Alle fonti del Nilo

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Alle fonti del Nilo
LIBRO
IN ASSAGGIO
ALLE FONTI DEL
NILO
DI WILBUR SMITH
Due figure solitarie scendevano dalle alte montagne. Indossavano pellicce
logore per il viaggio ed elmi di cuoio con i paraorecchi legati sotto il mento per
proteggersi dal freddo. Avevano la barba incolta, e il volto segnato dalla
fatica.
Trasportavano sulle spalle tutti i loro sparuti averi. C’era voluto un
viaggio difficile e scoraggiante per raggiungere quel luogo.
Anche se stava davanti, Meren non aveva idea di dove si trovassero, e
neppure era certo del perché si fossero spinti così lontano. Solo il vecchio che
lo seguiva a poca distanza lo sa peva e non aveva ancora deciso di
spiegarglielo.
Dopo avere lasciato l’Egitto avevano attraversato mari, la ghi e molti fiumi dal
corso possente; avevano superato fore st e immense pianure. C’erano stati
incontri con animali stra n e pericolosi e con ancor più strani e pericolosi
uomini.
Poi si erano addentrati fra le montagne, un mirabile caos di vette innevate e
gole spalancate, dove l’aria rarefatta rendeva difficile ogni respiro. Nel freddo i
loro cavalli erano morti e Meren aveva perduto la punta di un dito, diventato
nero come se fosse bruciato e marcito nell’asprezza del gelo.
Fortunatamente non era il dito della mano con cui brandiva la spada,
e neppure uno di quelli che scoccavano le frecce dal suo grande arco.
Meren si arrestò sul ciglio dell’ultimo strapiombo.
Arrivò anche il vecchio, dietro di lui. La sua pelliccia era fatta con il
mantello di una tigre delle nevi che Meren aveva ucciso con una sola freccia
mentre stava balzando su di lui. Fianco a fian co guardavano in basso, una
terra straniera di fiumi e fitte giungle verdeggianti. «Cinque anni», disse
Meren. «Cinque anni abbiamo trascorso in cammino. Questa è la fine del
viaggio,
mago?»
«Ah, mio buon Meren... davvero è stato tanto lungo?» chiese Taita, con gli
occhi che scintilavano sotto le sopracciglia bianche di brina, come se volesse
canzonarlo.
In risposta Meren si tolse dalla schiena il fodero della spada per mostrare le
linee delle tacche incise nel cuoio. «Ho segnato ogni giorno, nel caso desideri
contarle», gli assicurò. Seguiva e proteggeva Taita da più di metà della
propria vita, ma ogni volta dubitava se l’altro fosse serio o si facesse solo
beffe di lui. «Però non hai risposto alla mia domanda, venerabile mago.
Siamo giunti alla fine del nostro viaggio?» Taita scosse il capo. «No. Non è
finito. Ma rincuorati, perché almeno abbiamo iniziato bene.» Poi si mise alla
guida avviandosi lungo uno stretto cornicione che portava in basso rasente la
parete rocciosa. Meren lo seguì con lo sguardo per qualche istante, dopo di
che i suoi lineamenti belli e decisi si incresparono in un sorriso di mesta
rassegnazione. «Quel vecchio demonio non si fermerà mai?» chiese rivolto
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alle montagne, mentre si assicurava nuovamente il fodero alla schiena e gli
andava dietro. Ai piedi della rupe girarono attorno a uno sperone di quarzo
bianco, quando una voce pigolò dal cielo: «Benvenuti, viandanti! E gran
tempo che aspetto il vostro arrivo». Si arrestarono sorpresi, alzando gli occhi
verso il cornicione di roccia. Lì era seduto un bambino che non dimostrava più
di undici anni. Era strano che non lo avessero notato prima, perché si trovava
in piena vista: la luce del sole, alta e intensa, lo faceva spiccare riflettendosi
sul quarzo scintillante che lo circondava come i raggi di un’aureola, ferendo gli
occhi.
«Sono stato inviato a guidarvi al tempio di Sarasvati, la dea della saggezza e
della rigenerazione», continuò il bambino con voce melliflua.
«Ma tu parli la lingua egizia!» sbottò Meren con stupore.
Il bambino rispose a quella futile osservazione con un sorriso. Aveva il viso
scuro come una scimmia birichina, ma il sorriso era così affascinante che
Meren non poté fare altro che ricambiarlo. «Il mio nome è Ganga. Sono il
messaggero. Venite! C’è ancora un po’ di strada da percorrere.» Si alzò in
piedi, e la foltreccia di capelli neri gli dondolò su una spalla nuda. Nonostante
il freddo indossava solo un perizoma. Il torso liscio e nudo era di un marrone
scuro, e sulla schiena aveva una gobba simile a quella di un dromedario,
grottesca e sconvolgente. Vide le loro espressioni sorrise di nuovo. «Vi ci
abituerete, come ho fatto io», disse. Scese con un balzo dal cornicione e si
avvicinò a Taita predendolo per mano. «Da questa parte.»
Nei due giorni seguenti Ganga li guidò in una compatta foresta di bambù.
La pista compiva numerose deviazioni e senza di lui l’avrebbero perduta
cento volte. Mentre scendevano, l’aria diventava più tiepida e finalment fu
possibile sbarazzarsi delle pellicce e degli elmi. I capelli di Taita erano sottili,
lisci e argentei. Quelli di Meren folti, scuri e ricci. Il secondo giorno giunsero
alla fine della foresta di bambù e seguirono il sentiero all’interno di una fitta
giiingla, dove gli alberi si con- giungevano formando sopra di loro gallerie che
nascondevano il sole. L’aria era tiepida, greve dell’odore di terra umida e
piante marce. Sopra le loro teste era tutto un saettare di uccelli dal piumaggio
variopinto; piccole scimmie schiamazzavano e cianciavano sui rami più alti,
mentre farfalle dai colori vivaci aleggiavano sopra i rampicanti in fiore.
La giungla finì di colpo, quasi senza preavviso, e loro uscirono su una pianura
aperta che si estendeva per circa una lega, fino a dove la giungla
ricominciava in un nuovo muro. Al centro della radura si innalzava un edificio
poderoso. Le torri, le torrette e i gradoni erano fatti di blocchi di pietra color
giallo burro, e l’intero complesso era circondato da un’alta muraglia dello
stesso materiale. La decorazione a statue e formelle che rivestiva l’esterno
raffigurava un bailamme di uomini nudi e donne voluttuose.
«I giochi di queste statue farebbero sobbalzare i cavalli», esclamò Meren in
tono censorio, nonostante gli occhi gli brillassero.
«A parer mio saresti stato un luon modello per quegli scultori», replicò Taita.
Sulla pietra gialla era intagliato ogni possibile congiungimento di corpi umani.
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«Di sicuro quelle pareti non mostrano niente che ti sia nuovo.»
«Al contrario, avrei molto da imparare», ammise Meren. «La metà di queste
cose non me l’ero neppure sognata.»
© 2007 Wilbur Smith
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