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RASSEGNA STAMPA
Giovedì 24 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 23/09/2015
"Lei disse sì" un film per il matrimonio
egualitario. Proiezione Camera dei Deputati
Martedì 29 settembre, ore 18 presso la Camera dei Deputati di Roma (Aula dei gruppi, via
Campo Marzio 74) verrà proiettato il documentario "Lei disse sì" che porta sullo schermo
la vita di una coppia di donne italiane, Ingrid e Lorenza, che decidono di sposarsi in Svezia
perché non possono farlo nel proprio paese. "Un racconto che attraverso le voci delle sue
protagoniste e dei loro cari, parla in chiave intima e mai banale di amore, famiglia,
relazioni tra persone a prescindere dal loro orientamento sessuale. Uscito in sala ad
ottobre 2014, "Lei disse si" è stato proiettato in Europa e in tutta Italia, in sale
cinematografiche, arene estive, circoli e festival. Con la proiezione del film alla Camera dei
Deputati, la campagna #lostessosi per il matrimonio egualitario, a cui Arci aderisce
insieme a molte associazioni Lgbti e organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti, "si
arricchisce di un tassello importante, andando a incontrare il mondo della politica in un
momento caldo e delicato della discussione del ddl sulle Unioni civili". Saranno presenti la
presidente nazionale dell’Arci Francesca Chiavacci, la regista Maria Pecchioli e le
protagoniste Lorenza Soldani e Ingrid Lamminpaa. Per accreditarsi alla proiezione
scrivere a: [email protected].
http://www.redattoresociale.it/Annunci/Dettaglio/490933/Lei-disse-si-un-film-per-ilmatrimonio-egualitario-Proiezione-Camera-dei-Deputati
Da Volontariatoggi.info de 22/09/2015
La rivoluzione (in Parlamento) a colpi di
bouquets
ROMA. Lei disse sì è un documentario che porta sullo schermo la vita di una coppia di
donne italiane che decidono di sposarsi in Svezia perchè non possono farlo nel proprio
paese. E’ un racconto che attraverso le voci delle sue protagoniste e dei loro cari, parla in
chiave intima e mai banale di amore, famiglia, relazioni tra persone a prescindere dal loro
orientamento sessuale.
Uscito in sala ad ottobre 2014, Lei disse sì è stato proiettato in Europa e in tutta Italia, in
sale cinematografiche, arene estive, circoli e Festival. E’ stato sostenuto da una crescente
partecipazione del pubblico che lo ha premiato al Biografilm Festival di Bologna nel 2014
(dove il film si è aggiudicato anche il premio della Giuria), e al Gender film festival di Roma
nel 2015.
La collaborazione con Arci nasce dall’impegno comune a trasformare la rivendicazione sui
diritti civili in un patrimonio collettivo, popolare, trasversale, in una grande battaglia di
civiltà che renda un paese davvero egualitario. La mobilitazione di Arci e delle sue basi
associative, radicate in modo capillare nelle comunità, hanno consentito la circuitazione
del film su tutto il territorio nazionale, portando il tema dell’uguaglianza e del diritto al
matrimonio egualitario all’attenzione di tanti e tante, in modo da aprire un dialogo che
induca a riflettere, attraverso un linguaggio positivo, ottimista e festoso, sul tema dei diritti
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civili e delle discriminazioni che ancora oggi migliaia di persone devono subire in Italia,
nonostante i continui richiami dell’Unione Europea.
Con la proiezione del film Lei disse sì alla Camera dei Deputati, la campagna #lostessosi
per il matrimonio egualitario, a cui Arci aderisce insieme a molte associazioni LGBTI e
organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti, si arricchisce di un tassello importante,
andando a incontrare il mondo della politica in un momento caldo e delicato della
discussione del ddl sulle Unioni civili.
Saranno presenti la presidente nazionale dell’Arci Francesca Chiavacci, la regista Maria
Pecchioli e le protagoniste Lorenza Soldani e Ingrid Lamminpaa.
http://www.volontariatoggi.info/la-rivoluzione-in-parlamento-a-colpi-di-bouquets/
Da Redattore Sociale del 23/09/2015
Agricoltura di promozione sociale nella rete
dell'Arci - Seminario
Data: 24 settembre 2015
Luogo: Expo Milano - Cascina Triulza
Comune: Milano
Scarica allegato
http://www.redattoresociale.it/Calendario/DettaglioEvento/490942/Agricoltura-dipromozione-sociale-nella-rete-dell-Arci-Seminario
Da Repubblica Genova del 24/09/2015
Maddalena, ronde con lo psicologo
Squadre di vigili e mediatori contro alcolismo e prostituzione
di MICHELA BOMPANI
SQUADRA speciale Maddalena. Nasce la prossima settimana, nel Sestiere della
Maddalena, in centro storico, a Genova, l’“equipe di strada” che lavorerà, alternandosi in
turni, a circoscrivere prostituzione e le cosiddette presenze disturbanti, come gli
assembramenti di giovani che bevono alcolici in strada.
Un quartiere laboratorio, la Maddalena, per un progetto sperimentale varato dall’assessore
comunale alla Legalità e ai Diritti, Elena Fiorini. «La repressione dei reati è necessaria ma
non è stata sufficiente a contrastare comportamenti disturbanti », spiega l’assessore. E
allora, mette in strada l’equipe con i mediatori, a setacciare un quadrilatero del disordine.
«Concentriamo il nostro lavoro su questa zona - dice Fiorini - un’equipe di operatori di
polizia municipale e mediatori sociali lavoreranno su una zona circoscritta in cui tentiamo
di chiudere non solo i comportamenti perseguibili penalmente, ma anche le devianze e i
comportamenti disturbanti». Si chiama “Dare un posto al disordine”, il progetto è stato
finanziato con 80.000 euro dalla Compagnia di San Paolo e ha il suo luogo geometrico nel
quartiere della Maddalena, con una recinzione territoriale ben precisa, che va da via
Garibaldi, a via San Luca all’asse viario via Orefici-via Macelli di Soziglia.
Otto operatori di polizia municipale e quattro mediatori sociali che hanno vinto un bando
lanciato dall’amministrazione comunale (capofila La Comunità, con Il Laboratorio, Arci e
Associazione di mediazione comunitaria) saranno divisi in cellule e il loro lavoro sarà
scandito per turni sul territorio della Maddalena per garantire una presenza costante di
ossservazione e intervento immediato. «Partiremo da uno dei punti più fragili del
quadrilatero della Maddalena, intorno al simbolo della rinascita della Maddalena, il nuovo
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asilo nido: da un lato c’è la prostituzione diurna, dall’altro un market e stazionamento di
ubriachi. Smonteremo quel tessuto, per restituirlo alla comunità », dice Stefano Kovac,
Arci. «La repressione dei reati -analizza Fiorini - pur necessaria e sicuramente da
rafforzare, non sembra tuttavia essere efficace soprattutto perché i fenomeni in questione
non sono semplificabili al rapporto reato-sanzione, ecco perché abbiamo pensato di
escogitare un nuovo modo di presidiare e controllare, non solo in modo repressivo, ma
anche in termini di mediazione e di recupero ». I mediatori sociali interverranno proprio in
tutte le situazioni “extra-reato” che però continuano a far percepire il territorio della
Maddalena come degradato: i mediatori lavoreranno con le prostitute o i giovani che
abusano di alcol per cominciare con loro, oltre che un dialogo, un percorso di
affiancamento ai servizi sociali. «Il progetto durerà dodici mesi- dice l’assessore - ma sarà
prorogabile fino a due anni».
La squadra speciale della Maddalena lavorerà giorno e notte: «Si tratta di un presidio
costante e leggero, che non è militarizzazione - aggiunge Fiorini - ma presenza
disincentivante, che è in grado di intervenire nel caso di manifestazioni di reato, risse,
spaccio, tratta, violazioni amministrative, mentre i mediatori sociali lavorano nella zona
grigia del disagio e delle presenze disturbanti, prostitute e ubriachi».
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/09/24/news/maddalena_ronde_con_lo_psicologo123567739/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 24/09/2015, pag. I GREEN
La chiamata dell’Onu a Stati e cittadini
“Sviluppo non è solo staccare assegni”
Ecco i nuovi Obiettivi del Millennio, tra le priorità l’istruzione dei più
piccoli
Meno povertà, ma ancora troppe disuguaglianze. È questa l’istantanea del pianeta Terra
scattata a quindici anni di distanza dal lancio dei Millennium Development Goals, gli
«Obiettivi del Millennio». Fu il più ambizioso e ampio progetto della storia dell’umanità,
varato nel settembre del 2000 con un partenariato globale a livello intergovernativo
patrocinato dalle Nazioni Unite. Modulato in otto goal articolati in target, (grandi obiettivi e
sotto-obiettivi specifici), abbracciava grandi temi come la lotta alla fame e alla povertà, la
garanzia di istruzione primaria, il ruolo delle donne, la riduzione della mortalità infantile. E
ancora, il miglioramento delle condizioni di salute in maternità, la lotta all’Aids/Hiv, alla
malaria e alle altre malattie endemiche, la sostenibilità ambientale, lo sviluppo di
un’alleanza globale per il Pianeta.
Il bilancio del MDG
A fare un bilancio dei successi, raggiunti o mancati, è la MDG Gap Task Force, una
squadra di esperti istituita nel 2007. Un bilancio che segna un punto di arrivo per i MDG;
ma anche un punto di partenza, con il lancio previsto per il 1 gennaio 2016, dei
Sustainable Development Goals (SDG). Sono gli obiettivi (per uno sviluppo sostenibile)
per il 2030 che sarà presentato alla 70esima Assemblea generale Onu, nel corso del
summit che comincia proprio domani. «I MDG hanno permesso di mettere a punto
importanti progressi nei passati 15 anni, - spiega il segretario generale Onu Ban Ki-moon ma c’è molto lavoro ancora da fare».
Il traguardo più importante è stato raggiunto nella lotta alla povertà, con il numero di
persone che vivono in estrema povertà (con meno di 1,25 dollari al giorno) più che
dimezzato dal 1990 al 2015. C’è una maggiore presenza delle donne nelle rappresentanze
parlamentari (raddoppiata), e nel mondo del lavoro. La mortalità infantile (sotto i cinque
anni) tra il 1990 e il 2015 si è ridotta di tre volte. Gli investimenti mirati nella lotta contro
malattie come l’HIV hanno portato a una diminuzione delle nuove infezioni di circa il 40%,
tra il 2000 e il 2015, e la terapia antiretrovirale ha raggiunto 13,6 milioni di persone nel
2014. Gli Obiettivi del Millennio hanno inoltre permesso a oltre 2,6 miliardi di persone di
ottenere l’accesso ad una migliore fonte di acqua potabile. E in Africa sub-sahariana di
incrementare il tasso di iscrizione alla scuola primaria del 20% a partire dal 2000, oltre ad
aver raggiunto il successo pionieristico di far scendere da 100 a 57 milioni - tra il 2000 e il
2015 - il numero di bimbi esclusi dalla scuola primaria. Decisa anche la crescita degli
utenti di telefonia cellulare, con oltre 7 milioni di unità e una copertura della rete mobile per
il 95% della popolazione mondiale. La crescita degli utenti Internet anche è robusta, ma
solo il 32% utilizza la Rete nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, al cospetto dell’80% di
quelli avanzati. L’accesso ai medicinali è infine ancora ridotto nei Pvs, dove la percentuale
varia dal 58,1% delle strutture pubbliche al 66,6% di quelle private.
Target, ma sostenibili
Per capire meglio cosa è stato fatto e cosa c’è ancora da fare, occorre guardare in avanti
analizzando i SDG. Il piano è articolato in 17 goals e 169 targets, con due novità
fondamentali. Prima, la durata del processo preparatorio, molto più lunga; secondo, la
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scelta di coinvolgere la società civile, Ong e persone private, con uno sforzo gigantesco
dell’Onu di allargare il dialogo oltre il livello intergovernativo. «Uno dei limiti del precedente
piano è stato la compartimentazione - spiegano fonti Onu - il fatto che non si è avuta la
percezione della interconnessione tra gli obiettivi». La riduzione della povertà in alcuni
grandi Paesi dell’Asia ha avuto successo, ma con impatti devastanti sull’ambiente e sul
consumo di risorse energetiche. «La chiave quindi, è capire come collegare i vari aspetti
per favorire lo sviluppo sostenibile». Occorre quindi un approccio sistemico, improntato
all’universalità, rivolto quindi anche alle nazioni avanzate, dove è aumentato il divario in
termini di ricchezza.
Il ruolo dell’Italia
L’Italia è stata sempre tra i primi Paesi ad impegnarsi in termini di partecipazione su
sviluppo sostenibile, disabilità, uguaglianza di genere, accesso allo stato di diritto. Nel
2007 ha sottoscritto inoltre un partenariato con i piccoli stati insulari del Pacifico, che
hanno esigenze particolari come la lotta all’innalzamento delle acque e l’accesso alle
risorse energetiche rinnovabili. Più in generale per il 2030, il premier Matteo Renzi ha
annunciato che ci sarà un maggiore sforzo dell’Italia. Sino ad oggi il contributo dei Paesi
avanzati doveva essere (ma mai lo è stato davvero) pari allo 0,7% del Pil, ma non basta:
«Occorre andare oltre la logica del Pil, che non misura, ad esempio, inquinamento e
deforestazione», spiegano all’Onu. Quindi non si tratta di semplice solidarietà: è
necessario che l’enorme quantità di capitali sui mercati possa essere indirizzata verso
impieghi produttivi, ma sostenibili e responsabili. Insomma, «non ci si può più limitare a
staccare un assegno».
Da Vita.it del 23/09/2015
Mujica battezza la legge sull'agricoltura
sociale
L'intervista video di Vita.it all'ex presidente dell'Uruguay in visita a
Expo. Domani intanto entra in vigore la nuova norma. Il viceministro
Olivero: «Le imprese sociali agricole avranno subito la possibilità di
poter avere uno specifico riconoscimento, e quindi un accesso alle
risorse»
di Stefano Arduini
Entra in vigore domani la legge sull’agricoltura sociale. « «L’elemento più rilevante è la
definizione chiara e nitida di “agricoltura sociale”», ha detto ieri in occasione di un evento
organizzato in Expo dal Mipaaf e dall’Ente Nazionale per il Microcredito (dal 2011 al 2014
finanziate 34mila imprese agroalimentari che non avevano garanzie da offrire), il
viceministro dell’Agricoltura, Andrea Olivero, che ha seguito l’iter della legge passo dopo
passo, «le imprese avranno subito la possibilità di poter avere uno specifico
riconoscimento, e quindi un accesso alle risorse. A partire dalle prossime settimane gli enti
regionali potranno costruire i propri piani di sviluppo rurale e i relativi bandi».
Lo spirito della riforma è molto chiaro: le aziende agroalimentari possono e spiegabilmente
debbono diventare un catalizzatore economico-sociale del territorio di riferimento. La legge
invita e stimola le aziende a contribuire a creare infrastrutture e servizi di welfare tali da
garantire la permanenza, se non il ritorno delle persone anche nelle aree rurali più interne,
dove spesso si coltivano prodotti di grande qualità ed eccellenza made in italy. L’economia
sociale in questo senso quindi il modello al quale le aziende agroalimentari sociali
debbono tendere per garantire lunga vita ambientale, economica e sociale a se stesse e al
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territorio circostante. A fianco di Olivero ha partecipato all’evento l’ex presidente
dell’Uruguay Josè Mujica (l’intervista video è di Andrea Rapaccini). «Tutto può distruggersi
un domani, tranne la terra e le mani che sempre in futuro la coltiveranno. E intorno a
questa terra e queste mani può crescere un’economia più felice e armoniosa», ha detto
Mujica (che a fronte di uno stipendio da senatore di 8.300, ne tiene per sé solo 800,
donando il resto a ong e associazioni non profit). E a Vita ha ricordato (vedi il video) come
il messaggio del Papa per una nuova economia sia «poderoso», perché riesce a
raggiungere tutti, credenti e non credenti. E infine i migranti. Su cui occorre cambiare
paradigma, perché il loro esodo «è inevitabile come le rughe e i capelli bianchi», per
questo sconfiggere la povertà in Africa diventa una questione che interroga il Mondo
intero: «Quello potrebbe essere uno straordinario mercato anche per i prodotti alimentari
che produciamo in eccesso».
http://www.vita.it/it/article/2015/09/22/mujica-battezza-la-legge-sullagricolturasociale/136631/
Da Vita.it del 23/09/2015
Servizio civile, le domande oltre quota
150mila
Sono esattamente 150.378 le domande pervenuto dall'inizio dell'anno al
18 settembre all'Ufficio nazionale. Nel 2015 le posizione a bando
saranno poco più di 39mila. E per l'anno prossimo a budget mancano
200 milioni
di Stefano Arduini
Fra i giovani la fame di servizio civile è in grande crescita. A certificarlo sono i dati
dell’Ufficio nazionale aggiornati al 18 settembre (vedi tabella in allegato). Sui 39.132 posti
volontari messi a bando per l’anno in corso (a cui corrispondono 4.522 progetti finanziati), i
volontari avviati fino ad ora sono stati 30.533 (attualmente in attività ce ne sono 23.284)
pari al 78% di coloro che prenderanno servizio in tutto il 2015. E fino a qui tutto nella
norma. Quello che sorprende è invece il dato sulle domande presentate dai ragazzi in
questi primi 9 mesi dell’anno: 150.378, ovvero quasi cinque volte tanto il numero dei
volontari che prenderanno servizio entro dicembre. Un dato già ben superiore anche alla
quota di 100mila giovani preventivata dal Governo con la riforma del Terzo settore
attraverso il nascituro Servizio civile universale e che entro l'anno crescerà ulteriormente.
Si prevede di raggiungere un numero di domande di almeno 170mila.
Attualmente però la dotazione finanziaria del fondo per il 2016 è di 113 milioni di euro. Un
budget in grado di sostenere l’avviamento di circa 25mila giovani. Meno della metà di
quelli messi a bando quest’anno. Per avviarsi verso la soglia dei 100mila volontari nel
2017, per l’anno prossimo servirà quindi una dotazione aggiuntiva di almeno 200 milioni di
euro. Come farlo? Oltre che in sede di legge di Stabilità, la presidenza del Consiglio
potrebbe attingere a un Fondo straordinario per esigenze non previste o prevedibili,
istituito dalla scorsa legge di Stabilità, attivabile semplicemente attraverso un dpcm.
