli uomini
la percezione del dolore correli con ansia e depressione,
mentre nelle donne i sintomi
fisici e quelli psicosociali siano ben distinti (15).
Per quanto riguarda la compliance alle terapie oncologiche, non è tuttora dimostrata
una differenza fra uomini e
donne. Peraltro è da rilevare
come nel corso degli anni si
siano trasformati i profili di
compliance ai trattamenti oncologici: le problematiche di
tipo psico-sociale correlate
alla chemioterapia, come la
preoccupazione per il futuro
e le conseguenze correlate alla famiglia o alla propria attività lavorativa o alla propria
vita di coppia, hanno assunto
un ruolo preminente nella vita dei pazienti di entrambi i
sessi rispetto ai classici disturbi fisici quali nausea, vomito ed alopecia. Ciò, probabilmente, non dipende tanto
dal miglioramento delle terapie di supporto, come dimostrato dall’analogia delle analisi degli studi australiani prima e dopo l’introduzione delle terapie antiemetiche, ma
sembra dipendere piuttosto
da variazioni del contesto socio/culturale (15,16).
Recenti studi di indagine sul
mantenimento dell’abilità lavorativa nelle popolazioni di
pazienti a lunga sopravvivenza rilevano come i soggetti maschili mantengono
abilità lavorative inalterate
rispetto alla popolazione maschile sana di pari età, mentre le donne mostrano un deterioramento statisticamente
significativo delle capacità
in esame. Questo fenomeno
probabilmente dipende dalla
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maggiore rilevanza che il
ruolo lavorativo assume per
l’uomo rispetto alla donna
(17).
Le considerazioni esposte implicano che il miglioramento
della comunicazione medico/paziente, in vista per
esempio dell’incremento della
compliance alle cure e della
collaborazione dei familiari o
della prevenzione dell’insorgenza di sintomatologie psicologico-cliniche o di disadattamento sociale, ecc., trova base nella considerazione
anche di variabili come l’ap-
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Salute e Medicina di genere
partenenza di genere in precedenza trascurate.
Conclusioni
L’Oncologia oltre a prefigurarsi come un sistema a crescente complessità medica, caratterizzato da un forte approccio multidisciplinare lungo
tutte le fasi della storia di
malattia, ha da sempre rappresentato un eccellente
banco di prova per integrare
saperi apparentemente distanti come il trattamento
medico, il confronto con dilemmi etici, lo sviluppo di
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misure psico-sociali a supporto del paziente, la considerazione narrativa dei differenti
punti di vista ecc.
Anche nella considerazione
delle variabili connesse al genere l’Oncologia richiede uno
sguardo ed una impostazione
progressivamente complessa
e sistemica. Le ricerche che
connettono l’esperienza del
cancro e il genere ci inducono
a rivedere ulteriormente la
posizione secondo la quale i
pazienti oncologici rappresentino gruppi omogenei. Sia
da un punto di vista medico
che da un punto di vista psico-sociale è un assunto che
può interferire con l’efficacia
stessa degli interventi. La
letteratura presa in esame indica che i fattori legati al genere assumono un ruolo di
mediatori e moderatori dell’esperienza personale della malattia attraverso un ampio
spettro di dimensioni cliniche, psicologiche, sociali e
culturali che a loro volta possono rivestire una grossa rilevanza nella percezione pubblica e nella organizzazione
dei servizi sanitari.
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Flavia Franconi1,2
Antonio Sassu3
Stefano Occhioni1
Ilaria Campesi1
1 Dipartimento Scienze del
farmaco - Università di Sassari
2 Presidente Gruppo italiano
Salute e Genere
3 Dipartimento di Ricerche
economiche e sociali Università di Cagliari
Uomini e donne non sono solo sé
stessi: sono anche la regione dove
sono nati, la casa o l’aia dove
hanno imparato a camminare, i
giochi con cui si sono divertiti da
bambini, i racconti delle vecchie
comari uditi di straforo, i cibi che
mangiavano, le scuole che hanno
frequentato, gli sport che l’interessavano, i poeti che leggevano,
il dio in cui credevano.
Somerset Maugham, 2009
P
rima di andare al nocciolo del problema riteniamo opportuno ricordare che in Italia sono stati
fatti i primi passi per arrivare
all’equità di genere nella salute. In particolare:
– Il Parlamento italiano, la
primavera scorsa, ha costituito un gruppo interparlamentare relativo alla salute di genere coordinato
dall’ On. Sabrina De Camillis di cui fanno parte circa
80 parlamentari.
– L’indagine conoscitiva,
svolta dalla 12 a Commissione permanente del Senato (Igiene e Sanità), sulle malattie degenerative di
particolare rilevanza, con
specifico riguardo al tumore della mammella, alle
malattie reumatiche croniche ad alla sindrome HIV,
nel suo documento conclu-
Sex-gender
pharmacology
sivo evidenzia criticità legate a problematiche di
genere (Senato della Repubblica, 2011).
– L’Agenzia regionale sanitaria della Puglia (ARES) ha
nominato un Tavolo tecnico “Medicina di genere”
composto dai rappresentati del gruppo di lavoro di
Medicina presso l’ARES e
dai rappresentanti del
Gruppo italiano “Salute e
Genere” (GISeG), per valorizzare fra l’altro una Medicina attenta alle problematiche bioculturali legate
al genere e per favorire il
superamento della cecità
di genere. Coordinatore del
gruppo è la Dr. Anna Maria
Moretti, primario al Policlinico di Bari e vicepresidente GISeG.
Oltre alla presa di atto da
parte dei decision makers, si è
assistito anche alla nascita di
altre iniziative fondamentali
quali:
– Gruppo di lavoro “Farmaci
e genere” presso l’Agenzia
italiana del farmaco (AIFA) coordinato dalla Dr.ssa
Anna Rosa Marra. Il Gruppo è stato promosso con
molta convinzione dal
Prof. Guido Rasi che il
prossimo ottobre assumerà
Le principali iniziative per la stesura
delle linee guida sull’utilizzo dei farmaci
il ruolo di direttore esecutivo dell’ Agenzia europea
del farmaco (EMA). Ciò ci
fa sperare che si arrivi ad
un’armonizzazione della
normativa europea con
quella americana per
quanto riguarda il genere.
Il Gruppo di lavoro dovrà
offrire supporto scientifico
alla Commissione tecnico
scientifica (CTS) nella valutazione delle problematiche di genere specifiche,
dovrà valutare i modelli
preclinici e clinici atti ad
indagare le differenze di
genere. In questa ottica il
tema potrebbe essere presto nuovamente rivalutato
a livello europeo grazie
anche alla sensibilizzazione e al coinvolgimento dei
Comitati etici. Infine dovrà provvedere alla stesura
di linee guida per la sperimentazione farmacologica
di genere.
– L’Agenzia nazionale per i
servizi sanitari regionali
(AGENAS) ha costituito tre
Tavoli di lavoro relativi alle malattie cardiovascolari,
alle malattie respiratorie
ed alla fibromialgia per redigere delle linee guida attente al genere.
Tutto ciò testimonia l’interesse politico sull’argomento e la
voglia di praticare la Medicina di genere anche per aderire alle numerose e documentate raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della
sanità e dell’Unione europea.
Tuttavia, nel nostro Paese
siamo ancora lontani dalla
pratica della Medicina di genere anche se è passato il
concetto che “essere maschio
essere femmina è un importante variabile che dovrebbe
essere considerata nel disegnare ed analizzare gli studi
in tutte le aeree ed a tutti livelli della ricerca biomedica e
della ricerca ad essa correlata”. Alcune iniziative di
Aziende sanitarie, vedi quella
dell’Azienda sanitaria di Firenze che ha fondato un Centro studi “Salute di genere”,
possono essere interpretate
in questo senso.
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Salute e Medicina di genere
Sex-gender pharmacology
Differenze di sesso-genere
nella salute e nell’assistenza
sanitaria sono state descritte
in tutto il mondo. Le donne
hanno una più alta aspettativa di vita se comparate all’uomo. Tuttavia, un’aspettativa più lunga di vita non
implica una migliore qualità
della stessa; infatti, le donne
affrontano un maggior carico di malattie (paradosso
donna).
Perché sesso-genere? È noto
che la risposta terapeutica
dipende dalle interazioni tra
geni, ambiente e cultura
(Fig. 1). Il paradigma più comune divide il corpo dall’ambiente sociale attribuendo all’uno o all’altro le differenze
(Bierman, 2007; Society for
Women’s Health Research,
2011). Questo anche perché
la Medicina di genere è nata
quando ancora non si era cominciato a capire gli intricati
ed intriganti meccanismi con
cui l’ambiente modificava l’espressione genica. Altri autori (Bird, Rieker, 1999; Marino
et al., 2011; Legato, 2011)
sostengono che le differenze
biologiche non dipendono solo dal genotipo, ma esse possono essere conseguenza dell’ambiente inteso nel senso
più ampio e quindi sesso e
genere non sono due concetti
separati, essendo nella realtà
intimamente connessi poiché
sono due aspetti di un continuum dove l’esperienza e
l’ambiente in cui l’organismo
vive impatta sulla funzione
dei geni. Nel 2009, l’OMS definisce il genere “the socially
constructed roles, behaviors,
activities, and attributes that
a given society considers appropriate for men and women” e con questa definizione richiama quindi ai ruoli sia
biologici che a quelli socialmente costruiti.
Il sesso biologico è ovviamente importante, migliaia di geni sono sessualmente dimorfi
nel fegato, nel tessuto adiposo e nel muscolo scheletrico
(Yang et al., 2006); dimorfismi si riscontrano anche nel
cervello (Kolb, Whishaw,
1998) e ciò riguarda anche i
cromosomi autosomici (Lega-
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Fig. 1
N. 188 - 2011
to, 2011). Inoltre, i fattori
ambientali modificano in maniera notevole gli organi ed
alcune delle modifiche sono
trasmissibili alle generazioni
successive (Skinner et al.,
2011). In effetti, le ultime ricerche evidenziano che definire il sesso o le differenze
biologiche fra uomo e donna
risulta arduo. Basta pensare
ai casi di transessualismo.
Alcuni casi di determinazione
e differenziazione sessuale risultano condizionabili dall’ambiente. Infatti, l’uovo fecondato XY si differenzierà in
fenotipo maschile solo se la
sua produzione di ormoni
maschili sarà adeguata e se i
suoi tessuti risponderanno al
testosterone. Modiche ai processi di differenziazione possono essere indotte dall’ambiente, vedi esposizione alle
endocrine disruptors (Walker
D.M., Gore A.C., 2011; Toppari, 2008).
Pertanto preferiamo parlare
di sex and gender pharmacology e per praticarla, sia in
campo sperimentale che clinico, si devono superare numerose barriere a partire da
quella finanziaria, perché
l’aumento del numero e della
dimensione dei gruppi è necessario affinché statisticamente si possano evidenziare
le differenze.
Un’altra barriera da superare
è la maggiore complessità del
disegno sperimentale sia in
campo preclinico che clinico.
Becker e collaboratori (2005)
hanno tracciato un cammino
per accogliere la complessità
nei disegni sperimentali che
però affronta quasi esclusivamente le questioni endocrinologiche, dimenticando di
chiedersi se i modelli speri-
mentali di malattie hanno un
valore per la Medicina traslazionale. In effetti, attualmente i modelli sperimentali
di diabete di tipo 2 e di trombosi non presentano tale valore (Franconi et al., 2008,
Wong et al., 2008).
Molti problemi ci sono anche
nella ricerca clinica. Non basta, infatti, includere le donne negli studi clinici ma è necessario considerare il loro
stato riproduttivo, il loro ciclo ovarico, l’uso di contraccettivi orali o della terapia
ormonale sostitutiva perché
essi possono influenzare la
farmacocinetica e la farmacodinamica (Franconi et al.,
2007, 2011).
Altri punti che attendono di
essere considerati sono l’analisi dei risultati che richiedono modelli statistici più complessi. Dall’altra parte, come
sostengono Wizemann e Pardue (2001), se non conosciamo l’intera storia, le nostre
conoscenze saranno alquanto
limitate. A questo proposito
ricordiamo che non sappiamo
neanche se la risposta placebo/nocebo è diversa nei due
sessi (Franconi et al., 2007).
La risposta a questa domanda
è urgente sia per quanto riguarda i clinical trial che la
pratica clinica. Infatti, molti
trial, devono essere fatti contro placebo anche in accordo
alle raccomandazioni della
FDA, e senza sapere se vi sono delle differenze nella risposta placebo, il loro valore
è scarso. Dal punto di vista
clinico è necessario conoscere la risposta per migliorare
l’effetto placebo e ridurre
l’effetto nocebo. Ovviamente,
ci sono anche barriere di tipo
etico legate al timore dei pos-
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Salute e Medicina di genere
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sibili effetti tossici dei farmaci sul prodotto del concepimento che saranno scoperti
solo dopo l’entrata in commercio del farmaco. Inoltre,
vi è una reticenza delle donne a partecipare agli studi
clinici, sia per timore degli
effetti sul feto, sia per motivi
legati alla cronica mancanza
di tempo delle donne prevalentemente legata al ruolo di
caregiver (Franconi et al.,
2010). Infine, occorre superare il pregiudizio di sesso-genere, che talvolta procura
svantaggi anche agli uomini
affetti da depressione, emicrania, osteoporosi. Perciò il
suo superamento porterebbe
alla migliore cura possibile
per entrambi i generi avvicinandosi ad una Medicina e ad
una salute personalizzata.
Sex-gender approccio in
farmacologia
Le differenze di genere in
Farmacologia riguardano sia
la Farmacocinetica che la Farmacodinamica ed esse sono
state trattate recentemente
in numerose review e libri a
cui rimandiamo (Franconi et
al., 2007; Schwartz, 2007;
Soldin, Mattison, 2009; Franconi, Ferro, 2010; Franconi et
al., 2010a, 2010b; Franconi et
al., 2011, 2011a). Tuttavia
avere un approccio di sesso e
genere significa considerare
le condizioni economiche, di
vita, il ruolo sociale circa la
femminilità e la mascolinità,
ovviamente senza dimenticare la biologia. La non considerazione del determinante
genere nella ricerca, nella
prevenzione e nella cura ha
generato maggiori effetti negativi per la salute della donna. Rimanendo nel campo
della cura, le donne ricevono
cure meno appropriate rispetto agli uomini, soprattutto se hanno un censo e un livello di istruzione più basso.
Inoltre, le donne hanno più
reazioni avverse rispetto all’uomo (quasi il doppio). Le
donne mostrano una particolare suscettibilità verso alcuni effetti collaterali come la
sindrome del QT lungo iatrogeno, il lupus eritematoso sistemico iatrogeno ecc. Il rischio di reazioni avverse è associato alla depressione, alle
alterazioni dello stato cognitivo (ambedue gli eventi sono
più frequenti nelle donne),
all’età (le donne anziane sono più dei maschi anziani),
alla politerapia, (le donne essendo più malate ed anziane
fanno più ricorso alla politerapia). Le reazioni avverse
nelle donne sono anche più
gravi rispetto a quelle degli
uomini e richiedono quindi
maggiori ricoveri ospedalieri
andando a pesare sui costi del
sistema sanitario. A parte gli
aspetti relativi alla salute esse pongono problemi di efficienza e di gestione delle risorse sanitarie.
Conclusioni
Avere un approccio di sessogenere significa considerare le
differenze biologiche, le condizioni economiche, di vita, il
ruolo sociale. Purtroppo, la situazione generale dei Paesi
avanzati, e ancora di più dei
Paesi poco sviluppati, è molto
insoddisfacente. Al perpetuarsi dello stato attuale contribuiscono la cultura che la
società ha e, in qualche modo,
la teoria economica della salute e la professione medica.
Infatti, nella teoria dominante dell’economia della salute,
vi è una distorsione di genere
a svantaggio della donna. Ad
esempio, non viene data sufficiente attenzione agli interessi, agli affetti e al tempo
che le donne dedicano alla famiglia, al lavoro volontario e
all’attività di caregiver. Il modello economico che viene insegnato non affronta minimamente il problema del genere.
