I – Vorrei sapere, – disse il commissario Fabien all

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I – Vorrei sapere, – disse il commissario Fabien all
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– Vorrei sapere, – disse il commissario Fabien all’ispettore Fortin, – se ha notato qualcosa di insolito nel comportamento di Mary Lester.
I due erano separati da una di quelle scrivanie in finto palissandro, privilegio dei funzionari di rango superiore.
Lucien Fabien era commissario capo e, lo sapeva bene,
non avrebbe mai raggiunto un grado più alto.
Proprio come sapeva che la direzione del commissariato
di Quimper sarebbe stata il suo ultimo incarico. Dopodiché
lo aspettava il pensionamento, un’incombenza che si sforzava di scacciare dalla sua mente, senza riuscirci.
Era piuttosto basso di statura e, come spesso fanno gli uomini di piccola taglia, si teneva ben dritto sulle spalle per non
sprecare nemmeno un centimetro della sua altezza.
Sempre in ghingheri, fumava fino al filtro sigarette Benson, tenendole tra pollice e indice con affettata eleganza.
Quel giorno indossava un completo grigio chiaro, la giacca
aperta su un gilet con orlo di passamaneria fermato da una
catena d’oro. Al diavolo gli orologi da polso, al quarzo o digitali, il commissario Fabien leggeva l’ora su una cipolla lucente come il sole, comodamente riposta nel taschino del
gilet, pressata contro la sua pancia rotonda. A ore fisse ne caricava il meccanismo azionando la molla con due dita, e producendo un rumore di ingranaggi di precisione che pareva incantarlo.
L’uomo a cui si rivolgeva era il suo esatto opposto: alto,
per non dire enorme, o gigantesco, l’ispettore Jean-Pierre
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Fortin, Jipi per gli amici, superava il metro e novanta di statura e sfiorava i cento chili.
L’eleganza, almeno quel tipo di eleganza che distingueva
il suo capo, non sembrava figurare tra le sue principali preoccupazioni. Portava un paio di jeans, scarpe da tennis, una tshirt Lacoste, che fasciava dei pettorali impressionanti, e una
semplice giacca di tela con le maniche arrotolate su due
avambracci muscolosi, che il commissario guardava con un
filo di irritazione.
Niente nel suo abbigliamento lo differenziava dai teppisti
con cui aveva a che fare nell’esercizio della sua professione.
Il colosso guardò il suo capo con un’aria attonita e ripeté
stupidamente:
– Qualcosa di insolito?
Era seduto su una povera sedia impagliata schiacciata
dalla sua massa, i gomiti appoggiati alle cosce, le mani incrociate. Sembrava sulla difensiva e si domandava cosa mai
il capo volesse dalla “sua” Mary.
Un ignaro osservatore avrebbe potuto credere, vedendo l’ispettore cosí a disagio, di essere in presenza non di
un ufficiale di polizia, ma di un imputato sotto interrogatorio.
– Sí, – disse infastidito il commissario, – insomma, capisce cosa voglio dire.
Fissava Fortin con impazienza e sembrava chiedersi se
stesse facendo finta di non arrivarci.
No, non faceva finta. Alla fine disse con voce lenta, esitante:
– Vede, capo, non c’è mai niente di ordinario in Mary Lester.
Dato che il commissario Fabien lo guardava, precisò aggrottando le sopracciglia:
– Voglio dire, con lei non si sa mai come regolarsi. Si direbbe...
Esitò a finire la frase e il commissario dovette incoraggiarlo:
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– Forza, continui. Niente uscirà da questa stanza. Si direbbe cosa?
L’ispettore si fece coraggio:
– Si direbbe che la sua testa non funzioni come le altre.
Guardò il suo superiore con una certa apprensione, come
se temesse di essere frainteso o di aver detto una sciocchezza, e aggiunse:
– Cioè, quelle degli altri poliziotti... cioè, voglio dire...
Forse è perché è una donna...
Era a corto di argomenti e sempre più imbarazzato. Stava
parlando al suo capo e l’argomento era Mary Lester. Due
buone ragioni per sentirsi a disagio.
– Bah! – fece il commissario, – ci sono altre donne in polizia...
Non aggiunse altro, ma lo stesso Fortin avrebbe potuto
concludere la frase per lui: “Ci sono altre donne in polizia,
ma di Mary Lester ce n’è una sola”.
Fortin assentí con il capo. Aveva fatto suo il motto di suo
padre, portiere al palazzo di giustizia: “Vivi nell’ombra, per
vivere felice”. Per quanto gli era possibile, evitava quindi i
contatti con i superiori, facendo il suo lavoro correttamente
ma senza eccessivo zelo. Non era certo uno di quei poliziotti che si sarebbero potuti accusare di voler fare carriera.
Per farla, infatti, avrebbe dovuto sostenere concorsi e,
probabilmente, accettare di essere trasferito chissà dove.
Nient’altro che seccature!
