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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno VII - N. 34 - Marzo-Aprile 2001
S
peciale:
Le ragioni
della Padania
34
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 28100 Novara
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Flavio Grisolia
Elena Percivaldi
Andrea Rognoni
Gianni Sartori
Carlo Stagnaro
Alessandro Storti
Grafica:
Laura Guardinceri
Collaboratori
Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni,
Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante, Camillo
Arquati, Lorenzo Banfi, Fabrizio Bartaletti,
Alessandro Barzanti, Batsòa, Alina Benassi
Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Massimo Bonini, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando
Branca, Gustavo Buratti, Beppe Burzio, Luca
Busatti, Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio
Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini,
Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti,
Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio
Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo de Leonardis, Alexandre Del Valle, Corrado Della
Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti,
Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini,
Davide Fiorini, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo Frison,
Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Marco
Giabardo, Davide Gianetti, Giacomo Giovannini, Michela Grosso, Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti,
Eva Klotz,
Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo
Maggi, Aldo Marocco, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian
Merlo, Martino Mestolo, Ettore Micol, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori,
Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea
Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma,
Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela
Piolini, Giulio Pizzati, Mario Predabissi,Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli,
Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar,
Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio
Salvi, Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto,
Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura
Scotti, Marco Signori, Stefano Spagocci, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida
Terracciano, Mauro Tosco, Claudio Tron,
Nando Uggeri, Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio
Vezzani, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.
Spedizione in abbonamento postale:
Art. 2, comma 34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO
Registrazione: Tribunale di Verbania:
n. 277
Periodico Bimestrale
Anno VII - N. 34 - Marzo-Aprile 2001
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi
di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
Le ragioni della Padania
Sempre avanti - Brenno
Il futuro dell’arte in Padania deve partire dal ripristino
della verità storica e dalla valorizzazione
del nostro passato - Flavio Arensi
Quella terra tra Alpe e Po:
chiamala se vuoi Transpadania - Romano Bracalini
I movimenti autonomisti - Corrado Galimberti
L’economia - Giancarlo Giorgetti
Religiosità in Padania - Paolo Gulisano
L’eredità celto-germanica
dei popoli padano-alpini - Anrea Mascetti
Cultura e territorio - Gilberto Oneto
Le origini e la storia antica - Elena Percivaldi
Canti e balli della tradizione padana - Mariella Pintus
Le radici letterarie della Padania - Andrea Rognoni
La ragione linguistica della Padania - Sergio Salvi
Calcio Politico - Leo Siegel
I caratteri etnici della Padania - Stefano Spagocci
La voglia di libertà - Carlo Stagnaro
Utilità della cucina padana
tradizionale - Ferruccio Vercellino
Lettera di Ron Holland
1981-2001: vent’anni dopo Bobby Sands
resta un martire della libertà - Gianni Sartori
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Le ragioni della Padania
D
omenica 4 marzo 2001 si è tenuta all’Hotel
Villa Carlotta di Belgirate l’ottava giornata
di cultura padanista organizzata da La Libera Compagnia Padana.
L’incontro ha avuto per titolo: Le ragioni della
Padania. Per non dimenticare chi siamo.
È stato un pomeriggio intenso e fitto di relazioni tematiche in ciascuna delle quali una personalità culturale del settore ha raccontato di
specifiche ragioni di padanità. Ne è risultato un
quadro complesso e interessante che ha focalizzato l’attenzione di una sala gremita e capace di
500 posti a sedere. Nel corso dell’incontro le persone che hanno partecipato ai lavori, a parte di
essi, e che hanno frequentato i numerosi stands
di materiale editoriale, sono state almeno 900.
Di seguito vengono riportati tutti gli interventi in ordine alfabetico degli oratori. Tre delle re-
lazioni sono state presentate solo in forma scritta (Bracalini, Rognoni e Spagocci); solo la relazione di Roberto Maroni non ci è stata consegnata e ce ne dispiace.
Assieme agli interventi vengono riportati il
messaggio di saluto ricevuto in occasione del
convegno da Ron Holland, rappresentante del
movimento indipendentista League of the South
e un ricordo del martirio del patriota irlandese
Bobby Sands.
I testi sono accompagnati dalle riproduzioni
di copertine di libri e di riviste che contengono
nel titolo il nome di “Padania”. Le immagini sono proposte senza nessuna relazione con il contenuto degli interventi.
Viene anche riprodotto il programma della
giornata nella forma che era stata divulgata e
che ha subito solo minori variazioni.
Ore 14,30 – Apertura dei lavori (Galeazzo Conti, Reggitore de La Libera Compagnia)
Ore 15,00 – Primo gruppo di interventi tematici (presiede Galeazzo Conti)
L’eredità celto-germanica (Andrea Mascetti)
La cucina popolare (Ferruccio Vercellino)
Le origini e la storia antica (Elena Percivaldi)
La letteratura (Andrea Rognoni)
Lo sport (Leo Siegel)
L’economia (Franco Giorgetti)
La musica (Mariella Pintus)
La lingua (Sergio Salvi)
Ore 16,45 – Intervallo
Ore 17,15 – Secondo gruppo di interventi tematici (presiede Roberto De Anna)
Diapositive di Franco Actis
La voglia di libertà (Carlo Stagnaro)
La religiosità (Paolo Gulisano)
L’arte (Flavio Arensi)
Il territorio (Gilberto Oneto)
Le aspirazioni autonomistiche (Corrado Galimberti)
La storia recente (Romano Bracalini)
La politica (Roberto Maroni)
Ore 19,00 – Conclusione dei lavori
Ore 20,00 – Cena in (Libera) Compagnia con menù locale (paniscia e pesce di lago).
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Quaderni Padani - 1
Sempre avanti
S
i è cominciato togliendo “per l’indipendenza
della Padania” dalla ragione sociale del più
grande movimento autonomista. L’elisione è
stata fatta – si è detto – per togliere un inutile
ostacolo lessicale alla nuova alleanza che ci dovrà portare alla devoluzione. Agli indipendentisti è stato assicurato che la sostanza restava invariata: la devoluzione porta inevitabilmente all’indipendenza ed è perciò inutile perseverare in
una provocazione formale che è superata dai fatti. Gli indipendentisti se ne sono fatti una ragione: in effetti non cambierebbe niente se tutti
fossero fermamente convinti dell’obiettivo finale, l’indipendenza appunto. Il guaio è che all’interno della Lega ci sono tanti, troppi, che all’indipendenza non hanno mai veramente creduto,
che l’hanno accettata come slogan solo per difendere posizioni o interessi personali. Tutti
questi hanno preso l’elisione del “per l’indipendenza della Padania” come una liberazione, co-
2 - Quaderni Padani
me la fine di una scocciatura e di un intralcio
oggettivo alle proprie ambizioni economiche e
cadreghistiche che con l’indipendenza poco
hanno sempre avuto a che fare.
Questo spiega come il termine “Padania” sia
rapidamente sparito in certi ambiti e come siano
riapparsi orpelli italionici che per un po’ erano
scomparsi. “Padania” è stato generalmente sostituito con “Nord” con grande gioia di moderatini e di cacasotto che non si sono limitati alla
sola restaurazione lessicale ma che hanno rapidamente fatto sparire anche ogni segno esteriore di padanità (fazzoletti, camicie o cravatte verdi, Soli delle Alpi, eccetera) riprendendo con italico entusiasmo tematiche e slogan più “politically correct”: “il federalismo unisce”, “bisogna
aiutare chi è rimasto indietro”, “l’unità è un valore”, “il tricolore può anche stare in locali diversi da quello suggerito a Venezia”, “basta con
le scenografie celtiche”, “si deve cercare quello
che unisce e non quello che divide”, “i meridionali sono i nostri fratelli meno fortunati”, “aiutiamoli anche a casa nostra”, eccetera.
Il vero e più attivo laboratorio di questo nuovo
corso mamelico è il quotidiano La Padania che,
quasi vergognandosi del proprio nome, è diventato una alluvione di Nord, Alto Adige, Paese
(maiuscolo e riferito alla calzatura mediterranea), fasce tricolori, elogi agli Italiani all’estero
(non più riferendosi a quelli che sono in Padania), Nazionale italiana, Azzurri, Eja eja elala!
Dalla forma si è passati piano piano alla sostanza: l’obiettivo non è più l’indipendenza, non
è più neanche il federalismo spinto, è il regionalismo, l’autonomia amministrativa, in realtà solo più il cadreghismo più italiano.
Quello che contribuisce ad attorcigliarci ancora di più le budella è che in qualche modo almeno la battaglia delle parole la stavamo vincendo.