Vedremo quale strada prenderà Renzi. Nel frattempo una cosa è certa: fra i giovani la
voglia di servizio civile è in deciso aumento (50/70% rispetto lo scorso). Buon segno.
Purchè si diano risposte alla voglia d'impegno dei più giovani, un patrimonio da
valorizzare.
http://www.vita.it/it/article/2015/09/23/servizio-civile-le-domande-oltre-quota150mila/136639/
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ESTERI
Del 24/09/2015, pag. 10
Ipotesi class action mondiale da 50 miliardi di
dollari
Undici milioni di potenziali aderenti per avere i risarcimenti del danno
Solo per le auto vendute negli Usa la Volkswagen potrebbe sborsare
una cifra vicina ai 25 miliardi di euro
PAOLO GRISERI
DECINE di miliardi di dollari di risarcimenti, un’apocalisse che potrebbe addirittura
travolgere il gruppo di Wolfsburg. Fino a far sorgere l’ipotesi che possa partire una class
action mondiale con 11 milioni di potenziali aderenti. Le conseguenze del “Dieselgate”
promettono di essere economicamente devastanti. Solo per le 482 mila auto taroccate
vendute negli Usa la Volkswagen potrebbe sborsare una cifra vicina ai 25 miliardi di
dollari. E non è esagerato prevedere che per i 10,5 milioni di auto che restano nel resto del
mondoWolfsburg debba mettere in conto un esborso almeno pari. Una fucilata da 50
miliardi di dollari che avrebbe l’unico vantaggio di arrivare diluita negli anni.
Il calcolo di quel che potrebbe accadere nei soli Stati Uniti lo fa Emily Maxwell, avvocato
californaino con un’esperienza ventennale nelle iniziative legali a tutela dei consumatori.
“Per prevedere le conseguenze - premette Maxwell - è decisivo capire se la Volkswagen è
in grado di modificare il motore delle auto incriminate in modo da farlo tornare al di sotto
delle soglie di emissione previste dalla legge degli Stati Uniti. In caso contrario quelle
automobili sarebbero illegali e inutilizzabili, così come prevede la legge federale. Così ai
18 miliardi di multa massima ipotizzata in questi giorni da parte dell’Epa, l’ente di controllo
sulle emissioni, se ne dovrebbero aggiungere altri 12 da risarcire ai consumatori
calcolando un valore medio delle vetture di 25 mila dollari. Se anche non si arriverà a
comminare il massimo della multa da 18 miliardi è prevedibile che la somma di multa e
risarcimenti arrivi a 25 miliardi di dollari. Ai denari dovuti ai consumatori si dovranno infatti
aggiungere quelli da pagare alla rete dei concessionari che ora potrebbero trovarsi con
auto invendibili in magazzino”.
Una cifra gigantesca che servirebbe solo a sanare l’irregolarità di 482 mila auto su un
totale di 11 milioni. Negli Stati Uniti sono già state annunciate 25 class action e altre se ne
prevedono nei prossimi giorni. Poi si tratterà di decidere quale stato ha la titolarità per
giudicare e a quale tribunale affidare la pratica. In Europa i governi di Francia, Italia e della
stessa Germania hanno promesso di fare chiarezza. L’Ue ha invitato gli stati membri “a
svolgere indagini sui singoli mercati e poi riferire alla Commissione”. Da parte italiana il
ministro dei trasporti Graziano Delrio ha “chiesto chiarimenti alle autorità di omologazione”
assicurando che successivamente l’Italia farà le sue verifiche. Anche il ministro per lo
sviluppo economico Federica Guidi ha promesso di fare “rapidamente luce sullo scandalo
delle emissioni truccate”. E il ministro dell’ambiente Galletti ha aggiunto di aver ottenuto da
Volkswagen la garanzia che i nuovi motori euro 6 sono privi del dispositivo incriminato.
Mai come in questa occasione si è dimostrata grave la scelta dell’Europa di non dotarsi di
un’unica autorità di controllo sulle emissioni, ipotesi più volte avanzata nel corso degli anni
e sempre fieramente contrastata dai costruttori nella speranza di giocare sui differenti
sistemi di verifica nei 28 paesi dell’Unione. Le diverse regole in Usa e in Europa si
misureranno nei prossimi mesi quando si tireranno le somme di multe e risarcimenti. Uno
dei problemi è legato al fatto che mentre l’Europa è più rigida sulle emissioni di inquinanti
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consentite per i motori a benzina, gli Usa sono più severi sul diesel. Ma è certo che se
anche nei paesi europei il trucco del software ha consentito di mettere in circolazione
motori fuori regola o di categoria euro diversa, i milioni di europei che faranno causa
potrebbero facilmente arrivare ai 25 miliardi di risarcimenti che vengono ipotizzati in Usa
per meno di mezzo milione di automobili irregolari.
Del 24/09/2015, pag. 10
Lo scandalo rivoluziona i piani dei produttori
vicino l’addio al gasolio
VALERIO BERRUTI
Lo scandalo delle emissioni truccate dalla Volkswagen in Usa sta “rivoltando” l’intero
settore automobilistico mondiale. Dal terremoto all’interno del gruppo di Wolfsburg alla
credibilità dell’industria automobilistica tedesca (per ora). Ma non è tutto. A fare le spese
del più grande scandalo del mondo delle quattro ruote sarà molto presto l’auto diesel, la
cui diffusione è cresciuta moltissimo negli ultimi dieci anni proprio in Europa.
E’ questo il vero problema messo improvvisamente sotto gli occhi di tutti dal caso
Volkswagen. Un problema che non si limita certo alle 480 mila macchine “truccate” in Usa
ma incombe minaccioso sulle 11 milioni di auto sparse sul pianeta appartenenti al gruppo
e forse, chissà, a quelle di molti altri costruttori. Uno scandalo che in un solo giorno ne ha
messo in discussione il destino e nello stesso tempo ha rivelato l’assoluta inadeguatezza
dei controlli adottati per l’omologazione di queste vetture. Mettendo a nudo un sistema che
va avanti da decenni e che prevede test eseguiti in laboratorio, su di un rullo che dovrebbe
simulare la strada e che invece è distante anni luce da qualsiasi situazione reale.
I tecnici denunciano da tempo che le auto hanno emissioni sulla strada che si discostano
anche fino a 40 volte da quanto dichiarato dalle case. E che sarebbe il caso di cambiare i
test ne sono convinti tutti, associazione dei costruttori europei compresa ( «la
certificazione euro 6 – ha annunciato l’Acea - richiederà per la prima volta un test delle
emissioni delle auto diesel in realistiche condizioni di guida, fatto che renderà l’Europa
l’unica regione al mondo a effettuare simili test sulle automobili»). Così come tutti sanno
molto bene come sia facile aggirare questi controlli, visto che la Volkswagen l’ha fatto
impunemente per ben cinque anni.
Con la manipolazione sui test di 11 milioni di veicoli, secondo un’analisi condotta dal
Guardian , la casa tedesca si è resa responsabile di quasi un milione di tonnellate di
sostanze inquinanti l’anno. Secondo il giornale inglese, l’Epa, l’agenzia di controllo Usa, ha
calcolato, infatti, che le 482 mila auto diesel avrebbero emesso tra le 10 mila e le 41 mila
tonnellate di gas di scarico l’anno, contro le mille tonnellate che avrebbero dovuto
emettere se avessero rispettato gli standard Usa. Allargando il calcolo agli 11 milioni di
veicoli diesel del gruppo di Wolfsburg attualmente in circolazione, il gruppo tedesco
potrebbe potenzialmente essere responsabile di 230-950 mila tonnellate di emissioni
inquinanti l’anno, il cui impatto sarebbe particolarmente elevato in Europa dove i veicoli
diesel sono la metà del totale, contro l’1% degli Stati Uniti.
Insomma, un danno ecologico senza precedenti che vede al centro del problema proprio
la motorizzazione diesel, al momento la più inquinante di tutte e soprattutto quella che
richiede costi più alti per ridurne le emissioni nocive. Tecnici e analisti al riguardo hanno
pochi dubbi. I sistemi di trattamento e filtraggio dei gas di scarico sono stati perfezionati
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negli ultimi anni ma a fronte di interventi complicati dal punto di vista tecnologico e
soprattutto grazie a marmitte ben più costose delle altre.
Ma allora, il diesel, sopravvissuto ad una serie di passaggi grazie a queste tecnologie di
pulizia dei gas di scarico, per quanto ancora potrà andare avanti? Qualche anno e non di
più, è l’opinione di tecnici e analisti. Più si abbassano i limiti più si alzano i costi. E
soprattutto più diventa evidente che non è possibile abbattere contemporaneamente le
polveri sottili (il cosiddetto particolato) e gli ossidi di azoto (NOx). Al punto che molti esperti
sostengono che le auto a gasolio hanno emissioni in media sette volte superiori ai
parametri richiesti dai regolamenti. E che oltre ai costi stratosferici per abbassare i limiti
d’inquinamento, l’industria dovrebbe rinunciare alle prestazioni, elemento d’acquisto ormai
fondamentale per i modelli diesel. Sono dunque questi i punti deboli che porteranno
all’inesorabile discesa delle vendite. In un mondo dove l’abbattimento dello smog diventa
uno dei principali problemi del futuro non può esserci spazio per questi motori. Non oggi
ma fra cinque, dieci anni quando i limiti di emissioni dovranno drasticamente ridursi, la fine
dell’auto a gasolio sarà inevitabile. D’altronde, per gli stessi motivi non sono già scomparsi
i motori a due tempi? Il mondo va avanti, il mercato si adegua.
Del 24/09/2015, pag. 15
Il retroscena Vertice su Siria e Libia
L’Italia viene tenuta fuori Stasera Mogherini a cena con francesi,
tedeschi e britannici
BRUXELLES Appuntamento a Parigi, per stasera, ora di cena. Menù politico di massimo
interesse per l’Europa: Iran, sicuramente Siria, probabilmente Libia. Ma il ministro degli
Esteri francese, Laurent Fabius, ha previsto solo altri tre commensali: il collega tedesco
Frank-Walter Steinmeier, quello britannico Philip Hammond e Federica Mogherini, Alto
rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Chiusa la due giorni di vertici corali sull’immigrazione a Bruxelles, l’Unione europea riparte
da un trilaterale che sarebbe dovuto restare riservato. Il ministro degli esteri italiano, Paolo
Gentiloni,non è stato chiamato. Da Roma nessun commento, mentre da Bruxelles si fa
sapere che «gli inviti sono partiti da Parigi e che la cena è un incontro tra i componenti
europei del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna più la Germania
ndr) che ha negoziato con l’Iran. Si farà il punto della situazione dopo l’accordo e in questo
senso si parlerà anche di Siria».
La spiegazione non convince la diplomazia italiana che, secondo una ricostruzione
affidabile, non sarebbe stata neanche ufficialmente informata. Qualcuno nel governo si
aspettava almeno una telefonata da Federica Mogherini, candidata con decisione
all’incarico europeo da Matteo Renzi, giusto un anno fa.
I tre ministri partiranno dal nucleare iraniano e rapidamente arriveranno all’ esodo dei
siriani. Guerra e immigrazione, e dentro c’è anche la Libia, fanno ormai parte dello stesso
dossier. La scorsa settimana il segretario di Stato americano John Kerry ha visto prima il
britannico Hammond e poi il tedesco Steinmeier. La linea degli Stati Uniti poggia su un
paio di punti fermi: no a un intervento militare massiccio in Siria, sì ad azione mirate contro
l’Isis. Ma il mini-direttorio europeo è diviso: i francesi sono pronti a bombardare le posizioni
dello Stato Islamico, i britannici anche, senonché il premier David Cameron non sembra
avere la maggioranza in Parlamento per autorizzare l’intervento; i tedeschi vogliono solo
sentire parlare di negoziati. Qualunque sia la strategia che prevarrà, tutti gli altri Paesi
europei dovranno semplicemente adeguarsi.
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Fabius, Steinmeier e Hammond terranno conto anche della relazione presentata ieri al
vertice di Bruxelles da Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo. Tusk è appena
tornato da un lungo giro nei campi di accoglienza di Libano, Giordania e Turchia. Ha
descritto una situazione devastante, sostenendo che in tutta la regione ci sono «10-12
milioni di potenziali rifugiati che potrebbero diventare potenziali migranti».
Cifre difficili da controllare, ma per mantenere l’allarme al massimo livello bastano i quasi
due milioni di profughi siriani ospitati dalla Turchia. «I campi di accoglienza turchi di fatto
sono ormai aperti», ha riferito Tusk.. Al di là dell’appoggio finanziario promesso da
Bruxelles, il governo di Istanbul insiste: dobbiamo creare una zona cuscinetto fuori dai
confini in cui accogliere i rifugiati sotto il controllo di Turchia, Ue e Usa.
Non sarà una cena leggera.
Del 24/09/2015, pag. 35
IL GIOCO DEI RUOLI NELLA SIRIA DI ASSAD
RENZO GUOLO
QUELLO dalla Siria è, da tempo, un esodo di massa. Gli europei percepiscono solo ora la
sua drammatica portata mentre Libano, Giordania, Turchia, sono interessati da anni, e in
misura più massiccia, dal fenomeno: sono ormai più di quattro milioni i siriani rifugiati
all’estero. Una catastrofe umanitaria legata all’apparente insolubilità del conflitto. La guerra
continua non certo perché l’Is sia imbattibile, basterebbe una missione internazionale con
un serio accordo politico alle spalle per mettere fuori gioco gli jihadisti, quanto perché i
suoi molti nemici hanno obiettivi divergenti. Come appare evidente guardando alle
aspettative degli attori globali e regionali, statali e non statali, coinvolti nel complicato
puzzle mesopotamico.
Gli Stati Uniti vorrebbero una Siria senza Assad ma anche senza l’Is, l’Iran e la Russia:
anche se la recente disponibilità a dialogare con il Cremlino sembra prefigurare un più,
realistico, mutamento di strategia. A sua volta la Russia vuole restare in Siria: non a caso
Mosca ha rafforzato la sua presenza militare sul terreno, anche per mantenere lo sbocco
mediterraneo parte essenziale della storica dottrina dei “Due mari ”. Il Cremlino, che punta
a garantire la stabilità geopolitica dell’area in concorso con l’Iran, vorrebbe sconfiggere il
Califfato che, con il suo evocativo richiamo, minaccia di destabilizzare anche il Caucaso.
Obiettivo, non certo secondario, è riassumere peso nella regione, già lievitato dopo il ruolo
svolto da Mosca nell’accordo sul nucleare iraniano. In questa logica il diretto
coinvolgimento russo fa pensare che il Cremlino possa difendere a oltranza, in caso di
ulteriore dissoluzione del Paese, anche un micro-stato baathista senza Assad.
Quanto agli attori regionali, hanno interessi ancora più divergenti. La Turchia neottomana
punta a una Siria senza Assad, senza l’Is che pure ha favorito per indebolirne il regime,
senza l’ingombrante presenza dei sauditi, rivali nella partita per l’egemonia nel campo
sunnita. Ma Erdogan vorrebbe anche una Siria senza iraniani e senza russi che sfidano la
Turchia: anche con il loro niet alla creazione di una no-fly zone e una fascia protetta per i
profughi da rispedire oltre frontiera. Anche se Ankara mira, soprattutto, a impedire che
cresca il peso politico dei curdi di qua e di là del confine.
A sua volta l’Iran, che con i Pasdaran ha garantito, insieme all’ Hezbollah libanese, la
tenuta militare del regime di Assad e evitato il dilagare dell’Is, vuole impedire la sconfitta
degli alawiti, esito che spezzerebbe la corda tesa dell’arco sciita che va da Teheran a
Beirut passando, appunto, per Damasco. Gli iraniani non vogliono che la Siria cada nelle
mani dell’Is ma nemmeno in quelle di uno schieramento sunnita guidato dai sauditi o dai
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turchi. Aspirazioni tanto più difficili da contenere dopo l’accordo sul nucleare che, in un
effetto domino, conferisce agli iraniani un peso maggiore nella regione.
I sauditi, invece, esigono la sconfitta di Assad e dei suoi odiati alleati sciiti, l’Iran ma anche
il Partito di Dio di Nasrallah loro acerrimo nemico nella partita per il controllo del Libano;
oltre che dell’Is, aiutato prima prosperare e poi, con la proclamazione del Califfato,
divenuto minaccia che delegittima il ruolo politico e religioso della dinastia saudita. Sullo
sfondo, ma non troppo, Israele che non desidera certo l’Is ai confini, al posto del nemico
immobile Assad, ma guarda con preoccupazione al ruolo nella regione della Russia, che
pure cerca di rassicurarlo, alla crescente influenza dell’Iran e al rafforzamento militare di
Hezbollah come conseguenza del conflitto. In questo vertiginoso caleidoscopio trovare un
comune denominatore politico è impresa da far girare la testa. Il timore degli attori
antijihadisti è che un mutamento della situazione avvantaggi i propri competitori strategici.
Da qui l’ibernazione della guerra, con i suoi terribili costi umani in vittime e profughi.
Eppure l’unico obiettivo praticabile resta la distruzione del nemico di tutti, l’Is, lasciando il
dopo al dopo. Scelta che implica la presa d’atto dell’inesistenza di una soluzione solo
americana o russa, solo sunnita o siciita, solo saudita o iraniana. L’uscita di scena di
Assad non può comportare la marginalizzazione del Cremlino e di Teheran. Viceversa, la
fine del conflitto non può venire da un maggiore impegno di russi e iraniani sul campo.
Certo, più facile a dirsi che a farsi, ma senza questa presa d’atto il Medioriente, già
terremotato dalle conseguenze del conflitto siro-iracheno, è destinato a deflagrare.