Il commissario Fabien guardava con curiosità il pezzo
d’uomo che si trovava di fronte. “Che tristezza”, si diceva nel
proprio intimo... Già, perché Fortin incarnava tutto ciò che il
buon commissario avrebbe voluto essere. Alto, robusto, sportivo... eppure quel grosso ispettore non era affetto da quella
rabbiosa ambizione che aveva spinto il cagionevole vigile urbano, che Fabien era stato agli inizi, a diventare commissario capo.
Fortin era senza dubbio fra tutti l’agente che aveva più
contatti con Mary Lester. Non si era forse dedicato a lei
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anima e corpo? Non l’aveva a più riprese tirata fuori dai guai,
arrivando persino a salvarle la vita? Non si era lanciato – lui,
un tipo prudente – in arresti azzardati1 senza alcuna esitazione, solo perché lei glielo aveva chiesto?
Tuttavia, conosceva veramente Mary Lester? E d’altra
parte, chi poteva dire di conoscere Mary Lester, un enigma
piombato un giorno dal commissariato di Lorient dove, semplice stagista, aveva fatto arrestare per omicidio il suo superiore2?
Il commissario Fabien sospirò. Le sue piccole mani secche, dalle unghie meticolosamente curate, giocherellavano
con un righello di mogano. Il pollice, l’indice e il medio della
mano destra erano macchiati di giallo: la nicotina. Disse,
come parlando a se stesso: – È un enigma.
Parve quindi risvegliarsi da un sogno e lentamente aggiunse rivolto a Fortin:
– Ha anche lei questa impressione?
Fortin lo sentiva perso in lontane riflessioni. Rispose con
uguale lentezza:
– Ehm... sí, capo.
Parve di colpo sollevato dalla domanda del commissario,
e con nuova sicurezza aggiunse:
– A volte si direbbe che viva in un altro mondo, e spesso
ha delle idee, delle intuizioni che non verrebbero a nessun
altro.
Guardò il commissario e precisò:
– Non a me, in ogni caso.
Esaminò le proprie dita, nuovamente a disagio, poi alzò
lo sguardo sul commissario:
1 Si riferisce al caso risolto da Mary Lester in Morte allo stagno,
Robin Edizioni 2005.
2 Si riferisce al caso risolto da Mary Lester in Omicidio a Lorient,
Robin Edizioni 2004.
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– Non lo dico per criticare, eh capo, non creda che...
Il commissario Fabien sorrise:
– Ma no, Fortin, cosa si va a immaginare? Lo sanno tutti,
da queste parti, quanto lei sia affezionato a Mary Lester.
L’ispettore arrossí come un ragazzino sorpreso dal parroco a giocare al dottore con la piccola vicina di casa:
– Non... non è come può pensare, – balbettò.
– Non penso niente, Fortin, non immagino un bel niente!
D’altronde, lo sanno tutti che i piedipiatti hanno scarsa immaginazione.
Guardò il grosso ispettore a disagio sulla sedia troppo fragile, che gemeva a ogni suo movimento.
– È sempre contento di fare squadra con lei?
– Oh sí, capo!
Questa volta la risposta era scaturita spontanea.
L’ispettore esitò, prima di aggiungere:
– Forse è perché ha appena traslocato che è un po’ strana
in questo periodo...
– Lei crede? – chiese Fabien con aria dubbiosa. – Dove è
andata ad abitare?
– Vicino a dove stava prima. Si è trovata un piccolo appartamento che dà su un giardino, in pieno centro. Un posto bellissimo! Solo lei poteva scovare un angolino del genere.
Fabien alzò la testa come per dire: “Capisco...”. In effetti
si ricordava di averla accompagnata fin lí una notte, quella in
cui lei aveva fatto arrestare la banda che aveva tentato di rubare l’incasso del “Festival dei Vecchi Aratri”.3
Chiese, incuriosito:
– Lei lo ha visitato, questo appartamento?
– L’ho aiutata a portare lí tutta la sua roba.
3 Vedi il caso risolto da Mary Lester in All’alba del terzo giorno,
Robin Edizioni 2007.
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– Capisco. Con il furgone di servizio, scommetto.
– Oh no, capo. La via di accesso è talmente stretta che a
malapena ci passa la sua Twingo.
L’ispettore si animò:
– Ma perché mi fa questa domanda?
– Quale domanda?
– Beh, se ho notato qualcosa di strano nel comportamento di Mary.
– Oh, cosí, – disse il commissario Fabien.
Si alzò, si stiracchiò, fece qualche passo nella stanza fino
alla finestra e guardò distrattamente giù nel cortile prima di
tornare verso la sua poltrona.
– Si dà il caso che, come responsabile della baracca, devo
fare il possibile perché tutto fili liscio.
Guardò l’ispettore che, da seduto, arrivava a essere alto
quasi quanto lui in piedi:
– Capisce, Fortin?
– Assolutamente, capo, – si affrettò a dire Fortin, che non
aveva capito niente.
E, dopo un breve silenzio:
– Ehm... è tutto capo?
– È tutto, Fortin. Per il momento.
L’ispettore si alzò, abbozzò un goffo saluto con la mano
e la posò sulla maniglia della porta.
