Sergio Lubello

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Sergio Lubello
Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 49-54
Lessicografia italiana e variazione diamesica: prime ricognizioni
Sergio Lubello
Università di Salerno
Abstract
Estrapolato da una ricerca più ampia sulle marche diasistematiche nei dizionari, questo contributo si concentra sull’attenzione che nella
lessicografia italiana è stata rivolta alla lingua parlata, soffermandosi in particolare sull’attività di Niccolò Tommaseo lessicografo (in
due opere tra loro diverse, i Sinonimi e il Dizionario), ma anche con uno sguardo a tutti quegli spunti in direzione del parlato che
affiorano nei dizionari dal Cinquecento all’Ottocento (2.) e agli altri dizionari ottocenteschi, in particolare al Novo Vocabolario di
Giorgini-Broglio, il primo vero dizionario dell’uso in senso moderno (4.).
1. Ambiti della ricerca e problemi di metodo
Il volumetto di Bruno Migliorini, Che cos’è un
vocabolario, primo moderno vademecum della
lessicografia italiana, include un breve paragrafo dal
titolo, poco tecnico ma significativo, ‘ambiente e tono
delle parole’, in cui si precisa che le parole non hanno
soltanto un «aspetto intellettuale, bensì anche un aspetto
ambientale e un aspetto affettivo»1. Il senso viene subito
illustrato ed esemplificato da alcune coppie di sinonimi,
stinco/tibia, micio/gatto, ciuco/asino, in cui «la prima è
una parola popolare che richiama alla nostra memoria
tutta un’atmosfera quotidiana»2: anche se in modo
impressionistico, in tempi che precedono gli studi sulla
variazione linguistica, Migliorini esprime l’esigenza del
lessicografo di radiografare gli usi delle parole, che è oggi
prassi lessicografica abituale nell’etichettatura dei lemmi
con indicatori o marche diasistematiche (per tutti
l’esempio più organico e riuscito è senz’altro quello
fornito dal GRADIT di De Mauro).
Quanto segue è estrapolato da uno studio più ampio
che riguarda l’analisi non solo della variazione diamesica,
ma di tutta la marcatura diasistematica nella tradizione
lessicografica italiana, analisi finora esperita o all’interno
di monografie specificamente dedicate a singoli dizionari
o su piccoli campioni esemplificativi, come nel caso, per
es., del breve lavoro di Batinti-Trenta Lucaroni (1997),
incentrato sulle marche diatopiche contenute in una
stringa ristretta del lemmario di due dizionari moderni
dell’uso (lo Zingarelli del 1995 e il Devoto-Oli del 1995)3.
Tra i dati significativi di Batinti-Trenta Lucaroni emerge
la maggiore innovatività dello Zingarelli rispetto al
Devoto-Oli proprio grazie ad un uso abbondante di
marche che, registrando sottili sfumature di significato,
oltre che specificando ambiti e livelli d’uso, risaltano
aspetti relativi alle varietà della lingua. Gli indicatori che
connotano alcuni lemmi nello Zingarelli, peraltro
abbastanza sensibile verso i toscanismi, sono assenti nei
corrispettivi lemmi del Devoto-Oli, la cui radiografia di
lingua sarebbe avviata, secondo gli autori, a un processo
1
Si cita qui dalla terza edizione riveduta (Migliorini, 1961: 4245).
2
Migliorini (1961: 42). Continua la citazione (a proposito della
coppia stinco/tibia): «l’altra ci richiama trattati di anatomia,
descrizioni medico-legali […]. Se la nozione è la stessa,
l’atmosfera è un’altra».
3
Gli autori hanno preso in considerazione tutte le parole che
appartengono alla variabilità geografica, senza tralasciare
indicazioni diafasiche e diastratiche; il corpus esaminato
comprende 1935 lemmi.
di standardizzazione e verso un italiano comune (valgano
come esempi i termini zampogna ‘raro region.’,
bombolone ‘centro merid.’, angoscioso 3. ‘dial sett.’, privi
nel Devoto-Oli di una qualunque connotazione diatopica).