Del 24/09/2015, pag. 9
Ragazza di Hebron uccisa, non regge la tesi
della legittima difesa
La 18enne palestinese Hadil Hashlamoun, uccisa due giorni fa ad un posto di blocco
israeliano tra le zone H1 e H2 di Hebron, aveva davvero tentato di accoltellare un soldato
o il militare ha aperto il fuoco su una persona che non rappresentava una minaccia
reale? L’interrogativo, sorto subito dopo il diffondersi della notizia, si è fatto ancora più
pressante quando in rete sono cominciate a circolare foto e un video che non mostrano la
ragazza in atteggiamenti aggressivi.
Un portavoce dell’esercito ha spiegato che ad Hashlamoun è stato ordinato di fermarsi
dopo che aveva passato il metal detector. La ragazza invece di rallentare è andata avanti
e ad un certo punto ha tirato fuori un coltello minacciando un militare. I soldati presenti
hanno sparato prima alle gambe e ai piedi per impedirle di avanzare e quando la giovane
ha continuato a dirigersi verso di loro le hanno sparato all’addome. Alcuni testimoni parlano invece di una “reazione eccessiva” a una minaccia percepita ma non vera e che, in
ogni caso, non c’era bisogno di uccidere Hashlamoun.
Le immagini disponibili mostrano i soldati che puntano le armi verso una persona con il
niqab (il velo islamico integrale) ferma al checkpoint prima della sparatoria e la stessa persona che, in apparenza, cerca di lasciare il posto di blocco. In nessuna delle foto la donna
appare con armi in mano. Secondo Fawaz Abu Aisheh, uno dei testimoni, Hashlamoun
non comprendeva le intimazioni in ebraico urlate dai soldati. Lo stesso Abu Aishe ha detto
di aver aperto una porta per permettere alla ragazza di tornare indietro ma i soldati hanno
sparato. «Quella ragazza avrebbe dovuto saltare una barriera alta circa un metro per raggiungere un soldato», ha spiegato il testimone. «Erano presenti sei o sette militari con armi
pesanti. Non c’era bisogno di questo assassinio».
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L’Esercito afferma inoltre che i medici israeliani hanno cercato di fare il possibile per
tenere in vita la donna, sul luogo stesso della sparatoria prima del trasferimento in ospedale (dove è poi spirata). Un video pubblicato da un’agenzia di stampa locale dice il contrario. Il filmato mostra la donna che viene lasciata a sanguinare sul terreno – per circa 30
minuti – e che poi viene trascinata via da alcuni soldati. Sempre due giorni fa un altro palestinese è rimasto ucciso in una esplosione nei pressi di un villaggio vicino Hebron. Per il
portavoce militare stava cercando di lanciare un ordigno. I palestinesi non confermano.
Del 24/09/2015, pag. 16
Arabia saudita, 21enne decapitato e
crocifisso
Arabia saudita. Ali an-Nimr è stato condannato a morte per aver
partecipato a una manifestazione illegale a sostegno dello zio, un imam
sciita incarcerato dalla monarchia. Silenzio in Occidente sulle gravi
violazioni dei diritti umani in Arabia saudita. Resta in prigione il blogger
Raif Badawi, condannato a 10 anni e frustato in pubblico lo scorso
gennaio
Cosa ha pensato la famiglia di Ali an-Nimr apprendendo, qualche giorno fa, che le Nazioni
Unite affideranno all’Arabia Saudita una posizione di rilievo nella tutela dei diritti umani,
a dispetto delle denunce che Ong e associazioni umanitarie internazionali rivolgono da
decenni al regno dei Saud? Possiamo immaginare la rabbia, la frustrazione che provano
un padre, una madre, dei fratelli dopo una notizia del genere mentre attendono sgomenti
l’esecuzione del proprio figlio di 21 anni.
Ali an-Nimr, denuncia da qualche giorno l’ong britannica Reprieve, sarà decapitato e il suo
corpo crocifisso per aver partecipato a una manifestazione illegale e per aver fatto parte,
secondo i giudici, di una «organizzazione terroristica», accusa questa che a Riyadh
è rivolta a chiunque abbia il coraggio di criticare pubblicamente la petromonarchia e il
wahabismo, la corrente islamica rigidissima che controlla la società saudita.
La «nostra alleata» nel Golfo
È l’ennesimo paradosso delle relazioni internazionali con l’Arabia saudita, Paese che viola
sistematicamente i diritti della persona, a cominciare da quelli delle donne, che nega
libertà politiche fondamentali, che interferisce nelle vicende interne di altri Stati della
regione (certo non meno dei nemici iraniani), che pratica quotidianamente la pena di
morte, che agisce a sostegno di movimenti estremisti salafiti (parenti stretti del wababismo) a danno delle correnti islamiste più moderate. Nonostante ciò è trattato con i guanti
di velluto da Stati Uniti e da Europa. Per qualche ragione? Perchè Riyadh è una «nostra
alleata» nella strategica area del Golfo, tiene giù il prezzo del petrolio, compra ogni anno
armi prodotte in Occidente per vari miliardi di dollari e dialoga a distanza con Israele. Il
premio Nobel per la pace e presidente americano Barack Obama, si prepara a consegnare altre armi sofisticate all’Arabia saudita, per placare il disappunto di re Salman per
l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato a Vienna due mesi fa. Il monarca saudita vuole anche la testa del presidente siriano Bashar Assad (l’unico dittatore presente in
Medio Oriente secondo i democratici leader occidentali) ma l’operazione si è fatta, come
dire, più complessa dopo l’intervento della Russia a sostegno di Damasco sotto pressione
di decine di organizzazioni e gruppi jihadisti e qaedisti, dall’Isis ad al Nusra. Qualcuno si
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chiede ancora chi stia pagando queste decine di migliaia di «combattenti» del Jihad. La
risposta la conoscono tutti da anni.
Ali an-Nimr, fu arrestato quando era ancora minorenne per aver partecipato ad una protesta contro il regno. I fatti risalgono al 2012, durante una manifestazione a Qatif, nelle province orientali del Regno, dove si concentrano i pozzi petroliferi e vivono circa 2 milioni
700 mila sauditi, colpevoli di non essere musulmani sunniti ma sciiti, quindi nemici
«interni» dell’Islam secondo le gerarchie wahabite. Contro Ali sono state formulate accuse
di ogni genere. Possesso di armi, lancio di bottiglie incendiarie contro le forze di polizia
e anche uso del cellulare per organizzare la protesta. È stato descritto come un «mostro»,
un terrorista assetato di sangue da eliminare. La sua esecuzione dovrà essere un esempio
per tutti gli altri «terroristi»: guai a mettere in discussione le politiche della monarchia. In
realtà il giovane paga il fatto di essere il nipote di un famoso imam sciita, Sheikh Nimr
Baqr al-Nimr, tenace oppositore dei governanti sunniti e anch’egli imprigionato. Ali infatti
stava partecipando ad una manifestazione in favore dello zio, quando fu preso dalla polizia. Le accuse si basano sulla sua confessione che — denuncia Reprieve — fu estorta
con torture. Durante il processo al ragazzo sarebbe stato negato un avvocato e quando ha
denunciato le sevizie e gli abusi subiti, i giudici si sono rifiutati di prendere in considerazione le sue parole.
E l’Onu premia Riyadh
Sarà saltata sulla sedia anche la signora Ensaf Haidar alla notizia che all’ambasciatore
saudita all’Onu Faisal bin Hassan Trad sarà assegnato un incarico a tutela dei diritti
umani. La signora Haidar guida, dal Canada dove vive da quando ha ottenuto l’asilo politico, una campagna internazionale per la liberazione del marito, il blogger saudita Raif
Badawi, incarcerato per aver «insultato» personalità politiche ed esponenti religiosi sul suo
blog che incoraggiava soltanto il dibattito tra i cittadini su vari temi.
Lo scorso 9 gennaio Badawi ha ricevuto le prime 50 frustate davanti a una moschea di
Gedda. Le successive serie sono state rinviate, ufficialmente per motivi di salute, in realtà
per le pressioni internazionali. E potrebbero riprendere in qualsiasi momento perchè la
Corte suprema saudita nei mesi scorsi ha confermato la pena.
Il bastone della flagellazione
Nella sua prima lettera dal carcere, pubblicata a marzo dal settimanale tedesco Der Spiegel, Badawi raccontò di essere «miracolosamente sopravvissuto a 50 frustate» e di essere
stato «circondato da una folla plaudente che gridava incessantemente Dio è grande».
«Sono stato sottoposto a questa crudele sofferenza solo perché ho espresso la mia opinione», aggiunse il blogger. In Arabia saudita la flagellazione è generalmente effettuata
con un bastone in legno chiaro, con colpi distribuiti su tutta la schiena e le gambe, che
lascia lividi ma che, il più delle volte, non lacera la pelle. Una raffinatezza.
Riyadh respinge le critiche e denuncia la «campagna mediatica attorno al caso» di Raif
Badawi. Lo scorso maggio l’ambasciata saudita a Bruxelles ha inviato una dichiarazione
ufficiale ai membri del Parlamento Europeo per condannare qualsiasi «interferenza nei
suoi affari interni», sostenendo che «alcune parti internazionali e i media cercano di violare
e attaccare il diritto sovrano degli Stati». Nessuno sconto ai dissidenti perciò. Lo sa bene
l’avvocato Walid Abulkhair, legale di Raif Badawi e attivista dei diritti umani, finito anche lui
in cella nel 2014 per «incitamento dell’opinione pubblica». Abulkhair era stato inizialmente
condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi inasprita dalla Corte
penale di appello, specializzata in casi di «terrorismo».
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INTERNI
Del 24/09/2015, pag. 12
LA GIORNATA
Battaglia sul “bavaglio” primo sì alla legge
L’Anm:molto deludente
Protesta M5S alla Camera:sulle intercettazioni il Pd fa quello che voleva
Berlusconi. I democratici: falso
ROMA .
«No alla legge bavaglio». Spuntano sui banchi più alti dell’aula di Montecitorio tanti cartelli
quante sono le lettere dello slogan. Contemporaneamente tutti i deputati grillini
s’imbavagliano calando sul volto un fazzoletto bianco ripiegato a triangolo. La presidente
della Camera Laura Boldrini fa intervenire subito i commessi. È l’ultimo tentativo di M5S
per bloccare la legge bavaglio sulle intercettazioni, la «delega in bianco» che consentirà al
governo di riscrivere le regole sugli ascolti per magistrati e giornalisti. Le toghe dell’Anm,
col presidente Rodolfo Maria Sabelli, qualche ora dopo la definiranno «molto deludente,
disorganica, senza coerenza».
Passa, assieme agli altri 33 articoli del disegno di legge penale, con 314 sì della
maggioranza, Pd in testa con un’entusiasta Udc. Forza Italia alla fine si astiene. Votano
contro M5S, Sel e Lega. Dal suo blog tuona Beppe Grillo: «Hanno fatto peggio di
Berlusconi, distruggendo il diritto di cronaca». I suoi (Di Maio, Ferraresi, Bonafede, Sarti)
invitano i giornalisti a reagire. Sciorinano i casi di intercettazioni famose destinate a essere
impubblicabili: il Rolex del figlio di Lupi, Cancellieri e Ligresti, Renzi e il generale Adinolfi,
molte telefonate di Mafia capitale. Anche adesso il Guardasigilli Andrea Orlando non è in
aula. È andato a Torre Annunziata per commemorare il giornalista ucciso Giancarlo Siani.
I suoi anticipano che in settimana ufficializzerà la commissione per scrivere il decreto
legislativo sulle intercettazioni, dentro ci saranno anche i giornalisti. Politicamente vale
quello che ha detto il giorno prima, «il bavaglio è un’invenzione giornalistica e non ci
sarà». Tant’è, ormai la legge viaggia verso il Senato. Il Pd la difende strenuamente. La
relatrice Donatella Ferranti, un ex pm ora presidente della commissione Giustizia, parla di
«riforma coraggiosa e innovativa». Il renziano David Ermini, responsabile Giustizia del
partito, polemizza coi grillini: «Lasciamo che siano loro a guardare dal buco della
serratura, captare parole col telefonino ricorda il ventennio, le “vite degli altri”...». Ma i più
entusiasti sono gli alfaniani. Un trionfante Maurizio Lupi, costretto a dimettersi da ministro
per le intercettazioni, vede «finalmente tutelato il diritto alla privacy». Il vice Guardasigilli
Enrico Costa, artefice della reprimenda per le ingiuste detenzioni, si rallegra per le
intercettazioni: «Dopo vari tentativi può essere davvero la volta buona». Infatti, addio diritto
di cronaca.
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Del 24/09/2015, pag. 12
Lo strappo delle toghe “I dem non sono più il
nostro baluardo”
LIANA MILELLA
ROMA . È finita per sempre in archivio la stagione del grande feeling tra il Pd e la
magistratura. Nonostante il Guardasigilli Orlando si sforzi, a ogni commissione di studio
che crea, di bilanciare i componenti con il Cencelli delle toghe. Un’altra epoca si è aperta,
quella della paura di parlare per il timore di finire sotto procedimento disciplinare. Si
censurano perfino nelle mailing list dove, in questi giorni, non si riesce a trovare quasi
nulla contro la legge bavaglio. Giusto, qui e là, qualche intervento che critica singole
tecnicality, come il minor tempo per chiudere le indagini. «La magistratura è spaventata.
Tra di noi serpeggia una grande paura perché è caduta qualsiasi protezione » dice un
magistrato attento come Sebastiano Ardita che, con Pier Camillo Davigo, ha fondato
l’ultima corrente delle toghe, dal nome significativo “Autonomia e indipendenza”. Non si
riesce a strappargli una parola di più. Sono finiti i grandi sfogatoi, come ai tempi di
Berlusconi. Dall’altra parte non c’è più il Pd solidale, quello pronto anche a scendere in
piazza, che faceva a gara per candidare magistrati alla Camera e al Senato.
Se chiedi al segretario dell’Anm Maurizio Carbone, pubblico ministero a Taranto del caso
Ilva, come mai nelle mailing list non ci sono interventi contro la riforma penale, ti risponde
in modo chiaro, com’è nel suo costume: «È molto semplice. Il clima è completamente
cambiato. Quando i magistrati protestavano contro Berlusconi accadeva subito che in
Parlamento ci fossero interventi per sostenere le nostre posizioni ». Allude al Pd
ovviamente. Va avanti: «Si vedeva che c’era attenzione e interesse per i nostri problemi.
Adesso purtroppo non è più così». Il Pd ha cambiato pelle. La riforma delle intercettazioni
è una ferita aperta: «Mentre dilaga la corruzione il problema sembra essere un altro, la
riservatezza da garantire a certi personaggi pubblici» dice Carbone. E ancora: offende i
magistrati quell’aver votato a favore, M5S compreso, sulla relazione in Parlamento sui casi
di ingiusta detenzione. «Ci vogliono fregare, è chiaro» dice un giudice che appena
pronuncia la battuta ci scongiura «di non scriverla».
Sul banco degli imputati c’è il Pd, «i traditori, i voltagabbana, divenuti ormai tutti renziani ».
Uno dei pochi che non ha paura di scrivere ancora nelle liste aperte perfino alla stampa,
come Andrea Reale, iscritto alla movimentista Proposta B, ce l’ha con la politica, ma ce
l’ha pure con l’Anm, accusata di aver garantito al governo «aperture preventive di credito
sulla responsabilità civile e sulle ferie ». Adesso a un collega scrive: «Ma cos’altro
dobbiamo aspettare per comprendere come vanno le cose? Con la responsabilità civile
hanno già inferto un vergognoso colpo alla nostra autonomia».
Il Pd renziano ha moltissime colpe. Luca Poniz, pm a Milano, da sempre di Magistratura
democratica, cita la segretaria della corrente Anna Canepa quando, al congresso di
Reggio Calabria prima dell’estate, ha parlato dell’alleanza di fatto che, in passato,
garantiva il rapporto tra il Pd e la magistratura, mentre ora «il fronte politico si è
ridisegnato, i magistrati non piacciono più come prima, manca pure un vero disegno
riformatore, tant’è che Renzi chiama al governo un magistrato di destra come Ferri per
fare il sottosegretario ». I “tradimenti” del Pd stanno nel lungo elenco delle norme
approvate e giudicate tutte contro la magistratura. Claudio Castelli, toga storica di Md,
constata: «Ogni volta che il Pd è al governo è contro i magistrati, quando passa
all’opposizione è a favore». Solo così si giustifica il sì alla delega sulle intercettazioni, fatta
«per condizionare i pm e i giudici». Ma non solo. C’è il sì del Pd alla responsabilità civile
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che, ricorda Carbone, Orlando ha definito «un passo storico per la giustizia italiana». Ci
sono le ferie per decreto, l’età pensionabile, l’annunciata riforma del Csm. Poi tutto il non
fatto, a partire dalla prescrizione. Altro che a favore, il Pd è contro i magistrati.
Del 24/09/2015, pag. 12
Artisti ribelli e giornali di sinistra. Ecco tutti
gli smemorati del Bavaglio
Nel 2011 - Il Pd scendeva in piazza quando le proposte di censura
venivano da Berlusconi
Il governo incassa il via libera della Camera, la strada per la nuova legge bavaglio si fa in
discesa. Corre svelta nel silenzio e nel disinteresse comune. Soprattutto di quella sinistra
che quattro anni fa si scagliò contro la legge sulle intercettazioni voluta allora dal governo
di Silvio Berlusconi. Cos’è cambiato? Nei contenuti della legge, praticamente nulla. Solo
che oggi a Palazzo Chigi c’è il centrosinistra di Renzi.
Tanto basta per sottrarsi alla critica. Che nel 2011 invece si diffuse a macchia d’olio. A
ricordarlo è anche il blog di Beppe Grillo che ha postato un vecchio filmato nel quale
decine di artisti famosi prendono posizione contro il bavaglio, ripetendo tutti lo stesso
slogan è identico: “Lo sapete che la legge bavaglio sulle intercettazioni nega a voi cittadini
il diritto a essere informati? Adesso lo sapete”. La variante: “Lo sapete che con la legge
bavaglio sulle intercettazioni sarà il governo a decidere quello che noi giornali e televisioni
possiamo pubblicare e che voi potete conoscere?”.