È piuttosto buffo che, a fronte di certa ritrosia
padanista, il termine stia ormai infatti dilagando
altrove dappertutto, su Internet, all’estero, nei
titoli dei libri, negli articoli (addirittura sul periodico dei Carabinieri) e soprattutto nel linguaggio comune.
Ma al di là delle parole, preoccupa molto l’abbandono delle tematiche padaniste, il suo capAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
zioso darle per scontate, per non parlarne più
neanche in casa nostra.
Se noi siamo qui, se siamo assieme, se abbiamo costituito un aggregato umano numeroso e
determinato è perché ci unisce la volontà di essere padani, e cittadini di una Comunità libera e
indipendente. Ci unisce la Padania, l’idea di Padania ci ha fatto combattere una battaglia ideale
e politica che ha fatto tremare i nostri nemici.
Ci ricordiamo le loro facce nei giorni delle nostre vittorie e della crescita della consapevolezza
comunitaria? Ci ricordiamo della preoccupazione di mascalzoni, profittatori e parassiti nel vedere avanzare la marea verde che sembrava inarrestabile? E li vedete adesso come sono rilassati?
Come ci guardano con tenero compatimento
rasserenati dallo scampato pericolo? Ci osservano sogghignanti e sornioni come si fa con un gigante imprigionato, una fiera senza più artigli,
come un evaso ritornato docilmente in cella. La
Padania non fa più paura solo perché i Padani
per primi hanno smesso di crederci e di fare
paura.
Senza l’obiettivo condiviso di indipendenza
della Padania non ha senso essere padanisti,
non ha nessun senso continuare. Se ne siamo
convinti – come ne siamo convinti – dobbiamo
affermare con forza i nostri ideali e la nostra
identità.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
La Giornata di Belgirate ha avuto come sottotitolo “Per non dimenticare chi siamo” ed è stata un energico segno che abbiamo la memoria
bene funzionante e perfettamente focalizzata su
chi siamo e cosa vogliamo.
Certo, è giusto ribadirlo, è opportuno che periodicamente i padanisti verifichino se stessi e i
propri obiettivi.
A Belgirate non sono stati tirati fuori tutti gli
argomenti in favore della moralità della battaglia padanista che sono numerosi e radicati. Ci
siamo solo rinfrescati un po’ la memoria.
Qualche anno fa (sei sono pochi sul calendario, ma sono un’eternità nel vortice degli avvenimenti che abbiamo vissuto) la Libera Compagnia è nata con l’obiettivo di promuovere la cultura e l’aspirazione alla libertà dei Padani. Non
abbiamo mai smesso di lavorare in questo senso
e le nostre idee hanno avuto un importante effetto trainante anche sul movimento leghista di
cui oggi non è più così chiaro quale sia la strategia politica anche - e soprattutto – a causa di
strane giravolte da parte di taluni dei suoi esponenti. Se è solo una turbolenza dovuta a sommovimenti elettorali, saremo felici di continuare il nostro cammino tutti uniti sotto le stesse
bandiere di libertà. In ogni caso, noi, in pochi o
in tanti, non cambieremo direzione.
Brenno
Quaderni Padani - 3
Il futuro dell’arte in Padania deve partire
dal ripristino della verità storica
e dalla valorizzazione del nostro passato
di Flavio Arensi
P
remetto che, anziché raccontare lo sviluppo
delle arti in Padania, motivandone l’autonomia di stili e linguaggi rispetto alla produzione di altre zone geografiche (cosa del resto ormai risaputa e facile da dimostrare), preferisco
chiarire quanto una pessima e partigiana storiografia abbia indotto l’annichilimento della nostra
tradizione, in favore – un tempo della pur pregevolissima e ammirevole “arte toscana e papalina”
– adesso delle avanguardie afone e globalizzanti
di stampo americano.
Intendo iniziare questo mio intervento con
un’affermazione vecchia di quasi mille anni, eppure attuale: se “vediamo di più e più lontano di
loro non è perché la nostra vista sia più acuta e
più alta la nostra statura, bensì poiché ESSI ci
sollevano con la loro altezza gigantesca”. L’autore è Bernardo di Chartres (XI-XII secolo), e gli
“essi” cui egli si riferisce sono gli antichi. Ho voluto citare l’intuizione di Bernardo perché considero fondamentale si parli di futuro, del futuro
delle nostre arti, benché sia ineluttabile accertarci della grandezza del passato. Ciò che di peggiore ha fatto la classe intellettuale di questo Paese
è stato proprio deprivarci del passato, impedendo
lo sviluppo del futuro. Ci è stata, invece, presentata una società di massa allargata a tutte le culture e – presumibilmente – arricchita da una
congerie di deroghe alla tradizione. D’altronde,
la storiografia delle arti è viziata già a partire dall’operare di Giorgio Vasari (Arezzo 1515 – Firenze 1574) e del suo ritenere l’operato degli artisti
meritorio o superfluo in base al livello di accostamento al genio di Michelangelo Buonarroti.
Gli errori, di secolo in secolo, “studioso” in “studioso” sono giunti fino a noi e il fastidioso toscocentrismo vasariano ha permeato i libri di testo
fino al recente e frequentatissimo Argan. Con
questo sistema interpretativo, raramente sottoposto al dubbio e alla verifica, si è dapprima ne4 - Quaderni Padani
gata la consistenza di certe parabole creative, poi
si è sconsacrata la stessa arte. Di recente, e purtroppo sempre più spesso, mi capita di dover ammettere quanta ampia ignoranza circa il passato
germini fra le nuove generazioni di artisti, nonché l’ignobile intenzione di voler a tutti i costi
sbigottire, di cercare la novità anziché esprimere
la silloge esperienzale del proprio vivere in un
tempo e luogo definito. Tuttavia, l’intento più ridicolo cui si è assistito dal Romanticismo a oggi
(purtroppo ancora oggi) è il tentativo di omologare a un unico carattere nazionale qualsivoglia
vicenda artistica esperita sulla penisola italica. Al
fine di reperire un fasullo comune denominatore
si è privilegiata la scuola toscoromana, ma direi
soprattutto toscana, così da far combaciare e in
seguito prevalere la presunta superiorità della
lingua fiorentina con la similmente presunta superiorità artistica fiorentina. Anziché registrare
l’ammirevole varietà dei casi artistici locali, spesso influenzati l’uno dall’altro, eppure in piena
autonomia, si è cercato di far nascere da un unico grande utero una storia dell’arte unitaria, che
invece non esiste. L’arte italiana si è sviluppata
su piani differenti poiché diversi sono stati gli
ambienti geografici e filosofici di maturazione.
Per esempio, per l’arte padana è di rilevante significato il contesto gotico, così come l’ambiente
neoclassico federiciano ha motivato buona parte
della cultura meridionale della penisola. Nella
Toscana medioevale del Duecento, si vive la fase
di comunione di due culture della penisola, derivanti dalla “Lombardia” e dall’“Apulia”, termini
che contraddistinguevano rispettivamente le zone padane e ausoniche. Infatti, tra la metà del
Duecento e i primi decenni del Trecento, gli
scultori e architetti Nicola e Giovanni Pisano
danno vita a una delle manifestazioni più apprezzabili della scultura medioevale, rielaborata sulla
gusto del regno di Federico II e del gotico di area
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francese e padana. Ciò però non deve forzatamente significare che i Pisano e gli altri esponenti fiorentini siano l’apice di un’epoca (senza
prescindere dalla loro autorevole bellezza), bensì
voglio sia intesa l’importanza di esperienze precedenti e parallele a quella “ufficializzate” dalla
storiografia, tali d’aver influenzato ampiamente
il suo sviluppo.
Ora preferisco soffermarmi sulla parabola del
Gotico, poiché coincide colla crisi dell’Impero ed
è il distinguo basilare per comprendere le diversità fra Nord e Sud della penisola, anche dal punto di vista sociale. Senza comprendere l’epoca
che l’aveva preceduto,
il Vasari – cui imputo
non poche colpe – ha
attribuito al Gotico
un’infamante aurea
barbara, riproposta nel
proseguo storico da
numerosi studiosi:
“non erano ancora venuti i Goti e l’altre nazioni barbare e straniere, che distrussero
insieme con l’Italia
tutte le arti migliori”.