Eppure è noto che il genere
può influenzare anche il mercato e la commercializzazione, quindi per produrre modelli economici aderenti alla
realtà si deve prendere in considerazione il determinante
sesso-genere. Altrettanto si
può dire per i medici che non
si soffermano sufficientemente sugli aspetti sociali dei loro
pazienti e si limitano, in gran
parte, alle variabili strettamente biologiche. Queste considerazione potrebbero sembrare fuori tema o superficiali, ma in un’epoca in cui impera la farmaco-economia, la
mancanza di una prospettiva
di genere deve essere assolutamente superata per non
creare circoli viziosi che rendono più difficile applicare la
cura migliore ad ambedue i
generi.
Ringraziamenti
Si ringrazia il progetto strategico “Salute della Donna” Ricerca Finalizzata 2008 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali ed il
progetto “Ricerca cofinanziata
PROGRAMMA OPERATIVO FSE
SARDEGNA 2007-2013 L.R.7/2007 - Promozione della
ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica in Sardegna”. Infine si ringraziano il
Gruppo italiano Salute e Genere (GISEG; www.giseg.org) che
ha costantemente sostenuto
tutte le iniziative per promuovere la cultura di genere.
(segue a pag. 310)
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Danila Scala
Presidente Comitato Pari
opportunità, Agenzia regionale
per la Protezione ambientale
della Toscana (Arpat) e del
Coordinamento nazionale per le
Pari opportunità delle Agenzie
ambientali (Cnpo)
A
d oggi sono ormai numerose e autorevoli le
raccomandazioni volte
ad adottare l’ottica di genere
nella salute e sicurezza nel
lavoro nei Paesi occidentali,
non solo in quelli in via di
sviluppo, dove più riconosciute sono le diseguaglianze
di salute delle donne, connesse ai carichi di lavoro e ai
rischi in ambiente di vita e di
lavoro (1,2).
È indubbio che la Medicina del
lavoro abbia risentito dell’approccio generale della Medicina volto a indagare patologie
a maggiore rilevanza nei gruppi, ricercandone le cause prevalentemente in fattori biologici, fisici e chimici, utilizzando le variabili età e sesso principalmente come confondenti
e non come determinanti di
malattia. Le evidenze scientifiche sui rischi occupazionali
connessi al genere derivano,
di fatto, da studi su lavori
svolti in prevalenza da uomini
poco attenti alla relazione fra
esposizioni e patologie femminili in settori a prevalenza
di donne, così come all’importanza sia delle differenze ge-
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Salute e sicurezza
sul lavoro
nere di natura biologica rilevanti in termini tossicologici
(massa corporea, componente
lipidica, ecc.) sia di quelle di
natura sociale, rilevanti in termini di rischi (carico di lavoro
fisico e mentale, conoscenze e
comportamenti, interazione
vita-lavoro).
Gli stessi sistemi di prevenzione hanno spesso ignorato
il significato di cambiamenti
in atto nella forza lavoro,
quali l’ingresso tardivo e la
precarietà del lavoro, l’aumento delle donne, l’invecchiamento della popolazione
lavorativa, fattori complessivamente capaci di condizionare in modo nuovo le esperienze di vita, parentali e di
salute, interagendo con i rischi lavorativi specifici, come
dimostra la prevalenza dei disturbi muscoloscheletrici fra
le patologie professionali
(3,4). I Piani di prevenzione,
nazionale e regionali, in corso
nel periodo 2010-2012, non
mostrano attenzione al genere, stante le differenze di salute fra donne e uomini riportate negli inquadramenti epidemiologici del profilo di sa-
La necessità di rilevare patologie derivate
da esposizioni e prestazioni che coinvolgono
le donne
lute delle popolazioni, riferendo tradizionalmente alle
donne progetti mirati a rischi
sesso specifici (tumori femminili, gravidanza, HPV, ecc.) e
agli incidenti domestici1.
Si è così prodotta una sottovalutazione delle esposizioni
professionali nei settori femminilizzati, perpetuando stime di impatto del lavoro sulla
salute probabilmente errate
per entrambi i generi (5,6),
nonché orientando tardivamente la prevenzione verso i
modelli organizzativi, oltre
che verso i rischi occupazionali tradizionali (7). La novità introdotta dall’uso della
parola “genere” si riferisce
proprio alla sua accezione sociale, oltre che biologica, più
direttamente espressa dalla
parola sesso2.
Stante il quadro descritto,
non sono però mancati riferimenti alla dimensione di ge-
nere nella salute e sicurezza
del lavoro: si ricordano in
particolare gli studi della statunitense Jeanne Stellman
(8), della canadese Karen
Messing (9), in Italia di Irene
Figà Talamanca dell’Università “La Sapienza” di Roma
(10), del Gruppo donne/salute/lavoro Cgil-Cisl-Uil di Milano (11) e, nelle Regioni l’attenzione, ad esempio, della
Toscana, che per prima si è
occupata di gravidanza e di
salute riproduttiva nei sistemi di prevenzione (12), deliberando il protocollo di intesa con INAIL su “Salute e sicurezza sul lavoro in un’ottica di genere”3.
Il testo unico che riorganizza
ed integra la legislazione nazionale in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro (decreto legislativo 9 aprile
2008 n. 81 e s.m.i.) mira infine a superare la tutela delle
http://www.ccm-network.it/Pnp_2010-2012.
per il significato di “genere” vedere Regione Piemonte (2007), Glossario. Lessico della differenza, a cura di A. Ribero, pp. 111-4;
http://www.kila.it/images/files/Glossario_testo.pdf.
3 http://www.intoscana.it/intoscana2/opencms/intoscana/sito-intoscana/Contenuti_intoscana/Canali/News/visualizza_asset.html?id=1039468&pagename=704617.
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lavoratrici in gravidanza, comune a molti Paesi sviluppati,
introducendo in più punti il
riferimento al genere, obbligando il datore di lavoro a valutare tutti i rischi (art. 28)4.
È in questo contesto che alcune Pubbliche Amministrazioni hanno avviato la valutazione dei rischi connessi al
genere, programmando una
serie di interventi finalizzati
all’adeguamento ai criteri richiamati nel nuovo testo di
legge ed all’aggiornamento
del sistema di prevenzione
interno. Uno degli adempimenti previsti è la stesura, da
parte del datore di lavoro, di
un Documento di valutazione
del rischio (DVR, art. 17), rispettando i contenuti minimi
riportati nell’art. 28, seguendo le modalità indicate nell’art. 29. Sebbene il decreto
81 sia in vigore dal 15 maggio
2008, la redazione o adeguamento del DVR è stata più
volte prorogata, fino al dicembre 2010 per quanto riguarda il rischio stress lavoro
correlato.
Linee guida operative del
sistema delle Agenzie ambientali italiane
Le Agenzie ambientali sono
nate in Italia nel 1994 con l’istituzione della Agenzia nazionale ANPA, oggi ISPRA
(Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambienta-
le), seguita dalle restanti 21
Agenzie regionali e provinciali. Il Centro interagenziale
“Igiene e sicurezza del lavoro” nel 2006 ha promosso il
progetto dedicato alla valutazione dei rischi connessi al
genere5, diretto dalle Agenzie
delle Regioni Veneto e Toscana, dove si erano sviluppate
esperienze precorritrici del
disposto legislativo. Il lavoro
è proseguito dopo la emanazione del testo unico, visto
che non venivano date indicazioni sulla modalità di valutazione dei rischi connessi
al genere, avendo comunque
il datore di lavoro l’obbligo di
individuare delle procedure e
di riportarle nel DVR.
Le Agenzie svolgono compiti
laboratoristici e di controllo
del territorio, espletati in
condizioni ordinarie e di
emergenza. In origine si aveva il massimo di variabilità fra
le attività svolte nelle diverse
Regioni e Provincie o nelle
singole sedi, da cui discendevano condizioni molto differenti di sicurezza e di idoneità dei luoghi di lavoro. Nel
tempo questa situazione è
stata corretta: si è provveduto
all’ammodernamento delle attrezzature e dei locali ereditati dai Servizi multizonali delle
Aziende sanitarie locali, alla
informatizzazione e alla messa in sicurezza dei processi e
delle attrezzature. Il sistema
delle Agenzie ambientali ha
visto, altresì, l’incremento del
numero dei dipendenti (5812
nel 2002, oltre 11.000 oggi),
un’elevata presenza di personale con contratti atipici, la
riduzione di quello maschile
(a maggiore anzianità anagrafica e lavorativa) e la crescita
del personale femminile, che
ha raggiunto la prevalenza in
alcune Agenzie del centro
nord (Piemonte, Lombardia,
Emilia-Romagna, Toscana,
Trento, ISPRA). Complessivamente, oggi le condizioni di
lavoro sono molto meglio conosciute e controllate rendendo le esposizioni ai fattori
di rischio tradizionali saltuarie e di livello moderato o basso: si sono identificati isolati
casi di patologie a genesi professionale, generalmente legate alle attività ispettive in
esterno.
Per affrontare la valutazione
dei rischi connessi al genere,
il metodo proposto nelle linee
guida (13) suggerisce due
ambiti di approfondimento:
quello generale, relativo alla
completa e sistematica analisi
per genere dei dati inerenti la
organizzazione (personale occupato per età, tipologia contrattuale, orario, assenze dal
lavoro, mansioni svolte; turnover; sorveglianza sanitaria,
infortuni e malattie professionali, ecc.); quello specifico
volto a individuare le condi-
zioni o i rischi da approfondire in ottica di genere.
Il riferimento all’approccio
generale si è reso necessario
in considerazione della scarsa
attenzione fin qui prestata
nel sistema agenziale ai dati
per genere, che sono stati
prodotti solo dai Comitati di
pari opportunità (CPO), laddove istituiti, e per l’emergenza, durante i corsi di formazione, di una diffusa ignoranza della importanza della
dimensione di genere nella
prevenzione, sia nel personale dirigente, con responsabilità gestionali, che nel restante personale. Tale approccio si trova incluso in numerose raccomandazioni ed è
utile sia per la valutazione
dei rischi connessi al genere
che per la valutazione dello
stress lavoro correlato, come
riporta la stessa Lettera circolare del 18 novembre 2010
del Ministero del Lavoro.
L’approccio genere specifico
nella valutazione dei rischi
proposto nelle linee guida si
basa sulla ricognizione delle
conoscenze prodotte in questi anni dai Servizi di prevenzione e protezione interni alle Agenzie ambientali, in merito ai rischi per la salute e la
sicurezza derivanti dalle attività, e sui criteri espressi dalla International Ergonomics
Association. Technical Committee on Gender and Work6,
4 1. Art. 28 comma 1. La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei
preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori,
ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i
contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi.
5 http://www.onog.it/site/it-IT/Le_Attivit%c3%a0/Igiene_e_Sicurezza/Progetti.
6 http://www.iea.cc/upload/technical_genderandwork.pdf. http://www.iea.cc/upload/technical_genderandwork.pdf?phpMyAdmin=XPyBrlJQjtrNYKM50fpmCYvGm%2C8&phpMyAdmin=jLDUJrGUIxQ-3p3v5atPhaf1Xo8.
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Salute e Medicina di genere
che riconducono le principali
differenze di genere da indagare nel personale occupato
alle seguenti condizioni:
– esposizioni: qualora lavori
o mansioni siano diversamente presenti fra i generi
(come nelle attività di ufficio), o quando lo stesso
lavoro venga svolto in modo diverso da uomini e
donne;
– effetti e risultati: quando
si conoscano differenze di
genere negli effetti sulla
salute dovuti a specificità
biologiche (come per la
tossicità riproduttiva), a
diverse percezioni della salute/malattia, al contesto
sociale, alla scelta di indicatori inadeguati (come
quelli non distinti);
– regolamentazione dei rischi riconducibile al genere
(come per la gravidanza).
La disparità di trattamento
dei temi propri del lavoro
femminile ad opera dei sistemi di prevenzione, combinata
alle lacune e distorsioni nella
ricerca specialistica della Medicina del lavoro, non consente di avere a disposizione
validi inquadramenti di tali
differenze, che dovranno perciò essere ricercate in parte
nella specifica organizzazione. Anche gli strumenti di
uso corrente nelle valutazioni
si rivelano parzialmente adeguati, in quanto basati su riferimenti “maschili“, come
nel caso della valutazione del
rischio biomeccanico, molto
influenzato dall’effetto combinato genere-età.
La ricognizione generale effettuata nelle linee guida indica di approfondire in ottica
di genere nelle Agenzie ambientali:
– i rischi da agenti chimici;
– radiazioni ionizzanti;
– vibrazioni, in particolare
per le esposizioni in età
fertile o in gravidanza;
– i rischi da videoterminali,
microclima e movimentazione dei carichi, in particolare per le attività di ufficio;
– i rischi emergenti, trasversali e organizzativi, in relazione anche ai processi
riorganizzativi.
A fine 2010, da una indagine
fatta dal Coordinamento nazionale per le pari opportunità delle Agenzie ambientali
è risultato che la valutazione
dei rischi connessi al genere
viene ancora centrata soprattutto sulla gravidanza, non si
trova sempre riportata nel
DVR ed ancor meno è resa disponibile a tutto il personale.
Dati e informazioni su infortuni, malattie professionali,
sorveglianza sanitaria e radiologica solo in pochi casi
vengono elaborati per genere
e resi disponibili a tutto il
personale. I ruoli di responsabilità previsti dal sistema di
gestione salute e sicurezza
previsto dal testo risultano
coperti prevalentemente da
uomini, ma non è stato possibile valutare eventuali differenze nello svolgimento dei
compiti laddove essi sono
svolti da donne. Particolare
attenzione viene dedicata a
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garantire la funzionalità dei
dispositivi di protezione individuale (DPI), che presentano
molte criticità per le lavoratrici delle Agenzie ambientali,
nelle taglie e nella conformazione, soprattutto per i dispositivi in uso nello svolgimento
delle attività ispettive, di
campionamento e di misura
in esterno. Nonostante le diverse soluzioni adottate dalle
Agenzie, comprese la messa a
punto di requisiti specifici
nelle procedure di acquisto e
la previsione di campioni di
prova, non si sono ancora risolti tutti i problemi inerenti i
DPI necessari alle lavoratrici.
Conclusioni
Attraverso la valutazione dei
rischi connessi al genere, prevista dal Testo unico, si può
dare il necessario impulso alla
tutela del lavoro delle donne,
alla intensificazione degli
studi sui diversi impatti per
genere delle esposizioni e alla
implementazione di dati sulla
salute di lavoratrici e lavoratori, formando adeguatamente i professionisti. Voler approfondire in questi ambiti
incontra tuttora particolari
ostacoli che le Istituzioni di
ricerca, insieme alle Istituzioni pubbliche, devono impegnarsi a superare, migliorando gli stessi flussi statistici
correnti, che mal riportano
per le donne la professione
(ad esempio i certificati di
morte o di assistenza al parto). La impossibilità di operare raffronti nella incidenza e
prevalenza di patologie nelle
lavoratrici, per carenza di dati
storici, rischia di sommarsi alla evidenza che sempre meno
le donne costituiscono gruppi
omogenei o svolgono lavori
“femminili”, perpetuando lacune e ineguaglianze.
Ai fini della prevenzione, ormai affermato è l’intreccio
positivo ai vari livelli fra salute e sicurezza sul lavoro,
pari opportunità e lotta alle
discriminazioni, sancito dall’ingresso di un rappresentante della Presidenza del
Consiglio dei ministri per le
pari opportunità nella Commissione consultiva nazionale (decreto 81 art. 6), dove le
Agenzie auspicano l’ingresso
anche del Ministero per l’Ambiente. È noto che in Europa
le pari opportunità al lavoro
nascono per ridurre la concorrenza fra Paesi a diversi
trattamenti economici nei
settori femminilizzati, molti
vedono quindi la normativa
europea che si sviluppa a tutela del diritto al lavoro e a
pari salario per le donne come parte della normativa a
tutela della salute di genere,
insieme alle norme di Sanità
pubblica e di responsabilità
sociale delle imprese (14). In
Italia, le stesse consigliere di
parità aderiscono a tavoli
tecnici di studio con gli
Ispettorati del lavoro, nonché
alla campagna informativa
sulla salute e sicurezza del
Ministero del Lavoro, in riferimento al lavoro femminile7.