Oggi che fine hanno fatto “gli artisti ribelli”? Il giochino, attenzione, non vale tanto per loro,
che rispondevano a un invito di Repubblica per la campagna enti-bavaglio. Impossibile
non ricordare la prima pagina bianca di Repubblica con un post it giallo in mezzo e la
scritta: “La legge bavaglio nega ai cittadini il diritto di essere informati”. Oggi, sia chiaro,
non mancano i titoli in prima pagina, ma certo appaiono decisamente più ordinari. Ieri
Repubblica titolava, ma molto in piccolo: “Intercettazioni, via libera alla nuova legge
bavaglio”. E il Partito democratico? Oggi il Pd al governo dà carta bianca a Matteo Renzi,
ieri (quattro anni fa) si sprecavano i manifesti anti-bavaglio. Uno dei tanti di allora strillava:
“No alla legge bavaglio, la democrazia non vuole censure”. Per tutto il 2010 e il 2011, il Pd
ha organizzato manifestazioni di piazza, da Udine all’Umbria. Nel settembre 2011 a Roma
si diedero appuntamento politici, giornalisti e cittadini comuni per dire no alla legge
bavaglio. Fu esposto uno striscione con il volto di Berlusconi, un divieto sulla sua bocca e
la scritta: “Nessuno ti può giudicare, nemmeno il web. La verità ti fa male lo so”,
riadattando le parole una celebre canzone di Caterina Caselli. E così proseguendo sulla
metafora musicale, oggi possiamo dire che quelle erano solo “parole, parole, parole”.
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Del 24/09/2015, pag. 14
Intesa Pd in tre mosse
Da Calderoli 82 milioni di nuovi emendamenti
Ma il presidente Grasso non ci sta: “Li ritiri o li dichiaro tutti
inammissibili”. E i dem minacciano l’abolizione del Senato
SILVIO BUZZANCA
L’accordo sulle riforme nel Pd è cosa fatta. Ma sulla strada di una rapida approvazione
piovono sull’aula del Senato 82 milioni di emendamenti targati Roberto Calderoli.
Scatenando una dura reazione di Pietro Grasso, intenzionato a non permettere il blocco
dei lavori. Il fatto più rilevante è comunque l’intesa interna fra i democratici.
Formalizzata da Anna Finocchiaro, che, come relatrice, ha subito presentato tre
emendamenti al testo Boschi. Ci saranno così nuove norme sull’elezione dei senatori da
parte degli elettori e la ratifica dei Consigli regionali.
Ritornano poi in Costituzione i poteri del nuovo Senato su rapporti con l’Ue, valutazione
delle politiche pubbliche e della P.A. Infine Palazzo Madama eleggerà sicuramente due
giudici costituzionali. Risultati che fanno dire a Pierluigi Bersani: « È la vittoria del Pd,
adesso andiamo avanti uniti e non c’è bisogno di Verdini». Ma il vice segretario dem
Lorenzo Guerini replica: “I voti di Verdini sono comunque benvenuti”. Lo scoglio maggiore
però resta l’ostruzionismo di Lega e Sel. Così i renziani Andrea Marcucci e Franco
Mirabelli, in funzione deterrente, presentano un emendamento con l’abolizione del Senato.
Il fatto è che la cifra mostruosa di modifiche di Calderoli preoccupa. Per ordinarle secondo gli uffici - servirebbero 6 anni e per giudicare l’ammissibilità ne servirebbero 374.
«Così si entra nel campo del ridicolo» reagisce Matteo Renzi. E Luigi Zanda, capogruppo
Pd, parla di «vero e proprio sabotaggio». Cosi la pensa pure Grasso: «Milioni di
emendamenti sono un’offesa alla dignità delle istituzioni, che ho difeso da ogni attacco da
qualunque parte provenisse». Il presidente corre ai ripari. Come prima mossa ha
convocato Calderoli e Loredana De Petris, capogruppo di Sel, che di emendamenti ne ha
presentati 62 mila. «Bisogna esercitare il proprio sacrosanto diritto di opposizione in modo
ragionevole» ha detto Grasso, rivendicando anche il suo diritto- dovere di fare funzionare il
Senato. E ricordando che lui ha il potere, inappellabile, di decidere sull’ammissibilità degli
emendamenti. Nel Pd intanto si studia come adattare il metodo Esposito, il maxi canguro
che fa decadere interi blocchi di emendamenti, all’ultima trovata leghista.
Del 24/09/2015, pag. 6
Lo sterminio della fu minoranza
Alla fine, con gli emendamenti Finocchiaro alla riforma costituzionale, scoppiò la pace,
accompagnata da vistose manifestazioni di giubilo. A dire il vero, non si capisce di cosa
gioisca la fu minoranza Pd. Per la elezione popolare diretta dei senatori, che aveva
assunto come bandiera, ha perso su tutta la linea.
Il testo conclusivamente concordato conferma anzitutto che i senatori sono eletti dagli
«organi delle istituzioni territoriali». Quindi non dai cittadini. Si rincara poi la dose aggiungendo «in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi …». E qui l’ambiguità raggiunge vertici ineguagliati.
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Si consideri il concetto di conformità. Qualunque sia il significato che si vuole riconoscere
alla parola, di sicuro non può intendersi come «esattamente coincidente con». Se così
fosse, infatti, il potere di eleggere i senatori che la norma attribuisce alla assemblea territoriale sarebbe una scatola vuota, una inutile superfetazione. L’unica lettura possibile è che
l’assemblea territoriale possa allontanarsi, in più o meno larga misura, dalla volontà degli
elettori. In ogni caso, quali sono le scelte degli elettori rispetto alle quali bisogna osservare
la conformità? Dice la norma: quelle espresse per i candidati consiglieri in occasione del
rinnovo degli organi di cui fanno parte. Quindi, l’elettore non vota Tizio, Caio o Sempronio
per il senato, decidendo l’esito. Vota per il consigliere. Chi poi acceda al seggio senatoriale dipenderà dalla lettura data alla «conformità». Inoltre, come ho già scritto su queste
pagine, basterà una rosa più ampia del numero di senatori da eleggere per azzerare ogni
necessaria corrispondenza tra la volontà popolare e i senatori conclusivamente eletti.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’elezione popolare diretta dei senatori? Ovviamente,
nulla. L’emendamento concordato se ne allontana persino di più di soluzioni via via ipotizzate, come le indicazioni o designazioni da parte degli elettori.
Infine, tutto viene affidato a una successiva legge. Qui c’è l’unico effettivo miglioramento,
perché non si tratta più di legge regionale, ma di legge statale. Diversamente, ogni regione
avrebbe fatto i senatori a propria immagine e somiglianza, magari dando un’aggiustatina
alle regole in prossimità del turno elettorale, per garantire il seggio a un amico o sodale.
E se comunque alla fine, nonostante le maglie così larghe, l’assemblea territoriale non si
attenesse alla «conformità», magari per motivi futili o abietti, familistici o di clan? Quali
rimedi? Un mondo nuovo di interessanti possibilità si apre per politici affamati di clientele
e avvocati. L’emendamento Pd non può in alcun modo essere gabellato come ripristino
dell’elettività dei senatori. Gli altri emendamenti concordati sono poca cosa, e avremo
modo di occuparcene. La riforma era pessima, e tale rimane. Interessa ora vedere se
Grasso sarà indotto a una apertura anche su altri emendamenti. Ma intento una domanda
rimane: perché la minoranza Pd ha dato disco verde? Forse per l’originalità della soluzione, visto che non ci risultano altre esperienze in cui si trovi una sovranità a mezzadria
tra il popolo e un’assemblea elettiva territoriale? Possibile che credano davvero di avere
difeso con efficacia i fondamenti della democrazia?
Per una lettura diffusa gli ex dissidenti hanno barattato la Costituzione con qualche mese
di poltrona senatoriale. Letture più sofisticate parlano di partite giocate nel Pd emiliano.
Probabilmente c’è del vero in entrambe. Ma intanto è certo che Renzi ha saputo giungere
allo sterminio politico della minoranza, di cui ha dimostrato l’irrilevanza. Forse,
l’irrigidimento apparentemente irragionevole e incomprensibile su riforme palesemente
sbagliate è stato strumentale anche a questo obiettivo. Della minoranza Pd avremmo
voluto condividere obiettivi e ambasce. Potevano nascerne esperienze politiche significative. Per come si arriva al traguardo, non è così. Anzi, troviamo si adatti bene agli ex dissidenti una storica battuta cara a molti di noi: andate senza meta, ma da un’altra parte.
Del 24/09/2015, pag. 17
Esodo Forza Italia, in otto da Verdini
Il nuovo gruppo appoggerà le riforme. L’ira di Berlusconi: “Sono dei
traditori, senza di me non sono niente” Ma l’ex coordinatore azzurro
avverte chi è rimasto nel partito del Cavaliere: “Sappiatelo, la nuova FI
sono io”
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CARMELO LOPAPA
Glieli sta portando via uno dopo l’altro. Con una domanda retorica che, raccontano, sta
funzionando da perfetta calamita, esca infallibile: «Ma che ci fai ancora lì? Forza Italia
ormai siamo noi». Denis Verdini lavora da Verdini, nell’ombra e con profitto. Da ieri sette
deputati già a lui vicini ma ancora iscritti al gruppo Fi, lasciano e danno vita ad “Ale” anche
a Montecitorio. E con loro un senatore, Giuseppe Ruvolo (il terzo in meno di una settimana
in uscita). Per Forza Italia è un’emorragia ormai senza fine.
Lascia il mini blocco meridionale composto dall’ex ministro siciliano Saverio Romano, dal
collega calabrese Pino Galati e Ruvolo appunto. I capigruppo forzisti Paolo Romani e
Renato Brunetta parlano ormai senza mezzi termini di «compravendita », «sporta della
spesa». Silvio Berlusconi resta blindato ad Arcore e annulla l’attesa riunione di gruppo di
oggi pomeriggio proprio coi senatori. Doveva servire a serrare le file, antipasto della
“discesa in campo” autunnale del Cavaliere, atteso anche sabato alla festa Atreju della
Meloni e domenica dalla scuola di formazione politica della Gelmini. Tutto saltato:
l’assemblea di gruppo rischiava di trasformarsi in uno sfogatoio, alle due manifestazioni si
farà vivo con la solita telefonata. Nel partito il clima è spettrale. Sospetti reciproci di fuga,
panico da abbandono del leader, la sensazione di essere già finiti sotto la cappa di Salvini.
Dopo il Senato, dove a luglio è nato il gruppo, la saracinesca di Verdini si apre anche alla
Camera. Sarà una componente del misto (ne occorrono 20 per il gruppo). Sono in sette a
lasciare Forza Italia e passare col nuovo movimento ( Alleanza liberalpopolareAutonomie) che per l’occasione sarà Ale-Maie, perché si aggiungono i quattro deputati
eletti all’estero dell’omonimo movimento. E dunque: i forzisti Ignazio Abrignani, Luca
D’Alessandro, Monica Faenzi, Giuseppe Galati, Giovanni Mottola, Massimo Parisi e
appunto Saverio Romano, che coordinerà i parlamentari di Camera e Senato. E poi i
quattro del Movimento associativo italiani all’estero: Franco Bruno, Renato Bueno, Mario
Borghese, Riccardo Merlo.
«Lasciateli pure andare questi traditori — minimizza da Arcore coi suoi Berlusconi — Dove
pensano di andare senza di me? Io non li fermo di certo, non ho fermato neanche chi
stava con me da vent’anni come Denis». Il fatto è che Verdini non si ferma, obiettivo venti
deputati e venti senatori, racconta chi tesse le trame. Nel mirino ora ci sono 9 senatori Fi
assai in bilico. Tutto sta terremotando. Gli ex An sono i più lesti nel guardare oltre. Andrea
Ronchi con la sua “Insieme per l’Italia” ha dato appuntamento oggi pomeriggio in un hotel
di Roma a Matteo Salvini, Raffaele Fitto, Maurizio Gasparri e altri sotto lo slogan
“Ricostruiamo il centrodestra”. Bocceranno la corsa di Alfio Marchini a Roma, tanto per
cominciare. Un po’ tutto è nel caos. Il capogruppo forzista al Senato Romani dice che «col
Pd ora si può aprire un confronto sulle riforme ». Il collega Brunetta stronca: «Opposizione
contro le sedicenti riforme di Renzi». Proprio il capogruppo alla Camera è stato
protagonista di un botta e risposta ancora più plateale, nel pieno della presentazione della
kermesse del fine settimana della Gelmini sul lago di Garda. «Inutile girarci attorno,
abbiamo un problema di leadership», dice il senatore Francesco Giro, riferendosi agli
effetti della Severino. Brunetta irrompe: «Sbagliato, la leadership c’è ed è abbondante.
Solo che non è eleggibile ». E Giro: «E ti pare poco?»
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Del 24/09/2015, pag. 6
“Ma quale mediazione. È solo un grande
bluff”
Gianluigi Pellegrino - Il giurista: “Nessuna elezione diretta, Renzi li ha
fregati ancora”
di Tommaso Rodano
Un emendamento che non emenda. Un bluff, anche piuttosto ingenuo”. L’avvocato
Gianluigi Pellegrino legge parola per parola la norma che ha sancito la pace tra Renzi e
Bersani, nella minuta faida interna al Partito democratico su cui si gioca la riforma della
Costituzione. Del famoso “listino” che dovrebbe garantire l’elettività dei nuovi senatori – il
successo politico di cui si vanta la minoranza Pd – non c’è traccia. “La verità – dice
Pellegrino – è che Renzi li ha fregati, se li è messi nel taschino. L’emendamento del
comma 5 si limita a ripetere quello che già c’era scritto al comma 2: sono ridondanti. Non è
cambiato proprio nulla”.
L’analisi della norma: testo confuso e inutile
I nuovi costituenti scrivono in modo bizantino, involuto, difficile da intendere. Pellegrino
prova a guidare nella lettura del testo. “Il comma 2 – che Renzi non vuole cambiare – è
quello decisivo: stabilisce come si determina l’elezione dei senatori”. Ecco il testo: “I
consigli regionali eleggono con metodo proporzionale i senatori tra i propri componenti”. E
allora questo famoso emendamento al comma 5, su cui si basa l’accordo Renzi-Bersani,
in che modo interviene? “In nessun modo. È speculare al comma 2”. Il testo emendato
stabilisce che il mandato dei senatori coincide con la durata dei consigli regionali che li
hanno eletti “in conformità (ecco la modifica, ndr) alle scelte espresse dagli elettori per i
candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità
stabilite dalla legge”. “In conformità all’esito del voto regionale”, spiega Pellegrino, significa
appunto “con metodo proporzionale”. Ovvero “quello che è scritto al comma 2”. Il nuovo
listino non c’è, e se c’è non si vede. “A voler esser benevoli con la minoranza, dovrebbe
essere introdottodopo, con una modifica alla legge elettorale. Ma quella elettorale è una
legge ordinaria, non può entrare in contraddizione con la norma costituzionale rimasta al
comma 2.
I sindaci dimenticati e gli altri “accrocchi”
L’accordicchio con la minoranza Pd, peraltro, si dimenticato di introdurre l’elettività per i 21
sindaci che saranno catapultati in Senato dopo la riforma. Il listino, se si materializzasse,
non li riguarderebbe in nessun modo. Si chiede Pellegrino: “Possibile che il principio di
elettività che rivendicano di avere introdotto con questo emendamento, si applichi solo ai
consiglieri e non ai primi cittadini?”. Mistero. Le modifiche alla riforma firmate da Anna
Finocchiaro (Pd) sono altre due. Quella dell’articolo 1 restituisce al Senato funzioni di
controllo, come la verifica “dell’impatto delle politiche dell’Ue sui territori” e la “valutazione
delle politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni”.
Violante ha riconosciuto: è un pastrocchio
Una piccola forma di riequilibrio. “Un intervento poco significativo – dice Pellegrino – visto
che il problema semmai è un altro. Persino Violante, che è un sostenitore della riforma, ha
riconosciuto che questo bicameralismo è un pastrocchio: ci sono oltre 10 iter legislativi a
seconda delle competenze di Camera e Senato. Si rischiano centinaia di ricorsi in Corte
costituzionale per il fatto che una legge ha seguito un percorso piuttosto che un altro”. E
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poi c’è l’emendamento che restituisce al Senato la funzione di eleggere due giudici della
Corte costituzionale. Una norma criticata da un’altra giurista emerita, Lorenza Carlassare:
“A questi 100 senatori pilotati a Palazzo Madama dalle segreterie di partito si permette di
mettere le mani sugli equilibri della Consulta. Un potere enorme. Sono riusciti addirittura a
peggiorare il testo: è uno scempio”.
Del 24/09/2015, pag. 1-2
E ora sciopero generale della sanità
Mobilitazione generale. Con questo decreto sulla "appropriatezza
prescrittiva" si passa dalla centralità del malato a quella dei vincoli
amministrativi
Il decreto messo a punto dal ministero della salute è uno schiaffo in piena faccia alla professione medica. E’ la riduzione della clinica a una sorta di medicina di Stato quindi di
medicina amministrata. E’ paradossalmente la negazione di una medicina davvero adeguata verso la complessità espressa dal malato. E’ la fine di qualsiasi retorica su umanizzazione e personalizzazione delle cure. Con questo decreto sulla “appropriatezza prescrittiva” si passa dalla centralità del malato, dalla alleanza terapeutica, dal valore della persona, alla centralità dei vincoli amministrativi ai quali tutti gli atti medici dovranno conformarsi pena la possibilità (fino ad ora solo dichiarata) di penalizzare i malati e i medici con
sanzioni pecuniarie. Così i medici diventano dei dispenser burocraticamente eteroguidati,
una sorta di distributori di benzina, che prescrivono non più in scienza e coscienza ma
secondo protocolli standardizzati. Così la clinica diventa l’esercizio di atti diagnostici
e terapeutici standard, i malati perdono la loro individualità diventando astrazioni statistiche. Come si è arrivati a tutto questo?