Va da sé naturalmente che la diversa presenza di marche
va interpretata in base ai criteri che gli autori stabiliscono
nella compilazione, alla luce cioè, direbbero MenariniForesti (1985: 32) «di una norma linguistica che fa
avanzare oppure regredire determinate voci». I risultati,
nonostante la microcampionatura di Batinti-Trenta
Lucaroni, rendono allettante un allargamento di
prospettiva di una ricerca sulle marche d’uso nei repertori
lessicografici, ma fanno riflettere, del resto, sulla necessità
di procedere di pari passo con l’analisi della
macrostruttura dei dizionari, della loro tipologia e
costituzione, delle ideologie che sottendono la loro
compilazione, del concetto di uso linguistico del
lessicografo, e poi ancora del metalinguaggio che
rappresenta non poche volte, più dei lemmi stessi
lemmatizzati, la lingua dell’epoca, sia pure sub specie
auctoris e quindi da considerare con la cautela necessaria
perché, come insegnano gli studi che analizzano tracce di
parlato nello scritto, a partire da D’Achille (1990), si tratta
pur sempre di scritto. A questo proposito è bene dire che
non è stato purtroppo recepito un invito allo studio del
metalinguaggio dei vocabolari fatto da Manlio Cortelazzo
(1985) già più di vent’anni fa, nell’ottobre 1983, in
occasione di un convegno che è peraltro fondamentale
punto di riferimento negli studi sul parlato4.
Un’indagine sulla variazione diamesica nei repertori
lessicografici si scontra intanto con la stessa costituzione
dei dizionari, basati fondamentalmente su fonti scritte (ad
eccezione, naturalmente, di quelli come il LIP, Lessico
dell’italiano parlato, espressamente fondati su un corpus
di parlato); si aggiunge, poi, la difficoltà che scaturisce da
un uso ambiguo degli indicatori o dalla loro assenza, cioè
da pratiche lessicografiche diverse tra loro e nel tempo e
nel metalinguaggio non sempre coerente (l’indicazione
come si dice, frequente per es. nella Crusca, non sta quasi
mai per ‘parlato’).
Come infatti ha precisato Carla Marello (1996: 139),
nei dizionari le etichette funzionali e di registro finiscono
per veicolare informazioni relative anche ad altre varietà:
4
Per Cortelazzo (1985: 446-447) i vocabolari sono una fonte
importante per lo studio del parlato: consultando i vocabolari,
una grande probabilità di trovarsi di fronte ad espressioni più
parlate che scritte o che si riferiscono all’uso orale si ha almeno
in tre casi: 1) quando di una voce si dice che vive a: 2) quando si
fanno confronti tra varianti regionali 3) quando si caratterizzano
alcune parole o espressioni come familiari.
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se l’indicazione di ‘gergale’ è a metà strada tra il
sottocodice e la varietà diastratica, l’etichetta di
‘colloquiale’ è spesso usata in luogo di ‘parlato’ per
indicare una varietà diamesica, condizionata cioè dall’uso
del mezzo scritto o orale. E in teoria, secondo la studiosa,
bisognerebbe avere due serie di abbreviazioni, una per i
registri dello scritto e una per quelli dell’orale5.
Ci si limita in questa sede, data l’ampiezza del tema, a
qualche specimen sulla lessicografia dell’Ottocento,
secolo notoriamente per eccellenza dei vocabolari e nel
quale nasce la marca diasistematica di uso moderno, in
particolare sull’importante attività lessicografica di
Niccolò Tommaseo, senza però tralasciare, per così dire,
gli antecedenti, dati i molti anche se immaturi precedenti
sparsi durante i secoli precedenti, rimasti a latere o
sommersi o occultati dal canone dominante rappresentato
dal vocabolario della Crusca, e dando uno sguardo anche
alle altre esperienze viciniori e limitrofe, dal momento che
nell’Ottocento si realizza il primo vero sistematico
dizionario dell’uso, il Novo vocabolario della lingua
italiana di Giorgini-Broglio, quasi coevo alla stampa del
Tommaseo-Bellini e alla ripresa editoriale della Crusca
con la quinta edizione del Vocabolario.