La procedura proposta nelle
linee guida delle Agenzie può
essere applicata anche in altre
7 http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/AreaComunicazione/CampagneComunicazione/2010/20100503_Campagna_Comunicazione_SicuramenteNoi.htm.
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Pubbliche Amministrazioni in
cui siano presenti attività simili (di ufficio, di laboratorio, di ispezione in esterno),
nonché può servire per migliorare l’acquisizione dei dispositivi di protezione individuale (ancora a concezione
“maschile” in molti settori
diversi da quello sanitario o
alimentare). Il documento fa
riferimento anche al tema
della valutazione dello stress
lavoro correlato e al benessere organizzativo.
Le riflessioni fatte in questo
percorso nelle Agenzie ambientali hanno evidenziato
altri aspetti di interesse da
sviluppare, quali la interconnessione fra tematiche della
sicurezza e tematiche ambientali, anche nello specifico della prospettiva di gene-
re. Molte delle problematiche
ambientali, come quelle dei
siti inquinati, rappresentano
infatti un rischio prima di
tutto per i lavoratori e le lavoratrici, le forme di inquinamento possono inoltre avere
un effetto differenziato per
genere, come si evince dagli
studi sugli interferenti endocrini. La sostenibilità delle
produzioni a garanzia del-
l’ambiente può integrare la
garanzia della salute e sicurezza e verso le future generazioni, orientando in tal
senso i comportamenti dei
fornitori e dei consumatori.
In tutti questi ambiti si dovranno muovere con maggiore interazione le diverse discipline scientifiche, nonché
le diverse politiche e i diversi
settori di intervento.
Bibliografia
nelle donne che lavorano: quali e perché, G Ital Med Lav Erg, 32, pp.
464-7.
(1) Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (2003),
Factsheet 43 Including gender issues in risk assessment;
http://osha.europa.eu/en/publications/factsheets/43.
(8) Stellman J.M. (1977),Women’s Work, Women’s Health: Myths and
Realities, Pantheon.
(2) WHO (2007), Strategy for integrating gender analysis and actions
into the work of WHO, A60/19, 29 march 2007; http://www.who.int/
gb/ebwha/pdf_files/WHA60/A60_19-en.pdf.
(3) European Agency for Safety and Health at Work (2003), Report Gender issues in safety and health at work, ed. italiana ISPESL (2004),
Prospettive di genere applicate alla salute e sicurezza del lavoro - Stato
dell’arte.
(4) European Agency for Safety and Health at Work (2009), New and
emerging risks in Occupational Safety and Health - ANNEXES;
http://osha.europa.eu/en/publications/outlook/new-and-emergingrisks-in-occupational-safety-and-health-annexes/view.
(5) Messing K. et al. (2003), Be the Fairest of Them All: Challenges and
Recommendations for the Treatment of Gender in Occupational Health
Research, Am J Ind Med., 43 (6), pp. 618-29.
(6) Ministero della Salute (2008), Lo stato di salute delle donne in Italia, Primo rapporto sui lavori della Commissione “Salute delle Donne”,
Roma.
(7) Carbone U., Farinaro E. (2010), Prevalenza ed incidenza di malattie
(segue da pag. 285):
Epidemiologia delle differenze
Bibliografia
Agenzia regionale di Sanità della Toscana (2011). Nel sito web
http://www.ars.toscana.it/ sono disponibili documenti, pubblicazioni e dati regionali e nazionali su aspetti demografici, stili di vita, salute delle donne, immigrati, incidenti e patologie, utilizzati per questa pubblicazione.
Agenas (2010), La medicina di genere, Monitor, 26, pp. 3-64.
Osservatorio nazionale sulla salute della donna (2011), La salute a misura di donna. Un approccio di genere, Franco Angeli, Milano;
http://www.ondaosservatorio.it
(9) Messing K. (1998), One-Eyed Science: Occupational Health and
Women Workers, Temple University Press, p. 264.
(10) Figà Talamanca (2009), Differenze di genere nella valutazione del
rischio lavorativo: temi per la formazione ed esigenze di ricerca, in
Genere e stress lavoro correlato: due opportunità per il “testo unico”.
Verso l’elaborazione di linee guida, INAIL, Roma, pp. 89-100.
(11) Gruppo donne/salute/lavoro Cgil-Cisl-Uil di Milano (a cura di)
(2006), Lavoro a turni e notturno: strategie e consigli per la salute e sicurezza. Una guida per i datori di lavoro, le lavoratrici, i lavoratori,
Camera di Commercio di Milano, p. 36.
(12) CEDOC-Centro regionale di documentazione per la prevenzione
ambientale e del lavoro (1994), Lavoro e gravidanza, a cura di C. Alaura, D. Scala, Regione Toscana, Firenze, p. 188.
(13) Progetto Benchmarking Linee guida sul rischio di genere nel Sistema delle Agenzie ambientali (2010), ISPRA. Manuali e linee guida 58/2010, p. 87, http://www.isprambiente.gov.it/site/it -IT/Pubblicazioni/Manuali_e_linee_guida/Documenti/manuale_58_2010.html.
(14) Sicurezza e prevenzione n. 8, giugno 2010, http://www.lavoro.
gov.it/lavoro/sicurezzalavoro/md/newsletter.
Ministero della Salute (2010), Quaderno 6 Novembre - Dicembre 2010;
http://www.quadernidellasalute.it/archivio-quaderni/6-novembredicembre-2010.php (scaricato il 2.9.2011).
Ministero della Salute (2008), Lo stato di salute delle donne in Italia, Primo rapporto sui lavori della Commissione “Salute delle Donne”, Roma;
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_764_allegato.pdf.
Ministero della Salute (2011), Certificato di assistenza al parto (CeDAP), Analisi dell’evento nascita – Anno 2008, Roma; http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1551_allegato.pdf.
Osservatorio nazionale sulla salute delle regioni italiane (2010), Rapporto Osservasalute 2010, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; http://www.osservasalute.it/index.php/rapporto/argomenti/2010/10.
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Valeria Dubini
UO Ginecologia e Ostetricia Azienda sanitaria di Firenze
N
el 1993 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definiva la
violenza come “l’uso intenzionale di forza fisica o potere rivolto contro persone,
gruppi o comunità che provochi, o possa provocare, un
danno fisico o psicologico,
compresa la minaccia di tali
atti”. In questa definizione
ben si evidenzia come sia importante l’intenzionalità dell’atto, indipendentemente
dalle conseguenze che esso
provoca, e la presenza di una
condizione di asimmetria, per
forza fisica o potere, che ne
costituisce la principale caratteristica. In effetti, come
per molti altri problemi del
mondo, la violenza non è distribuita in modo uniforme
tra sessi e/o fasce di età: sono i soggetti “fragili” come
donne, bambini o anziani,
che vivono una condizione di
disparità di potere, economico, relazionale, culturale o
sociale, le principali vittime
di questi atti.
La violenza, dunque, rappresenta un problema “ di genere” per eccellenza, e questa è
una consapevolezza ormai
ben consolidata e sostenuta
da autorevoli organismi internazionali.
Il termine “violenza di genere” infatti, viene coniato dall’OMS, che con questo vuole
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Salute e Medicina di genere
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La violenza esercitata
sulle donne
indicare un complesso arcipelago di comportamenti rivolti
contro le donne che includono
violenza domestica, violenza
sessuale, violenza psicologica,
ma anche mobbing o uso del
corpo femminile in modo
squalificante o irrispettoso.
Anche la nostra civilissima
Europa non sfugge a questo
problema, se è vero che il Parlamento europeo nel 2006 ha
sentito il bisogno di riaffermare in sessione plenaria il
fatto che la violenza degli uomini contro le donne rappresenta “un fenomeno universale collegato all’iniqua distribuzione del potere tra i
generi che ancora caratterizza la nostra società”.
Negli ultimi 10 anni si è poi
sempre più chiarito come
questo fenomeno non sia solo
un reato, ma anche un grave
problema per la società, una
violazione dei diritti umani,
ed un fattore di “malattia”: in
tutto il mondo esso rappresenta uno dei più grandi problemi di salute pubblica, che
si inserisce nel concetto più
esteso del riconoscimento
dell’“ineguaglianza di genere”
come realtà epidemiologica
(insieme a fattori sociali, economici e culturali), che attraverso una varietà di condizioni strutturali e istituzionali
(leggi, sistemi economici e
parentali) influisce sulla mor-
Definizione, frequenza e conseguenze fisiche,
psicologiche e sociali
talità, sulla morbilità e sulla
qualità della vita delle donne.
Non c’è alcun dubbio che la
violenza domestica influisca
negativamente sul benessere
della donna, incidendo da un
punto di vista psicologico, sociale ma anche sul piano fisico: la violenza di genere è alla radice di molte patologie
croniche, di quadri psichiatrici, ed è certamente presente
tra molte delle donne che si
rivolgono ai Servizi sanitari.
Da questa consapevolezza nasce l’allarme dell’OMS sulla
violenza come fattore di rischio per una serie di patologie rilevanti per la popolazione femminile, e l’appello sulla indilazionabile necessità di
costruire una coscienza ed
una competenza anche per i
sanitari su queste tematiche.
L’ambito della salute riproduttiva e sessuale rappresenta il parametro più rappresentativo di quello che una
relazione asimmetrica può
comportare: la violenza di genere è alla radice di molte patologie croniche ginecologiche, di mancata protezione
contraccettiva, di complicanze ostetriche, di disfunzioni
sessuali.
Molti studi evidenziano come
su questo terreno si manifesti in modo determinante
l’intreccio tra violenza domestica e violenza sessuale,
spesso associate o utilizzate
in contemporanea, al fine di
mantenere il dominio sulle
scelte riproduttive e di mantenere la relazione sbilanciata e asimmetrica.
Del resto nel 2009 il “Lancet”
pubblica i risultati di uno
studio multicentrico, condotto su un campione di 24.097
donne, che mostra un overlap
consistente tra i due fenomeni: una percentuale variabile
dal 30% al 56% delle donne
intervistate riferisce infatti
di avere subito sia violenza
fisica che sessuale, a dimostrazione che i due aspetti
affondano le radici nel medesimo, ben definito aspetto
socio-culturale delle relazioni
tra “generi”.
Il fenomeno
Stimare l’incidenza delle varie forme di abuso, non è certamente cosa facile: esistono
vari studi sul fenomeno, ma
non sempre tra loro confrontabili per l’applicazione di
criteri e metodologie diverse.
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Inoltre accade spesso che gli
episodi, particolarmente
quelli che accadono entro le
mura domestiche, non vengano riferiti e restino quindi
misconosciuti. Tutti gli studi,
comunque, concordano sul
fatto che la violenza contro la
donna è presente in forma
endemica in tutti i Paesi del
mondo e interessa trasversalmente ogni strato sociale. A
livello mondiale si calcola che
almeno una donna su tre sia
stata picchiata, o abusata
sessualmente e che una su
quattro sia stata vittima di
una forma di violenza durante
la gravidanza.
La violenza commessa nell’ambito domestico da parte
del partner o di un conoscente, rappresenta l’evento più
frequente. Alcuni studi condotti nei Pronto Soccorso, rilevano che circa il 30% delle
lesioni traumatiche presentate dalle donne, sono dovute a
episodi di maltrattamenti da
parte del partner: del resto la
violenza interpersonale risulta essere la seconda causa di
traumi per le donne comprese
tra 15 e 44 anni, preceduta
solo dagli incidenti stradali, e
può assumere forme talmente
gravi da provocare la morte
della donna.
Nel nostro Paese la principale
fonte di informazione riguardo a questo fenomeno è rappresentata dall’ISTAT: nell’ottobre del 2006, è stata condotta un’indagine telefonica
su 25.000 donne di età compresa tra 16 e 70 anni, dedicata interamente al tema della violenza e maltrattamenti
contro le donne, dentro e fuori la famiglia. Sono 6.743.000
(31.9%) le donne che hanno
dichiarato di avere subito nel-
l’arco della vita violenza fisica
o sessuale: nella maggior parte dei casi l’autore è il partner
o l’ex partner (69.7%); nel
17,4% si tratta di un conoscente e solo il 6,2% delle violenze è opera di estranei. Da
rilevare che il 6.6% del campione dichiara di avere subito
forme di violenza sessuale
nella minore età, addirittura
prima dei 16 anni. Il 33.9%
delle donne dichiara di non
avere parlato con nessuno
della violenza subita, nonostante che la reputi molto
grave (34%) o grave (29%), e
che nel 21.3% abbia addirittura temuto per la propria vita. Il sommerso riveste dunque la parte più consistente
(nel 90.7% non viene denunciata) e i motivi della non denuncia chiama in causa la capacità di accoglienza delle
Istituzioni, in particolare
quelle sanitarie: infatti è la
paura di essere giudicata o
trattata male (28.6%), la vergogna o il timore di ingerenze
nella propria privacy (22.1%),
la scarsa fiducia nelle istituzioni (11.6%) a tenere lontane le vittime.
Un aspetto inquietante, che è
anche un indice di quanto la
violenza sulle donne sia presente anche nel nostro Paese,
è fornito dai dati sugli omicidi volontari: il rapporto EURES, pubblicato nel 2009 su
dati del 2005-2006, rileva innanzi tutto che un omicidio
su tre viene commesso in famiglia; la vittima è una donna nel 58.7% e l’autore un
partner o un ex partner nel
53.6% dei casi.
I dati più recenti pubblicati
nel nostro Paese, si riferiscono
a interviste condotte dall’osservatorio Telefono Rosa, nel-
l’arco del 2010, coinvolgendo
circa 2000 donne: ancora una
volta arriva la conferma di come 4 violenze su 5 si verificano all’interno di una relazione
sentimentale e soltanto 1 violenza su 100 avviene ad opera
di sconosciuti: i comportamenti violenti si consumano
solo all’interno delle mura domestiche nel 61% dei casi, per
lo meno per quanto riguarda
le donne italiane.
Al contrario, per le donne
straniere in un 30% di casi si
verificano atteggiamenti violenti anche in situazioni pubbliche. Tra le donne italiane,
inoltre, prevale la violenza
psicologica su quella fisica
(31% vs 23%), mentre tra le
donne straniere è l’inverso,
cosa che le costringe al ricorso a cure ospedaliere in una
percentuale significativamente maggiore (14% vs 7%).
In conclusione anche nel nostro Paese la violenza rappresenta una realtà consistente
anche se spesso sottovalutata: a fronte di campagne
stampa che si manifestano
con grande clamore solo
quando esplodono eclatanti
episodi di cronaca, contribuendo a creare un clima di
straordinarietà rispetto al fenomeno, nel quotidiano si
preferisce invece ignorarne
l’esistenza, magari affidandosi all’idea rassicurante che si
tratti di qualcosa di raro, distante, che non ci riguarda.
Le ricadute sulla salute
Negli ultimi anni si sono susseguite le prese di posizione
e l’impegno di prestigiosi organismi internazionali che si
occupano di salute pubblica,
che mettevano in relazione la
violenza sulle donne e le rica-
dute sulla loro salute: nel
1994 la Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo tenutasi al Cairo definiva la violenza “… un ostacolo alla salute riproduttiva e
sessuale della donna ed ai
suoi diritti…”; e nel 2002
l’OMS pubblicava un manuale
per gli operatori sanitari dal
titolo World report on violence
and health. Nel 2004 il Consiglio d’Europa accogliendo le
indicazioni dell’OMS, assumeva l’impegno di combattere il
fenomeno della violenza sulle
donne, così diffuso e trasversale, e rilevava come anche
nel nostro continente, la violenza domestica costituisse la
prima causa di morte ed invalidità per le donne tra 16 e 44
anni, con un’incidenza maggiore del cancro e degli incidenti stradali.