La voce del commissario lo fermò:
– Ho l’impressione, ispettore, che da quando fa squadra
con Mary Lester lei abbia acquisito sicurezza.
Fortin fece un sorriso un po’ sciocco:
– È possibile, capo, Mary è una ragazza che sa quello che
vuole.
– Già... – fece il commissario pensieroso. – Ah, un’ultima
cosa, Fortin. Niente di ciò che si è detto deve uscire da questa stanza... Resterà tra noi.
Fissava l’ispettore con uno sguardo cupo e penetrante,
che lo mise a disagio:
– Ricevuto, capo!
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– E, – proseguí il commissario irritato, – il fatto che sia
stato assegnato per quindici giorni a una pattuglia di CRS 4
non la costringe a parlare come un gendarme!
Con un cenno del capo congedò l’ispettore.
Tornò a sedersi dietro la sua scrivania e prese in mano
una cartellina rossa, mugugnando tra sé: “Mary Lester è
una ragazza che sa quello che vuole! Come se non lo sapessi”.
Sfogliò soprappensiero una, due, tre pagine del dossier,
indugiò sulla quarta, la guardò senza vederla e riprese il soliloquio: “In ogni caso è strana, la nostra Mary. Sono ormai
quasi tre mesi che non litiga con nessuno. Un record! Che sia
ancora innamorata di quel Lilian Rimbermin...” 5
***
Su quel punto il commissario Fabien si sbagliava. Mary
aveva da un pezzo fatto una croce sopra il bel Lilian. Conservava gelosamente il ricordo dei piacevoli momenti che
avevano passato insieme a Saint-Quay-Portrieux, ma Lilian
veniva da una di quelle famiglie in cui ci si scambiava l’anello prima di andare oltre.
L’anello al dito, la palla al piede, il suocero avvocato
mondano che adorava ascoltarsi parlare, la suocera con la
puzza sotto il naso convinta che per distinguersi bastasse
ostentare una smorfia annoiata e sprezzante, le cognate in
bermuda scozzesi, i nipoti che sembravano usciti dalle pagine del Figaro Magazine, la serva – pardon, la domestica –
chiamata con un campanello d’argento... no, non faceva per
Mary Lester. Almeno per il momento.
Compagnie Repubblicane di Sicurezza.
Si riferisce al caso risolto da Mary Lester in Roulette russa per
Mary Lester, Robin Edizioni 2007.
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Quando arrivò in ufficio, Fortin stava finendo di leggere
L’Équipe, la sua prima mansione quotidiana.
– Di’ un po’, non sei molto mattiniera oggi, vero? – disse.
– E allora, – fece lei con stizza appendendo il suo montgomery all’attaccapanni dietro la porta, – sei forse addetto al
timbro dei cartellini?
– Ehi, si direbbe che qualcuno si è alzato con il piede sbagliato!
Mary Lester scrollò le spalle e si sedette, piuttosto imbronciata.
L’ispettore ripiegò con calma il giornale:
– Qualcosa non va?
Si strinse nelle spalle:
– Figurati che ho appena comprato una lavatrice, che avrebbero dovuto consegnarmi questa mattina alle nove spaccate. Risultato? I tipi si sono presentati alle dieci e si sono
pure lamentati perché il loro camion non passava nel viottolo.
– E quindi?
– E quindi niente, – disse dura. – La lavatrice è al suo posto e funziona.
Fortin sorrise compiaciuto: doveva essere stato proprio
un bello scontro. Avrebbe voluto assistere alla scena: Mary
Lester contro i fattorini impertinenti.
– E qui, ci sono novità?
– Il Paris-Saint-Germain ha perso di nuovo.
– Pfui! Parlo di cose serie!
– È una cosa serissima! Se va avanti cosí finiamo in serie B.
– Capirai che tragedia! – disse. – Il capo mi ha cercata?
– No.
Fortin si guardò bene dal riferirle la conversazione avuta
poco prima con il commissario.
Mary fece scivolare lo sguardo su quel piccolo e triste ufficio dalle pareti verde chiaro, sul linoleum del pavimento,
che nelle zone più calpestate faceva intravedere la trama, su
quegli armadi metallici che si aprivano e richiudevano pia-
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gnucolando, e si accasciò sulla sua sedia con un sospiro.
Avrebbe passato la sua giornata in quel posto deprimente,
compilando schede statistiche?
Fu allora che il telefono squillò. Fortin alzò il ricevitore e
disse: – Sí, sí, – poi, – gliela passo.
– È per te, – disse a Mary.
– Per me?
Aggrottò le sopracciglia, perplessa.
– Pronto...
– Signorina Lester?
– In persona.
La voce era sorda, come soffocata da un fazzoletto o un
panno applicato all’apparecchio. La persona all’altro capo
del filo ripeté, come per assicurarsi dell’identità della sua interlocutrice:
– Signorina Mary Lester?
– Sí, – disse Mary un po’ bruscamente, infastidita da tanta
insistenza. – Con chi parlo?
Per tutta risposta non udí che una voce smorzata, esitante, che quasi stentava a uscire:
– Sa quante sono state quest’anno le morti violente sull’Odet?
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