2. Un excursus: gli antecedenti
Fino all’Ottocento c’è una linea ben nutrita di
indicazioni e attenzioni verso la lingua dell’uso parlato
che comincia e si rafforza già nel Cinquecento, ma che sul
finire dello stesso secolo resta quasi interrotta in alcune
delle sue potenzialità, arginata o ridimensionata da una
linea dominante che impone, invece, attenzione esclusiva
alla lingua scritta letteraria, arcaica o moderna.
La Fabrica del mondo, ultima opera di Francesco
Alunno stampata a Venezia nel 1548, registra molte voci
non attestate6, siglate non poche volte con un anonimo T
(spiegato nelle abbreviazioni come Tale autore),
concedendo ingresso quindi, con tale stratagemma, a
termini desunti dall’uso senza l’avallo della tradizione
letteraria7.
Il repertorio «balordamente compilato»8 del
Vocabulario di cinquemila Vocabuli Toschi non men
oscuri che utili e necessarj del Furioso, Bocaccio,
Petrarcha e Dante novamente dichiarati e raccolti da
Fabricio Luna per alfabeta ad utilità di chi legge, scrive e
favella, stampato a Napoli nel 15369, accoglie tra i citati,
nella lingua mescolata di autori di provenienze diverse,
5
Marello (1996: 139) aggiunge: «Vi sono poi abbreviazioni,
come iron(ico), scherz(oso), spreg(iativo), enf(atico), che
segnalano la cristallizzazione di un uso stilisticamente connotato
della parola […] queste segnalazioni di registro e di uso
connotato sono fra le più preziose e le più delicate in un
dizionario, perché soggette a rapido invecchiamento».
6
Come sostiene Poggi Salani (1982: 287), è l’Alunno stesso che
fa lemma e definizione, assumendo da un uso linguistico che è
sostanzialmente il solo a testimoniare.
7
E quindi la volontà di dare il più completo quadro di
riferimento di una lingua letteraria sconfina nella direzione
dell’uso (cfr. Della Valle, 1993: 37).
8
Come lo definì Luigi Morandi: cfr. Della Valle (1993: 38).
9
Il Luna dichiara nella dedica a Bernardino Ventimiglia di
volersi occupare di «questa lingua con la quale negotiamo,
scriviamo e continuamente parliamo».
anche amici e conoscenti del compilatore, il che fa
pensare, giusto un interrogativo della Poggi Salani (1982:
282), «ad un’implicita autorizzazione ad attingimenti
anche dalla competenza d’uso» di Luna10.
Nella stessa direzione conducono tanto l’analisi della
ricca fraseologia contenuta nel Vocabolario, Grammatica,
et ortographia de la lingua volgare di Alberto Acarisio,
stampato a Cento nel 1543, quanto la sorprendente
sensibilità che John Florio, interessato alla redazione di un
dizionario utile in primis per chi studia italiano (del 1598
è la prima edizione del suo A Worlde of Wordes, or Most
copious, and exact Dictionarie in Italian and English),
dimostra per i testi non letterari e per i livelli diafasici,
accentuando quindi un’attenzione per gli usi della lingua,
che si ritrova pari nei libri di conversazione per stranieri: i
capitoli dei suoi First Fruites del 1578 comprendevano
capitoli di parlar familiare e parlar con donzella, con
gentiluomo, con mercante, con servitore, parlar amoroso
e al buio.
Nel complesso il baricentro della nascente
lessicografia italiana, come suggerisce bene Della Valle
(1993: 43), prendeva, o almeno sembrava imboccare, una
strada diversa da quella poi effettivamente seguita: il
criterio unificante è quello di creare un lessico d’uso11,
come si può certificare negli adeguamenti alla lingua
dell’utente contenuti nel Dictionario di Giovanbattista
Verini del 1532 improntato a scopi didattici e perciò ben
lontano dal canone di Bembo e delle Tre Corone, e nel
significativo sottotitolo del vocabolario del Sansovino
(Ortografia delle voci della lingua nostra, pubblicato a
Venezia nel 1568) o vero Dittionario volgare et latino, nel
quale s’impara a scriver correttamente ogni parola così
in prosa come in verso, per fuggir le rime false et gli altri
errori che si possono commettere favellando et scrivendo,
tanto che Marazzini (1983: 205) ha visto in quest’ultimo
la tendenza a uscire dai confini imposti dai dizionari del
tempo per registrare le abitudini dei parlanti
contemporanei. Non a caso è stato osservato come il
Cinquecento si chiuda con un vocabolario in cui la
«considerazione per l’uso è diventata dominante»12.