A conclusione del suo
L’arte di ottenere ragione Schopenhauer
propone di insultare il
contraddittore qualora
si ravvisi la propria inferiorità intellettuale;
l’impossibilità di comprendere gli accadimenti anteriori non
evince la loro inferiorità teorica, bensì l’arrogante ignoranza e
superbia evoluzionistica degli Occidentali, delle quali il Vasari e la romanità sono un egregio esempio. D’altronde, a
differenza di quanto accade normalmente, il termine Rinascimento viene coniato nello stesso
momento storico in cui va sviluppandosi per sostenere la rinascita artistica seguita al barbarico
lasso gotico. Ebbene chiarire immediatamente
che il lemma “gotico” non può derivare dal nome dell’antica popolazione dei Goti, perché non
avrebbe senso storicamente, visto che la loro penetrazione nel mondo romano è anteriore di
qualche secolo rispetto alla fioritura dell’arte cui
dovrebbe riferirsi. È più plausibile che l’origine
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francese del termine “art gotique” (poi mal utilizzato dai toscani, all’epoca molte in contatto
con l’Oltralpe), dipenda dalla parola argotique, la
cui omofonia è perfetta. Il vocabolario “Devoti
Oli”, sintetizza la definizione di argot in “gergo”.
Sappiamo che esso risponde a un linguaggio particolare di individui che non intendono farsi
comprendere da altri. Gli Argotieri dunque discendono dagli Argonauti, ovvero coloro che sulla nave Argo parlavano la lingua iniziatica argotica, navigando in cerca del Vello d’oro. Ecco come
si spiegano i complessi simboli ermetici, alchemici, delle cattedrali gotiche che, anziché essere
riferimenti barbarici di
un’estetica incivile, sono piuttosto complesse
teofanie, ardue da decifrare per i non iniziati.
Ciò, da una parte fornisce le basi per rivendicare un passato assoluto ed equipollente alle
ad altre conoscenze,
dall’altra dovrebbe
spingerci verso l’appropriazione delle nostre
origini culturali.
Il fraintendimento che
ha condotto il Vasari a
considerare inferiori le
arti gotiche rispetto alle contemporanee, non
è diverso da quello che
l’ha spinto a criticare
l’arte veneta, secondo
lui imperfetta perché
scarsamente adusa al
disegno e di converso
improntata all’utilizzo
esclusivo della forza
tonale: ancora una volta barbaricamente inferiore. In effetti, prima
della polemica circa l’opera del Giorgine e dei
Veneti (la cui influenza si sente sugli artisti valenziani), è bene stabilire che, contemporaneamente alle stimolanti prove dell’arte fiorentina,
in quella che oggi è l’Emilia Romagna e sulla
costa adriatica, muovevano le istanze di autori
definiti secondari ma assolutamente intensi, innovativi e primari come Tura, Cossa e Crivelli. E
non è un caso se anche Lotto frequenta quelle
zone. A proposito del Giorgine e del Vasari, fa
sorridere rileggere le critiche portate alla geniale innovazione dell’artista veneto che “… senza
Quaderni Padani - 5
far disegno; tenendo per fermo che il dipingere
solo coi colori stesi… Ma non s’accorgeva che
egli [il disegno] è necessario…”. Nella “Pala di
Castelfranco”, ma soprattutto nei “Tre filosofi”,
il Giorgine cancella il disegno e attiva direttamente il colore. Questa direi che è la seconda
fondamentale discordanza che esiste fra le arti
della regione peninsulare. D’altronde, due personalità rilevanti del Rinascimento come Leonardo e il Giambellino contano su impostazioni
completamente differenti: l’ombra il primo, il
colore il secondo. Mi è facile ammettere che
senza la tradizione veneta, e più in generale senza l’atmosfera padana, gli Astrattisti e Informali
milanesi del Novecento non sarebbero mai esistiti. Durante una recente conversazione il pittore Attilio Forgioli ha esclamato una verace
certezza: “guardando Morlotti ho compreso meglio i maestri veneti”. Ciò, valevole pure alla rovescia, è la dimostrazione – ancora una volta –
che soltanto verificando la propria tradizione si
è in grado di raggiungere un risultato artistico
interessante. Se è vero che i due mondi veneti e
toscani sono discordi, è pur esatto asserire la
presenza di numerosi contatti, prodromi tuttavia di nuove forme autonome di creatività. Penso a Giotto giunto a Padova nella sua maturità
artistica e contraddetto da un suo concittadino,
Giusto de’ Menabuoi, che nella stessa Padova
(nel Battistero della Cattedrale) settant’anni più
tardi riconduce la rivoluzione giottesca nell’alveo della padanità. Nello stesso periodo Giovanni da Milano scende a Firenze a lavorare. Tra
l’altro devo rilevare alcune similitudini tra la felice “involuzione” (che tale non è) di Giusto e alcuni artisti coevi spagnoli-valenziani, dai quali
la rivoluzione di Giotto è solo parzialmente accolta e subito revisionata.
Un altro esempio di diversità e coniugazione è
facile tracciarlo riferendoci a tre geni del Rinascimento. Tre personaggi che la storiografia vasariana ha ugualmente penalizzato però, mentre
due sono riemersi senza alcun problema, il terzo – almeno in Italia – è rimasto sottovalutato.
Mi rifaccio alle esperienze contemporanee di Tiziano Vecellio, Raffaello Sanzio e Sebastiano Luciani (detto del Piombo). Se il primo e il secondo rappresentano le due anime della diversità
artistica fra il Quattro e Cinquecento, l’ultimo è
la loro più elevata sintesi: la cerniera che unisce
due stili e due filosofie. I tre, circa nello stesso
arco temporale, compongono i rispettivi capolavori: “Assunta” di Tiziano (1516-1518), “Trasfigurazione” di Raffaello (1518-1520), “Pietà” di
6 - Quaderni Padani
Sebastiano (1517). Prima del Luciani, a Roma
scende Lorenzo Lotto, troppo debole tuttavia
per lasciare qualche impronta pesante, se non
quella luce e quell’angelo che compaiono nel
Raffaello delle Stanze Vaticane de “La liberazione di S. Pietro”. Di converso, Sebastiano riesce a
mantenere l’aura veneta pur inserendovi connotati romani.
Quando Raffaello Muore, nel 1520, già da tre
anni Martin Lutero ha affisso le “tesi teologiche”
cuore della sua Riforma. Dato importante poiché base del rinnovamento controriformato che
anima la Milano di Federico e Carlo Borromeo a
cavallo del Cinque e Seicento e che conduce alla
felice stagione seicentesca della pittura lombarda, con Tanzio, Cerano, Morazzone, Lomazzo,
Procaccino, Crespi: periodo che vive specularmene in Spagna, grazie ai numerosi contatti fra
i porporati milanesi e quelli valenziani. Anche
l’avventura lombarda, e prima ancora quella di
Gaudenzio Ferrari oppure quelle coeve del Piemonte e della Liguria, sono tutt’ora ampiamente
sottovalutate, seppure grazie a figure come Roberto Longhi e Giovanni Testori se ne è compresa la portata innovativa. Basti pensare alla scarsa
fortuna del Caravaggio prima degli studi longhiani. Poiché pare inimmaginabile pensare che
il Caravaggio sia nato improvvisamente dal vuoto, pare logico ritenere sussista un’ampia serie
di personalità in grado di influenzarlo ed educarlo alle arti, così come è accaduto per i maestri toscani. Eppure, mentre a questi si riferiscono insigni origini, pochi vogliono prendere in
considerazione l’opportunità di restituire valore
agli artisti nati fuori dall’ambiente tosco-laziale.
Non stupisce, dunque, se in questi anni alcune mostre importanti e certi interventi pubblici
non rendano giustizia al ruolo occupato dai nostri artisti nella storia contemporanea; ogni popolo ha il diritto di conoscere la propria storia,
ma ha anche il dovere morale di difenderla e valorizzarla. Purtroppo, così come si è permessa la
mistificante propaganda risorgimentale, oggi
non si mostra alcun problema a pungere il cuore di Milano con un “Ago da cucire” pop, che
nulla ha a che fare con la nostra storia; né si evita di mascherare la stazione ferroviaria della
città, uno dei più mirabili esempi di questo tipo,
con una fontana ai microchip: simbolicamente
essa nasconde il nostro passato in favore di un
futuro privo di senso e vecchio nel momento
stesso di nascere. Agli errori storiografici e artistici si può mettere spesso rimedio. Per la viltà
delle intelligenze, invece, non vi è cura.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Quella terra tra Alpe e Po:
chiamala se vuoi Transpadania
di Romano Bracalini
P
er secoli l’unità italiana parve un’idea letteraria e ben pochi tra i più reputati pensatori
e uomini d’azione credettero di poterla tradurre in progetto politico. Le aspirazioni, per
quanto ambiziose, non possono strascendere
dalla realtà contingente e dalla storia. Carlo Cattaneo, uomo concreto, partiva dall’esperienza
storica per spiegare l’essenza del suo federalismo; all’opposto Mazzini faceva appello allo spirito di sacrificio e al volontarismo per rimediare
alla mancanza di volontà generale. Era prevedibile che fra queste due concezioni ideali, in contrasto tra loro, finisse per prevalere l’interesse
dinastico di casa Savoia. E tuttavia, dopo la rivoluzione francese, dal ragionamento dei letterati
derivò la certezza che unificare l’Italia fosse un
destino benchè poeti, scrittori e politici ne avessero ciascuno un’idea esclusiva e singolare che
mal si accordava con le aspirazioni di tutti. Era
stato fatto più di un tentativo durante i secoli,
ma sempre a fini d’interesse personale e di prestigio. Riunire la penisola sotto un unico scettro
pareva all’imperatore Federico II, di pura schiatta tedesca, altrettanto difficile che “incatenar le
nubi”.