Il già citato articolo pubblicato su Lancet nel 2009 riportava come, delle oltre 24.000
donne intervistate, una percentuale variabile tra 13% e
26% dichiarava di avere subito
violenza fisica almeno una
volta nella vita mentre erano
un 10-50% quelle che dichiaravano di avere subito una
qualche forma di abuso sessuale. Uno dei risultati più importanti dello studio è avere
evidenziato come la salute
delle donne esposte a questo
fattore di rischio ne risulti
condizionata in modo consistente: nell’ampio campione si
riscontra infatti con frequenza quasi doppia rispetto alla
popolazione di controllo, una
percezione di “cattiva salute”
(OR = 1·6), difficoltà a camminare (OR = 1·6), difficoltà a
svolgere normali attività (OR
= 1·6), dolori diffusi (OR =
1·6), amnesie (OR = 1·8),
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vaginiti (OR = 1·8); i pensieri
suicidiari incidono in misura
3 volte maggiore rispetto alla
popolazione generale (OR =
2·9) e i tentati suicidi addirittura quasi 4 volte (OR =
3·8). Dunque la violenza lascia segni sulle vittime non
solo sul piano psichico, come
si è pensato in passato, ma
anche su quello fisico.
Le patologie che affliggono
con maggiore frequenza le
donne vittima di violenza sono i disturbi del tratto gastro-enterico (1 donna su 3
vive una relazione di abuso),
depressione (1:2) ma anche
cefalea (Golding 1999), lombalgia cronica (Schofferman
et al. 1993, Campbell et al.
2002), fibromialgia (Walker
et al. 1997), disturbi urologici (Peters et al. 2007) e disturbi della sfera sessuale.
Inoltre con maggior frequenza si associa abuso di alcol,
droghe, psicofarmaci e analgesici come modalità di reazione nel gestire i sintomi
dello stress ripetuto. Anche
tutta una serie di patologie
ginecologiche, da cui non sono esenti neppure le giovanissime, possono essere associate a questo fenomeno:
mancata pianificazione familiare, ricorso all’IVG, malattie
sessualmente trasmesse, disfunzioni sessuali e patologie
della gravidanza, sono tutte
situazioni che possono celare
una condizione di violenza.
Basti pensare all’associazione
con il dolore pelvico cronico,
che secondo l’ACOG (American College of Obstetricians
and Gynecologists) nel 4050% dei casi affonda le proprie radici in storie di abuso
fisico e/o psichico. Non c’è
dubbio che il dolore pelvico
cronico ben rappresenti un
tipo di patologia “funzionale” e sfumata che frequentemente correla con una storia
di maltrattamenti.
Con qualche sorpresa di molti
ginecologi nel 1993 Milburn
pubblicava un lavoro in cui il
DPC veniva messo in relazione con tutta una serie di possibili cause: sebbene fossero
state indagate patologie tradizionalmente ritenute strettamente correlate al dolore
pelvico, quali endometriosi e
presenza di aderenze rilevate
laparoscopicamente, soltanto
l’associazione con una pregressa violenza sessuale e
una storia di depressione raggiungevano la significatività
statistica (p<0.01).
I meccanismi che sono coinvolti in questo tipo di associazione sono certamente
molteplici e non facili da individuare: probabilmente
coesistono fattori di origine
psicologica e fattori di origine neurologica; alcuni studi
suggeriscono che il trauma
possa provocare delle alterazioni biofisiche che esitano
in un’alterata sensibilità al
dolore. Questo potrebbe realizzarsi attraverso azioni sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con aumento della produzione di cortisolo e conseguente danno alle zone dell’ippocampo e dei circuiti
sensibili al CRH, cosa che
esporrebbe successivamente
ad un’alterata percezione degli stimoli dolorosi (Sapolski
et al. 1990); oppure attraverso una “disregolazione “ del
sistema nervoso autonomo
con ipersensibilità ingravescente da up-regulation delle
fibre viscerali. È probabile
che meccanismi diversi si
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sommino e si potenzino. Probabilmente poi anche depressione e disturbi del sonno,
esiti che comunemente fanno
seguito ad uno o più episodi
di violenza, possono costituire dei fattori che rendono più
vulnerabili a successivi stimoli dolorosi.
Il trauma è ancora più grave
quando le violenze siano avvenute in età infantile: sembra infatti che l’abuso sui minori possa innescare una cascata di eventi in grado di
sensibilizzare a successive
reazioni al dolore in età adulta; molti studi identificano in
esso una sorta di “marker”
per il rischio di abuso che dura tutto l’arco della vita, moltiplicando in tal modo il rischio di sviluppare una sindrome da dolore pelvico. (Livello III di evidenza).
Società scientifiche prestigiose come l’ACOG e il RCOG
invitano a considerare con
estrema attenzione la possibilità di una storia di violenza nell’analisi del dolore pelvico cronico, raccomandando
di porre domande esplicite
sull’argomento, e individuando come punti cardine nell’approccio a questa patologia
il tempo dedicato all’ascolto e
l’approccio multidisciplinare
(Livello di evidenza Ia).
La laparoscopia diagnostica,
per molto tempo considerata
indispensabile nell’analisi del
DPC, dati i possibili rischi che
può comportare, deve essere
invece considerata in seconda istanza, una volta completata l’indagine complessiva
(Livello III di evidenza).
Le problematiche riproduttive in senso stretto vedono al
primo posto la gravidanza
non voluta con conseguente
ricorso all’interruzione di gravidanza: un articolo pubblicato sul BMJ nel 2005 mostrava un’associazione significativa tra violenza domestica e richiesta di IVG, con un
trend crescente al crescere
del numero di IVG. Era infatti
presente nel 24% delle donne
alla prima IVG, nel 30% nelle
donne alla seconda IVG fino a
raggiungere quasi il 40% nelle donne con più di due IVG
alle spalle.
Dobbiamo pensare che da
queste problematiche non sono esenti neppure le giovanissime: uno studio pubblicato dalla Miller nel 2010 su
Contraception riporta una incidenza di giovanissime che
percepiscono i rapporti sessuali nella loro relazione come “forzati”, pari al 35% delle ragazze intervistate, con
conseguenti boicottaggi contraccettivi (15%) e gravidanze indesiderate (1:5).
Per quanto possa sembrare impossibile neppure la gravidanza rappresenta un periodo
esente dal rischio di violenza
e maltrattamenti: a secondo
degli studi si rileva un’incidenza che si attesta tra 5 e
20%. In realtà la gravidanza
rende la donna più vulnerabile, riducendo tra l’altro la sua
autonomia sia emotiva che finanziaria; i cambiamenti legati a questo periodo possono
essere vissuti dal partner come un opportunità per stabilire potere e controllo sulla
donna. Non è un caso che il
30% dei maltrattamenti abbia
inizio proprio in gravidanza,
specie nel secondo e terzo trimestre, che il 69% delle donne
maltrattate in precedenza
continuino a subire maltrattamenti e che nel 13% dei casi si
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assista anzi ad un intensificarsi ed aggravarsi degli episodi. Raramente sono episodi
isolati: le aggressioni si ripetono almeno due volte nel
corso della gravidanza (60%)
o anche più spesso (15%). Sono da considerarsi più a rischio le donne che già vivono
una relazione violenta (OR
67.6), le giovanissime (tra 16
e 19 anni il rischio è aumenta
di circa 3 volte) e le donne che
appartengono a gruppi etnici
immigrati. La violenza costituisce un fattore di rischio importante per la gravidanza
con conseguenze sulla madre
e sul feto che possono arrivare
fino alla morte: ricordiamo
che rappresenta la 2° causa di
morte materna nel mondo.
Iperemesi, distacco di placenta, rottura d’utero, poliabortività, perdite ematiche del primo trimestre, ma anche morte
fetale, distacco di placenta,
parto pretermine, corioamniotite e basso peso alla nascita
sono alcune delle possibili
complicazioni che possono associarsi ad una gravidanza
violenta. In uno studio pubblicato nel 2006 sull’American
Journal of Obstetrics and Gynecologists, Silverman, su un
campione di oltre 118.000
donne, mostrava come la violenza costituisse un fattore di
rischio significativo per ipertensione (OR = 1.40), perdite
ematiche (OR = 1.66), iperemesi (OR = 1.63), infezioni vie
urinarie (OR = 1.55), parto
pretermine (OR = 1.37), IUGR
(OR = 1.17). Uno studio del
gruppo di Trieste coordinato
da Patrizia Romito e pubblicato nel 2009 su Health Care Women, mostrava come anche
nella depressione post-partum
la violenza del partner giocas-
se un ruolo estremamente importante: le donne che subiscono rapporti violenti rischiano infatti 13 volte più
delle altre di sviluppare la cosiddetta “blue-syndrome”. Infine abuso di alcol, di farmaci
psicotropi e di droga, possono
associarsi e potenziare gli effetti negativi sul decorso della
gravidanza: è inoltre caratteristico un atteggiamento scarsamente auto protettivo, con
ritardo nell’assistenza e controlli mancati che comportano
anch’essi conseguenze spesso
non trascurabili. Eppure, paradossalmente, la gravidanza
costituisce una grandissima
opportunità per svelare una
situazione di maltrattamento:
la maggior parte delle donne
segue un programma di controlli prenatali ed ha quindi
ripetute occasioni di entrare
in contatto con il Servizio sanitario e con operatori con i
quali si crea facilmente un
rapporto di confidenza e di fiducia; inoltre il timore delle
possibili conseguenze per il
suo bambino spinge la donna
ad aprirsi con maggior facilità. Il report triennale sulla
mortalità materna pubblicato
regolarmente in Gran Bretagna, ha messo chiaramente in
evidenza come il 40% delle
donne poi uccise a seguito di
episodi di violenza, era passato almeno una volta attraverso i Servizi sanitari, i quali
non erano stati in grado si individuare la condizione di rischio.
Infine anche disturbi delle sfera sessuale si associano con
frequenza maggiore nell’ambito di una relazione violenta,
come conseguenza diretta di
un rapporto squilibrato e anche attraverso il meccanismo
di attivazione del SNA e conseguenti alterazioni dell’asse
ipotalamo-ipofisi-surrene descritto in precedenza.
Nel 2007 Cocker in una review
mette in evidenza la forte associazione tra disturbi della
sfera sessuale, e violenza domestica, rilevata in 17 dei 18
studi considerati. Si tratta
prevalentemente di vulvodinia, dispareunia e cistiti interstiziali.
Gli stereotipi
Lo stereotipo rappresenta un
“luogo comune” che appartiene alla società ed ha lo scopo
di proporre un modello positivo da seguire. Lo stereotipo è
introiettato in ciascuno di noi
e non è possibile non confrontarsi con esso: ne sono condizionati gli uomini, le donne,
ma anche gli operatori.
Sulla questione della violenza, il peso degli “stereotipi di
genere” è talmente importante che l’OMS dedica nel 2003
un intero capitolo della pubblicazione dedicata alla violenza sessuale ai cosiddetti
“miti dello stupro”: la prima
cosa che viene stressata riguarda la necessità che il personale che si occupa di questi
problemi dovrebbe essere in
grado di astenersi dalle proprie opinioni riguardo all’attendibilità del racconto.
Gli stereotipi di genere che
ruotano intorno alla violenza
riguardano innanzi tutto l’idea che la violenza non riguarda solo le donne ma anche gli uomini: quest’idea,
contrastata da tutti i dati
obiettivi e rappresenta una
prima barriera per il riconoscimento di questo problema
come un problema di genere.
A seguire c’è l’idea che le
donne che subiscono violenza
sono solo le “cattive ragazze”: è invece noto e consolidato il fatto che la violenza
rappresenta un fenomeno
trasversale che colpisce tutte
le classi sociali.
Un terzo stereotipo è rappresentato dall’ipotesi che
“spesso le donne si inventano
episodi di violenza”: non solo
una ricerca dell’US Federal
Bureau of Investigation mostrava nel 1997 che solo l’8%
degli stupri denunciati si erano rilevati infondati, ma anche tutti i dati, compresi
quelli italiani, evidenziano
come il problema è rappresentato dalla non denuncia
(91.6% nei dati italiani).
Un altro stereotipo diffuso è
quello che solo se vi sono presenti segni fisici si può essere
certi dell’avvenuta violenza: è
importante invece sapere che
solo in un 10% dei casi la visita ginecologica può accertare
l’avvenuta violenza sessuale.
Gli stereotipi della violenza
sono fattori che contribuiscono a rendere difficile il riconoscimento e l’emersione del
fenomeno, e ne è purtroppo
ancora intrisa la cultura corrente: è pertanto necessario
che siano consapevolmente
conosciuti e discussi.
Il ruolo degli operatori sanitari
Il corpo “parla” anche se la
vittima molto spesso non riesce a farlo, e ai sanitari spetta il compito di decodificare
questo linguaggio attraverso
la conoscenza del fenomeno e
la capacità e la sensibilità di
interpretare i segnali. Gli
operatori sanitari hanno dunque una grande responsabilità, perché conoscere e iden-
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tificare il problema, può significare comprendere più da
vicino le cause di alcune situazioni patologiche e attivare i percorsi di aiuto adeguati,
talvolta persino salvare una
vita. Non è più possibile ignorare un problema di questa
portata che probabilmente si
cela dietro a molte patologie
che gli operatori sanitari incontrano, e rispetto alle quali
è facile provare un senso di
impotenza e frustrazione se
manca la chiave di volta per
una piena comprensione. In
particolare i Servizi sanitari
che si occupano di salute riproduttiva costituiscono un
potenziale unico per confrontarsi su questi problemi, dal
momento che la maggior parte delle donne hanno occasione di accedervi in qualche
momento della loro vita. Certo ci sono dei segnali che si
dovrebbe imparare a riconoscere e ad osservare con attenzione: ad esempio ripetuti
accessi al Pronto Soccorso, ri-
tardo nell’accesso alle cure
prenatali, dimenticanza degli
appuntamenti fissati, eccessiva preoccupazione per la gravidanza, eccessiva sollecitudine del partner. Ginecologi,
ostetriche, personale dei
Pronto Soccorso, medici di famiglia, personale dei Servizi
psichiatrici e dei SERT, rappresentano senz’altro le figure con un punto di osservazione privilegiato, rispetto a
questo fenomeno: dovrebbero
pertanto ricevere una formazione adeguata, che ad oggi
non è invece prevista nei percorsi di studio, e dei supporti
sufficienti per potere attivare
le risposte necessarie.
Il manuale che l’OMS ha pubblicato nel 2009 mira proprio
a sottolineare come il Sistema
sanitario rappresenti la prima
possibilità di contatto per le
donne vittime di violenza, e
conclude che “… troppi pochi
medici, infermieri ed altro
personale sanitario hanno coscienza e competenza nel ri-
306
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conoscere il problema che sottende tante patologie che affliggono le donne o sanno offrire loro aiuto, specie là dove
non sono disponibili servizi
specifici…”. Gli operatori devono comprendere appieno
questa responsabilità e devono essere consapevoli di come
un approccio non corretto
possa avere l’effetto di allontanare la donna dalle Istituzioni e di impedirle di individuare una strada per uscire
dall’inferno dell’abuso. Per
dirlo con l’OMS “… Il sistema
sanitario non può certo fare
questo da solo, ma dovrebbe
esprimere pienamente il proprio potenziale ed assumere
un ruolo proattivo nella prevenzione della violenza”. Costruire degli strumenti di rilevazione precoce appare un
momento indispensabile per
offrire ai sanitari un ausilio
semplice e immediato per il
miglior svolgimento del loro
compito: infatti la mancanza
cronica di tempo e la neces-
sità di “andare veloci” costituiscono una barriera apparentemente insormontabile
all’emersione del fenomeno.
Un altro punto fondamentale
è che gli operatori conoscano
le risorse che il territorio nel
quale operano può offrire come supporto: la mancanza di
una rete e il timore di non potere offrire risposte può infatti costituire la principale
spinta a fingere di non vedere.
Non c’è dubbio che è necessario anche che i Paesi investano sia in formazione che in
azioni politiche e culturali
con impiego di risorse: la salute delle donne è un bene
prezioso che misura in modo
molto corrispondente anche il
benessere del Paese stesso.
Del resto, per dirlo con Nelson
Mandela, dobbiamo sapere
che “… la salute e la sicurezza non sono cose che si raggiungono come se accadessero per caso, ma il risultato di
un consenso collettivo e di un
pubblico investimento…”.