Anche da uno spoglio parziale e del tutto asistematico,
i riferimenti a favella, parlare, uso moderno, lingua
parlata ecc. risultano sorprendentemente più numerosi di
quanto già non si potesse immaginare nel Cinquecento,
presenza tanto massiccia che trova corrispondenza solo
nell’Ottocento, dopo la cesura segnata dall’ideologia
cruscante che sancisce il buon uso degli scrittori a partire
dalla prima edizione del vocabolario, quella del 1612.
In questa opposizione di linee centripete e spinte
centrifughe della lessicografia13, varie tendenze restano
latenti o sotterranee o polemiche per i due secoli
successivi; di apertura alla registrazione dell’uso vivo si
colgono certamente molti e vari spiragli: si va dalla
curiosità per i livelli diafasici e per le varietà in genere
riscontrabile nel Memoriale della lingua italiana di
Giacomo Pergamini (la seconda edizione rivista uscì
10
Secondo la studiosa forse proprio all’Alunno si potrebbe
ragionevolmente far risalire la prima reale visione di lingua della
nostra lessicografia (Poggi Salani, 1982: 288).
11
Cfr. Poggi Salani (1982: 269).
12
Della Valle (1993: 45).
13
Cfr. Lubello (2004: 212-214).
Lessicografia italiana e variazione diamesica: prime ricognizioni
postuma nel 1617) e da alcune aperture della terza
edizione del vocabolario della Crusca,14 del 1691, al
metalinguaggio vicino alla lingua popolare e viva della
Prosodia italiana del gesuita palermitano Placido
Spadafora (stampata nel 1682 a Palermo), al sogno del
padre teatino Giovanpietro Bergantini (autore della nota
raccolta pubblicata a Venezia nel 1745, Voci italiane
d’autori approvati dalla Crusca nel Vocabolario d’essa
non registrate con altre molte appartenenti per lo più ad
Arti e Scienze che ci sono somministrate similmente da
buoni Autori) di un dizionario universale che registrasse le
ricchezze dell’italiano come lingua vivente (i due
vocabolari inediti studiati da Silvia Morgana costituiscono
circa 18 volumi manoscritti compilati per trenta anni fino
alla morte nel 176415).
Indubbiamente a segnare una svolta fondamentale e
quindi ad assumere a buon diritto il ruolo di iniziatore del
secolo dei vocabolari, il XIX, è il Dizionario universale
critico enciclopedico della lingua italiana dell’abate
Francesco D’Alberti di Villanuova, stampato a Lucca in
quasi un decennio, dal 1797 al 1805, nella cui prefazione
(X-XI) è esplicito – assoluta novità – il richiamo all’uso,
non solo scritto:
Siccome la povertà della lingua deriva dal non essersi
avvenuti gli scrittori a dir tutt,. così in difetto degli Scrittori
essa implora il soccorso dell’uso. I vocabolari non mostrano
che altre voci si possono usare quando sono di lingue
viventi, per essere l’uso arbitro del parlare. E cosí più che
agli scrittori, bisogna riguardare all’uso del parlare comune
e corrente e non istare alla miseria d’imparare solamente
dagli scrittori i vocaboli che con proprietà si usano nel
moderno favellare.
Se non è qui la sede per addentrarsi nel panorama
lessicografico dell’Ottocento, va però almeno detto che
esso è segnato dall’affermarsi di generi nuovi di
dizionario – raccolte di proverbi, dizionari dialettali,
elenchi fraseologici e repertori di modi di dire – più inclini
ad attingimenti dalla lingua parlata e a riscontri da
verificare nell’uso vivo: un significativo titolo di un
paragrafo di Della Valle (1993: 75-79), Un nome per le
cose, dice bene il diffondersi, tra gli altri, di un genere
specifico, i dizionari metodici, come il Dizionario
domestico sistematico di Gaetano Arrivabene (stampato a
Brescia nel 1809) e il Vocabolario metodico del
piemontese Giacinto Carena (stampato a Torino tra il
1846 e il 1860) ancora più importante non fosse altro
perché il compilatore, un naturalista, non si stancava di
trascorrere intere giornate nelle botteghe fiorentine a
raccogliere materiale linguistico direttamente dall’uso
vivo, come già aveva fatto il D’Alberti di Villanuova,
dichiarando quindi come parte fondamentale del suo
metodo quella che più modernamente chiameremmo
inchiesta sul campo.