Dopo di lui, il duca Cesare Borgia, detto il Valentino, si sarebbe accontentato di unificare l’Italia centrale, esclusa la Toscana, omogenea per
lingua e cucina, l’Italia della “porchetta e del
brodetto”, quella che va da Roma all’Umbria e
alle Marche, futuro territorio pontificio, con
l’aggiunta di Bologna e delle Legazioni. Napoleone I, benchè poco rispettoso della sovranità
dei popoli, concepì con le due Cisalpine, con la
repubblica italiana (1802) e infine con il Regno
d’Italia (1805), un vasto regno unificato del
Nord, con capitale Milano. Nemmeno Carlo Alberto, di lingua e cultura francese, (”je attans
mon astre” era il suo motto), benchè la propaganda ne abbia fatto un’icona di “italianità”,
avrebbe mai concepito un regno dell’Alta Italia
che da Torino andasse a Est oltre Venezia e a
Sud oltre il Po. Una decina d’anni dopo NapoleoAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
ne III, nell’imminenza della seconda campagna
d’Italia per la “liberazione” della Lombardia,
prefigurò una spartizione dell’Italia su basi federali: il Piemonte ai Savoia e il resto del Nord,
cacciati gli austriaci, sotto influenza francese; la
Toscana, sontuosa “tavola calda” e grandioso
museo di cose morte ma di gusto, a un principe
francese per i suoi personali sollazzi culinari ed
estetici; Roma al papa; il Sud continentale ai
Borboni; e la Sicilia, colonia vinicola e base
d’appoggio militare, alla Corona britannica.
Quando i Savoia, re di buon appetito ma con deboli denti, osarono contro ogni logica spingersi
più a Sud, il grido d’allarme di Farini, plenipotenziario del governo piemontese, circa le condizioni del reame di Napoli, angustiò gli ultimi
mesi di vita di Cavour, andato a cacciarsi nel ginepraio meridionale senza averne la minima nozione.
Era la prima volta che Nord e Sud si incontravano, meglio sarebbe dire che venivano a
collisione. Al Nord non si sapeva nulla della abitudini dei meridionali, e al Sud si consideravano “stranieri” tutti quelli nati a nord di Roma. I
fratelli Visconti-Venosta, milanesi, in viaggio in
Sicilia, vennero presi per “inglesi” a causa del
loro “italiano nordico”, prima ancora che dall’abbigliamento così poco consono al clima mediterraneo. La abitudini non cambiarono dopo
il 1861, benchè la letteratura di propaganda facesse ogni sforzo per decantare la perfetta armonia e i vantaggi politici ed economici derivati dall’unità. L’ideologia risorgimentale bollò gli
antichi Stati come peggio non si poteva, allo
scopo evidente di far rifulgere al meglio le qualità della “nuova” Italia. Una letteratura compiacente suffragò a comando il giudizio negativo
esaltando il “progresso”, nel cui nome sarebbe
stata condotta la lotta per “l’emancipazione, la
civiltà, l’unità”. Parole impegnative che non
corrisposero ai fatti. Messo alla prova, il nuovo
regime non si dimostrò migliore dei governi assoluti. In molti casi si dimostrò infinitamente
Quaderni Padani - 7
peggiore e più lontano dalle aspettative del popolo di quanto non lo fossero stati gli antichi tiranni. Né venne assicurata maggiore libertà e
giustizia sociale: malcostume, arbitrio e corruzione continuarono ad allignare esattamente
come prima, se non di più. Quanto al progresso
materiale, l’industria e l’agricoltura erano già
in stato avanzato molto prima dell’unità e il benessere economico un dato largamente acquisito in molti Stati, grazie alle ferrovie, alle strade,
alle navi a vapore, ai moderni opifici del NordOvest. Oggi non solo la distanza è aumentata
tra i due capi della penisola, ma le statistiche
dimostrano che, da allora, gli Stati del Nord
hanno perso competitività, senza alcun vantaggio per il Sud che continua a perdere terreno.
Alla metà dell’Ottocento Milano era considerata
una delle città più ricche ed eleganti d’Europa:
rispetto alle città italiane la capitale lombarda
continua a mantenere il primato della ricchezza
e della modernità; ma l’eleganza e il senso civico, vanto d’un tempo, non sembrano più un
tratto distintivo. Quanto è avvenuto dopo il ’61,
non ci sembra di poterlo catalogare sotto la voce “progresso”.
Nel 1820, rispetto ai più evoluti Paesi europei,
l’Italia del Centro-Nord - quella che corrisponde
ai confini storici della Padania - era al quinto
posto in termini di reddito pro-capite, dopo l’Inghilterra, la massima potenza industriale del
tempo, i Paesi Bassi, l’Austria, il Belgio, davanti
alla Francia e alla Germania (quest’ultima, come
l’Italia, non ancora unificata). Nel 1870, sotto il
regime unitario, l’Italia settentrionale - senza
contare la secolare arretratezza del Sud che aveva tratto dall’unità l’unico beneficio di non scivolare nel Maghreb - era scesa all’ottavo posto,
superata in mezzo secolo da Francia, Germania
e Danimarca.
Il nuovo stato unitario sembrava piuttosto la
sommatoria degli antichi Stati, da cui aveva ereditato solo i lati peggiori e gli antichi vizi di forma, e nessun barlume di coscienza nazionale
moderna. Alle manchevolezze e ai lati oscuri
sopperivano le “correzioni” della propaganda.
Fatto sta che il Risorgimento venne intriso di
troppe leggende, ”menzogne necessarie a tutte
le rivoluzioni”, le aveva con “rude franchezza”
definite Ferdinando Martini.
La storiografia ufficiale impegnata a esaltare
le nuove “conquiste” trascurò il fatto che Stati
progrediti e civili, con codici all’avanguardia,
come il Lombardo-Veneto, Parma e la Toscana, i
tre stati meglio amministrati della penisola (non
8 - Quaderni Padani
a caso tutti e tre sotto influenza austriaca) dovettero abbbandonare leggi, regole e consuetudini per applicarne altre infinitamente peggiori.
Buone amministrazioni furono sostituite da
inefficienti e tiranniche burocrazie, che ancora
ci affliggono, finchè Stati come appunto la Toscana decaddero, fino a perdere ogni primato,
dopo aver costituito un modello grazie ai Lorena. Né il nuovo Stato,che voleva presentarsi come moderno, parve più dinamico ed efficiente. Il
teatro la Fenice di Venezia, distrutta da un incendio nel 1836, venne ricostruita in due anni
dall’amministrazione austriaca descritta dalla
propaganda “tirannica e retriva”. Magari al governo della città lagunare ci fosse un arciduca!
La Fenice avrebbe forse già riaperto.
Charles Eliot Norton, scrittore americano,
aveva soggiornato a lungo in Italia nel 1860, assistendo al trapasso istituzionale, mostrando
simpatia per il moto unitario ma con qualche
scetticismo sulla riuscita dell’esperimento. Così
nelle sue Lettere profeticamente concludeva:
”Un popolo ignorante,un re poco intelligente e
dissoluto, una classe dominante che non ha l’abitudine al comando, uomini politici non usi alla discussione renderebbero, in qualsiasi altra
nazione, dubbiosa la riuscita di un esperimento
costituzionale – ma qui dove il temperamento
della nazione è più appassionato che razionale,
dove da secoli non esistono virtù civiche né disciplina politica, dove l’idea dell’Italia in quanto
comunità dev’essere ancora creata, non vi sarebbe nulla di strano se l’esperimento dovesse fallire…”.