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Paola Trotta
Direttore Dipartimento
dipendenze - Azienda sanitaria
di Firenze
S
ia nell’ambito del disagio
psichico, che nei quadri
clinici con una diagnosi
psichiatrica secondo il DSM o
l’ICD, il genere porta con sé
specifiche differenze epidemiologiche, orientamenti valutativi, particolarità di ipotesi etiopatogenetiche, opportunità di approccio terapeutico e riabilitativo e altro.
Non sempre le implicazioni di
tali differenze sono esplicitate e chiarite nella mente di
chi cura.
Inoltre gli stereotipi sul genere, da non confondere con
il concetto di differenza, tema fondante e ricco di senso,
possono influenzare gli
orientamenti di operatori e
utenti, più di quanto possiamo immaginare.
Facciamo un esempio non casuale: dire che le donne sono
più emotive e meno razionali
rispetto agli uomini è uno stereotipo, che può divenire stigmatizzante, suggerendo, nel
nostro linguaggio che non è
neutro, un valore negativo. Si
può sottintendere che l’emozione vale meno della ragione,
che i due campi debbono essere ben distinti, scissi, e che
nella donna non possono esserlo, che esistono processi
che attengono del tutto ad un
campo o all’altro: nella valutazione di vissuti o ideazioni,
presentati da una donna, che
La specificità
del disagio psicologico
si ponga come paziente, questo può fare delle differenze in
più o in meno, anche notevoli,
nell’essere ascoltata, compresa, diagnosticata.
Ogni stereotipo può generare
discriminazioni: nella famiglia, nell’ambito lavorativo,
persino nella politica, e queste esperienze di nuovo influenzano la mente, la percezione di sé, l’autostima. È noto che le ragazze, spesso più
brave negli studi, siano da
adulte in numero minore nei
livelli lavorativi più alti.
Se dicessimo invece che le
donne integrano maggiormente aspetti emotivi e cognitivi,
o che attribuiscono più importanza ai vissuti emotivi propri
e dell’altro, potremmo rendere
conto di una differenza, che in
realtà non sappiamo quanto
naturale e quanto socialmente
costruita, senza creare disvalori pregiudiziali.
Si suggerirebbe un modello
diverso, ma almeno altrettanto valido, di interagire quotidiano, nel lavoro, nella cura
di cose e persone, una relazionalità non caratterizzata
da presa e possesso, anche
simbolici, ma capace di ascolto, dove ciò che è emotivo e
ciò che è razionale possono
fondersi ed equilibrarsi: “mi
fermo davanti all’altro e ne
accetto qualcosa: non mi approprio, ma mi meraviglio
Le molteplici e significative differenze nella
diagnosi e nel trattamento del disagio femminile
della vita, accettando di non
essere il tutto” (Irigaray).
Sicuramente molte sono le
differenze legate al genere
nel disagio psichico che arriva all’osservazione del clinico, ricevendo una diagnosi
psichiatrica, ed ancora troppo poco è stato fatto per far
esprimere a tali differenze
tutto il loro significato, anche se sono “in fieri” diverse
iniziative in questo campo, e
questo è sicuramente un dato
positivo, di cambiamento.
Differenze nei numeri
Le patologie non si distribuiscono nello stesso grado, mai
si dividono al 50% fra i due
generi. Se le schizofrenie maschili sono più frequenti, i disturbi d’ansia prevalgono nelle donne, come le depressioni,
ma i suicidi, come le morti per
overdose e incidenti, avvengono in numero maggiore nel
genere maschile; i disturbi
alimentari sono estremamente sbilanciati, solo vent’anni
fa si riteneva l’anoressia
esclusiva delle ragazze, invece
le tossicodipendenze sono più
numerose nei maschi, ma anche in questi casi si registra
una differenza graduata, che
ritroviamo in Toscana, in Italia, in Europa, con poche variazioni, 80/20% per le sostanze illegali, 70/30% per
l’alcol, molto più vicini i due
generi per il tabagismo.
Poi nella gravità, con un andamento inversamente proporzionale alla quantità: le depressioni femminili, più numerose, sono spesso meno
gravi di quelle maschili, le tossicodipendenze femminili,
meno numerose, sono spesso
di grado grave e devastanti per
la vita della persona. Come se
aver preso una via patologica
meno comune per il proprio
genere significasse aver avuto
maggiore, più forte, un qualcosa, direi la base etiopatogenetica che ha determinato o
permesso il disturbo.
E differenze vi sono nella disponibilità alla terapia, che
almeno per la parte più grave
dei fatti patologici che ho citato è migliore se è “integrata”, dove questo temine non
descriva, mascherandola, la
routine di una terapia farmacologica, appena accompagnata da un parlare di controllo diagnostico, o da ele-
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menti stereotipi di intervento
sociale. Le donne in particolare sono meno chiuse alla parola su se stesse, quando viene loro concessa tale opportunità, in un dialogo terapeutico o in una definita psicoterapia e sono spesso in grado di
ripercorrere e comprendere
col la/il terapeuta la propria
storia e la relazione fra gli
eventi di vita precoci, le situazioni successive e la loro
sofferenza attuale e questo
molto aldilà di fattori culturali, livelli di istruzione, livelli
di gravità. Solo sofferenze
davvero indicibili, magari da
noi conosciute per vie diverse, sociali, giudiziarie, le rendono talora sorde a se stesse e
non capaci di nominare le cose o di correlare anche a quei
mali il dolore dell’oggi.
Non potendo parlare per esteso di tutto questo, che pure
mi sembrava di dover accennare, vorrei attraverso due
casi, uno dal Servizio per le
dipendenze, uno dallo studio
professionale, dire cosa troviamo quando andiamo a
guardare, anche con attenzione al genere, l’intrecciarsi
di vita, sintomi, patologia in
due donne con disturbi diversi e con storie molto diverse.
Il primo caso è quello di Marina, tossicodipendente, in remissione da molti anni, anche
ormai senza trattamento sostitutivo. Conosco la paziente
da quasi vent’anni. Ho cominciata a seguirla in carcere ed
ho continuato poi al SerT.
La sofferenza di questa paziente, ricostruita in almeno
dieci anni di colloqui prima
bisettimanali e poi settimanali, era cominciata da molto
piccola: a otto anni aveva sviluppata una sintomatologia
ossessiva grave, che finiva
per invadere il suo pensiero e
talora le impediva qualsiasi
altra cosa, quando aveva dovuto rassicurarsi che la madre, che spesso glielo comunicava anche verbalmente,
mentre usciva di casa lasciandola in preda al panico, sarebbe davvero tornata e non
si sarebbe uccisa. La paziente
amava molto la madre e cercava di proteggerla dalla sua
depressione e dal dolore che
il marito le dava per motivi
relativi ad aspetti di coppia,
e soprattutto deludendo le
sue aspettative di essere
amata e compresa, dopo l’abbandono da piccolissima da
parte della propria madre, la
nonna della paziente, ed il
suicidio del patrigno, l’unico
a curarsi di lei con qualche
sensibilità. Possiamo leggere
la difficoltà materna di questa donna, la madre, come un
ripetere i propri abbandoni,
in una situazione di non sostegno passata e presente.
All’inizio dell’adolescenza Marina, in opposizione al padre,
moralista, pio e vissuto da lei
come incapace e perverso, volendo incarnare una figura forte e non volendo somigliare alla madre, con il pensiero continuamente invaso da pensieri
ossessivi e giochi numerici
coatti, aveva cominciato a frequentare ragazzi più grandi, in
maniera paritaria e poco sentimentale, più come compagni
che amici o innamorati, e ad
usare sostanze con loro. Saltando quasi la fase della cannabis, molto comune allora,
era approdata ad appena quindici anni all’eroina e poco dopo allo spaccio. Quindi la dipendenza, con l’espandersi
compulsivo del bisogno tossi-
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comanico, l’alcol, ripetute carcerazioni, lo svilupparsi di un
autolesionismo grave, e vari
tentativi di suicidio, in carcere
e fuori, fino ad un coma che
richiese giorni in Rianimazione e la mise in serio pericolo di
vita. Già in queste fasi si andava costruendo, fra desiderio e
paura di affidarsi, la relazione
terapeutica, con me medico
psichiatra e con il Servizio, in
particolare con un’assistente
sociale, secondo rapporto di
grande importanza nel seguire
una paziente così grave. Infine, accettando di fallire più
volte con lei, ma non di cedere
alla mancanza di speranza,
che di fatto spesso è un ennesimo abbandono nella vita di
questi pazienti, arrivammo allo sviluppo di una relazione
piena, buona, restaurativa ed
insieme alla parola anche i farmaci, fino ad allora abusati, o
usati contro di sé, comunque
inutili, divennero una parte
della cura, che lei rispettava.
La paziente riuscì ad interrompere prima l’alcol, poi l’eroina,
divenne madre, ed anche se la
relazione di coppia non tenne
a lungo dopo la nascita della
bambina, continuò il suo programma, con impegno e coerenza, nonostante momenti di
difficoltà depressiva ripetuti.
Fece un inserimento lavorativo
in una Cooperativa e diminuì
gradatamente il metadone, fino a cessarlo, seguendo anche
un percorso di studio e formazione che l’ha portata a svolgere un delicato lavoro di aiuto, in cui riesce bene, con autentica modestia ed un livello
di sensibilità impagabile.
Ha assistito la madre e si è
riavvicinata al padre, comprendendo anche le sue prospettive e difficoltà, fra lavo-
ro, insoddisfazioni coniugali
e modelli maschili che premono all’eccesso per l’affermazione individuale, almeno
sessuale, e dove il predominio
sulla parte femminile della
famiglia diviene falsamente
riparativo della frustrazione.
L’altro caso è quello di una
giovane signora di buona famiglia, Giulia, moglie di un
imprenditore, madre di tre
bambini, studiosa citata, venuta da me allo studio in intramoenia, per “sintomatologia ansiosa, con ansia generalizzata e somatizzata”, con
episodi di diarrea ripetuti che
si esaurivano in 12/24 ore,
lasciandola sfinita, inviata
già dal suo medico di famiglia
a molti specialisti: indagata
per carcinoide, Crohn, celiachia, ed altro, era stata poi
vista anche da colleghi psichiatri; “sospettata” fra l’altro di essere bipolare, “quindi
pazza, dottoressa…” e questa
davvero era stata l’ipotesi
diagnostica, il collega l’aveva
oltretutto vista un’unica volta, che più l’aveva turbata.
L’accolsi e la lasciai parlare
senza interromperla, oltre l’ora: non è una mia prassi, ma
mi sembrò che ne avesse bisogno e che la sua non fosse una
logorrea di significato patologico, ma l’umano bisogno di
essere ascoltati. Dopo il racconto delle sue disavventure
con medici che in tre minuti
avevano già capito e le segnavano serie di esami complessi,
invasivi, cui comunque era
grata, se non altro per avere
escluso molte gravi malattie,
sentivo emergere l’ansia soprattutto di non poter badare
più ai suoi bambini, e a tutte
le sue “cose”, più che un’ansia
per sé. A tratti riusciva anche
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ad essere, segno di una buona
salute mentale di base, ironica
ed autoironica. Decisi di non
porre diagnosi che col tempo,
confermandole soltanto al bisogno un ansiolitico dato dal
medico di famiglia.
Nel corso dei successivi colloqui cominciarono ad emergere
circostanze di vita comuni a
molte donne, insieme ad un
elevato senso del dovere ed
un certo perfezionismo, che
mi confermarono l’idea di una
lieve depressione reattiva, e
soprattutto una condizione di
stress cronico, che certamente una Medicina molto specialistica e interventista non
aveva contenuto, facilitando
sintomi di ansia con le molte
visite, i molti esami, cosa che
anche l’agiatezza economica
aveva favorito.
Il contesto sociale era comunque quello di una discriminazione, pur declinata in una fascia di borghesia alta. Al concorso universitario, per cui si
era straordinariamente impegnata, le era stato preferito il
figlio maschio di un qualcuno
che contava, meno bravo di
lei, innamorata del suo studio, e stimatissima; il suo professore per cui aveva dato anni di lavoro sottopagato o gratuito, ed al cui ordinariato
aveva contribuito, l’aveva
scambiata con qualche favore
fra potenti, dopo averle anche
rimproverato i tre figli, come
tradimento della ”causa”, deludendola nell’insieme moltissimo; il marito, pur volendole
bene, non capiva perché mai
soffrisse così e non si mettesse a fare la signora e casomai
a fare soldi insieme a lui, visto
che ne aveva anche le capacità, ed infatti lo aiutava con
idee creative ed innovative,
cercando un ponte fra le loro
attività. D’altra parte lui non
leggeva i bellissimi lavori di
lei, trovandoli noiosi.
Di fatto Giulia, al momento
dell’inizio del malessere e delle sue disavventure sanitarie,
lavorava sui suoi temi di studio, accettava nel proprio
campo lavori poco pagati e
precari, che nel suo bilancio
familiare contavano ben poco,
facendo di tutto per non far
pesare a nessuno la sua fatica
ed assumendosi viceversa tutto il peso domestico, la cura
della casa, per cui aveva solo
un aiuto saltuario, la cura dei
figli, dei genitori propri e del
marito per svariati bisogni: le
molte malattie del padre, la
depressione della suocera, chi
da accompagnare, chi da sostenere, il giovane cognato da
far riflettere perché non prendesse strade sbagliate.
Tutto questo per naturale generosità e per profondità degli affetti, ma anche per sentire e dimostrare di essere
utile, pratica e non persa in
sogni; il marito nel proprio
tempo libero si poteva dedicare a sport e svaghi, lei continuava a curarsi di tutto: dei
tre figli, di cui la più piccola
un po’ delicata ed il primo intelligente e particolare, bisognoso di grande attenzione,
ed in più scriveva, metteva su
iniziative culturali, senza
perdere una sola occasione
del suo lavoro, dovendo anche in un caso subire le proposte di un collega più anziano, poco competente, ma stabile e con qualche piccolo,
meschino potere. Tutto questo sorridendo, preparando
cene, curandosi non formalmente di amiche e cugine per
lutti o crisi coniugali, inven-
tando un museo, pensando ad
un romanzo da scrivere.
Nel corso dei colloqui, la mia
lettura insieme a lei della sua
vita, della sua ricchezza, della sua straordinaria fatica, la
rassicurazione sulla sua salute mentale, l’affrontare la sua
difficoltà ad accettare alcuni
umani limiti, ma anche il riconoscimento condiviso delle
ingiustizie subite, anche in
un’ottica di genere, ha favorito la progressiva tranquilla ripresa del suo ricco cammino
esistenziale ed il superamento dei sintomi.
Il disagio psichico, che ha
origini multifattoriali, vede
come significativa parte etiopatogenetica fenomeni sociali legati al genere.
La questione del lavoro domestico, del lavoro di cura
della prole, degli anziani e di
tutti gli impegni attinenti alla famiglia non equamente
suddiviso è un tema segnalato in molta letteratura e soprattutto l’OMS chiede che
questo, che è una discriminazione, oltre che una causa di
malessere fino alla patologia,
venga indagata da psichiatri
e psicologi. Le donne lavorano in media per la cura di cose e persone anche tre volte e
mezzo più dei loro compagni,
ad esempio 34 ore vs 10, come riportato in ricerche svolte in diversi Paesi occidentali,
anche se hanno un’attività
fuori casa, anche se a tempo
pieno, ed anche con uno stato di salute peggiore, con poche differenze. Ma le donne
spesso non sanno quanto e
come lo fanno, non sono consapevoli quindi di come si genera la loro fatica, l’esaurimento di forze che provano,
ma solo se lo sanno e se se ne
parla con loro e in generale le
cose possono cambiare.
Anche nella storia di queste
due donne, in maniera molto
diversa fenomenicamente, è
elemento centrale il farsi carico degli altri fino al sacrificio di sé, un’ esaltazione del
ruolo femminile, anche quando questo appare negato coi
comportamenti di superficie.