3. Niccolò Tommaseo lessicografo
14
Grazie anche all’influsso di Buonmattei e alla sua
considerazione per l’uso e per i meccanismi della lingua viva (si
amplia nella terza edizione del Vocabolario il numero di voci
non corredate da esempi d’autore).
15
Cfr. Morgana (1985).
Già nel dizionario pubblicato a Firenze nel 1830, il
Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana,
l’appena ventottenne dalmata Niccolò Tommaseo rivela
una spiccata attenzione per quella parte di lingua esclusa o
estromessa dai dizionari canonici e tradizionali,
utilizzando alcune indicazioni per segnalare l’ambito
d’uso, l’appartenenza al linguaggio familiare, alla lingua
parlata o a quella letteraria. Scrive Tommaseo nella
Prefazione (VII):
E però nel mio dizionario io do luogo a parole e modi che lo
stesso dizionario della lingua comune non ha, ma che sono
dell’uso vivente e mostrano per la proprietà loro essere da
tutta Italia conosciute.
Qualche anno fa Donatella Martinelli, che ha fornito
una dettagliata ricostruzione editoriale e ideologica del
Nuovo dizionario, auspicava che si scrivesse in modo più
compiuto la storia dell’opera sui sinonimi, dell’unica
opera che per esemplarità linguistica regga al confronto
col la ventisettana dei Promessi Sposi, almeno «per quello
che l’una e l’altra rappresentarono nella storia della lingua
italiana, quale investitura del toscano a lingua unitaria»
(Martinelli, 2000: 156)16.
Peraltro le ideologie e pratiche lessicografiche che
sottendono l’opera sono contigue a quelle dell’opera
maggiore, il Dizionario della lingua italiana,
normalmente conosciuto come Tommaseo-Bellini,
pubblicato a Torino tra il 1861 e il 1879.
Conviene perciò richiamare qualcuna delle vicende
biografiche di Tommaseo per quello almeno che può
riguardare nella sua attività di lessicografo il rapporto con
la lingua viva e parlata. Tommaseo appena arrivato a
Firenze nel 1827 (si tratta del suo primo soggiorno
fiorentino, chiamato dal Vieusseux alla redazione
dell’«Antologia») sottopone il vocabolario della Crusca,
l’edizione veronese del padre Cesari, al vaglio della lingua
viva17 e parola per parola ne segnala la persistenza
nell’uso, tenendo così a battesimo, prima ancora di aver
compiuto il dizionario dei sinonimi, il Dizionario della
lingua italiana18.
Scrive Tommaseo nelle sue Memorie poetiche19:
Presi la Crusca e parola per parola domandai a una povera
donna che questo martirio sosteneva con caritatevole
longanimità se si dicesse o no. Una donna scelsi, e no un
16
Martinelli (2000) conferma il peso della frequentazione di
Manzoni in un momento successivo, quello della fine della
revisione dei Promessi Sposi per la ventisettana, e mette in luce
come sia stato determinante il contributo di Manzoni alla
maturazione in Tommaseo della coscienza della tradizione più
municipale e della sua verifica nel parlato vivo.
17
L’esemplare annotato è custodito presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze. La chiave della siglatura è
annotata sul frontespizio dell’esemplare della Crusca controllato
con la Geppina (le voci e frasi segnate con crocellina sono
quelle parlate in Toscana; quelle con un frego non si trovano in
toscana, ecc.).
18
Così Martinelli (2000: 167).
19
Alla p. 246 (traggo la citazione da una nota di Martinelli,
2000: 167).
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letterato, perché già quello che i letterati dicono troppo io
già lo so.
L’informatrice etnolinguistica privilegiata era Geppina
Catelli, la sua affittuaria e poi compagna, sottoposta a
interrogatori continui, a volte stancanti, anche nei
momenti più impensati e inappropriati (Tommaseo era
solito annotare ogni minimo particolare ascoltato su
piccole schede cartacee che teneva sempre a portata di
mano).