Vittorio Gorresio su La Stampa del 19 novembre 1972 scriveva che gli italiani dovevano ricercare in se stessi le cause di questo fallimento
“con la riserva che ogni processo di unificazione
ha le sue esigenze costrittive e improvvisatrici
che è impossibile deludere; con l’obiettiva constatazione che in breve giro di anni la pretesa
piemontesizzazione dell’Italia si è risolta in una
meridionalizzazione effettiva del nuovo stato
unitario tutto intero; e col triste avveramento
della profezia di re Francesco II di Borbone circa la difficoltà o l’impossibilità di “ogni governo” in un paese come il nostro”.
Dopo i nuovi dati acquisiti dalla storiografia
più consapevole, sarebbe un errore ricercare
una soluzione alternativa?; o non è forse un’aspirazione legittima rinnovare in questa antica
terra, tra Alpe e Po, già nota alla storia, seppure
sotto nomi diversi, le antiche virtù di sobrietà,
onestà, laboriosità dell’antico ceppo padano?
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
I movimenti autonomisti
di Corrado Galimberti
L
a storia dei movimenti autonomisti e secessionisti della Padania e delle altre “nazionalità regionali” di quella che attualmente viene chiamata Italia settentrionale richiederebbe
un libro. Questa relazione è pertanto necessariamente incompleta. Chiedo pertanto scusa a tutti
quei movimenti e personaggi non citati, che
hanno comunque condotto e conducono tuttora
una battaglia nobile, come quella per il riconoscimento delle proprie specificità.
Nella Repubblica dei mille partiti - il sistema
uninominale, che doveva ridurre il numero delle
formazioni politiche, è stato in grado di creare
cinque Democrazie cristiane e una miriade di altri partiti - vi sono movimenti di cui non si parla
quasi mai. Neppure sui testi di storia delle dottrine politiche, anche se ci sono partiti autonomisti che hanno inciso in modo profondo sul
tessuto sociale, politico ed economico. E spesso,
spiace doverlo constatare, quando viene fatto, il
più delle volte, è a sproposito. Vi sono però movimenti autonomisti, federalisti e secessionisti
che, da quando la Padania e le altre “piccole patrie “ sono state occupate da uno Stato tra i più
centralisti d’Europa, si sono sforzati, pur tra
mille distinguo, errori, e incongruenze, di ridare
dignità e visibilità a popoli umiliati dalla tracotanza tricolore. Molti sono scomparsi, altri si sono trasformati, altri ancora sono confluiti in
movimenti che sono autonomisti, secessionisti
o italianisti a seconda delle circostanze.
La lotta per riappropriarsi delle proprie specificità etniche, culturali e linguistiche, della propria identità e di una forma di autonomia anche,
ma non solo di tipo amministrativo, hanno radici lontane. Basti pensare che, ancor prima della
nascita, il Regno d’Italia vide scontarsi sul campo i fautori del federalismo e quelli dello Stato
unitario. C’era chi, nel Lombardo-Veneto, non
voleva affatto troncare i contatti con l’Impero
Asburgico - riconoscendo quindi continuità e
contiguità con il mondo mitteleuropeo - chi mirava a una sorta di Stato cisalpino a guida piemontese e chi, al contrario, sognava già quella
che sarebbe stata imposta non molti anni dopo,
con tanto di condottiero: l’Italia romana.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Non ci sono solo le ormai riconosciute figure
di Carlo Cattaneo, Rosmini, Gioberti o Ferrari a
fare tabula rasa dei miti di un Risorgimento che
si rifà al libro Cuore di De Amicis. Un Risorgimento falso e ipocrita - come il Paese che si accingeva a plasmare - privo di alcuna attendibilità
storica, edulcorato da menzogne, ma proposto
sui libri di testo persino a livello universitario.
Ci sono svariati dati su cui riflettere. Il fatto che
siano ormai in molti a conoscere la celebre frase, attribuita ora a Massimo d’Azeglio, ora a Camillo Benso conte di Cavour “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” è stata finalmente reinterpretata in maniera corretta (e solo negli ultimi
quindici anni): gli italiani andavano fatti perché
non esistevano. Un’implicita ammissione che,
sul territorio del Regno, vi erano popoli, lingue
e culture differenti.
Vi sono anche figure minori che non avrebbero sfigurato alla guida di movimenti autonomisti. Basti pensare al lombardo Stefano Jacini,
proprietario terriero e figura di primissimo piano nell’Italia post-unitaria. Destò scandalo, Jacini, quando scrisse che “l’Italia non la si voleva e
non la si vuole dalle masse”. Destò scandalo, Jacini, che metteva già in luce l’incompatibilità
tra accentramento statale, gigantismo burocratico, bisogni di efficienza e produttività di uno
Stato. Destò scandalo, Jacini, quando, inascoltato, insisteva: “governare da lontano, amministrare da vicino”. E che dire di figure emerse alcuni decenni dopo, certamente non “etniste”,
ma che avevano comunque una visione autonomistica abbastanza pronunciata come don Luigi
Sturzo? Del resto anche gli autonomisti più intransigenti - e tutti noi dovremmo gloriarci di
considerarci tali - ammettono che il catalizzatore del dibattito, specie dopo la II Guerra mondiale, finì col coincidere con il tipo di rapporto
che ogni partito, e in particolare DC e PCI individuava fra l’opzione regionalista e le personali
esigenze di mantenimento ed espansione del
consenso politico.
La Carta di Chivasso, una pietra miliare dell’autonomismo europeo, dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine presentata il
Quaderni Padani - 9
19 dicembre 1943 per trasformare lo Stato italiano in modo radicale, rimase lettera morta. Le
regioni a statuto ordinario, che videro la luce
solo nel 1970, proprio non vanno. E non solo
perché rappresentano la brutta copia dello Stato
italiano, ma anche perché sono state disegnate
senza minimamente tener conto di ciò di cui era
necessario tener conto: etnie, lingue, culture,
storia, volontà popolare. E pensare che la votazione che consentì il mantenimento delle regioni così come le conosciamo oggi, passò con lo
scarto di un solo voto…
La Padania è ricca di minoranze ed è abitata
da più popoli, che hanno comunque un “unicum sentire” caratterizzato da sensibilità e sfumature diverse. E’ un punto di forza, non di debolezza. La determinazione di alcuni si è tradotta, in passato così come negli ultimi anni, nella
nascita di movimenti autonomisti che disperatamente si sono sforzati di dipingere il nostro Paese per quello che è: una Terra non italiana, ma
che, dopo decenni di colonizzazione selvaggia a cui, a onor del vero, si sono prestati e si prestano tuttora con zelo padani rinnegati - lo è diventata. Ma per comprendere come sia tutto
fuorchè una terra italica, vi sono troppe evidenze. Tra queste, la presenza di minoranze che con
l’Italia non avranno mai un futuro. Questo è
certo.
Si pensi a un piccolo, grande popolo: i Walser.
Distribuiti tra Oberland bernese, Vallese (con
una piccola, ma significativa presenza anche nel
Canton Ticino) e Liechtenstein, vivono anche in
Piemonte e Valle d’Aosta. Discendenti dagli Alemanni, un tempo erano distribuiti su un’area
più estesa, in zone ora franco-provenzali, e godono oggi di condizioni completamente diverse,
a seconda dello Stato sotto la cui giurisdizione
finiscono. In Svizzera hanno una scuola bilingue anche nel Ticino italofono, nonostante i
bambini attualmente iscritti alle elementari siano solo una decina. Ma a Macugnaga, in Piemonte, anni fa il sindaco dovette discutere con i
carabinieri e il vice prefetto per difendere - invano - l’insegna bilingue del municipio. Non hanno mai costituito una partito politico per difendere le proprie specificità, vista anche l’esiguità
numerica che li caratterizza, e si sono sforzati di
trovare in differenti movimenti politici qualche
referente. Spiace dovere constatare che nei tre
comuni della Valle d’Aosta dove sono presenti
non godano di particolare tutela.