Marina assume anzi caratteristiche apparentemente mascoline e di rottura, per sostenere la madre rispetto al
padre, e anche per dimostrarle che ci si può fare da sole,
che non c’è bisogno di alcun
sostegno maschile, in un modo che leggerei quasi come
una “didattica artemidea”;
quando guarisce è una madre
davvero ottima per la figlia e
riesce nella cura degli altri,
anche nel lavoro, disvelando
la sua profonda sensibilità e
capacità di dedizione, che
aveva vissuto, con ruoli rovesciati, verso la madre sofferente. Giulia, cresciuta in un
ambiente favorevole, con una
coppia di genitori funzionante e significativa, ha imparato in uno sviluppo sostanzialmente riuscito, a curarsi di
tutti, e di tutto, ad esserci
per tutti, fino qualche volta a
temere di perdere se stessa, e
difatti ogni tanto ha perduto
il “controllo” del suo corpo:
oggi quando accade, meno e
meno intensamente, lei dice
che il suo corpo le sta segnalando che sta esagerando e
chiedendo troppo a se stessa.
Rispetto alla violenza di genere, altra area da indagare
nelle storie di donne, secondo l’OMS, ed i dati di letteratura indicano, legati a quest’area, vari sintomi: ansia,
paura, sensazione di insicu-
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rezza, depressione, stress
acuto o cronico, in questi due
casi non compaiono dati eclatanti, ma certo le profferte
triviali, segnate dal “potere”,
del collega di Giulia, rientrano comunque in questo campo, come l’utilizzo di materiale pornografico da parte
del padre di Marina, per lei e
sua madre così sconvolgente.
La questione della dipendenza
economica, ulteriore fattore
di discriminazione e stress, le
donne trovano meno lavoro,
fanno più part time, guadagnano meno, anche a parità di
ruolo, hanno o avranno meno
pensione, appare invece chiara in questi due casi.
Per molti motivi, queste due
donne sono più deboli economicamente dei loro partner e
questi temi entrano nei loro
pensieri, le preoccupano. Il
padre della bambina di Mari-
310
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N. 188 - 2011
na, artigiano, guadagna discretamente più di lei, che tira avanti a fatica, ma non le
dà alcuna cifra fissa per la
bambina, riservandosi di fare
regali alla piccola quando ne
ha voglia (aspetto riportato
in letteratura: le donne guadagnano meno e spendono
mediamente di più per i figli), il marito di Giulia gode
di un sicurezza economica individuale di cui la fa parteci-
pe, ma questo non la fa sentire indipendente e realizzata.
Sicuramente noi professionisti
sanitari dovremmo imparare e
non dimenticare mai che il genere è un determinante attivo
nel condizionare vita e salute
ed anche la relazione che abbiamo con le nostre pazienti.
Tenerlo presente in ogni attività sanitaria può salvaguardare le donne e permetterci di
aiutarle meglio.
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Claudia Capanni
Dirigente medico di Direzione
sanitaria Ospedale del Mugello,
Responsabile HTA dell’Azienda
sanitaria di Firenze
Le donne non sono piccoli uomini.
Ingrid Fuchs
Non esiste strumento per lo sviluppo più efficace dell’empowerment delle donne.
Kofi Annan
L
a Medicina di genere entra ufficialmente e intenzionalmente nell’Ospedale del Mugello nel gennaio 2008 quando un gruppo
di operatrici sanitarie sente la
necessità di mettere a fuoco
le problematiche riguardanti
la salute della donna. Questo
interesse è divenuto il terreno
fertile su cui far crescere la
Medicina di genere nel nostro
ospedale. Sensibilità personali e competenze professionali
hanno portato alla consapevolezza che l’approccio di “genere” alla salute è una criticità ancora non sufficientemente percepita dagli operatori sanitari. Le sollecitazioni
da parte delle organizzazioni
nazionali e internazionali
non mancano ma la realtà attuale dei percorsi di diagnosi
e cura è ancora piuttosto impermeabile a questi richiami.
Questo il contesto in cui nasce l’impegno del Presidio
ospedaliero del Mugello per
portare la prospettiva di genere all’interno dei suoi reparti e dei suoi servizi.
Il progetto sta coinvolgendo
l’intero Ospedale con la nasci-
La prospettiva
ospedaliera di genere
ta di iniziative gender-oriented e la valorizzazione di
realtà di cura già presenti e,
più o meno consapevolmente,
indirizzate verso un approccio di genere.
Come nella maggior parte
delle strutture erogatrici di
servizi sanitari in Italia, anche nell’Ospedale del Mugello
prevalgono numericamente le
donne sia tra gli utenti sia tra
gli operatori sanitari. Quest’ultimi frequentemente
svolgono nel contesto extralavorativo ruolo di opinion
leader per “la questione salute”. Quindi si è cercato di aumentare l’incisività dei progetti rivolgendoli alle operatrici sanitarie nelle loro molteplici vesti di professioniste
della sanità, di opinion leader
e spesso anche di care-giver.
Proprio al genere femminile è
riconosciuto un ruolo chiave
nella prevenzione, poiché
hanno spesso la responsabilità di categorie vulnerabili
quali gli anziani, i bambini e
i giovani in età scolare.
La formulazione dei progetti
specifici è passata attraverso
una fase, aperta a tutti gli
operatori dell’Ospedale interessati all’iniziativa, in cui,
con la tecnica del brainstorming, si è giunti ad una lista
di proposte da discutere, per
passare successivamente ad
un focus group che ha per-
L’esperienza
di un Ospedale toscano
messo di selezionare e formulare le proposte e gli ambiti
di azione. È stato costituito
un gruppo di coordinamento
a livello di Presidio, individuando un referente per ogni
progetto. Alla realizzazione
dei progetti hanno preso parte anche il Servizio di mediazione culturale e l’Associazione dei volontari ospedalieri.
I progetti specifici
Gli interventi attuati possono
essere ricondotti concettualmente ai seguenti ambiti.
1. Promozione della Medicina
basata sulle evidenze. L’attenzione è posta sulle evidenze sensibili al genere
per quanto riguarda lo stato di salute, la promozione
della stessa, nonché il decorso delle malattie, gli
approcci terapeutici e la
loro efficacia.
2. Promozione della partecipazione e creazione di impegno sulla tematica della
salute delle donne attraverso l’incoraggiamento di
procedure orientate alla
prospettiva di genere.
3. Miglioramento della comunicazione, dell’informazione e della formazione at-
traverso il perfezionamento dei relativi programmi
nei confronti dei pazienti,
dei loro familiari nonché
degli operatori.
L’attività svolta è molto articolata (Tab. 1): dall’accoglienza-orientamento
al
coinvolgimento attivo nel
percorso di cura, fino all’attenzione per il dipendente,
per la fragilità, la diversità,
l’intercultura. Questo ha generato interesse e grande
coinvolgimento. La partecipazione agli eventi formativi,
la collaborazione del personale dell’Ospedale nella realizzazione dei progetti è stata
rilevante. Molte delle iniziative rappresentano uno standard ripetibile e replicabile in
altre realtà, con limitate modifiche, se opportune, per la
loro contestualizzazione. Di
seguito verranno approfonditi alcuni progetti tra quelli ritenuti più significativi.
L’iniziativa individuata per
catalizzare l’attenzione degli
operatori, vista la rilevanza
nazionale della stessa, è stata
l’adesione al progetto “Ospedale donna” dell’Osservatorio
nazionale per la salute della
donna. Si tratta di un pro-
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Tab. 1
Percorsi assistenziali
Breast unit
Parto analgesia
Prevenzione diagnosi e cura dell’osteoporosi
Incontinenza urinaria femminile
Promozione plasmafaresi
Adattamento delle diete (migrant-friendly)
Umanizzazione-accoglienza, ed. salute
Cura della persona
Accoglienza fratellini nuovi nati
Accoglienza figli donne ricoverate
Biblioteca per le donne
Iniziative per operatori sanitari
Seminario incontinenza urinaria femminile
Seminario osteoporosi
Seminario malattie cardiache
Seminario medicina di genere
Percorso formativo leadership al femminile
gramma di selezione, prima, e
segnalazione poi, degli Ospedali basato sul loro livello di
“women friendship”, cioè sul
grado di attenzione posta non
solo nei confronti dei campi
della Medicina dedicati alle
patologie femminili, ma anche alle esigenze specifiche
delle donne ricoverate. Il riconoscimento ottenuto dall’Ospedale del Mugello grazie ad
un’assistenza particolarmente
dedicata alle problematiche
femminili, all’impegno nel garantire caratteristiche multietniche, ad alcuni interventi
strutturali a “misura di donna”, ha significato un’ importante valorizzazione delle
realtà già presenti nell’Ospedale e uno stimolo alla motivazione degli operatori.
Tra le iniziative che hanno come target l’utenza merita di
essere ricordata quella condotta dal Servizio di dietetica
che ha svolto un’operazione
significativa sulle diete che
possono rendersi indispensa-
bili in gravidanza. Consapevoli del ruolo che l’alimentazione svolge nel controllo e/o
nella prevenzione di alcune
patologie durante la gestazione, le dietiste non si sono limitate alla semplice traduzione e alla somministrazione di
alimenti “italiani/occidentali”. Con l’aiuto del Servizio di
mediazione culturale, hanno
acquisito conoscenze sui piatti tipici e sulle abitudini alimentari di altre culture,
strutturando diete che conciliano la cultura alimentare di
un popolo con le indicazioni
terapeutiche, aumentando
marcatamente la compliance
delle donne migranti.
Da evidenziare che il concetto
di genere non ha solo ed
esclusivamente una valenza
nell’approccio ad una malattia, come dimostra l’iniziativa
del Centro trasfusionale intrapresa all’interno dei percorsi
di donazione. La promozione
della plasmaferesi, ormai realizzata da due anni nell’ambi-
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to della “Giornata mondiale
della donazione”, assume il
valore di una risposta di genere per le donne in età fertile
che, in presenza di bassi valori
di emoglobina totale, non possono donare sangue intero.
Tra le iniziative che hanno riguardato aspetti di umanizzazione-accoglienza da ricordare
l’impegno per l’organizzazione
della visita dei figli piccoli alle
donne ricoverate nei reparti
con elevata intensità di cura,
come la Terapia intensiva, o a
specificità elevata come la Psichiatria. Queste sono situazioni in cui mantenere o favorire
la relazione madre-figlio ha
valenze molteplici e importantissime per entrambi: basti
pensare al caso di gravi depressioni post-partum.
La collaborazione con l’Associazione dei volontari ospedalieri permette lo svolgimento di momenti legati alla
cura della persona nel day hospital oncologico. La differenza di genere nella percezione degli effetti collaterali
di una terapia antitumorali è
spiccata e gli incontri sulla
cura della persona, sulla sessualità, sono percorsi di supporto “ad hoc” che hanno un
notevole riscontro positivo.
I percorsi di promozione della
salute rivolti ai dipendenti, al
personale dei servizi appaltati ed ai volontari ospedalieri
si sono concretizzati con seminari multidisciplinari sulla
Medicina di genere e su specifiche patologie: osteoporosi,
malattie cardiache e incontinenza urinaria femminile. Il
ciclo di incontri ha permesso
di incrementare il background
culturale, l’aggiornamento
professionale e la formazione
degli operatori sanitari, di fa-
vorire l’inserimento prospettico della cultura di genere
nei Servizi sanitari e di promuovere una Medicina sempre più personalizzata. Un incontro tra gli altri è quello
sull’incontinenza urinaria
femminile che può essere
trattata con efficacia, anche
con terapie conservative, ma
la diagnosi deve essere precoce. Un atteggiamento “attivo” e di risoluzione precoce
del sintomo risulta vantaggioso per l’utente (evidente
guadagno in salute della popolazione generale) e per l’erogatore finale del SSN (significativo risparmio socioeconomico, reinvestimento in
prevenzione primaria e secondaria). Il seminario è stato preceduto da un’indagine
epidemiologica che ha coinvolto tutte le donne operanti
del Presidio attraverso l’autosomministrazione di un questionario specifico. Questa
strategia ha offerto l’opportunità di incrementare la
consapevolezza del sé, di persona, essa stessa determinante del suo stato di salute.
Infine i coordinatori infermieristici e le dirigenti mediche hanno effettuato un percorso formativo sulla leadership al femminile e i nuovi
stili direzionali, percorso
biennale nel quale sono state
approfondite le peculiarità
dei diversi stili di leadership
in funzione anche del genere,
sono stati illustrati metodi e
strumenti da impiegare nel
management strettamente legati ai contesti e alle situazioni, riscuotendo un alto livello gradimento.
(segue a pag. 320)
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Salute e Medicina di genere
Territorio 313
N. 188 - 2011
Patrizia Mondini1
Cristina Braschi2
1
Azienda sanitaria di Firenze
Dirigente sanitario Professioni
infermieristiche
2 Direttore UO Assistenza
infermieristica ospedaliera
U
omini e donne non differiscono solo nella semeiotica clinica o nei
fattori di rischio, la differenza è espressa anche nel contesto sociale ed è quindi logico ipotizzare, accanto all’esistenza di un diverso approccio da parte degli operatori
sanitari rispetto alla loro appartenenza di genere, anche
una diversa espressione della
richiesta assistenziale da parte dei pazienti di genere diverso che può avere un impatto significativo sulla qualità dell’assistenza percepita.
Ci siamo chieste come infermiere se esiste un “nursing di
genere”.
In letteratura non esiste molto che possa sostenere la nostra domanda, ma l’esperienza di ormai molti anni di lavoro e di stretto contatto con
pazienti e operatori sanitari,
ci ha ricordato come sia sempre esistita la percezione da
parte degli operatori di una
diversa modalità di richiesta
assistenziale in termini sia
quantitativi che qualitativi
tra pazienti di generi diversi.
Negli studi clinici viene evidenziata la differenza biologica (maschio/femmina) quale
uno degli elementi che determinano la composizione della
popolazione campionaria. Ma
da un punto di vista del nursing può bastare che la diffe-
Esiste il nursing
di genere?
renza tra uomo e donna si sostanzi in una “semplice” diversità di sesso? Riconoscere
che le storie personali, le
emozioni, le percezioni soggettive, le interpretazioni, i
significati di malattia possono essere oggetto dell’attenzione dei professionisti sanitari in quanto espresse in modo diverso e che riflettono la
diversità del genere femminile e del genere maschile significa entrare nella prospettiva
del prendersi cura della persona nella specificità del genere
femminile e maschile, allargando l’orizzonte alle altre dimensioni della malattia: da
quella biologica (desease), all’esperienza vissuta della persona (illness), ma anche ai significati soggettivi (sickness).
La richiesta di scrivere questo
articolo ci è sembrata un’occasione per riflettere ora, e
ricercare poi, di affiancare
questa prospettiva a quella
tradizionalmente intesa per
sottolineare e confermare che
attraverso la relazione assistenziale ci possiamo prendere cura dell’altro, il malato,
non solo come oggetto sul
quale applicare il sapere delle
scienze, ma soggetto portatore di significati che appartengono al genere femminile o al
genere maschile.
Ricordiamo, ad esempio, come
da sempre gli operatori hanno
La diversa modalità di richiesta
assistenziale
espresso la percezione che lavorare nei reparti “donne”
fosse più faticoso e impegnativo rispetto ai reparti “uomini”, come le richieste assistenziali fossero significativamente influenzate dal genere.
Sostenute da queste semplici
riflessioni, abbiamo voluto
verificare se questa percezione avesse a tutt’oggi un fondamento, tanto più in contesti dove i tradizionali reparti
femminili e maschili sono
stati sostituiti da linee assistenziali miste.
Abbiamo scelto fra gli strumenti metodologici possibili
(questionari- osservazioniinterviste – focus) lo strumento del focus group. Sono
stati pianificati tre focus
group con 5-6 operatori per
focus, provenienti dalle linee
di degenza medica e chirurgica appartenenti al profilo dell’infermiere e dell’operatore
sociosanitario. I focus sono
stati condotti da un moderatore, alla presenza di un osservatore, e hanno avuto una
durata di circa 60 minuti.
Il primo focus group era misto
ovvero composto sia da operatori uomini che donne, il
secondo composto da sole
operatrici donne ed il terzo
da soli operatori uomini.