Come ha osservato Gabriella Alfieri (2000: 206),
Tommaseo trentenne formulava il proposito di addentrarsi
a parlare estemporaneamente sopra un dato argomento e
di riportare sulla Crusca le giunte raccolte della lingua
viva20: dunque un’attenzione e una cura simultanee del
parlato programmato e del parlato spontaneo in toscano.
Scorrendo e consultando il dizionario dei sinonimi, si
constata facilmente come la competenza toscana di
Tommaseo si fosse ben consolidata attraverso
l’assimilazione di suggestioni da fonti orali di ogni strato
sociale e culturale, spaziando dalla popolana semicolta al
professore universitario di chimica: una lingua prima
origliata, poi orecchiata a più livelli e rielaborata con
grande versatilità metalinguistica21; anche dalle
annotazioni ai Canti popolari emergono le sue
esplorazioni dirette nel contado, nelle zone più periferiche,
sotterranee, socialmente lontane22. Parallelamente,
sull’altro versante diamesico, quello della lingua scritta,
Tommaseo compiva studi assidui e rigorosi sui libri delle
biblioteche fiorentine.
La pubblicazione del Dizionario della lingua italiana
durò poco meno di un ventennio (1861-1879): chi lo ha
consultato sa bene che si tratta di un dizionario complesso
se lo si volesse incasellare secondo rigidi parametri di
classificazione tipologica dei dizionari; è un dizionario
storico ma è anche dell’uso contemporaneo, ricco com’è
nella fraseologia, negli usi proverbiali, nella fitta
documentazione dei derivati-alterati delle parole.
Ed è dizionario storico anche in modo particolare, tutto
suo, non strettamente diacronico: nei significati
Tommaseo non procede in senso storico-evolutivo, ma
parte dall’uso vivente, la storia è riferita al presente. Ha
osservato argutamente Folena (1977) che Tommaseo ci ha
dato un vocabolario vivente di tutta la lingua, il più
presente e moderno nella cultura successiva, mentre
Giorgini e Broglio ci hanno dato un «manzoniano
vocabolario morto della lingua viva».
Marche di ‘parlato’ sono molte e diverse nel dizionario
(familiare è in genere l’indicatore più consueto), ma è
spesso il tipo di glossa, un inciso, un inserto che sfugge,
un verbo tra le righe, le definizioni stesse del Tommaseo,
che segnalano l’attenzione all’uso parlato, l’attingimento
da fonti vive, e testimoniano parole, significati ed
espressioni non documentati altrove.
Ecco solo qualcuno degli innumerevoli esempi
disseminati nel dizionario che andrebbero studiati
complessivamente e in modo sistematico, anche al
confronto con i dizionari coevi:
- s.v. abbozzare: Un bevitore diceva: le idee nel vino si
abbozzano, poi a mente serena si raffinano (T.).
- s.v. acca: sapere quattr’acca. Ma non si direbbe né tre,
né cinque, né altro numero. (T.).
- s.v. acqua: acqua sudicia per caffè o limonata, più acqua
che altro (T.).
- s.v. restare: quella pittura resta a sinistra di chi entra,
alla destra della porta maggiore, qui cade un modo vivo
nel ling.fam. e che non si disconviene allo scritto.
- s.v. rimpastare (viene registrata un’accezione particolare
del verbo, con un significativo inserto, dice): Fam. Chi
afferma di non poter mutare il modo di sentire o di operare
o di dire suo proprio, io non posso, dice, rimpastarmi23.
- s.v. cascare: per indicare avvenimento grave o molesto,
eh non casca nulla è dell’uso familiare; ma per affermare
(mi caschi il naso, mi caschi la testa se non…) è
Fam.volg.