Nella Vallée le rivendicazioni della Ligue
Valdôtaine risalgono ai primi anni del Novecen10 - Quaderni Padani
to. Fu allora che i valdostani rivendicarono il
francese come lingua ufficiale. La Ligue era un
movimento autonomista molto moderato, che si
limitava a chiedere l’insegnamento del francese
(anche se va precisato che i valdostani non sono
francesi, bensì franco-provenzali) alle scuole
elementari e l’istituzione di una consolato francese ad Aosta. Non ottenne nulla e con l’avvento
del Fascismo la situazione degenerò. Non sono
pagine gloriose quelle di quegli anni, neppure
per gli autonomisti locali. Perché persino il presidente della Ligue, Anselmo Réan, diede la sua
adesione al partito di Mussolini. Il prefetto di
Gorizia, nel 1930, chiese persino consigli a quello di Aosta sui metodi relativi ai metodi di italianizzazione della regione, visto che in questa zona avevano dato eclatanti risultati. Intendiamoci, non tutto deve essere dipinto di nero. Basti
pensare alla Jeune Vallée d’Aoste, fondata dall’Abbé Trèves che divenne un centro di formazione e resistenza della “valdostanità” e al Comité de Liberation Valdôtain che si oppose tenacemente al regime fascista. Non perché di sinistra, ma in ragione del suo sentire autonomistico. Durante la guerra, però, si verificarono già i
primi attriti tra partigiani valdostani e italiani,
espressioni dei partiti che avevano come referente Roma. Il 18 maggio 1945 si tenne ad Aosta
una grande manifestazione separatista e il governo italiano prese così sul serio le minacce di
secessione che decise di concedere, con una decreto luogotenenziale, la tanto sospirata autonomia. Ma le speranze vennero subito disattese.
La parola d’ordine dell’Italia “democratica” era
una sola: assimilazione. E pochi mesi dopo la
Repubblica proseguì, seppur in modo differente,
la politica incominciata dal Fascismo. Emile
Chanoux, leader valdostano e uno degli artefici
della Carta di Chivasso, dovette constatare che “i
piccoli popoli delle Alpi, abituati da secoli a governarsi da sé, popoli ricchi di tradizioni proprie, si sono visti in nome dello Stato italiano,
privati di quelle autonomie politiche che avevano custodito attraverso i secoli”. E a proposito
degli immigrati italiani, specie meridionali, inviati in Val d’Aosta per ragioni di oppressione etnica e colonialismo interno, Chanoux non le
mandò a dire e dichiarò: “… si è formata in loro la convinzione che andavano a redimere dei
popoli inferiori”.
Nel corso degli anni i valdostani che hanno
nell’Union Valdôtaine il loro referente politico
sono stati in grado di contrattare col governo
italiano un ventaglio di competenze autonome,
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
ma si sono oggi appiattiti su quanto faticosamente ottenuto dai loro padri. Appaiono lontane, insomma, le dichiarazioni come quella che
rese nel 1985 il presidente dell’Union Valdôtaine, Alexis Betemps, quando dichiarò che “la via
del federalismo passa per l’autodeterminazione
e l’indipendenza dei futuri Stati federali”.
La comunanza di vita e di cultura delle popolazioni al di là e al di qua delle Alpi - montagne
che, sino alla prima Guerra mondiale, non sono
mai state viste come baluardo di italianità o barriera naturale per la difesa del Regno prima e
della Repubblica dopo - non sembrano però essere state sapientemente sfruttate dai movimenti autonomisti. Perché si è dimenticato che
spesso per i popoli non vi è nulla di più innaturale dei confini naturali?
Vi sono oggi minoranze di serie A e di serie B,
popoli che possono dichiararsi diversi dalla
maggioranza etnica dello Stato di cui sono prigionieri e altri che invece vengono considerati
italiani, anche se non lo sono. Molti, se non sono numericamente forti, anche se hanno una
notevole coscienza etnica, sono destinati a soccombere: Alle citate isole tedesche dei Walser
della Valle d’Aosta e del Piemonte vanno aggiunti i Cimbri, austro bavaresi di tredici comuni del
Veronese e di sette comuni del Vicentino, i Mocheni e i Cimbri di Luserna, in provincia di
Trento, i Carinziani di
Sappada/Pladen, in
provincia di Belluno e
quelli del Friuli. Minoranze esigue da un
punto di vista numerico, che non hanno mai
creato particolari problemi a Roma. Per questo motivo vengono tollerati, ma sono rimasti
senza referenti politici
anche tra i movimenti
che li avrebbero dovuti
e dovrebbero tuttora riscoprire e valorizzare.
Troppi pochi voti?
La Valle d’Aosta è una
realtà riconosciuta come effettivamente diversa dalle altre regioni
persino da Roma. Ma ve
ne è un’altra che, per
repressione e assimilaAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
zione forzata, è stata oggetto di brutalità innominabili e deve combattere, giorno dopo giorno,
per non vedersi ridurre le competenze duramente conquistate negli anni: il Sudtirolo. La
storia di questa Terra parla da sé. E’ tutto fuorchè italiana e non è, naturalmente, neanche padana. Il che non significa che i sudtirolesi, e parte dei padani, non facciano parte dello stesso
mondo: quello della Mitteleuropa. Il Sudtirolo
entrò a far parte del regno d’Italia nel 1919, come bottino di guerra. Non “ritornò all’Italia”,
come scritto persino su alcune enciclopedie, per
il semplice motivo che dell’Italia non aveva mai
fatto parte. Re Vittorio Emanuele e il governo
italiano, subito dopo l’annessione, promisero il
rispetto delle consuetudini locali, della lingua
tedesca e della cultura del posto. Fecero il contrario. E quando i fascisti andarono al potere
diedero vita ad un’opera di repressione violentissima e ottusa. Che va sotto il nome di etnocidio. Né più, né meno. Già nel 1922 la federazione fascista stilò un programma di italianizzazione forzata del Sudtirolo. Primo punto: l’abolizione di qualsiasi forma di autonomia. Nel ‘27
vennero persino proibite le iscrizioni in tedesco
sulle tombe. E qualche anno dopo i sudtirolesi
furono costretti a scegliere tra due opzioni: o rimanere in Sudtirolo e diventare “italiani”, rinunciando persino a
parlare tedesco in privato o emigrare nel
Terzo Reich. Molti non
se la sentirono di “sognare l’Italia romana”
e si trasferirono. A
guerra terminata i
sudtirolesi - che dopo
il ‘45 conobbero un
terribile periodo di reciproca diffidenza tra
coloro che erano rimasti e chi invece se ne
era andato ed era poi
tornato - si ricompattarono. Nacque il loro
partito di raccolta: la
Südtiroler Volkspartei.
Le prime mosse furono
chiare e inequivocabili:
diritto all’autodeterminazione e riunificazione con la madrepatria:
l’Austria. Richieste
supportate da impoQuaderni Padani - 11
nenti manifestazioni. La prima, nel 1945, raccolse 25 mila persone. Le seconda oltre 35 mila
provenienti da tutto il Sudtirolo. L’Italia rispose
con i carabinieri, i militari, gli impiegati pubblici italiani per colonizzare quanto più rapidamente possibile. Un sudtirolese poteva essere arrestato - fatto realmente accaduto alla fine degli
anni Cinquanta - anche se osava dipingere le
persiane di casa propria di bianco e rosso, i colori tirolesi e austriaci. I “democratici” italiani di
ogni partito, da destra a sinistra, si comportarono nei confronti dei sudtirolesi in maniera inqualificabile. De facto proseguirono l’opera di
italianizzazione incominciata dal Fascismo, con
l’invio di migliaia di immigrati, specie dal Sud
Italia, nella provincia di Bolzano. E quando i patrioti sudtirolesi, cui veniva negato ogni elementare diritto, reagirono con le bombe (sotto
l’egida del BAS, Benfreiung Auschus Südtirol,
movimento di liberazione del Sudtirolo) si scatenò una repressione bestiale, nonostante venissero inizialmente colpiti solo i tralicci dell’alta
tensione per provocare non vittime, ma danni
economici. I carabinieri torturavano con la disinvoltura degli aguzzini di Stalin e arrivarono a
uccidere quattro uomini: prima Sepp Kerschbaumer e Anton Gostner (le urla di quest’ultimo, che veniva bastonato nella caserma di Eppan, venivano sentite dalla folla inorridita che si
era radunata fuori dal comando dei carabinieri).
Poi Luis Amplatz, che fu fatto assassinare da un
killer in una baita, mentre Georg Klotz venne
solo ferito, ma morì anni dopo in Austria per i
postumi dell’attentato. L’Austria si dovette rivolgere all’ONU per protestare contro l’opera di assimilazione forzata nei confronti dei sudtirolesi
e le violenze commesse da rappresentanti dello
Stato. E l’Italia venne condannata per ben due
volte dall’Organizzazione delle nazioni unite.