Con il decreto lo Stato intende recuperare almeno 10/13 mld dalla spesa sanitaria corrente
sperando di azzerare quel fenomeno definito “medicina difensiva” per il l quale almeno l’80
% dei medici (indagini fatte dalla categoria) adotta comportamenti opportunisti per prevenire rischi di contenziosi legali: prescrivono analisi, farmaci e ricoveri anche quando non
servono. Che i medici abbiano la coda di paglia lo si capisce dalle loro dichiarazioni: da
una parte stigmatizzano il decreto ma dall’altra si dichiarano disponibili a “trattare” correggendo singoli punti, soprattutto preoccupati di evitare le sanzioni economiche anziché
scendere in piazza per respingere questo inusitato attacco alla loro credibilità, al loro ruolo
e alla loro autonomia.
Il decreto è il più formidabile atto di delegittimazione della professione medica e in particolare dei medici di medicina generale, che dalle indagini della Fnomceo, risultano coloro
che più degli altri adottano comportamenti opportunisti, ma anche quelli che sul piano politico sindacale in questi anni si sono opposti più degli altri a qualsiasi ripensamento del loro
status. Questi medici preziosi e insostituibili ma anche nel loro complesso terribilmente
corporativi (a un tempo con le libertà dei liberi professionisti e con le garanzie dei pubblici
dipendenti), con il decreto sulle prestazioni inappropriate rischiano di diventare degli ossimori cioè dei liberi professionisti senza autonomia, quindi dei dipendenti di fatto ma che
operano nei loro studi personali. Nello stesso tempo è evidente che i camici bianchi
rischiano di essere maciullati dal mai risolto problema del contenzioso legale e della
responsabilità professionale. Sorprende a questo proposito che l’Istituto superiore di sanità
abbia dato il via libera ad un provvedimento tanto discutibile quanto rischioso anche
rispetto ai suoi profili di scientificità. Questa strana e inaspettata disponibilità da una parte
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spiega la divaricazione che c’è tra la medicina accademica e la medicina in trincea, cioè
tra scienza e realtà, ma dall’altra spiega la compiacenza di un organismo scientifico nei
confronti del ministero, che per gran parte è stato lottizzato con logiche tutt’altro che scientifiche e che oggi di fatto copre le scelte del ministero ma non i diritti dei malati e meno che
mai un’idea umanizzata di medicina. E il malato? E’ l’innocente che paga i vizi e gli errori
degli altri. Egli deve avere la fortuna di rientrare dentro le regole di Stato ma se per ragioni
genetiche personali situazionali o contingenti non vi rientra (il che è più comune di quello
che si creda) egli o non riceve le cure appropriate o per avere cure appropriate deve
pagare anche se la ragione per cui paga altro non è che il suo diritto.
Voglio ricordare a proposito di costi privati imposti ai malati, che nelle regioni, in particolare
in Toscana, sono in atto strategie per spingere i cittadini, soprattutto per le prestazioni specialistiche, verso il privato. La Toscana si è accordata con il privato per far costare le prestazioni specialistiche meno del costo del ticket proprio per incentivare i malati a lasciare il
pubblico. Tornando al decreto sulle prestazioni inappropriate, la possibilità per il malato di
rientrare nella regola prescrittiva dipende in genere dal grado di singolarità della sua
malattia. Siccome l’appropriatezza prescrittiva del ministero non è in funzione del malato
ma del risparmio, è facile prevedere che moltissimi malati saranno ingiustamente penalizzati, cioè la medicina di Stato per essere appropriata con la spesa sarà clinicamente inappropriata con il malato. Mi chiedo cosa altro deve essere fatto contro i malati e le professioni, contro l’art 32 della Costituzione, per convincerci a dare corso ad uno sciopero
generale del settore. Ormai la sanità pubblica è bombardata da tempo da una serie di atti
controriformatori: contro il lavoro, con riordini regionali che distruggono ogni territorialità,
con liste di attesa abnormi, servizi messi in ginocchio da anni di blocco del turn over, con
regioni manifestamente immorali e incapaci di governare e con in più continui tagli lineari
ai fabbisogni della nostra popolazione. Naturale sarebbe dare seguito a uno sciopero
generale della sanità per bloccare la controriforma e per ripensare il nostro sistema pubblico che ha bisogno di funzionare meglio, costare di meno e continuare a essere solidale
e universale.
Del 24/09/2015, pag. 2
Tagli e multe, medici in rivolta
Sanità. La ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga a 208 voci la
lista di esami clinici da ridurre e sottrae altri 2,3 miliardi al Servizio
sanitario nazionale. L’accusa è di eccesso di prescrizioni inappropriate.
In preparazione altre norme per ridurre la medicina difensiva. I
sindacati: manifestazione nazionale a novembre
Messo definitivamente in soffitta l’obiettivo prioritario di prevenire le malattie che era alla
base della riforma sanitaria del 1978, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga
ulteriormente fino a 208 voci, rispetto alle 108 dell’agosto scorso, l’elenco degli esami clinici — da inserire in un prossimo decreto legge — che saranno coperti dal Sistema sanitario nazionale solo a determinate condizioni, prevedendo sanzioni per i medici che non
rispettano i paletti imposti e perseverano invece in quell’«eccesso di prescrizioni» esploso
negli ultimi anni con la cosiddetta “medicina difensiva”.
Un problema, quello dell’appropriatezza delle prescrizioni di test diagnostici (ma di abuso
di farmaci non parla più nessuno) su cui tutti concordano, inclusi, con scarsa autocritica,
i camici bianchi, e che comporterebbe secondo i calcoli governativi uno spreco di risorse
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pubbliche pari a 13 miliardi ogni anno. I medici però non ci stanno ad accettare il «metodo
repressivo» che limita la loro azione «in scienza e coscienza» e «rischia di incrinare il rapporto di fiducia col paziente». Ma soprattutto, si ripercuote sulla salute pubblica, aumentando il divario tra le opportunità di accesso alle cure a seconda del censo e della regione
di appartenenza.
E allora la Federazione nazionale degli Ordini dei medici annuncia già per novembre una
manifestazione nazionale di tutta la categoria per «richiamare l’attenzione sulle criticità
emergenti del Ssn», mentre Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici chiama
alla «mobilitazione unitaria con i cittadini a difesa del Ssn e contro i tagli alla sanità camuffati come mancati aumenti o risparmi annunciati da Renzi e Padoan».
Cozza spiega al manifesto: «Con quest’ultima manovra di luglio inserita nel decreto sugli
enti locali, in applicazione del Patto sulla salute siglato da governo e regioni e da completare appunto con l’elenco degli esami clinici stilato dal ministero, si tagliano 2,3 miliardi alla
sanità pubblica. Ma sono 30 i miliardi sottratti negli ultimi cinque anni e non reinvestiti sul
Ssn». Inoltre, il provvedimento della ministra Lorenzin — che limita, per esempio, la possibilità di ripetere l’esame del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue a una volta ogni cinque
anni, a meno di particolari necessità curative — scarica sulle regioni la messa a punto del
modus operandi: chi controllerà, chi dirimerà eventuali controversie tra medico e controllore, quali sanzioni per il medico e chi le infliggerà. C’è da scommettere che ogni regione
si regolerà a modo suo. E così l’erogazione dei servizi, già a macchia di leopardo, diventerà talmente disomogenea da violare il diritto costituzionale sancito dall’articolo 32. In più,
aggiunge Luigi Conte, segretario Fnomceo, «molti dei 208 esami indicati nel provvedimento come a rischio inappropriatezza sono desueti e già non utilizzati».
Ribatte Lorenzin: «Non c’è una caccia al medico, tutt’altro. Gli diamo gli strumenti per
agire in modo più sereno. Le sanzioni amministrative sul salario accessorio scatteranno
dopo un eccesso reiterato di prescrizioni inappropriate e solo dopo un contraddittorio con il
medico che dovrà giustificare scientificamente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora
scatterà la sanzione». La ministra assicura inoltre che i «protocolli che stabiliscono come
e quando fare gli esami sono stati decisi dalle società scientifiche e rivisti dal Consiglio
superiore di sanità». E invece l’associazione dei medici dirigenti Anaao «conferma la propria totale contrarietà ad affrontare il tema dell’appropriatezza clinica per via politica
e amministrativa — afferma il segretario nazionale Costantino Troise — Senza contare
i veri e propri strafalcioni presenti nella parte tecnica del decreto, che la dicono lunga sulle
competenze e sull’attenzione riservate alla materia».
Non sono poche invece le organizzazioni che plaudono al provvedimento considerato
«utile alla lotta agli sprechi». Ma mentre i sindacati dei radiologi, per esempio, chiedono di
«risolvere rapidamente la questione della responsabilità professionale», per il Codacons
i medici «appaiono totalmente tutelati e possono ricorrere anche a forme particolari di assicurazione», «il problema semmai è garantire un livello di assistenza sanitaria adeguata
evitando distorsioni a danno degli utenti». L’elenco di Lorenzin comunque, secondo Massimo Cozza, «non rappresenta in alcun modo un limite alla medicina difensiva». E infatti il
governo sta già lavorando, come ha ribadito ieri, ad una serie di norme da inserire nella
legge di stabilità per aiutare i medici a tutelarsi dalle cause temerarie che sarebbero,
secondo i sindacati, il 97% di quelle intentate da pazienti.
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Del 24/09/2015, pag. 3
Anche la Toscana ha cambiato verso
Sanità. Verso un referendum abrogativo della recentissima legge di
riordino del sistema sanitario regionale. In prima fila Tommaso Fattori e
Paolo Sarti di Toscana a Sinistra: "I risparmi si avranno solo con nuovi
tagli al personale a scapito dei servizi, aprendo le porte a un privato in
grado di garantire tempi di attesa inferiori, e già agevolato dai ticket più
alti d'Italia".
Chi ha soldi da spendere verso il privato (con quello “sociale” in gran spolvero), chi non ne
ha si accontenti di quello che passa il convento del pubblico. Anche la sanità toscana, per
anni fiore all’occhiello dei sostenitori del servizio pubblico universalistico contrapposto al
modello sussidiaristico lombardo-veneto — con parità di efficienza – ha cambiato verso.
Così la pensano tutti i gruppi di opposizione nel nuovo Consiglio regionale, pronti a sottoscrivere all’inizio dell’estate i quesiti presentati dal Comitato per la sanità pubblica, per un
referendum abrogativo della legge di riordino del sistema sanitario toscano.
Tutti insieme, da Toscana a Sinistra ai 5 Stelle, da Lega-Fdi a Fi, contro la recente legge
regionale 28/2015. Meno dozzinale del progetto governativo dei tagli alle prestazioni diagnostiche. Ma che al tempo stesso si sta dispiegando, progressivamente, come un provvedimento che sta portando alla riduzione dei presìdi territoriali. Alla riduzione (l’ennesima)
degli addetti, con conseguenti difficoltà ad assicurare per tempo i servizi meno “emergenziali” ma di quotidiana utilizzazione. Al conseguente passaggio di questi stessi servizi, i più
gettonati dai cittadini, a un privato sociale o tout court che si è subito attrezzato alla bisogna. Un privato sociale che visti gli aumenti dei ticket, giustificati dal Pd di Enrico Rossi
come inderogabili a causa dei minori finanziamenti statali, diventa addirittura più economico, oltre che veloce, rispetto al corrispettivo pubblico.
Se la firma delle destre ai quesiti referendari è interpretabile come il tentativo, legittimo, di
non restare con il cerino in mano di fronte a un tema molto sentito da una società toscana
sempre più over 65, la sinistra ha colto per tempo la portata negativa della riforma. Tommaso Fattori ha voluto presentare la sua candidatura in Consiglio regionale nel piccolo
giardino antistante al presidio sanitario fiorentino di Santa Rosa, in via di smantellamento.
E non appare un caso che a fargli compagnia fra i banchi dell’assemblea toscana sia stato
votato il pediatra fiorentino di base Paolo Sarti. Un addetto ai lavori, più che critico dello
stato dell’arte prefigurato dalla riforma. Ospite del programma televisivo Agorà, ai primi di
agosto Enrico Rossi ha ricordato che nel 2014 il sistema toscano ha avuto 45 milioni di
avanzo di bilancio, e ha poi osservato: “E’ giusto il principio del risparmio e della spending
review, ma attenzione, la spesa sanitaria italiana è al di sotto della media europea (per 18
miliardi di euro, ndr), e ci stanno ulteriormente chiedendo sacrifici”. Il paradosso del ragionamento è che a chiederli è il governo sostenuto da Rossi, guidato dal partito di Rossi.
Quanto ai “numeri del risparmio”, all’epoca sono stati così quantificati dall’assessore regionale uscente Luigi Marroni: “Per la sanità la manovra vale 210 milioni, che diventano circa
250 tenuto conto che dovrà coprire ulteriori costi crescenti per alcuni servizi. Non solo:
occorre tener conto della naturale lievitazione dei costi generali, stimata in 100 milioni,
quindi dobbiamo confrontarci con una contrazione reale da circa 350 milioni”. Tanti. Al
tempo stesso Marroni ha ammesso che alla riforma sanitaria, ultimo atto della scorsa legislatura toscana, “si pensava da tempo”. E ad applicarla, ennesimo indizio che porta
a prova certa, il Pd ha voluto al posto di Marroni la fedelissima renziana Stefania Saccardi,
da sempre sostenitrice del “privato sociale”, e in rapporto biunivoco con le sue centrali.
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Nel firmare i quesiti referendari, Tommaso Fattori e Paolo Sarti hanno risposto colpo su
colpo: “I risparmi previsti si avranno solo con nuovi tagli al personale a scapito dei servizi,
aprendo le porte a un privato in grado di garantire tempi di attesa inferiori, e già agevolato
dalla previsione dei ticket più alti d’Italia. Già ai tempi del referendum sull’acqua abbiamo
assistito alla netta divaricazione tra maggioranza sociale e maggioranza politica in questa
regione e in questo paese. Oggi anche sulla sanità pubblica la parola deve tornare ai cittadini, che capiranno la gravità della posta in gioco”. I toscani, che oggi pagano già di tasca
propria più del 30% delle prestazioni sanitarie. Con una compartecipazione alla spesa che
in questa regione è la più alta dell’intera penisola.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 24/09/2015, pag. 11
Siani, memoria un tanto al chilo
di Enrico Fierro
Trent’anni fa veniva ucciso a Napoli Giancarlo Siani, 26 anni, giornalista de Il Mattino.
Trent’anni dopo la città lo ricorda con manifestazioni, dibattiti, pubblicazione dei suoi scritti.
E va tutto bene, perché la memoria è un’arma potentissima. Giancarlo era un giornalista, a
questa professione aveva dedicato tutto: studi, passione, tempo di vita e suole delle
scarpe. Come si faceva una volta, quando le notizie andavano cercate facendo la muffa
dietro la porta di chi poteva darti un’indicazione, confermarti una intuizione.
Non c’era Internet, dalle procure filtravano pochi verbali e scarsissime erano le
intercettazioni telefoniche. E allora dovevi essere lì, nei luoghi dove tutto accadeva, anche
se quei posti si chiamavano Torre Annunziata e avevano un Re al di sopra di tutto. Leggi,
Stato e giornali: Valentino Gionta, boss indiscusso della camorra. I Gionta non volevano
“rotture”, loro i giornali li leggevano (‘O Mattino e ‘O Roma,) e non si infastidivano quando
vedevano stampati i nomi dei loro “cumparielli” arrestati o morti uccisi. Vomitavano bile
quando qualcuno, e quel qualcuno si chiamava Giancarlo Siani, andava al di là dell’elenco
dei vivi e dei morti. E indagava, ficcava il naso, intrecciava situazioni per offrire quadri di
analisi e di lettura più ampi. Insomma, faceva il suo mestiere.
In un contesto che era quello degli Anni 80 in Campania. C’erano i soldi del dopoterremoto (64 mila miliardi) e la camorra. Forte era anche la politica. Gava, Pomicino, De
Mita, De Lorenzo, Di Donato… I padroni erano loro. Anche de Il Mattino, all’epoca nelle
mani del Banco di Napoli. Qui Giancarlo (lo ricorda in un ottimo articolo sul Corsera
Goffredo Buccini) lavorava da abusivo (cinque anni a Torre Annunziata senza contratto,
un art. 12 per cambio ferie nella sede centrale). Certo, se eri bravo in quegli anni al
Mattino dopo una lunga gavetta entravi, ma se eri raccomandato da uno dei potenti Dc o
socialisti, era meglio. Bene quindi il ricordo, bello vedere i ragazzi di Torre sfilare in corteo
dietro gli striscioni col volto sorridente di quel ragazzo giornalista, ma la retorica un tanto al
chilo no. La memoria o è completa, totale, oppure è un inganno. Ricordare il passato per
analizzare il presente. Nessuno lo fa in questi giorni difficili per Napoli. La città è
attraversata da nuove guerre di camorra. E in troppi non hanno capito cosa accade. Le
cronache, i dibattiti, le polemiche non offrono nulla di nuovo. Le stesse parole degli Anni
90, quando sullo scenario criminale si affacciarono altri baby boss, paranze di minorenni.
All’epoca si chiamavano Teste Matte e tutti si lanciarono nelle solite analisi. La camorra
cambia pelle, la droga ha imposto nuovi e più spietati boss.
Fate un confronto tra le parole usate all’epoca e quelle di oggi, le troverete identiche. Sul
corpo malato di Napoli sono all’opera illustri cerusici. Rosy Bindi offre un dubbio amletico
sulla “camorra elemento costitutivo” della società napoletana. Giorni di polemiche. Il partito
di Rosi da una parte e quello anti dall’altra, sullo sfondo le prossime elezioni comunali a
Napoli. E poi Gomorra. Sulla serie di Sky si è aperta una guerra. I sindaci, quegli stessi
che non hanno visto anni di monnezza e affari, scendono in campo a difesa dell’onore
delle loro città e per questo vietano le riprese. Il Questore di Napoli, Guido Marino, che
bolla “certi programmi televisivi per niente rappresentativi della realtà che vogliono
rappresentare”. Insomma, Lo Stato c’è, anche se non riesce a prendere uno dei boss della
camorra in guerra che è da giorni rintanato (così dicono) nelle fogne della città. Parole
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vuote, crociate di carta, quelle che Giancarlo Siani amava poco. Basta leggere gli articoli
che scriveva. Netti, senza sbavature, mai un aggettivo di troppo. Erano notizie. E per
quelle si moriva.