La ricchezza del patrimonio lessicale, a volte
esorbitante, che non di rado sconfina anche nella presa di
posizione moraleggiante e folcloristica, è testimoniata
anche dal fatto che nei repertori di oggi la prima
attestazione di molti derivati (soprattutto degli alterati con
suffissi affettivi), di modi di dire, espressioni proverbiali,
locuzioni dell’uso, è indicata proprio nel dizionario di
Tommaseo (De Fazio, in stampa, fornisce un breve
spoglio che documenta il Tommaseo-Bellini come prima,
a volte unica attestazione per molti lemmi o per significati
secondari e traslati registrati dal Lessico Etimologico
Italiano). L’esperienza lessicografica nella sua interezza
di Tommaseo è stata certamente la più preziosa e
significativa per il secolo successivo, perché anche nel
modo disorganico e non sempre scientifico di trattamento
dei dati o in certi sconfinamenti nel soggettivismo,
fornisce un patrimonio che per la prima volta, per usare
l’immagine di Nencioni (1983: 9, a proposito del
Dizionario dei Sinonimi, ma con le dovute distinzioni
estendibile al dizionario), «costituisce l’unica istantanea
cioè l’unica rappresentazione sincronica (in senso
desaussuriano) delle opposizioni e correlazioni del sistema
lessicale italiano». Non è improprio pertanto guardare ai
dizionari di Tommaseo, anche per alcuni aspetti del
metodo di lavoro, come a una sorta di progenitore o di
lontano parente dei corpora attuali di italiano parlato.
20
Secondo Alfieri (2004: 206) forse era stato decisivo l’incontro
con Gino Capponi, nel 1831-32, da lui considerato maestro di
eloquenza in prosa e poesia.
21
Cfr. Alfieri (2004: 209). Come la competenza toscana di
Tommaseo emerga rispetto a Manzoni molto più solida è stato
dimostrato Bruni (1999: 110).
22
Cartago (2004: 149) ricorda che Tommaseo riconcilia la scelta
tra scritto e parlato scovando di quest’ultimo le zone più riposte,
geograficamente e socialmente più lontane dai centri del
cambiamento linguistico: nelle zone più incolte della Toscana
Tommaseo «mieterà il suo miglior raccolto».
4. I dintorni: il Novo vocabolario e i dizionari
della lingua parlata
Negli anni delle opere di Tommaseo (prima e dopo), ci
sono lavori ai quali merita almeno far cenno in quanto
significativi per l’attenzione alla lingua parlata.
Il Novo vocabolario della lingua italiana di GiorginiBroglio è una novità assoluta, di rottura col passato
23
L’esempio è ricordato da Cortelazzo (1985: 447).
Lessicografia italiana e variazione diamesica: prime ricognizioni
(Serianni 1990: 72). Nella prefazione, Giovan Battista
Giorgini (coautore con Broglio), osservando come «i libri
stan fermi e le lingue camminano», dichiara in modo
perentorio che all’Italia serve un Vocabolario «dove si
trovi tutto l’uso», non la lingua letteraria, non la lingua dei
libri. Vengono eliminati gli esempi letterari, si danno
abbondanti e circostanziate indicazioni sull’ambito e sul
livello d’uso, si introducomo per la prima volta alcune
marche accanto ad altre già collaudate (familiare, scelto,
letterario, popolare, poco usato, poco comune, fuor d’uso,
voce nova, triviale) e viene registrata una ricca
fraseologia, con espressioni idiomatiche, proverbi,
locuzioni e modi di dire. Si tratta del primo lavoro fondato
con coerenza sull’uso sincronico, uso che, nel caso del
Giorgini, rispecchia il fiorentino delle classi borghesi.