La SVP svolse un ruolo fondamentale in quegli anni con determinazione e coerenza, peraltro
continuando a chiedere l’esercizio della autodeterminazione. Ma negli ultimi quindici anni la
Südtiroler Volkspartei si è appiattita sulle posizioni dei più diversi governi italiani (fatta eccezione per quello guidato da Berlusconi), pur di
garantirsi il classico piatto di lenticchie. Non solo. La SVP ha rinunciato a chiedere l’esercizio
dell’autodeterminazione, strada battuta ormai
solo da formazioni minori, come l’Union für
Südtirol (ex Südtiroler Heimatbund) di Eva
Klotz, e i Freiheitlichen. Glissiamo, per carità di
patria, sui maldestri tentativi di altre formazioni
politiche “autonomiste” che, recentemente,
12 - Quaderni Padani
hanno cercato di penetrare in un territorio in
cui dovrebbero solo tessere rapporti di collaborazione e alleanza per combattere un nemico
che sta a Roma e non a Bolzano.
Anche il Trentino, ingiustamente dipinto da
alcuni come alfiere di italianità e baluardo contro la germanizzazione di questa area, è parte
integrante del mondo tirolese e non certo dell’area mediterranea in cui i partiti italiani hanno
cercato di relegarlo dal 1919 in poi. Basti pensare alla sua storia in seno all’Impero Asburgico,
ma anche alle rivendicazioni autonomistiche vivissime già subito dopo l’annessione al Regno
d’Italia. La memoria va anche al periodo 194548 con l’ASAR, l’Associazione Studi autonomistici Regionali. Subito dopo la guerra un gruppo
di autonomisti fondò un movimento che dapprima mosse i propri passi in modo eccessivamente
blando, ma che, nel 1945, contava già 65 mila
simpatizzanti. In un primo tempo pubblicò i
propri pensieri su l’Azione, organo di stampa del
Partito d’Azione. Ma nel ‘46 decise di stampare
in proprio. Nacquero le due pagine de l’Autonomia. Ma l’ASAR commise un errore imperdonabile. Alle elezioni lasciò libertà di voto, nonostante fosse presente con una propria lista. E Il
movimento si sgretolò. Da Rovereto partì la rivolta. Dopo pochi mesi nacque il Fronte autonomista Giovanile Trentino (FAGT). Il 2 giugno
l’ASAR, alle elezioni della Assemblea costituente, compì un altro errore. Confluì nelle liste comuni di PRI e del Partito d’Azione. E il rappresentante dell’ASAR venne subito emarginato.
Tutte le bozze di statuto regionale vennero bocciate. L’Associazione Studi autonomistici Regionali si chinò allora su un progetto più concreto.
Convocò persino una manifestazione, alla quale
parteciparono 25 mila persone. Il progetto venne bocciato. Spedì a Roma un’altra proposta per
lo statuto di autonomia e la supportò con una
imponente manifestazione: 35 mila persone. Ma
Roma rispose “niet”. E alle elezioni del ‘48 si ripropose un dilemma: unità con la SVP? Da soli?
Con tutte le forze autonomiste? Vinse la prima
proposta. E il gruppo si spaccò. Le lezioni diedero buon esito, ma nessun trentino dell’ASAR
venne eletto. La maggioranze decise allora di
confluire nella SVP.
Anni dopo sorsero due partiti autonomisti,
L’Unione autonomista trentino tirolese (UATT)
e il Partito popolare trentino tirolese (PPTT).
Un periodo di sterili divisioni che è stato superato solo tredici anni fa, nel gennaio 1988: l’UATT
e il PPTT in quella occasione decisero la riunifiAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
cazione in un congresso
lo francese o austriaco
a cui parteciparono oltre
alle spalle, a Roma i
duemila persone. NacFriulani non incutevano
que il PATT, il Partito
timore. Nel 1950 il moautonomista trentino tivimento di sciolse e nel
rolese, seconda forza po1964 nacque l’ibrido etlitica della regione che,
nico economico chiamatallonato dalla Lega
to Friuli-Venezia Giulia.
Nord, sembra ultimaCon il trattato di Osimo,
mente aver perso un po’
che risale al 1975 e che
di smalto.
aveva definitivamente
Altra realtà che offre
confermato la frontiera
una interessante panotracciata dopo la seconda
ramica da un punto di
Guerra mondiale, gli slovista autonomistico è il
veni ricevettero trattaFriuli, che l’ottusità trimenti diversi a secondo
colore ha accorpato in
della provincia in cui riun’unica regione insiesiedevano. Quelli della
me alla “Venezia Giuprovincia di Udine non
lia”. Risale al 1919 l’Ufgodevano di alcun diritficio centrale per le
to, quelli del Goriziano e
nuove provincie per
del Triestino ottennero
l’organizzazione dei terl’insegnamento dello
ritori che sino ad allora
sloveno nelle scuole eleavevano fatto parte del
mentari e medie, ma fu
glorioso Impero Asburloro proibito di utilizzagico. Ma il governo Facre la propria lingua con
ta abolì l’Ufficio pochi
le autorità. Diritto di cui
giorni prima della mar- Padani, Etruschi, Lucani...alle origini del- godevano quando erano
cia su Roma, nell’otto- l’Italia di oggi
amministrati dagli aubre 1922.
striaci. Il resto della stoI comportamenti dei governi liberali, in Friuli ria relativa alla loro tutela è un calvario. Lo
così come nelle altre Piccole Patrie, non differi- scorso febbraio, dopo 52 tentativi, la legge per
rono molto da quello fascista. Nella Venezia Giu- salvaguardare gli sloveni (il primo risale al ‘68),
lia erano soprattutto le minoranze slovena e che prevede l’uso dello sloveno negli atti pubblicroata a chiedere la tutela delle proprie specifi- ci e davanti alle autorità, è stata bloccata. Alcità. Mentre a Trieste pare fosse più che altro vi- leanza Nazionale ha presentato 1500 emendavo una particolare localismo, più che un senti- menti poiché non li considera “minoranza namento di coscienza etnica (che verrà però recu- zionale” “dal momento che abitano nelle valli
perato anni più tardi dal Movimento indipen- del Natisone da mille anni” (il secondo virgoletdentista triestino). Mussolinì abolì la suddivisio- tato è del Corriere della Sera).
ne in tre circoscrizioni elettorali - goriziana,
Dopo la guerra è comunque stato il Movimenistriana e triestina in vigore nell’Impero - sop- to Friûl a portare avanti una coraggiosa battapresse la provincia di Gorizia e fece estromettere glia per la difesa delle peculiarità friulane e per
sloveni e croati dalle amministrazioni pubbli- l’insegnamento della lingua friulana a tutti i liche. Subito dopo la seconda guerra mondiale si velli, dall’amministrazione pubblica, alle scuole,
costituì l’Associazione per l’autonomia friulana, agli uffici statali, così come l’Unione slovena si è
ma ebbe vita breve. Nel 1946 il giornale Patrie sforzata di ottenere dal governo italiano ciò che
del Friûl diede vita a un gruppo di “regionali- richiede da circa 25 anni.
sti”, ma il vero e primo partito autonomista sorVeniamo ora alla Padania.
se nel ‘47: il Movimento popolare friulano si unì
Vi sono stati numerosi movimenti, alcuni dei
a valdostani e sudtirolesi con la dichiarazione di quali scomparsi letteralmente anche dagli annaDesenzano per chiedere autonomia culturale e li degli autonomisti (come il MAB, Movimento
amministrativa. Ma senza uno Stato come quel- autonomista bergamasco), che testimoniano
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Quaderni Padani - 13
come il terreno della nostra Terra abbia una coscienza autonomista solo da recuperare e non da
creare ex novo. Si pensi alla Consulta ligure, associazione fondata intorno al 1970 che raggruppava movimenti che si riproponevano di recuperare e valorizzare ambiente, cultura e tradizioni
liguri. Realizzarono iniziative di un certo rilievo, anche se non di natura strettamente politica:
nel 1976, a San Remo, diedero vita ad un Convegno per la formazione di un vocabolario delle
parlate liguri, appoggiato dell’istituto di glottologia dell’Università di Genova. Si pensi anche al
lavoro dei Brigaschi, minoranza sperduta tra le
alture franco-liguri, popolo di montagna in provincia di Imperia, Cuneo e, in territorio occitano
(oggi sotto occupazione francese), nel dipartimento delle Alpi Marittime. Con la rivista R’ ni
d’Aigüra hanno reclamato per anni, e reclamano ancor oggi, semplicemente il diritto di non
scomparire. Si pensi al Movimento autonomista
occitano (MAO) che tanto astio ha dimostrato
nei confronti di alcuni movimenti autonomisti,
ma che resiste e insiste con le proprie rivendicazioni da tempo immemorabile.