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 24/09/2015, pag. 18
Più aiuti ai rifugiati hotspot in Italia e Grecia
da novembre
Renzi: “Stiamo andando nella direzione giusta” Sulle quote tre dei paesi
ribelli dell’Est si allineano
ANDREA BONANNI
Masticano amaro, ma si adeguano. Dopo la decisione a maggioranza dei ministri
dell’Interno, che martedì hanno imposto la redistribuzione di 120mila rifugiati, i Paesi
dell’Est che avevano votato contro la proposta della Commissione ieri hanno evitato nuove
polemiche. E così i capi di governo europei, riuniti a Bruxelles per un vertice straordinario
sull’immigrazione, hanno potuto concentrarsi sui mezzi per cercare di frenare la marea di
profughi alle porte dell’Ue. Tra le decisioni anche quella di aprire i centri di identificazione
in Italia e in Grecia e avviare la ridistribuzione e i rimpatri dei migranti entro novembre.
L’unico che, almeno in pubblico, continua a ribellarsi al “diktat” sulle quote è il premier
della Slovacchia, Robert Fico. Ma anche lui ha moderato i toni. Mentre prima assicurava
che non avrebbe mai ottemperato alla decisione di Bruxelles, ieri si è limitato a minacciare
un ricorso alla Corte di Giustizia, evitando dunque di prospettare una vera ribellione alle
regole comuni. Del resto la pressione sul premier slovacco è massiccia. Ieri Gianni Pittella,
capogruppo socialista al Parlamento di Strasburgo, ha annunciato che chiederà la
sospensione del partito di Fico dal Pse. E Hollande ha rincarato la dose: «Chi non
condivide i valori dell’Europa deve interrogarsi sulla sua presenza nell’Unione».
Gli altri governi, a cominciare da quello ungherese di Viktor Orbán, capofila della guerra
contro le quote, hanno annunciato che si adegueranno alla decisione presa contro la loro
volontà. «L’Europa è nata per abbattere i muri, non per costituirli, caro Viktor», gli ha
rinfacciato Renzi durante il summit. Orbán ha brontolato anche contro «l’imperialismo
morale» della Merkel, ma ospiterà il contingente di rifugiati assegnatogli. Lo stesso i cechi,
spiegando di non voler «aumentare la tensione». I romeni, pure loro contrari, si spingono a
dire che la gestione della quota loro assegnata «non sarà un problema».
Sgomberato il campo dalla questione più spinosa, i capi di governo ieri hanno potuto
discutere di come affrontare l’emergenza rifugiati alle radici. La prima mossa è quella di
cercare di rendere più sopportabile la situazione nei campi profughi che ospitano i siriani in
Turchia, Giordania e Libano. Ieri è stato deciso di aumentare di un miliardo di euro il
contributo europeo alle agenzie Onu che assistono i rifugiati nella regione. Anche i
finanziamenti diretti ai governi di Ankara, Beirut e Amman verranno aumentati. Per la
Turchia, il cui presidente Erdogan sarà a Bruxelles il 5 ottobre, si parla di un miliardo di
finanziamenti. La somma messa a disposizione dalla Commissione per l’emergenza
rifugiati è stata aumentata da 4,6 a 9,5 miliardi. Parte di questa cifra andrà anche a
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potenziare sia il programma per la creazione degli hotspot, sia gli interventi di Frontex per
il rimpatrio degli immigranti irregolari che non hanno diritto all’asilo politico. È questo un
punto su cui l’Italia insisteva molto, e che è stato inserito nelle conclusioni finali. «A me
sembra che oggi si sia fatto un passo significativo, è una notte importante per l’Italia — ha
commentato Renzi — si va verso un superamento degli accordi di Dublino». In plenaria
Renzi ha ricordato che «quando c’era la questione dell’idraulico polacco, l’Europa non si è
fermata, si è fatta carico di unire, non di chiudersi».
Del 24/09/2015, pag. 4
Più gendarmi (europei) alle frontiere
Bruxelles. La creazione di una guardia di confine europea e aiuti alla
Turchia per fermare i profughi. L’Ue ritrova l’unità blindandosi
Divisa come non mai sull’accoglienza ai profughi, l’Europa ritrova l’unità nel chiedere maggiori controlli alle sue frontiere e aiuti per Turchia, Libano e Giordania. Aiuti il cui scopo
principale è quello di tenere i profughi siriani nei campi allestiti nei pressi della frontiera
con la Siria. «Così sono più vicini al loro Paese, piuttosto che venire fino a qui in Europa»,
ha spiegato il presidente francese Francois Hollande.
Il giorno dopo la spaccatura registrata al vertice di ministri degli Interni tocca ai capi di
Stato e di governo, riuniti anche loro a Bruxelles, provare a rimettere insieme i pezzi
dell’Unione europea. Impresa in parte facilitata dalla decisione di Ungheria, Romania
e Repubblica Ceca di accettare le quote stabilite dalla commissione europea e di non
seguire la Slovacchia sulla strada del ricorso alla Corte di giustizia europea. Il che non
significa che i Paesi dell’est — i più duri nel contrastare la distribuzione dei profughi —
abbiano gettato la spugna. Siamo piuttosto di fronte a un cambio di strategia che questa
vota potrebbe far breccia tra i 28. «Abbiamo Schengen, che è un accordo firmato da tutti
che dice chiaramente come fare a difendere le frontiere. Se non seguiamo le regole, tutta
l’Ue piomba nel caos», ha spiegato al vertice il premier ungherese Viktor Orban proponendo anche che sia l’Europa a effettuare controlli in Grecia greca per impedire l’arrivo di
nuovi profughi.
Non è la prima volta che Orban batte si questo tasto. Contrariamente al passato, però, stavolta potrebbe essere ascoltato. Quello del controllo delle frontiere è un tema che da sempre Bruxelles ha sul tavolo e realizza stanziando periodicamente nuovi fondi per Frontex.
Stavolta però sembra decisa ad andare oltre. Al vertice di ieri si è infatti discussa la possibilità di creare una forza da dislocare lungo i confini sia terrestri che marittimi dell’Unione.
A parlarne per primo è stato il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos (ma
anche Hollande si è detto d’accordo) annunciando la creazione entro la fine dell’anno di un
sistema «operativo ed efficace» di guardia di frontiera e costiera europea. «Rafforzare il
controllo delle frontiere esterne è fondamentale per far funzionare Schengen», ha spiegato. Non si tratta dell’unica novità. Il commissario ha infatti detto di voler presentare entro
marzo del prossimo anno anche tre proposte legislative che prevedono l’introduzione di
una Blue Card per l’immigrazione legale, la riforma del trattato di Dublino e un meccanismo di ricollocazione permanete dei migranti.
C’è poi altro capitolo che Bruxelles considera fondamentale. Ed è quello relativo agli aiuti
ai Paesi in cui si trova il maggior numero di profughi siriani. E in cima alla lista c’è la Turchia, paese in cui si trovano due milioni di profughi siriani. «Se non si risolve con la Turchia l’Ue è persa», ammonivano fonti diplomatiche prima dell’inizio del vertice, per niente
convinte che nuovi fondi possano bastare a risolvere la crisi. Bruxelles ritiene che servano
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subito due miliardi di euro, uno da versare alle agenzie dell’Onu che si occupano dei rifugiati (Unhcr, Pam e le altre) e uno direttamente ad Ankara perché si attivi per fermare le
partenze verso l’Europa. «Con 8 milioni di sfollati i Siria, oggi parliamo di milioni di potenziali rifugiati che cercano di raggiungere l’Europa. Abbiamo raggiunto un punto critico», ha
ricordato il presidente del consiglio europeo Donald Tusk.
A tutti i leader è comunque chiaro che l’unico modo per mettere davvero fine
all’emergenza profughi è mettere fine al conflitto siriano. «Qualsiasi strada possibile per
trovare una soluzione in Siria deve essere percorsa», ha detto Hollande riferendosi a un
possibile coinvolgimento della Russia. La guerra in Siria è stata anche uno dei temi affrontati in una telefonata tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente degli Stati
Uniti Barak Obama. Entrambi i leader hanno concordato sulla necessità di una transizione
politica in Siria.
Del 24/09/2015, pag. 19
Primo via libera allo “Ius soli”
Accordo in commissione Affari costituzionali della Camera sulla riforma
della cittadinanza
VLADIMIRO POLCHI
Primo via libera alla riforma della cittadinanza. Si sblocca l’impasse in commissione Affari
costituzionali della Camera sul cosiddetto “ius soli soft”, grazie a un accordo tra la
maggioranza. Impantanata da tempo in Parlamento e bersagliata da centinaia di
emendamenti, la nuova cittadinanza fa dunque un passo avanti. Chi nasce in Italia sarà
italiano? Dipende. Due emendamenti, presentati da Scelta civica e Ncd, pongono infatti
nuovi vincoli: obbligo della frequenza di un ciclo scolastico e genitori con permesso di
soggiorno di lunga durata.
La platea potenziale dei beneficiari della riforma è enorme: i minorenni stranieri oggi in
Italia sono oltre 1 milione e ben 925.569 hanno una cittadinanza non comunitaria. Ma le
nuove norme pongono limiti che rischiano di restringere il numero di bambini che potranno
“vincere” un passaporto italiano. Il testo unificato mette infatti assieme i principi dello “ius
soli temperato” e dello “ius culturae”. Cosa ne esce?
I bambini nati in Italia da genitori immigrati e tutti gli altri minorenni stranieri avranno
finalmente un percorso agevolato, non senza alcuni paletti. L’accordo raggiunto dalla
maggioranza modifica il testo base della relatrice Marilena Fabbri (Pd) e spinge il ddl verso
la discussione in Aula già la prossima settimana. L’intesa si basa su due emendamenti,
che introducono nuovi obblighi: la frequenza di un ciclo scolastico di almeno 5 anni da
parte del bambino straniero nato in Italia (nel caso in cui la frequenza riguardi le scuole
elementari, si dovrà aver superato l’esame finale) o il possesso da parte di uno dei genitori
del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. I minori nati in Italia senza questi requisiti,
e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni, potranno comunque ottenere la cittadinanza se
avranno «frequentato regolarmente, per almeno cinque anni istituti scolastici appartenenti
al sistema nazionale». Infine i ragazzi arrivati tra i 12 e i 18 anni potranno avere la
cittadinanza dopo aver risieduto nel Paese per almeno sei anni e aver frequentato «un
ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo».
Soddisfatta la maggioranza. Per il parlamentare Pd, Khalid Chaouki, si tratta di «una
riforma importante per il futuro dell’Italia, che andava condivisa con il numero più ampio di
forze politiche». Critiche, invece, da parte di Sel: «Un compromesso al ribasso — sostiene
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la deputata Celeste Costantino — che renderà più complicato richiedere la cittadinanza ».
Promette battaglia il Carroccio: «Faremo battaglia in Aula — annuncia il leghista Cristian
Invernizzi — per non far approvare il testo».
Del 24/09/2015, pag. 55
Immigrazione. Nessuna discrezionalità sul trattenimento nei centri di
accoglienza
Nei Cie solo in vista dell’espulsione
Roma
Stretta della Cassazione sulle proroghe ai tempi di trattenimento nei centri di accoglienza
in vista dell’espulsione.
La Suprema corte, con la sentenza 18748, chiarisce che il trattenimento non può diventare
una sorta di “misura cautelare” ma è finalizzato solo al rimpatrio: se questa non è possibile
lo straniero va lasciato libero. I tempi possono essere dilatati solo in caso di
un’eccezionale situazione transitoria, risolta la quale è possibile l’espulsione.
Partendo da questo principio accoglie il ricorso di uno straniero, la cui permanenza nel
centro era stata prolungata per ben due volte: prima di 30 giorni poi di 60. Alla base del
provvedimento, adottato dal giudice di pace, c’era la difficoltà di identificare l’immigrato
che aveva dichiarato di essere di nazionalità libica e di etnia Tuareg: affermazione
contraddetta dal console libico a Roma. Per il ministero dell’Interno e la questura restava il
dubbio sull’identità dell’uomo.
Per la Cassazione non si tratta di una buona ragione. Dagli accertamenti e dai contatti con
l’ambasciata erano, infatti, emersi l’opposizione delle autorità libiche al rimpatrio e i rischi
che il ricorrente, sostenitore del colonnello Gheddafi, avrebbe corso in caso di rientro in
Libia. Circostanze che impedivano il rimpatrio e che non potevano certo essere
considerate facilmente rimovibili. Secondo la Cassazione non esisteva «una situazione
transitoria di ostacolo al rientro in Libia ma una situazione permanente di impraticabilità
dell’evento cui il trattenimento deve essere necessariamente finalizzato e cioè il rientro nel
paese di provenienza». Troppo generico il riferimento del giudice di pace agli
«accertamenti suppletivi» presso altre ambasciate.
Una “vaghezza”, in contrasto con i rigidi limiti temporali imposti nel caso di un
provvedimento che priva della libertà personale. Inoltre in alcun modo le autorità sono
state in grado di spiegare come le ulteriori indagini richieste potessero essere utili per
allontanare il ricorrente dal territorio nazionale. In assenza di rigorosi presupposti le due
proroghe al trattenimento, slegate dall’espulsione, finiscono per svolgere una funzione
genericamente cautelativa e inconciliabile con il limiti costituzionali in tema di restrizione
della libertà e con il requisito della proporzionalità chiaramente previsto dalla direttiva
europea del 2008 sui rimpatri.
Del 24/09/2015, pag. 5
Indisponibili a essere vittime
Lo scorso 17 settembre nel pomeriggio una trentina di donne nigeriane è stata rimpatriata
con un volo speciale della Meridiana da Roma-Fiumicino verso Lagos. Circa venti di loro
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facevano parte di un gruppo di 66 donne, sbarcate in Sicilia a fine luglio e trasferite al Cie
di Roma — Ponte Galeria sulla base di un criterio per cui, quando i centri Cara per richiedenti asilo sono troppo pieni, i migranti intercettati in mare o durante gli sbarchi vengono
portati nei Cie. La potenza della legge si misura soprattutto nella sua capacità di fare cose
con le parole: basta ritardare il momento in cui viene data la possibilità di inoltrare la
domanda d’asilo, e i profughi diventano per legge “clandestini” che hanno eluso i controlli
di frontiera e passibili, come in questo caso, di essere trattenuti in un centro di identificazione e di espulsione. La scelta, tra chi trasferire nei Cara e chi nei Cie, segue regole
tacite (tanto più indicibili quanto più osservate), che rispecchiano i paesi di provenienza.
Se si proviene dalla Nigeria è molto probabile che il Cara sia pieno e il posto si trovi solo al
Cie. Durante l’estate, il caso delle 66 donne ha avuto qualche eco sulla stampa, sia per
l’interessamento di alcune campagne di attiviste e attivisti, sia perché i giornali potevano
parlare delle donne, tutte giovanissime, come di potenziali “vittime di tratta”. Anche in questo caso, le qualificazioni del diritto dovrebbero far riflettere. Vittime sì, ma non di qualsivoglia carnefice. Solo poche tra loro hanno ottenuto in prima battuta uno status di protezione.
Ancora una volta, la scelta ha seguito regole non dette, chi portava sul corpo le cicatrici
delle violenze è stato preferito. Corpi del sacrificio, riconosciuti solo come tali. E quindi
corpi sacrificabili, come i corpi delle donne che sono state rimpatriate.
Ognuna di queste donne è sicuramente vittima, non di uno ma di molteplici carnefici. Il
patriarcato, le guerre, l’industria del sesso, gli scafisti, e non da ultimo l’apparato repressivo del regime dei confini europei. Ma la maggior parte di loro ha scelto di rappresentare
la propria istanza come un’istanza politica, chiedendo asilo. È vero, la tradizione del diritto
d’asilo si è sempre mossa su di un terreno ambiguo. L’identità politica che esso rivendica
è, in primo luogo, quella della comunità ospitante. La prerogativa di accogliere chi si riconosce come esule politico è sopra ogni altra cosa una rivendicazione di sovranità nei confronti degli altri Stati. Basti pensare che, nel processo di secolarizzazione dell’asilo, alla
costruzione giuridica del diritto d’asilo si è sovrapposta quella del divieto di estradizione.
Eppure, proprio in virtù di questa rivendicazione di identità politica, le radici profonde
dell’asilo non sono da ricercarsi nel rifugio concesso alle vittime, bensì nell’immunità riconosciuta al reo in quanto colpevole.
Anche i corpi delle donne rimpatriate, così come quelli delle altre ancora trattenute, portano i segni di una colpa. Quella di aver scelto di salvarsi da sole, fuggendo dai molteplici
carnefici incontrati sulla propria strada. Non può essere detto, ma si tratta di una colpa
inaccettabile. Potremmo attribuirle nomi diversi Hubrys, tracotanza, sfacciataggine o più
semplicemente indolenza, indifferenza verso un ordine. Probabilmente, nessuna offesa
è più insopportabile di questa. Se il diritto la riconosca come una colpa degna di protezione, non è dato saperlo. Mentre le donne venivano rimpatriate il Tribunale disponeva per
alcune di loro l’ordine di sospensione dell’esecutività del rimpatrio, in attesa della decisione definitiva sulla protezione internazionale. Ma, in alcuni casi, la decisione è arrivata
troppo tardi; tecnicamente, una volta che l’aereo è in fase di decollo, l’ordine di sospensione è improcedibile. Non si tratta dello stato di eccezione (una volta tanto sarebbe forse
il caso di chiarirlo), ma del funzionamento normale della giustizia. Non di quella corrotta
e inefficiente, ma di quella ordinaria, legittima e legittimata attraverso un meccanismo decisionale. A ogni violazione corrisponde un rimedio, un’altra possibilità di decisione.
Anche in questo caso, anche per le donne rimpatriate, esiste una possibilità di rimedio (per
esempio di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che si rivelerà tanto più efficace
quanto più rapida sarà la proposizione dell’istanza per una nuova decisione (innanzitutto
sulla procedibilità del ricorso). Può sembrare uno scioglilingua per giuristi ma, tradotta nel
linguaggio profano della vita, la questione di merito non significa altro che, ogni giorno che
passa, il “pericolo imminente” corso dalle donne a causa del rimpatrio perderà di credibilità
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come motivo fondante del ricorso. In altre parole, la loro capacità di resistenza, di nascondersi e sfuggire all’incarcerazione, alla violenza alla morte, non è per il diritto che la prova
di una colpa indegna. E allora, di fronte all’inutilità del rimedio, non resta che augurare
a ognuna di loro di resistere il più a lungo possibile. Di fuggire ancora, e di tornare.