Le vicende editoriali del Giorgini-Broglio furono
complicate e perciò la stampa del vocabolario, di chiara
impostazione manzoniana, iniziata nel 1870 nel pieno
clima delle discussioni linguistiche all’indomani
dell’unità, di fatto si concluse molti anni dopo, a fine
secolo, nel 1897. Significativo, almeno per la sua
esplicitezza, il titolo del Rigutini-Fanfani, Vocabolario
italiano della lingua parlata, pubblicato nel 1875: il
vocabolario fu di fatto opera del solo Giuseppe Rigutini
che condivise le posizioni sull’uso ben espresse dal
Giorgini-Broglio, ma con qualche prudenza nei riguardi
dei neologismi e con qualche compromesso rispetto alla
tradizione a discapito di tutti i «riboboli e fiorentinerie»
accolte indiscriminatamente nel Novo dizionario. Nella
premessa alla prima edizione, datata primo marzo 1875,
l’autore sostiene di aver accolto la richiesta, largamente
diffusa, di vocabolari che raccogliessero la sola lingua
dell’uso parlato (fa fede di quell’attenzione la tavola delle
abbreviature che contiene interessanti indicatori). In una
lettera a Luigi Morandi del 1893, premessa alla seconda
edizione del vocabolario, Rigutini risponde a Broglio –
che aveva benevolmente ironizzato sul titolo del
vocabolario – che in fondo «tutta la lingua parlata può
essere scritta, ma non tutta la lingua scritta può essere
parlata», criticando il vocabolario del Giorgini-Broglio
perché non allestito con vero metodo lessicografico né
rispondente in pieno ai criteri manzoniani, e che invece il
Rigutini-Fanfani ha la ferma intenzione di dare agli
italiani «la buona e vera lingua dell’uso toscano».
Va infine menzionato il Nòvo Dizionario Universale
della lingua italiana del pistoiese Policarpo Petrocchi
(pubblicato in due volumi nel 1887e 1891, ma in dispense
già dal 1884) se non altro per un aspetto eccentrico
(unicum lo definisce Manni, 2001), la doppia fascia per
distinguere la lingua dell’uso da quella fuoriuso, quasi una
sorta di particolare marcatura, relegando nel basso della
pagina le parole fuori d’uso, tecniche, letterarie; e va
menzionato anche perché, mentre il Giorgini-Broglio
incontrò varie difficoltà editoriali e si protrasse per molti
anni senza raggiungere alcuna fortuna nel mercato
editoriale, il Petrocchi costituì di fatto il vocabolario di
stampo manzoniano di maggiore successo. La separazione
in due fasce, utile forse alla consultazione, è spesso
opinabile, lo ha dimostrato Manni (2001), ma costituisce
cindubbiamente una novità assoluta, un’idea senza
riscontri nella lessicografia monolingue italiana né in
quella delle altre lingue moderne. Nel frontespizio si legge
che il dizionario comprende la lingua d’uso e fuori d’uso,
la lingua scientifica antica e moderna più importante, la
lingua delle varie città toscane, «la lingua contadinesca e
delle montagne toscane», con esempi per la lingua viva
tratti semplicemente dall’uso, per la lingua morta dagli
autori. Petrocchi, inclinando verso una lingua aderente al
parlato di tono più spontaneo e colloquiale (Manni, 2001:
90) procede con un’attenta attribuzione dei vocaboli ai
diversi livelli sociali, fornendo numerose informazioni
diastratiche e diafasiche, con una prassi più vigile e
minuziosa rispetto a quella che si riscontra nel GiorginiBroglio (tra gli indicatori, oltre a letterario, popolare,
volgare, triviale, non comune, si trovano marche come
pedantesco, plebeo, contadinesco, politico, voce
fanciullesca; sono accolte inoltre parole sconce assenti
tanto nel Giorgini Broglio quanto nel Rigutini-Fanfani).
Petrocchi, come osserva Manni (2001: 93), marcando
certe frange più alte dell’uso e accogliendo come normali
elementi già connotati in senso familiare o volgare, fa
scivolare la piattaforma del lessico comune verso un
livello un po’ più basso e più vicino alla naturalità
fiorentina di tipo più corrente: ciò in coerenza con la sua
valorizzazione della lingua parlata più spontanea e
colloquiale che viene perseguita anche nelle indicazioni
fonologiche e grammaticali.
Nel secolo dei vocabolari, del resto, l’attenzione
crescente alle varietà, soprattutto diatopiche e diafasiche, è
testimoniata, si è detto, dal proliferare di dizionari tecnici,
dialettali, speciali. Probabilmente, giusta l’osservazione di
Della Valle (1993: 87), la separazione di Petrocchi tra i
due livelli di lingua finisce per rappresentare il punto
d’arrivo del secolo dei vocabolari, ma costituisce in
qualche modo anche un punto di partenza per il secolo
successivo, quando finalmente le varietà della lingua
ottengono a pieno titolo cittadinanza nei repertori
lessicografici ed esigono modalità e criteri sempre più
rigorosi nella prassi della loro registrazione.
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