Questo per evidenziare differenze di percezione da parte
del genere dell’operatore
piuttosto che dal paziente.
Il tema centrale oggetto del
focus è stato “Nella pratica
assistenziale, nel prendersi
cura della persona, si evidenziano differenze relativamente alla diversità di genere?”.
Nel corso dei focus è stato affrontato anche il tema “La
differenza di genere dell’operatore genera una diversa modalità del prendersi cura?”.
Ogni focus è stato registrato e
trascritto dall’osservatore per
evitare che la memoria potesse operare delle selezioni in
una direzione ben precisa.
Trattandosi di una semplice
indagine a scopo esplorativo
e per il tempo a disposizione
non abbiamo svolto un’ analisi interpretativa con una sistematica scomposizione e
segmentazione del contenuto, ma ci siamo limitate dopo
un’integrazione e selezione
di frasi per affinità di significato ad una descrizione narrativa. La logica sottesa all’analisi è così sintetizzata: “Se
diversi osservatori che analiz-
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Salute e Medicina di genere
zano un fenomeno lo descrivono nello stesso modo, è
molto probabile che tale osservazione risulti attendibile” (Berti, 1994).
Dal materiale ottenuto si
evince in maniera chiara e
senza distinzione di genere
da parte del personale, che
esiste una modalità diversa di
richiesta assistenziale che si
esplicita in una percezione di
maggior carico lavorativo nei
riguardi delle pazienti di genere femminile. Questa diversità si manifesta in diversi
modi, è opinione comune per
esempio che le pazienti donne manifestino una minor autonomia nel self-care, una più
pressante richiesta di attenzione, un recupero più lento
in termini di mobilizzazione
e di attività della vita quotidiana. La qualità della relazione fra operatore e paziente pare influenzare in modo
molto più significativo la percezione della soddisfazione
del bisogno nel genere femminile.
A supporto di quanto descritto
riportiamo alcune delle frasi
più significative che rappresentano le osservazioni comuni esposte in tutti i focus.
– “La donna è più esigente…
richiede più attenzioni”.
– “Nel soddisfare il bisogno
di urinare per motivi biologici la donna ha bisogno
di aiuto (con la padella)
l’uomo fa da sé (con il pappagallo)”.
– “L’uomo tende ad avere più
pazienza ed aspetta, la
donna chiama per ogni
singola necessità”.
– “Gli uomini tendono ad essere più autonomi, in
Ospedale tendono a tirare
fuori le risorse residue”.
– “L’uomo deve dimostrare di
essere autosufficiente, la
donna vuole stare di più
nel ruolo di malata”.
– “A parità di intervento
chirurgico si evidenzia
questa differenza: l’uomo
reagisce e tende ad alzarsi
subito dopo l’intervento,
la donna rimane più allettata segnalando tutta una
serie di disturbi quali il
dolore, un malessere generale, una stanchezza…”.
– “Una paziente donna basta
entrare in relazione e darle
ascolto che anche il problema legato al dolore si
risolve. Quando invece ti
chiama un paziente uomo
e ti comunica di sentire
dolore c’è da stare attenti”.
– “Quando si entra in una
stanza di degenza donne
viene da dire ‘addio qui
non si esce più!’“.
– “Differenza nell’approccio
alla malattia: al momento
del ricovero, capita che
con una paziente donna
l’accertamento possa durare anche 45 minuti, perché
non solo risponde a tutte
le domande che le vengono
rivolte ma pone ulteriormente domande. L’uomo
invece il momento del ricovero scende anche a soli
dieci minuti”.
– “L’assistenza alla donna si
diversifica anche in base all’età: la donna giovane affronta in maniera diversa il
ricovero in Ospedale rispetto alla donna anziana”.
– “La donna anziana si lamenta di più rispetto all’uomo ma anche rispetto
ad una donna più giovane”.
– “L’uomo più che reagire accetta lo stato di malattia,
la donna invece che si è
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N. 188 - 2011
trovata tutta la vita a correre per la famiglia, il trovarsi ferma a letto per una
patologia la spiazza ed entra in una forma di depressione”.
– “La frase che frequentemente utilizzano le donne
ricoverate è ‘facevo tutto
da sola e guarda ora come
sono ridotta’ mentre l’uomo utilizza questa espressione ‘queste cose me le
faceva mia moglie adesso
le so fare anche da solo’”.
– “Adesso che nelle degenze
si hanno le ‘cellule’ si cerca
di equilibrarle nel numero
di pazienti uomini e pazienti donne, ovvero si
cerca di evitare di fare cellule con sole pazienti donne. Perché da qui il carico
assistenziale cambia”.
– “Lavoro nella linea chirurgica e per la personale
esperienza sembra che gli
uomini si riprendano prima dagli stessi interventi
rispetto alle donne”.
– “Mi sembra che nel complesso l’uomo ‘subisca’ più
facilmente il nostro lavoro. Nel senso che si adatta
meglio”.
– “La donna vuole essere più
‘coccolata’”.
– “Con la donna devi saper
anticipare i bisogni per
farla stare tranquilla…
senza curare bene l’aspetto
relazionale non si ottengono buoni risultati”
– “Per l’uomo in realtà non si
evidenziano questi coinvolgimenti relazionali.
L’uomo ha una tendenza a
far da sé…”.
– “Le donne come a casa vogliono gestire da protagoniste la vita familiare così
anche durante il ricovero
vogliono in qualche modo
comunicare questa libertà
nel gestirsi”.
– “Una donna chiama insistentemente per qualsiasi
disagio ed esprime dolorabilità anche se obbiettivamente non sussiste un
quadro che supporti il dolore riferito”.
Relativamente al tema della
differenza di genere nell’operatore rispetto all’approccio
assistenziale, molte osservazioni sottolineano come l’operatrice donna risulti in generale più attenta e precisa
nelle attività assistenziali soprattutto di care, rispetto al
personale maschile. Nello
stesso tempo però è il personale femminile a “subire” le
maggiori lamentele da parte
delle pazienti donne. Probabilmente per una dinamica di
identificazione che porta le
pazienti ad essere più esigenti con gli operatori dello stesso sesso. Diversamente la figura dell’operatore di genere
maschile suscita un senso di
maggiore protezione e sembra avere una maggiore capacità di sdrammatizzazione e
quindi di allentamento della
tensione.
– “L’uomo è più gentile…”.
– “Le donne preferiscono essere assistite da operatori
uomini perché percepiti
più calmi”.
– “L’operatore donna si innervosisce più facilmente…”.
– “L’infermiera si dedica all’assistenza con maggior
attenzione, precisione nella cura”.
– “L’infermiere è più bravo invece nello stimolare una
persona ad alzarsi, ha più
forza fisica, ha questa capa-
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–
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–
–
–
–
cità di spronare, trascinare,
stimolare le persone”.
“Le lamentele sono rivolte
sempre verso il personale
femminile, mai sentite lamentele nei confronti di
operatori di sesso maschile”.
“Le donne sembra si sentano più tranquille, più protette dalla figura maschile”.
“La donna con l’operatrice
donna ha un tipo di approccio più esigente: portami, fammi, sistemami,
tirami giù/su, …”.
“L’uomo con l’operatrice
donna ha un altro tipo di
rapporto, sembra più rispettoso, meno esigente,
meno tignoso”.
“La paziente donna nei
confronti dell’operatore
uomo si relaziona con meno direttività, l’operatore
uomo le dà un senso di sicurezza, pretende meno da
lui…”.
“Le pazienti donne evidenziano la pazienza dell’operatore uomo rispetto alle
operatrici donne. Gli operatori uomini sono visti
più calmi”.
“Ho notato che un uomo si
approccia al paziente in
modo diverso da come mi
avvicino io. L’infermiere
uomo tende a sdrammatizzare… Ha un impatto di
tipo scherzoso… sorvola
di più sulle lamentele dei
pazienti. L’operatrice don-
–
–
–
–
na ha un atteggiamento
più serio forse più professionale”.
“C’è da alzare una paziente, se vado io infermiera,
cerca di rimandare quest’attività lamentandosi di
non sentirsi pienamente in
grado di svolgerla in quel
momento. Se ci va il mio
collega maschio con una
comunicazione lineare di
semplice ordine di alzarsi,
la paziente obbedisce senza replicare alcunché”.
“Vedo più rispetto verso i
colleghi uomini da parte
delle pazienti donne. L’operatore uomo dà più sicurezza alla paziente donna.
La donna in qualche modo
con l’operatore donna si
lamenta di più, prende
tempo…”.
“La stessa cosa detta da
un operatore uomo e da
un operatore donna ha
una ricaduta sul paziente
diversa”.
“Anche per me viene spontaneo approcciarmi al paziente maschio in modo
più scherzoso rispetto a
come mi avvicino alla paziente donna” – “Forse a
noi operatori uomini sono
perdonate alcune piccole
imprecisioni” – “Esempio
quando arriva il vitto, l’operatore uomo si dedica a
quest’attività facendo una
serie di piccoli gesti che
Bibliografia
Corrao S. (2004), Il focus group, Franco Angeli, Milano.
Bezzi C. (2001), Il disegno della ricerca valutativa, Franco Angeli,
Milano.
facilitano la paziente donna ad assumere il cibo”.
Quanto sopra descritto, è comune a tutti i focus, mentre
alcune considerazioni sono
presenti secondo il genere
del gruppo. Per quanto riguarda il focus di operatrici
femminili, l’unico elemento
di diversità riguarda l’ovvia
maggior identificazione con
la paziente:
– “… Dalle donne più cautela. Forse è anche una
proiezione
personale,
quindi uso tante delicatezze in più…”. – “Se posso lo
faccio con tutti ma nei
confronti di una donna sono molto più attenta…”. –
“Forse perché vorrei le
stesse attenzioni se fossi
ricoverata in Ospedale”.
Si ribadisce la percezione che
le pazienti donne siano più
direttive e più esigenti nei
confronti del loro genere e
più tolleranti verso il personale maschile che viene percepito più calmo.
Nel focus composto da personale maschile si pone l’accento invece in modo rilevante
sull’aspetto relazionale come
condizionante fortemente la
stessa richiesta d’assistenza e
quindi il carico di lavoro conseguente.
– “Se ci si approccia ‘rudemente’ alla donna si ha
una risposta negativa; se
invece ci si approccia ‘dol-
cemente’ si ha una risposta positiva: ovvero riesci
a sopperire le sue esigenze
anche se in realtà non soddisfi completamente i suoi
bisogni”. – “Il carico di lavoro lo crei te stesso facendo attenzione alle differenze di genere”.
Solo nel gruppo maschile si riporta come il ricorso al placebo, nella loro esperienza, sia
sostanzialemente rivolto ai
pazienti di genere femminile:
– “Non ricordo di aver fatto
neanche un placebo ad un
uomo, mentre ne ho fatti
molti alle donne…”. – “Valutando l’esito del placebo
dopo averlo somministrato: con la paziente donna
generalmente si ha la remissione del dolore riferito”. – “Anche il placebo ha
funzionato al posto di
tranquillanti…”.
Conclusioni
Da quanto emerso seppur come risultato di una valutazione non approfondita possiamo affermare che esiste
un nursing che potremo definire di genere, il cui studio
anche attraverso un progetto
di ricerca qualitativa può
avere un importante significato ai fini della costruzione
della relazione assistenziale
con il paziente e della relazione professionale tra professionisti.
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Lucia Turco1
Andrea Bassetti2
Annalisa Mannocci3
Azienda sanitaria di Firenze
1 Responsabile Centro studi
Salute di genere, Direttore
del Presidio ospedaliero
SM Annunziata
2 Dirigente medico di Direzione
sanitaria Ospedale Santa Maria
Annnunziata
3 Infermiere professionale
Gender equality means the absence of discrimination on the
basis of a person’s sex in opportunities, allocation of resources or
benefits, and access to services
(1).
E
siste un considerevole
numero di ricerche riguardanti le differenze
tra donne e uomini in termini di esperienza di malattia
e nella risposta dei Servizi
sanitari.
Vi è sempre più la consapevolezza e la constatazione di significative differenze di genere nell’accesso alle cure,
così come nel coinvolgimento
negli studi clinici sui farmaci.
Sappiamo che esistono evidenze di malattie più frequenti negli uomini e altre
nelle donne, che ci sono malattie comuni ma con sintomatologia clinica e risposta al
trattamento diversi tra uomo
e donna.
In letteratura è presente una
grande quantità di dati che
rivelano un quadro complesso
soprattutto a riguardo del divario nella aspettativa di vita, per esempio in anni di vita persi: gli uomini in Europa
hanno una speranza di vita
inferiore, mentre le donne
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Organizzazioni sanitarie
e salute di genere
hanno una maggiore speranza di vita: vivono più a lungo
ma con una disabilità maggiore e condizioni di salute
peggiori (2).
Solo una parte di questo divario riflette differenze biologiche, cioè, differenze in
termini di funzione riproduttiva, di influenze genetiche e
ormonali. Il genere è importante nello spiegare molte di
queste differenze. Numerose
ricerche evidenziano l’importanza della influenza di una
serie di determinanti sociali
sulla salute e su come questi
interagiscono con le disuguaglianze di genere amplificandone l’impatto sulla salute.
Donne e uomini usano in modo diverso i Servizi sanitari.
Vi sono, per esempio, dati
che mostrano importanti differenze tra donne e uomini in
termini di accesso e di utilizzo dei Servizi cosi come differenze vi sono in termini di
adeguatezza e appropriatezza
delle cure. Per esempio le
donne utilizzano maggiormente i Servizi sanitari soprattutto di Cure primarie e i
Servizi di prevenzione al contrario degli uomini e questo
sottoutilizzo deve essere conosciuto e affrontato (3). Nu-
L’importanza di affrontare le diseguaglianze
in termini di opportunità di salute della persona
merosi studi hanno inoltre
dimostrato che le esperienze
di donne e di uomini nei Servizi sanitari – come pure il
modo in cui i Servizi sono in
grado di soddisfare i relativi
bisogni – dipendono anche
da come sono organizzati i
Servizi. Attualmente l’accesso ai Servizi risente e rispecc.hia influenze legate al
genere. L’accesso, per esempio, è influenzato da orari di
apertura e dalla disponibilità
di appuntamenti: uomini con
un lavoro a tempo pieno o
donne con grosse responsabilità familiari possono andare
incontro a difficoltà nell’utilizzo dei Servizi sanitari.
Spesso i Servizi sanitari non
sono concepiti in un modo
sensibile al genere – ad esempio in Ospedale non c’è possibilità di essere ricoverati in
un reparto femminile o maschile o di scegliere il sesso
del proprio medico curante.
Uomo e donna, di fronte ai
propri bisogni di salute richiedono che l’organizzazione sanitaria risponda avendo
ben chiare quali siano le differenze di genere.
È difficile valutare in che proporzione queste differenze di
salute tra uomini e donne
siano il riflesso di difetti nei
Sistemi sanitari, disequità di
genere nella pianificazione e
nella erogazione dei Servizi
sanitari o siano dovuti a un
differente utilizzo di risorse
umane o a differenze sociali e
culturali. Molte ancora sono e
rimangono le domande aperte
circa la conoscenza della influenza del genere sulla salute: non sono ancora pienamente compresi gli errori di
genere in alcune ricerche mediche, non sono completamente conosciute e riconosciute le differenze di genere
nella presentazione dei sintomi, nella manifestazione clinica e nella evoluzione delle
malattie, nelle risposta alle
terapie. Differenze biologiche
legate al sesso influenzano le
corrette dosi farrmacologiche. Differenze biologiche di
genere influenzano comportamenti e stili di vita (4).
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Tuttavia, le conseguenze del
non affrontare la problematica di genere possono comportare solo il persistere di un
divario sullo stato di salute,
di una Medicina non basata
sulle evidenze per la donna,
di non appropriatezza dei
percorsi diagnostico-terapeutici, eccesso di mortalità tra
gli uomini, non appropriatezza prescrittiva, eccesso di
reazioni avverse da farmaci
nelle donne, scarsa qualità
percepita delle persone, mancanza di percorsi assistenziali
che rispettino le differenze,
in definitiva di un sottoutilizzo e inefficiente utilizzo di
risorse sanitarie.