La vicenda delle donne rimpatriate in questi giorni da Ponte Galeria è passata quasi del
tutto sotto silenzio. Chi l’ha raccontata, ne ha riferito, certo con dovizia di particolari,
aspetti diversi. La decisione di raccontarla svestendo i panni dei giuristi o degli studiosi
è una scelta di militanza, che è ormai una necessità che non può essere più rinviata.
A Ponte Galeria così come a ogni confine d’Europa.
Del 24/09/2015, pag. 1-15
Cosa c’è di diverso nei migranti di oggi
Oltre le immagini. Manca un ruolo europeo nelle relazioni internazionali
e proprio per questo la sinistra dovrebbe rilanciare l’idea di un’altra
Europa nello scacchiere del Medio Oriente e del Mediterraneo
La foto del bambino siriano scaricato dalle onde come un rifiuto sul bagnasciuga ha toccato cuori e menti e segnato una svolta nelle coscienze di popoli e politici.
Ma i sentimenti sono mutevoli e subito hanno ritrovato voce razzismi ed egoismi. In balìa
delle ondate di sentimenti, delle mutevoli tendenze di opinione, l’Europa cambia le decisioni da una riunione all’altra e guarda al fenomeno migratorio dal suo punto di vista, per
i problemi che esso crea, e non per capire perché nasce, quali problemi lo generano.
Abbiamo visto famiglie con donne e bambini marciare in gruppo, avanzare sui binari in una
vera e propria marcia dei diritti, protestare con rabbia ed orgoglio contro polizie e confini
artificiali, cercare strade nuove e impervie per eludere i muri di filo spinato.
Come non paragonare queste immagini al famoso Quarto Stato di Pellizza da Volpedo?
Quell’immagine non rappresenta solo uno sciopero, una protesta, ma la presa di
coscienza dei propri diritti, l’essere collettività consapevole della forza che dà lo stare
insieme. Va ben oltre le immagini dei bambini sporchi di carbone ed emaciati della prima
fase dell’industria pesante, non vuole suscitare pietas e carità, mostra un cammino a testa
alta per affermare diritti e dignità. Forse non è un caso che sia nato come evoluzione di
due altre opere — Ambasciatori della fame e Fiumana— con un crescendo di protagonismo e di forza della figura femminile.
Quell’evoluzione costituisce una perfetta metafora del fenomeno migratorio e dei suoi
caratteri nuovi: rivendicazione collettiva dell’accoglienza come diritto, orgogliosa determinazione nel perseguire l’obiettivo. Che cosa ha prodotto questa nuova consapevolezza dei
migranti che gli fa sentire come un diritto venire in Europa? Cercare di capirlo è importante
per coglierne meglio portata e durata, per cercare le risposte adeguate.
La prima causa riguarda naturalmente le guerre, le destabilizzazioni dei paesi per ragioni
militari e geopolitiche, le politiche economiche e ambientali. La fuga dalla Siria è emblematica. Il popolo siriano ha resistito e sopportato di tutto in questi anni. Adesso l’Isis controlla
una parte del paese, con territori densamente popolati e intensamente bombardati. Si
è persa ogni speranza, non si intravede più una via di uscita in tempi umanamente accettabili. Non resta, quindi, che fuggire in cerca di un futuro per sé e per i figli.
Ma se così è possiamo limitarci, anche se già sarebbe tanto, a cercare soluzioni dignitose
di accoglienza? Non dobbiamo porci nello stesso tempo il problema della pacificazione
e della transizione politica in quel paese? La proposta Putin che prevede un governo tran33
sitorio che proceda ad elezioni controllate è proprio fuori dal mondo? Ed in alternativa
cosa propone l’Onu? E l’Europa, quantomeno adesso che sta diventando il terreno sul
quale si scaricano tutte le conseguenze, vuole dotarsi di una sua politica verso quell’area,
una politica magari un po’ indipendente, se serve, da quella statunitense? Insomma questo flusso di profughi non si fermerà se non si trova la forza di pacificare quel paese.
L’esempio della Siria, con le differenze che conosciamo, si può estendere ad altri flussi
migratori (Iraq, Afghanistan, Africa e nord Africa..). E, nel caso specifico dell’Africa, fughe
da guerre, dittature, persecuzioni religiose si intrecciano fortemente con esodi da cambiamenti climatici, da impoverimento di aree agricole e del mare.
C’è poi un altro fattore che tutte le migrazioni storiche hanno conosciuto. Quando parenti
ed amici si sono stabiliti in altri paesi trovandoci un futuro ed un lavoro si è registrato un
naturale effetto di trascinamento. Come negare a chi è rimasto nel paese di origine il desiderio legittimo di raggiungerli? Abbiamo dimenticato i nostri concittadini del Sud emigrati
nelle Americhe ed in Australia con le lunghe catene dei ricongiungimenti? Questo fenomeno è ineluttabile ed in Italia si è fermato solo quando le nostre condizioni di vita si sono
avvicinate a quelle dei paesi di emigrazione ed è cominciato un flusso di ritorno.
C’è, infine, anche un fenomeno nuovo determinato dalla rete: cellulari, tablet, internet conferiscono alle migrazioni del secondo millennio un carattere assolutamente inedito.
Avendo portato nei paesi più poveri gli strumenti e le tecnologie più avanzati della comunicazione, abbiamo facilitato il confronto tra livelli di vita e di consumo. Questo confronto non
solo rende intollerabili disuguaglianze prima accettate, ma crea nell’immaginario una
appartenenza comune al pianeta, unifica il mondo e genera un nuovo diritto di cittadinanza
universale che prescinde dai confini fisici territoriali. E non è possibile sentirsi tutti cittadini
del mondo virtuale e poi accettare di esserne esclusi in quello materiale.
C’è stata una fase, all’inizio della rivoluzione informatica, in cui filosofi e sociologi, scuola
francese in testa, hanno teorizzato che con la rivoluzione digitale i paesi più primitivi
avrebbero saltato il percorso storico tradizionale di tutte le civiltà — dall’agricoltura
all’industria al terziario — e sarebbero approdati direttamente nell’economia immateriale
ed informale del terziario avanzato. Questo non è accaduto perché quelle teorie hanno trascurato gli interessi economici e la loro potenza. Così si sono portati in quei paesi i nuovi
strumenti in una sorta di colonizzazione digitale solo per vendere i prodotti e per diffondere
la nostra cultura. Ed in qualche caso siamo andati nei loro mari con navi-fabbriche che
pescano, trasformano, inscatolano e lasciano nelle acque, prima fonte di vita per i pescatori locali, lische e residui di lavorazione. L’economia immateriale si è materializzata
nella fame. Di tutto questo dobbiamo prendere consapevolezza per governare il fenomeno. Guido Viale ha avanzato proposte interessanti ed organiche per gestire questi
flussi. Sarebbe utile che i politici (nazionali ed europei) le facessero proprie. Soprattutto
a sinistra, per rilanciare l’idea di un’altra Europa anche nello scacchiere politico medio
orientale e mediterraneo. Noi Europa non possiamo accettare che l’area del mondo sulla
quale si scaricano i conflitti tra potenze (sulle risorse e di natura religiosa), sia proprio
quella a noi più vicina eppure priva di una funzione autonoma nelle relazioni internazionali,
orfana di un protagonismo pacifista. Se c’è vita a sinistra, che qualcuno batta un colpo.
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WELFARE E SOCIETA’
Del 24/09/2015, pag. 3
Sempre più italiani poveri vengono curati dai volontari della salute
Ambulatori sociali, ora per italiani
Ci sono le statistiche sulla nuova povertà con le sue malattie, poi ci sono le persone. La
realtà. Chiamiamolo Giovanni. Giovanni ha una dermatite atopica su tutto il corpo, ha cinquant’ anni, ha appena perso il lavoro. Non ha i soldi per curarsi, semplicemente perché le
cure per le malattie della pelle sono già tutte a pagamento (tranne una, la psoriasi)
e senza nemmeno bisogno dei nuovi tagli annunciati dal ministro Beatrice Lorenzin. “Non
riesce a pagarsi le pomate, lo sto curando con dei bagni di amido, costa poco e la madre
gli presta la vasca”, dice il dottor Sergio Santini dell’associazione Medici Volontari Italiani
di Milano. Tanto per capire di cosa stiamo parlando quando si dice che milioni di italiani
non hanno accesso alle cure e che l’Italia si sta apprestando a smantellare il sistema sanitario nazionale. L’associazione ha un ambulatorio in viale Padova 104, una unità mobile
che si piazza davanti alla Stazione Centrale o dietro al Duomo e un container di fronte alla
onlus Pane Quotidiano di viale Toscana, dove ogni giorno duemila persone vanno a rimediare un panino per tirare avanti. Nel 2014 ha visitato 2.803 persone, tra cui 367 italiani.
“Dal 2012 l’aumento degli italiani è stato piuttosto rapido, per contro la crisi ha spinto gli
stranieri a trasferirsi altrove per cercare lavoro — spiega Sergio Santini — ormai è evidente che sono le associazioni di volontariato a prendersi cura degli italiani poveri”. Le
povertà sono variamente assortite, “molti malati psichiatrici provenienti dal sud Italia, persone con patologie da freddo, con traumi minori o artrosi”. Il dato sull’utenza straniera preponderante però non deve trarre in inganno: molti stranieri vivono a Milano da decenni,
invecchiano, difficile non considerarli italiani. “I medici lo sanno a cosa stiamo andando
incontro — dice Sergio Santini — la sanità pubblica in Italia ha come obiettivo un taglio
sulla salute da 10 miliardi di euro, non lo dichiarano apertamente ma Italia e Spagna
devono progressivamente smantellare il sistema sanitario nazionale”.
Anche Emergency, dal 2006, offre gratuitamente prestazioni mediche in Italia. I presidi
fissi sono diversi, quasi tutti al sud: Palermo, Marghera, Polistena, Reggio Calabria,
Castelvolturno, Napoli e Bologna. In questi anni l’associazione ha erogato 200 mila prestazioni (circa 300 al giorno). Dallo scorso agosto funziona anche una unità mobile a Milano.
Gli italiani sono circa il 6% del totale. “Negli ultimi anni sono aumentati — spiega Andrea
Bellardinelli, coordinatore del Programma Italia — intercettiamo molte persone senza fissa
dimora, sono i più vulnerabili, non hanno nemmeno la tessera sanitaria. Poi arrivano centinaia di telefonate di italiani che non ce la fanno a pagare il ticket, questo è un problema
enorme che allontana i malati dalle cure. Molti decidono di curare solo i figli. Noi ovviamente non possiamo aiutarli, ma in questi casi è molto utile fare informazione per coprire
le zone grigie del sistema sanitario nazionale”. Un ginepraio che spinge molti a rinunciare
alle cure (ticket costosi, liste di attesa, esenzioni per i farmaci e in più le Regioni che recepiscono la materia sanitaria in maniera discrezionale). “E’ in atto la disgregazione del welfare in nome del mercato — dice Bellardinelli — la logica aziendale e la corruzione stanno
sgretolando il sistema sanitario. Dobbiamo riportare al centro la persona e i suoi bisogni,
una popolazione sana fa bene a tutti, la buona salute non è un costo è una risorsa”.
Restando a Milano, il capoluogo della regione che vanta uno dei sistemi sanitari più efficienti, fanno impressione i numeri delle prestazioni fornite dall’Opera San Francesco, “un
colosso” della carità fondato nel 1959 dai frati cappuccini. Sono quasi quadruplicate: nel
1996 erano 10.957, sono state 40.188 nel 2014 (167 al giorno). Totale: più di 560 mila
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visite mediche. La voce che meglio racconta l’impoverimento della popolazione si riferisce
alle cure odontoiatriche: le prestazioni dentistiche fornite dall’Osf da 1.703 sono diventate
5.573 all’anno. E dire che tra le prestazioni “inutili” a rischio erogazione comunicate dal
governo ce ne sono 30 che riguardano proprio i denti degli italiani.
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 24/09/2015, pag. 3
Trivelle selvagge, cinque Regioni dicono sì al
referendum
Basilicata, Marche, Puglia e Molise. E ieri anche la Sardegna: il consiglio regionale ha
votato in favore del referendum contro le trivellazioni per la ricerca e l’estrazione di
idrocarburi nel sottosuolo e in mare, previste nel decreto Sblocca Italia. Con la Sardegna è
stato quindi raggiunto il numero necessario per presentare la richiesta del referendum: “Il
30 settembre sarà depositata in Cassazione – spiega al Fatto Quotidiano Enzo Di
Salvatore, docente di Diritto costituzionale dell’Università di Teramo e cofondatore del
movimento No Triv – Ci sarà il controllo formale della richiesta e tra il 20 gennaio e il 10
febbraio si dovrebbe decidere sulla sua ammissibilità. Se ammissibile, cinque giorni dopo
ci sarà il decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
ministri che indirà il referendum. Insomma, seguendo tutto l’iter, il voto dovrebbe esserci
tra il 15 aprile e il 15 giugno”.
Lo Sblocca Italia, di fatto, esautora le regioni dalle decisioni in materia di energia, rende la
ricerca e le trivellazioni operazioni strategiche e non tiene conto dell’opinione delle
Regioni. Proprio come per gli inceneritori. Oggi, però, dovrebbero esprimersi in favore del
referendum anche altri consigli regionali: Abruzzo, Veneto, Liguria. Solo la Sicilia, ieri, ha
votato contro, inaspettatamente, per otto voti. Secondo i movimenti No Triv, il consiglio si
era detto inizialmente d’accordo. Poi è arrivato il no del Pd e dello stesso governatore
Rosario Crocetta. “È importante che il referendum si faccia quanto prima – spiega ancora
Di Salvatore – perché le trivelle sono ritenute strutture strategiche e allo Sblocca Italia fa
riferimento gran parte delle richieste di esplorazione. Che potrebbero essere approvate
anche nel giro di un anno”.
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INFORMAZIONE
Del 24/09/2015, pag. 13
Processo dem a Raitre: ora tocca anche a
Iacona
Il direttore Vianello in Vigilanza. L’accusa: “Troppi grillini in tv, non solo
a Ballarò”
di Luca De Carolis
Un avviso ai naviganti. Un (metaforico) cartello, per ricordare a viale Mazzini che a
comandare è il loro Matteo: quindi, che si diano tutti una regolata. In un pomeriggio
romano, la pattuglia del Pd in commissione di Vigilanza Rai cinge d’assedio il direttore di
Raitre Andrea Vianello. Lo colma di domande e snocciola l’elenco delle trasmissioni fuori
linea: da Ballarò che nelle prime due puntate ha ospitato per due interviste i Cinque Stelle
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, a Presadiretta che domenica scorsa si era
permessa di raccontare (anche) i difetti del Jobs Act.
L’avevano già convocato martedì, Vianello, arrabbiati per il troppo spazio concesso a M5s
nel programma di Massimo Giannini. E il direttore aveva spiegato che la crisi dei talk show
c’è, è vero, ma che il rapporto rendimento-prezzo rimane ottimo (“costano poco”). Poche
ore prima il premier aveva scomunicato (certi) programmi. “Ormai i talk show del martedì
fanno meno ascolti della replica di Rambo” aveva arringato Renzi durante la direzione
dem, lunedì. Ieri, domande e sopraccigli alzati dei suoi parlamentari per Vianello. O
imputato? “Nessun processo, è stato un confronto, Ballarò andrà avanti” scandisce lui
dopo il corpo a corpo. Ma è stata lunga. Con tanto di antipasto, perché in mattinata il
giornalista si becca anche la rampogna del M5s, dal blog di Grillo. “Il Pd lo avverte, e
Ballaròci censura: martedì ha mandato in onda un servizio su una manifestazione contro
la Banca popolare di Vicenza, ma non ha detto che l’avevamo organizzata noi” scrive il
capogruppo 5Stelle in Veneto, Jacopo Berti. Insomma, è guerra di sospetti e pressioni
incrociate. Alle 14.20 si parte in commissione, con il presidente della Vigilanza Roberto
Fico (M5s) a dirigere i lavori. Il primo a parlare è il primo che si era lamentato. Ossia
Maurizio Gasparri, irritato con Presadiretta: “Hanno parlato con tanti dei nostri circoli del
Lazio, ma il pezzo non aveva le loro voci, conteneva solo aspetti negativi”. Segue
massaggio a Giannini: “Perché avete preso come conduttore di Ballarò un esterno? E
quanto ci costa?”.
Ma i protagonisti sono quelli del Pd. Tutti premettono che “per carità, nessuna voglia di
censurare”. Ma tutti picchiano duro. Raffaele Ranucci inizia: “Lei Vianello fa innovazione,
ma qualità e ascolti talvolta non coincidono”. Sale: “Perché non avete spostato Ballarò in
un giorno diverso dal martedì?”. Quindi cita il Processo del Lunedì: “È un format che non
funziona”. Maurizio Rossi, ex montiano, ora gruppo misto, si frappone: “Sono allibito
dall’attacco del Pd alla Rai, la battuta su Rambo pare un avvertimento”. Il dem Vinicio
Peluffo ha toni curiali, ma va di clava: “A Ballarò c’è stato un trattamento asimmetrico con
le interviste ai 5Stelle, loro dettano le condizioni per intervenire ma vanno trattati come gli
altri”. Poi il bigliettino per Presadiretta: “L’ho sempre difesa, ma è possibile interloquire
meglio. Sul Jobs Act diversi precari non la pensano nel modo rappresentato”. Il fu
rutelliano Michele Anzaldi prima dà la colpa a Gasparri (“L’ha chiesta lui la convocazione”),
poi si lamenta: “Ho dubbi sul pluralismo di Ballarò. Martedì ci sono state tre interviste di
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fila, per avere un’opinione diversa (quale, e diversa da chi? ndr) abbiamo dovuto attendere
le 21.07. E gli ascolti non sono un granché”. A difesa, le opposizioni. Alberto Airola (M5s):
“Questa è una sceneggiata, non ammettete che qualcuno racconti la realtà. E sulla rete
comunque domina il Pd”. Nicola Fratoianni (Sel): “Non stiamo discutendo dei talk show ma
delle affinità tra i programmi e i partiti. Ed è grave che tutto questo parta dal governo”. Per
conto suo, il forzista Renato Brunetta: “Due anni fa noi ci lamentavano dello squilibrio nei
programmi Rai con la sinistra, ora a lagnarsi è il Pd. È una nemesi”. Segue un suo pallino:
“Serve trasparenza sui compensi Rai”. Fico è breve: “Il pluralismo di un programma non si
valuta in due puntate, dobbiamo basarci sui dati trimestrali dell’Agcom e rispettare la libera
informazione”. Quindi, Vianello: “Le interviste ai 5Stelle? Non sono necessariamente un
favore, dovevamo discutere della leadership nel M5s. Spostare la trasmissione dal
martedì? Non ci facciamo condizionare dalla concorrenza (Dimartedì, ndr). Le regole e i
controlli sulle presenza dei partiti ci sono, non ci servono sovraregole. Conta la qualità e
non la quantità delle presenze, l’ha detto anche il Consiglio di Stato”. Finito. Vianello corre
verso l’uscita. Ma si aspettava tutto questo? “L’ho detto anche in sala, sono stupito”. Se ne
va. Consapevole.