Abbiamo bisogno di affrontare i temi di come ridurre le
significative differenze nell’accesso alle cure, dobbiamo
intervenire per migliorare
l’organizzazione dei Servizi
sanitari e l’appropriatezza
delle cure, così come le ricerche cliniche e lo studio dei
farmaci. Tutto questo è fondamentale per una buona gestione dei Servizi sanitari e
dell’assistenza.
Ci sono studi e ricerche che
hanno valutato i risultati di
interventi che affrontano le
disuguaglianze di genere e vi
è evidenza di miglioramenti
nel servizio e nella soddisfazione delle persone (5).
I Sistemi sanitari possono
svolgere un ruolo chiave nel
ridurre le disuguaglianze di
salute affrontando il genere
nei diversi ambiti.
Come può essere affrontata
l’equità di genere attraverso
i Sistemi sanitari?
Nel 2009 l’OMS sottolinea
che “se i sistemi sanitari devono rispondere adeguata-
mente ai problemi causati
dalla disuguaglianza di genere, non basta semplicemente aggiungere un dato
sul componente di genere in
un unico progetto. La ricerca, i programmi sanitari, l’educazione sanitaria, le politiche di sensibilizzazione, le
riforme del sistema sanitario
devono considerare il genere
fin dall’inizio” (1).
Il sesso-genere non è dunque
qualcosa che può essere consegnato a “specialisti di nicchia”. Tutti gli operatori sanitari devono avere la conoscenza e la consapevolezza
dei modi in cui il genere influisce sulla salute in modo
che possano affrontare le
questioni di genere e interpretare ed includere il genere
nella pratica clinica e assistenziale e nella modalità di
erogazione dei servizi. È necessario e urgente avviare il
processo di creazione di conoscenza, consapevolezza e
responsabilità tra tutti gli
operatori sanitari e tra i policy makers.
La sessantesima Assemblea
mondiale della sanità, dopo
aver esaminato il progetto di
strategia per l’integrazione di
analisi di genere e le azioni
nel lavoro dell’OMS, esorta gli
Stati membri:
1. Ad includere l’analisi di
genere nella pianificazione
strategica e operativa, nel
processo di budget e nelle
pianificazioni specifiche.
2. A formulare strategie nazionali per affrontare le
questioni di genere nelle
politiche sanitarie, nei
programmi e nella ricerca
sanitaria, anche nel settore della salute riproduttiva
e sessuale.
3. A porre l’accento sulla formazione, sensibilizzazione
e promozione su genere,
sesso e donne e salute.
4. A garantire che una prospettiva di parità tra i sessi sia incorporata in tutti i
livelli di assistenza sanitaria e servizi, compresi
quelli per gli adolescenti e
per i giovani.
5. A raccogliere e analizzare
dati disaggregati per sesso, a condurre una ricerca
sui fattori sottostanti le
disparità di genere e ad
usare i risultati per informare le politiche e i programmi sanitari.
6. A progredire verso l’uguaglianza di genere nel settore sanitario, al fine di
garantire che il contributo
di donne, uomini, ragazze
e ragazzi come care-givers
sia preso in considerazione nella politica sanitaria
e di pianificazione e di
formazione per il personale sanitario.
Politiche sanitarie di genere
Dal punto di vista politico,
come suggerisce l’OMS, due
sono gli elementi chiave per
migliorare l’integrazione del
genere nei Sistemi sanitari. Il
primo è focalizzare l’attenzione sul genere (iniquità)
nelle politiche pubbliche in
generale e, in particolare,
nella politica sanitaria. Il secondo è adeguare la risposta
dei Sistemi sanitari europei ai
differenti bisogni che uomini
e donne hanno rispetto ai
Servizi sanitari.
L’uguaglianza di genere e l’equità di genere possono essere affrontate utilizzando approcci diversi, quali la legi-
slazione, i processi organizzativi, approcci informativi,
ed educativi.
Approcci normativi a livello
nazionale, potrebbero riguardare i diritti dei pazienti o
definire la parità di genere
quale dovere per le organizzazioni del settore pubblico.
Tale dovere richiederebbe agli
organi di programmazione e
di governo nazionale, Ministeri della Salute, Governi regionali, di considerare ed individuare i modi in cui i Sistemi sanitari possono ridurre la disuguaglianza e di adoperarsi per la promozione della parità di genere.
Approcci organizzativi si dovrebbero focalizzare sull’uso
nei Sistemi sanitari di vari
strumenti per evidenziare le
disuguaglianze di genere e
individuare soluzioni. Per
esempio, il bilancio di genere
è un approccio organizzativo
che si concentra sulla spesa
pubblica e rende esplicito
l’impatto di genere delle decisioni di bilancio.
Approcci informativi si concentrano sul ruolo dei dati
nel fornire conoscenze circa
le disuguaglianze di genere.
Per esempio, indicatori di
genere di salute sono destinati ad identificare le principali differenze tra uomini e
donne in relazione alla salute e ai determinanti sociali
della salute, al fine di sostenere il cambiamento della
politica.
Approcci educativi di sensibilizzazione e formazione degli
operatori sanitari e di informazione e promozione della
conoscenza delle persone.
Infine è necessario un nuovo
approccio nella ricerca un approccio che elimini il bias
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metodologico di fondo e che
ricomprenda una ricerca clinica e una ricerca sui determinanti socioeconomici che
tengano conto delle specificità di genere.
Tutti gli approcci richiedono
risorse finanziarie e umane,
impegno politico, prospettiva
di lungo termine, trasparenza
dei processi decisionali, dati
disaggregati per genere, formazione e il coinvolgimento
delle parti interessate. È necessaria una funzione di gestione all’interno del Sistema
sanitario fortemente orientata in questo senso.
Obiettivi specifici di genere
Se è vero che è necessario un
forte impegno del sistema è
vero che anche piccoli cambiamenti possono contribuire
a realizzare ulteriori trasformazioni.
I Sistemi sanitari, in generale, non hanno obiettivi specifici per genere. Tuttavia, è
possibile includere la dimensione di genere in base a evidenze di differenze nella salute tra uomini e donne. In
relazione all’uso dei Servizi
sanitari potrebbero essere
introdotti obiettivi specifici
per uomini e donne per tenere conto dei differenti pattern di utilizzo. Ad esempio
per i programmi di screening
si potrebbe mirare ad un incremento genere-specifico,
come nel caso dello screening colon-retto dove il genere maschile è sotto reclutato. Cosi per quanto riguarda l’equità nell’accesso e la
presa in carico si potrebbe
proporre la definizione e applicazione di percorsi assistenziali specifici per genere
là dove vi è assenza o caren-
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Salute e Medicina di genere
za di questi come per esempio è il caso della incontinenza urinaria femminile.
Obiettivi specifici possono
concentrarsi su questioni relative alla qualità dell’assistenza e delle cure, a esiti di
cura: ad esempio riduzioni di
tassi di mortalità in malattie
specifiche o alla qualità percepita. Potrebbero essere
sviluppati obiettivi di appropriatezza clinica di genere:
ad esempio utilizzo e applicazione delle linee guida
cardiologiche sulla patologia
ischemica nella donna o appropriatezza della diagnosi e
terapia della depressione
nella donna o valutazione
del rischio di osteoporosi nel
maschio e nella femmina.
Molti potrebbero essere gli
esempi ma sicuramente fondamentale e primo passo verso la definizione di obiettivi
di genere è la necessità di
informazioni e conoscenze.
La mancanza di conoscenze
Nonostante i dati epidemiologici generali e numerosi
studi che considerano nel loro disegno l’analisi di genere
mostrino importanti informazioni e suggeriscano la
necessità di approfondire e
analizzare ciò che emerge,
ancora oggi non abbiamo
studi ed analisi specifiche e
in generale il determinante
genere non rappresenta nelle
ricerche in campo medico,
sia clinico-sperimentali che
osservazionali un “corpus”
strutturato.
Mancano dati sufficienti per
capire e quindi intervenire là
dove più importante può essere la necessità di un cambiamento.
Dati disaggregati per genere
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sono il primo essenziale passo per affrontare l’equità di
genere e la produzione di dati
disaggregati di routine potrebbe rappresentare un passo avanti significativo.
Dati disaggregati possono
contribuire a generare le prove specifiche, e quindi indicare gli obiettivi e gli interventi necessari per rimuoverlo. Una volta diventati di
routine, nel corso del tempo
potrebbero essere osservate
le tendenze e quindi essere
individuati sia obbiettivi
specifici sia obiettivi generali. Il processo può iniziare
con gli obiettivi più modesti
– ad esempio valutare la differenza tra donne e uomini
in termini di utilizzo di specifici Servizi sanitari, per poi
passare alle strategie che iniziano a sfidare tali differenze
o affrontare in termini più
ampi i temi di equità di genere in tutto il Sistema sanitario nel suo complesso.
Obiettivi, cioè parametri strategici di gestione dell’Azienda sanitaria, dove il genere
costituisce un determinante
essenziale della salute.
Indicatori di genere
Accanto agli obiettivi vi è
necessità di definire e valutare indicatori di genere. Gli
indicatori sanitari sono oggi
ampiamente utilizzati nella
valutazione delle organizzazioni sanitarie. Dobbiamo
però registrare che ancora
non sono stati sviluppati indicatori sensibili al genere.
Nel 2003 il Consultative Meeting on gender-sensitive dell’OMS ha sviluppato e definito un set di 35 indicatori
gender-sensitive: 11 indicatori riguardano lo stato di
salute (mortalità materna o
percentuale di malattia depressiva auto-segnalata nei
maschi e nella femmina,
ecc.), 13 riguardano determinanti di salute (percentuale di fumatori maschi e
femmine <15 anni, percentuale di obesità e sovrappeso
nei maschi e nelle femmine,
ecc.) e 11 sono sulle performance dei Servizi sanitari
(utilizzo di Servizi, liste attesa maschi femmina, ecc.).
Gli indicatori definiti, che
anche la stessa OMS ha giudicato troppo numerosi e che
dovranno essere ridotti nel
futuro (vedi Tab. 1), hanno
applicabilità e valore diverso
nei Paesi sviluppati e in
quelli in via di sviluppo. Anche se molti di questi si riferiscono ai Paesi in via di sviluppo in generale rappresentano comunque una prima
traccia per la definizione e la
valutazione di indicatori a livello della nostra realtà, sia
nazionale che regionale o di
Aziende sanitarie.
Conclusioni
Equità di genere in relazione
alla salute non significa produrre risultati uguali per uomini e donne, ma significa affrontare le disuguaglianze in
termini di opportunità di salute della persona, ricomprendendo in questo le differenze nel modo in cui i Sistemi sanitari sono in grado di
rispondere alle specifiche e
differenti esigenze.
Oggi vi è un ampio consenso
sul fatto che le politiche sanitarie possono esacerbare le
diseguaglianze quando non
tengono in considerazione i
differenti bisogni di salute di
donne e uomini.
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Tab. 1. WHO gender-sensitive core health indicators.
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Glossario
OMS - Politiche di genere (2002) (6).
Gender is used to describe those characteristics of women and men, which are socially constructed, while sex refers to those which are biologically determined. People are born female or male but learn to be girls and boys who grow into women and men. This learned behaviour makes up gender identity and determines gender roles.
Gender analysis identifies, analyses and informs action to address inequalities that arise from the different roles of women and men, or the unequal power relationships between them, and the consequences of these inequalities on their lives, their health and well-being. The way power is distributed in most societies means that women have less access to and control over resources to protect their health and are less likely to be involved in decision making. Gender
analysis in health often highlights how inequalities disadvantage women’s health, the constraints women face to attain health and ways to address and overcome these. Gender analysis also reveals health risks and problems which men face as a result of the social construction of their roles.
Gender equality is the absence of discrimination on the basis of a person’s sex in opportunities, in the allocation of resources and benefits or in access to services.
Gender equity refers to fairness and justice in the distribution of benefits and responsibilities between women and men. The concept recognises that women
and men have different needs and power and that these differences should be identified and addressed in a manner that rectifies the imbalance between the
sexes.
Gender mainstreaming. The ECOSOC resolution defines mainstreaming gender as “… the process of assessing the implications for women and men of any
planned action, including legislation, policies or programmes, in any area and at all levels. It is a strategy for making women’s as well as men’s concerns and
experiences an integral dimension in the design, implementation, monitoring and evaluation of policies and programmes in all political, economic and social
spheres, such that inequality between men and women is not perpetuated. The ultimate goal is to achieve gender equality”. “Mainstreaming gender is both a
technical and a political process which requires shifts in organisational cultures and ways of thinking, as well as in the goals, structures and resource allocations … Mainstreaming requires changes at different levels within institutions, in agenda setting, policy making, planning, implementation and evaluation.
Instruments for the mainstreaming effort include new staffing and budgeting practices, training programmes, policy procedures and guidelines”.
Bibliografia
(1) Payne S. (2009), How can gender equity be addressed through
health systems? Policy brief, World Health Organization 2009 and
World Health Organization, on behalf of the European Observatory on
Health Systems and Policies.
(2) Eurobarometer (2007), Health in the European Union, European
Commission, Brussels.
(3) Hayes B.C., Prior P.M. (2003), Gender and health care in the UK. Exploring the stereotypes, World Cancer Research Fund and American Institute for Cancer Research, Palgrave Macmillan, Basingstoke.
(segue da pag. 312):
La prospettiva ospedaliera
di genere
Conclusioni
La discriminazione di genere e
l’empowerment delle donne costituiscono oggi, le sfide principali che il mondo, non solo
sanitario, si trova ad affrontare. Nell’Ospedale del Mugello è
stato compiuto un percorso di
miglioramento importante. A
tre anni di distanza dall’inizio
del progetto è chiaro agli operatori dell’Ospedale che il par-
lare di una Medicina di genere
non si identifica con l’attenzione alle malattie delle donne, né tanto meno con l’attenzione alle malattie degli uomini, bensì nel capire come curare, diagnosticare e prevenire le
malattie comuni ai due sessi,
sulla considerazione che queste incidono diversamente “sul
genere uomo” e “sul genere
donna”.
I progetti nati più recentemente nell’Ospedale hanno impostazioni consequenziali, meno
orientate solo ed esclusiva-
Bibliografia
WHO (2006), Gender Equality. Work and Health: a review of evidence.
WHO, Commission on Social determinants of Health - Women and Gen-
(4) Food, nutrition, physical activity and the prevention of cancer: a
global perspective, American Institute for Cancer Research, Washington DC 2007.
(5) Sundari Ravindran T.K., Kelkar-Khambete A. (2007), Women’s
health policies and programmes and gender-mainstreaming in health
policies, programmes and within health sector institutions, Background paper prepared for the Women and Gender Equity Knowledge
Network of the WHO Commission on Social Determinants of Health.
(6) WHO headquarters (2002), Integrating gender perspectives in the
work of WHO.
mente al “femminile” (area
materno-infantile, discipline
ginecologiche). Le iniziative
attuali si basano sul rispetto
delle differenze nell’accesso e
nell’organizzazione delle cure
e nell’uso dei farmaci, ad esempio approccio nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, effetti collaterali della terapia antineoplastica).
Possiamo dire che, vista la relazione del genere con il contesto storico e sociale, la chiave di lettura “genere” diventa
lo strumento non solo per da-
re pari opportunità a uomini,
donne, ma anche ai diversamente abili, agli emigranti, alle persone nelle fasce di età
estreme della vita.
Anche dall’esperienza dell’Ospedale del Mugello, grazie ai
risultati conseguiti, nasce nel
giugno del 2011 il Centro
aziendale di Medicina di genere che si propone di diffondere
la cultura di genere attraverso
molteplici iniziative e mettere
a disposizione di altri soggetti
ed istituzioni le competenze
acquisite.
der Equity Knowledge Network (2007), Unequal, Unfair, Ineffective,
Inefficient Gender Inequity in health: Why it exists and how we can
change it, Karolinska Institute.
Nobelius A.M., Vainer J. (2004), Gender and medicine: a conceptual
guide for medical educators, Monash University, Australia.