Del 24/09/2015, pag. 7
I vigilantes del Pd danno lezione di talk
Raitre. Il direttore Vianello: «Dispiaciuto per le parole di Renzi». Ma
«Ballarò va avanti, sicuro». Brunetta: «Quello del premier è l'editto di
Rambo»
«Non accettiamo lezioni di censura da nessuno». Francesco Verducci sta in realtà provando a respingere le accuse rivolte al Pd dai 5 Stelle («Il Pd chiama, Ballarò risponde
e censura il M5S», twittava Beppe Grillo). Ma detta così, dopo che in commissione di vigilanza il forzista Brunetta ha appena rievocato le sue passate, furibonde invettive contro
i programmi su Raitre di Fabio Fazio e Lucia Annunziata lamentando di non aver mai ottenuto giustizia, viene da pensare che in effetti il Pd renziano di lezioni non ha bisogno.
Censura? E proprio nei confronti della terza rete? Ma no… Al direttore Andrea Vianello,
convocato a palazzo San Macuto per rispondere a Gasparri della puntata di Presadiretta
sui partiti (che non è piaciuta a Forza Italia) ma soprattutto delle due serate di Ballarò
aperte da interviste a esponenti di M5S (non andate giù ai dem), i piddini stanno spiegando pacatamente che, anche sulla base degli ascolti, la loro intenzione è solo quella di
avviare una riflessione generale sul talk show, un genere da ripensare, appunto, perché
così non va. Tanto sono disponibili a offrire le loro competenze, i vigilantes, che si sono
pure messi davanti alla tv con il cronometro in mano, per poi verificare che in una delle
puntate sotto esame — in apertura della quale Massimo Giannini aveva intervistato anche
Saviano — «per avere un’opinione diversa» (leggi: l’opinione del Pd) «c’è stato bisogno di
aspettare le 22.05», puntualizza Michele Anzaldi. Richieste di ripensamenti, di revisioni del
format, dunque, e, ovvio, di massima attenzione al pluralismo. Quello che nella visione
nord-coreana di palazzo Chigi-Nazareno non sarebbe stato rispettato come si deve da
Raitre anche perché Riccardo Iacona nella sua ultima puntata di Presadiretta avrebbe
volutamente nascosto le meraviglie del Jobs Act. Tutto legittimo, ripetono uno dopo l’altro,
però…
«Rispetto dell’autonomia editoriale a patto che ci sia rispetto del pluralismo», è la parola
d’ordine del negletto partito di Matteo Renzi, che l’altro giorno nella direzione Pd aveva
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preso di mira Giannini e Floris che insieme fanno meno ascolti di Rambo (anche l’altra
sera con Rambo 2 è andata così) e dato la linea: «Il punto vero è che il racconto del paese
non può essere quello che va così da dieci anni, con la solita musichina, in cui va tutto
male» (già, lo diceva anche il Cavaliere…). Serve una rieducazione, insomma. A Lorenza
Bonaccorsi, che del Pd è anche responsabile cultura, il compito di ricordare solennemente
l’antica missione della Bbc: «Educare, informare, intrattenere» e attenzione: «In
quest’ordine». Nella sua replica garbata ma ferma, Vianello spiegherà che l’ordine giusto
«anche se non parlo bene inglese mi sembra ’inform, educate and entertain’, e comunque
per me l’informazione viene prima». Il direttore si dice «dispiaciuto» per le parole di Renzi,
e in disaccordo: «Non condivido che Ballarò possa essere definito come un programma
che racconta solo cose brutte del paese». E prova a spiegare, a proposito delle interviste
contestate, che un’intervista non dovrebbe essere interpretata come un monologo; un giornalista, perché no, può fare anche domande scomode. E comunque «Ballarò va avanti,
sicuro». Alla fine è addirittura Brunetta, lasciando la seduta, a trarre la conclusione:
«Siamo all’editto di Rambo, siamo alle minacce di Renzi alla Rai. È l’aberrante regime renziano». Più credibile Nicola Fratoianni, di Sel: «Se un presidente del consiglio fa una battuta come quella di Renzi è un problema, le parole hanno un valore simbolico. E è un problema quando a quelle parole si affianca una batteria di dichiarazioni polemiche» sulla
gestione delle trasmissioni».
A Giancarlo Leone, direttore di Raiuno, tocca addirittura la commissione Antimafia, dove
dovranno presentarsi anche il direttore generale Campo Dall’Orto e la presidente Maggioni. Devono rispondere del Porta a Porta con i Casamonica. Alle proteste della presidente Rosi Bindi («è pericoloso aver offerto un palcoscenico prestigioso a chi cercava
legittimazione») e degli altri commissari, Leone risponde: «Quel che successo apre una
questione interna importante e tutto questo non potrà non essere foriero di importanti decisioni al nostro interno». Se Vespa forse non dormirà tranquillo, Leone non va più spedito
verso la vice direzione generale Rai: avrebbe chiesto una delega troppo pesante.
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 24/09/2015, pag. 48
Crollo delle vendite e riscoperta della carta
Chi ha detto che il futuro era nell’ebook?
Addio lettore digitale
RAFFAELLA DE SANTIS
Il futuro è digitale. Quante volte lo abbiamo sentito dire. È stato il mantra degli ultimi anni.
Nel tempo leggeremo solo ebook, la carta diventerà un supporto del passato, come lo
sono stati i papiri o le iscrizioni su pietra. Poi accade che il mercato dia un altro segnale e
tutte le nostre proiezioni all’improvviso si smontano. Da ieri sappiamo che negli Stati Uniti
– dunque nel centro dell’impero digitale – le vendite degli ebook stanno crollando: nei primi
mesi di quest’anno i libri elettronici hanno perso negli Usa il 10 per cento, mentre il settore
si è fermato al 20 per cento di mercato, la stessa quota che aveva cinque anni fa. I dati,
raccolti dall’Association of American
Publishers riferendoli alle vendite di oltre 1200 editori, finiscono sul New York Times e
scoppia il caso.
Contrordine, la rivoluzione non è avvenuta e chissà se avverrà. L’apocalisse digitale è
scongiurata. Eppure negli ultimi tempi tutto faceva presupporre che saremmo diventati un
mondo 2.0. I dati d’oltreoceano fotografavano una situazione molto diversa: tra il 2008 e il
2010 le vendite di ebook erano aumentate del 1260 per cento e qualunque bookmaker
avrebbe dato il sorpasso per fatto nel giro di non troppi mesi. Il grande anno secondo le
proiezioni doveva essere proprio il 2015, l’anno in cui gli americani avrebbero quasi
dimenticato come si sfogliava un libro fatto di pagine di carta.
Ma a cosa è dovuta questa improvvisa inversione? Al momento si fanno solo ipotesi. Un
peso non irrilevante può averlo avuto l’atteggiamento dei grandi editori, anche in chiave
anti-Amazon. Lo scorso anno abbiamo assistito a un rialzo del prezzo degli ebook. Una
politica che ha reso in alcuni casi i libri digitali meno convenienti di quelli cartacei,
scoraggiandone l’acquisto. Il cardellino di Donna Tartt in edizione paperback costava
meno di quello elettronico, con il risultato che le vendite dei tascabili sono incrementate
dell’8,4 per cento a scapito dei loro concorrenti digitali. Va poi considerato il fatto che la
distribuzione nelle librerie è migliorata molto, per cui anche i tempi si sono ridotti. Se per
avere un ebook basta un click, per fare proprio un libro di carta basta una passeggiata e al
massimo qualche ora di pazienza, il tempo di controllare la disponibilità dal nostro libraio di
fiducia e nel caso farlo arrivare a destinazione in giornata. Editori come Penguin Random
House e HarperCollins hanno lavorato molto nel perfezionare la filiera del libro, tanto che
anche il dato sulle rese per la prima volta ha invertito la tendenza: sono state ridotte del 10
per cento. Al momento la vendita dei libri di carta di Penguin Random House rappresenta
il 70 per cento del commercio complessivo.
«Non si può passare da un estremo all’altro. Prima si parlava dell’esplosione del digitale e
ora si esagera nel trarre conclusioni in senso opposto, facendo intendere che l’ebook è
stato una bolla speculativa. Bisogna valutare che il libro elettronico è una realtà effettiva
sul mercato statunitense da una decina di anni, in Italia da quattro. Bisogna aspettare che
si consolidi prima di trarre conclusioni affrettate», spiega Giovanni Peresson, responsabile
dell’ufficio studi statistici dell’Associazione italiana editori. Sarà così, ma ci sono indicatori
che pongono interrogativi. Uno tra tutti: sembra che i lettori più giovani siano i meno
interessati agli ebook. Dunque la generazione 2.0, quella dei nativi digitali, va al mare
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mettendo un romanzo cartaceo nella borsa e ancora oggi preferisce addormentarsi con un
libro in mano. Immagini che credevamo di dover relegare tra quelle in bianco e nero.
L’altro lato della faccenda è ancora più interessante e riguarda le librerie, come luoghi fisici
e non piazze telematiche. Parallelamente a questa crisi dell’ebook si assiste infatti sul
territorio americano ad una rinascita delle librerie indipendenti, date per spacciate con
l’arrivo di Amazon e tornate a nuova vitalità: sono 2227 nel 2015, erano 1660 cinque anni
fa. Il New York Times cita ad esempio BookPeople , fondata nel 1970 ad Austin, in Texas,
dove le vendite sono incrementate dell’11 per cento nell’ultimo anno.
Curiosamente in Italia il mercato sembra tenere e dà segni di un piccolo incremento. Ma
forse ciò dipende dal fatto che non è mai decollato veramente. Nel 2014 secondo l’Istat la
lettura di ebook è cresciuta dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente. Tutto questo
in un paese in cui a leggere almeno un libro all’anno sono solo 41 persone su cento, molto
meno della metà della popolazione. Il prezzo di copertina fa molto: se la media del costo di
un libro di carta si aggira intorno ai diciotto euro, qualle di un ebook è tra i sei e i sette.
Visto però che da noi le novità, positive o negative, arrivano sempre con un po’ di ritardo
staremo a vedere cosa accade e quali saranno gli effetti sul nostro mercato della crisi del
digitale americana. Una crisi che ha origine in quella economica generale degli ultimi anni.
Amazon sembra essersene accorta e ha abbassato il prezzo del Kindle, cercando di
arginare le perdite: oggi un tablet ultima generazione costa cinquanta dollari, quando è
comparso anni fa ne costava quattrocento. La strategia di marketing dovrebbe aiutare il
mercato, in grande perdita: lo scorso anno sono stati venduti 12 milioni di e-readers, otto
milioni in meno rispetto ai 20 milioni del 2011. Inoltre il colosso dell’e-commerce offre
l’accesso a oltre un milione di titoli per dieci dollari al mese.
La prossima generazione leggerà gli ebook sugli smartphone. Gli ultimi dati Nielsen
parlano chiaro, già lo fa un acquirente di libri elettronici su sei. Dice Peresson: «La
sfortuna ha voluto che la diffusione degli e-readers sia avvenuta durante una congiuntura
economica negativa. Molte persone che in altri momenti avrebbero acquistato un tablet
non lo hanno fatto». Gli analisti puntano ancora sulla generazione 2.0, forse la nuova onda
partirà proprio dai telefonini. Il tramonto del digitale potrebbe non diventare una disfatta.
Del 24/09/2015, pag. 47
Nel nuovo romanzo Azza Filali racconta il suo paese alla vigilia della
rivoluzione dei gelsomini
“Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia”
FABIO GAMBARO
Un attimo prima della rivoluzione, sul bordo del precipizio. Nelle pagine di “Ouatann ombre
sul mare” (traduzione di Maurizio Ferrara, Fazi), Azza Filali racconta la Tunisia
immediatamente precedente alla rivoluzione dei gelsomini. Un paese dominato dalle
diseguaglianze sociali, dagli abusi e dalla corruzioni dove non è facile prendere in mano il
proprio destino. E per restituire la complessità di quel mondo in bilico la scrittrice tunisina
segue i percorsi tortuosi di alcuni personaggi che, alle prese con una svolta cruciale della
loro vita, convergono tutti in una grande casa affacciata sul mare. Una avvocatessa che
non vuole più difendere i corrotti. Un uomo cinico che pensa solo al denaro. Un ex
carcerato che deve decidere se abbandonare il passato criminale. Un giovane che vuole
arricchirsi con il traffico d’immigrati clandestini. La scrittrice tunisina intreccia i loro destini
con grande maestria, costruendo un romanzo profondo e avvincente che si legge quasi
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come un noir esistenziale. « Ouatann esprime il malessere da cui è nata la rivoluzione del
2011, malessere sociale e malessere individuale», spiega Azza Filali. «In Tunisia c’era
un’atmosfera tesa, la gente non si parlava, dominava il sospetto reciproco. Percepivo
questa atmosfera senza prospettive e senza punti di riferimento, in cui la speranza di un
cambiamento coesisteva con l’impossibilità di sfuggire al proprio destino. Da lì è nato il
romanzo».
Lo sconcerto dell’autore di fronte alla società in cui vive?
«Quando scrivo parto sempre dalle mie sensazioni, da un vissuto non ancora
razionalizzato. Nel vissuto da cui è nato questo libro c’erano molte traiettorie spezzate,
molta disperazione e sgomento, ma anche molta speranza e molte attese. Ma, più che gli
avvenimenti, mi interessavano gli individui, la loro sensibilità, le loro scelte».
Mickhat, la protagonista, è una donna che si sta cercando...
«Rappresenta una parte delle donne tunisine. La loro evoluzione negli ultimi anni è stata
molto significativa. Hanno conquistato diritti che ora cercano di esercitare. Ma, dato che la
mentalità degli uomini è invece rimasta la stessa del passato, ne sono nati innumerevoli
conflitti. Molte donne tunisine indipendenti devono gestire da sole la loro vita, perché gli
uomini hanno paura della loro liberazione. Occorreranno almeno tre o quattro generazioni
prima che la loro condizione divenga naturale».
La casa in cui si svolge il romanzo sembra una metafora della Tunisia.
«È proprio così. Come la Tunisia, in passato è stata abitata da un francese, che vi ha
lasciato un’eredità nascosta. È una casa con molti nascondigli e angoli bui, come l’anima
dei tunisini».
Alcuni protagonisti del romanzo, pensando all’Europa, hanno l’impressione di
essere nati «dalla parte sbagliata della geografia»...
«Nonostante la rivoluzione, l’emigrazione clandestina continua ad aumentare. Dato che la
rivoluzione politica non ha ancora prodotto trasformazione sociale, molti giovani tunisini
continuano a desiderare un altrove al contempo reale e simbolico. Conoscono i rischi della
traversata del Mediterraneo, come pure le difficoltà che gli immigrati incontrano in Europa,
eppure continuano a partire spinti da un desiderio irrazionale. Solo un radicale
cambiamento sociale e culturale potrà fermarli».
I giovani sono insensibili al “ouatann”, vale a dire la patria, i valori, la tradizioni...
«Non capiscono che un paese economicamente disastrato non si trasforma in poco
tempo. Da qui il sogno della fuga, ma anche la tentazione dell’islamismo radicale, nei cui
ranghi hanno l’impressione di dare un senso al vuote delle loro vite».
Di fronte a questa situazione, la letteratura può contribuire all’evoluzione del paese?
«A condizione che la gente legga. La scrittura romanzesca è creatrice di mondi, apre
nuovi orizzonti. Può quindi indicare alcuni percorsi per guardare la vita diversamente».
Ma il tempo della letteratura può accordarsi con quello della storia?
«I due tempi sono sempre sfasati. Il tempo della storia corre e non si ferma mai, mentre
quello della letteratura procede lentamente, arrivando sempre dopo. Il vissuto dello
scrittore ha bisogno di sedimentare. La letteratura infatti non deve essere la semplice
messinscena della storia. La letteratura deve emanciparsi dalla storia».
La vittoria della rivoluzione e i cambiamenti intervenuti nella società tunisina hanno
trasformato il suo modo di scrivere?
«Continuo a scrivere con lo stesso ritmo, lo stesso stile, lo stesso approccio che non è mai
diretto e militante, ma sempre un po’ laterale, privilegiando le sfumature. È cambiato
invece il mio rapporto con la parola pubblica. La libertà d’espressione è una conquista
formidabile».
«Quando l’onore ritorna, il paese sorge nell’animo degli uomini », dice uno de
personaggi di “Ouatann”... È quello che sta accadendo oggi in Tunisia?
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«Abbiamo ritrovato l’onore, quindi, nonostante la miseria, la disoccupazione, il terrorismo e
mille altri problemi, abbiamo ritrovato la fiducia in noi stessi. Oggi abbiamo una repubblica,
una nuova costituzione più laica della precedente. Anche le tensioni tra il mondo islamico
e il mondo laico vanno attenuandosi. Anche se la strada da fare è ancora molta, i
progressi sono indiscutibili. Motivo per cui io resto ottimista ».
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