Da un punto di vista politico la situazione cominciò a vedere la presentazioni di liste autonomiste su larga scala solo nel 1979, quando Bruno Salvadori, leader dell’Union Valdôtaine offrì a
piccoli movimenti autonomisti sorti pochi mesi
prima o che avrebbero visto la luce di lì a poco,
come la Liga Veneta, la Lega autonomista lombarda e l’Union Piemonteisa, il simbolo dell’UV
per competere alle elezioni. Ma i risultati furono
modesti e la prematura morte di Salvadori fece
calare un’ombra di scetticismo sulle Leghe da
parte dei movimenti autonomisti storici (Union
Valdôtaine e Südtiroler Volkspartei in primo
luogo). Uno scetticismo che, purtroppo, è stato
palesato anche in periodi in cui le Leghe non sfiguravano affatto, da un punto di vista di programmi e di contenuti, con UV e SVP.
Nel 1983 la Liga Veneta raccolse il quattro per
cento dei voti e cominciò a creare nei Veneti un
senso di appartenenza e una coscienza etnica
forse presenti solo ai tempi della Serenissima.
La Liga insisteva molto sul tema della specificità veneta, sull’uso ufficiale della lingua e sulle
tradizioni di un popolo di origini antichissime,
ma non riconosciuto dal governo centrale. Anche la Lega Lombarda, col tre per cento,
mandò a Roma due rappresentanti. Da allora fu
un crescendo di successi in Veneto, Piemonte e,
soprattutto, in Lombardia. Temi portanti: autonomia - non solo amministrativa - recupero
14 - Quaderni Padani
delle proprie origini, con tanto di recupero per
le lingue locali e trasformazione dello Stato italiano in uno Stato federale. Nel 1989 tutte le Leghe (ne vennero fondate anche in Liguria, in
Emilia e in Romagna) si accorparono nella Lega
Nord, dapprima sotto il nome di Alleanza Nord:
ma il cambiamento non fu solo di nome. Purtroppo la Lega Nord rinunciò alla difesa delle
identità dei popoli che intende rappresentare e
passò dal recupero della coscienza etnica e della
consapevolezza di costituire “altro” rispetto all’Italia, a una semplice comunione di interessi
meramente economici (emblematico lo slogan
del manifesto della Lega per le elezioni europee
del 1990: “Alleanza Nord, per l’Europa delle piccole e medie imprese”). La Lega smosse però le
acque. E il clima che seppe creare non rimase
circoscritto al movimento politico che incarnava. La protesta contro l’Italia dai servizi sociali
del Terzo mondo, dell’inefficienza, della corruzione elevata a sistema, della lottizzazione e del
quotidiano patteggiamento con mafia, camorra
e n’drangheta, montò a livelli impressionanti.
La grande industria contestava sempre più l’eccessiva pressione fiscale. E le elezioni del 5
aprile 1992 trasformarono la Lega, che raccoglie
voti quasi esclusivamente in Padania, nel quarto
partito della Repubblica. Il tasto sul federalismo
venne sempre più pigiato. E da un noto e stimato politologo, Gianfranco Miglio, fu partorito un
progetto che indicava nelle “Macroregioni” la
soluzione ai problemi che affliggevano “il Nord”
(e non solo). Bisogna puntare su un comune civiltà - è l’esplicito invito di Miglio - su un comune modo di comportarsi, di vivere, di mangiare. Si moltiplicano le proposte. La Fondazione Agnelli arrivò a chiedere un “regionalismo
spinto”. Ma, naturalmente pensava solo ai sistemi economici per rendere le industrie più competitive a livello europeo. Nessun cenno a tradizioni, culture, lingue di uno Stato tra i più eterogenei d’Europa per etnie e civiltà. Ma non era,
oggettivamente, un compito che spettava alla
Fondazione Agnelli. Nel frattempo si fece strada
una richiesta che occuperà le prime pagine dei
giornali di tutto il mondo: spuntò l’ipotesi di un
sogno, una speranza, una fede: secessione della
Padania.
Nel dicembre 1993 la Lega Nord presentò il
progetto di Assago messo a punto da Miglio che
propose l’“Unione italiana”, costituita da tre repubbliche e da cinque regioni autonome a statuto speciale. La Padania, l’Etruria (nome non
corretto) e il Sud (un semplice punto cardinale).
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Il progetto, che si basava sul concetto di libera
associazione e non più sul decentramento, aboliva le provincie, ma conteneva qualche svarione di troppo per gli “etnisti”. La Lega Nord entrò in governo nel 1994 accanto a formazioni
politiche che ha riabbracciato proprio in questi
mesi. Ma ne uscì dopo soli sette mesi, presentando agli elettori un nuovo progetto di costituzione federalista. Ma Miglio se ne andò. Dal cilindro di Umberto Bossi spuntò la “Repubblica
federale italiana”, composta da nove Stati articolarti in venti regioni, senza più distinzioni tra
quelle ordinarie e quelle a statuto speciale. Gli
esperti la definiscono
ancor oggi una brutta
copia del progetto della
Fondazione Agnelli. Si
rifaceva praticamente
agli ideali del Risorgimento con la riscoperta
dell’Italia come patria
comune. Le cose cambiarono nuovamente e
venne inventato il
“Nord nazione”.
Più tardi nacque il
Parlamento di Mantova,
con tanto di elezioni non riconosciute dal
governo italiano - e nel
marzo 1996 Bossi parlò
apertamente di nazione
Padana. E i padani cominciarono a riscoprire
una identità linguistica,
culturale e spirituale.
Nelle elezioni del 21
aprile 1996 la Lega
Nord, che aveva incentrato la campagna elettorale sull’indipendenza della Padania, correndo
da sola ottenne il 10, 4 per cento al Senato e il
10, 1 per cento alla Camera. Ma questo a livello
statale. In realtà in Padania la Lega raggiunse il
20, 5 per cento.
Anche in Sudtirolo il partito indipendentista
di Eva Klotz ottiene in quella occasione il 19,3
per cento dei voti . E la SVP “alla camomilla”,
che si presentava con l’Ulivo, precipitò come
mai era successo nella sua storia. Nel proporzionale passò dal 60,1 per cento contro al 27,9. Anche l’Union Valdotaine fece il pieno di voti. A
Roma incominciarono ad avere timore. Diciamo
pure paura.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Non possiamo infine esimerci dal ricordare i
patrioti veneti che, alcuni anni fa, con l’occupazione del Campanile di San Marco, a Venezia,
hanno testimoniato al mondo cosa significhi
credere in un ideale. Due di questi, Luigi Faccia
e Giuseppe Segato sono ancora in carcere. Segato solo per reati d’opinione, non avendo neppure
partecipato all’assalto.
Il resto è storia di questi giorni.
Se da un lato ai movimenti autonomisti “storici” va riconosciuta la capacità di ottenere, per
le rispettive “nazionalità regionali”, un grado di
autonomia che dovrebbe comunque essere
esteso a tutte le altre
presenti sull’intero territorio dello Stato italiano, va altresì sottolineato che il loro rifiuto a
non collaborare con popoli e movimenti che
essi ritengono italiani,
ha prodotto una situazione di stasi sotto gli
occhi di tutti. Come è
possibile stringere alleanze con l’Ulivo - come hanno fatto la SVP e
l’Union Valdôtaine - e
voltare la schiena a chi
domanda l’esercizio dell’autodeterminazione o
chiede apertamente uno
Stato federale?
Certo, a ridurre lo scetticismo di tali “popoli
eletti” - cui va tutta la
nostra simpatia e amicizia - non hanno giovato
gli slalom di un movimento che, in Padania,
aveva la possibilità di cambiare realmente le carte in tavola. Non è ammissibile che, dopo anni di
sacrifici compiuti e umiliazioni subite per ridare
dignità e coscienza alla Padania si chiuda in un
cassetto, come fosse il sogno di un bambino, un
compito di portata storica. In Europa ci sono
popoli che lottano da centinaia di anni per avere
un Stato libero in cui vivere. Non ci sono ancora
riusciti. Ma sanno chi sono. E questo è ancora
più importante. Possiamo vivere - male - con un
passaporto italiano in tasca. Ma se non sappiamo
neppure che avremmo diritto ad averne un altro
squalifica noi e, soprattutto, chi vorrebbe rappresentarci.
Quaderni Padani - 15
L’economia
di Giancarlo Giorgetti
L
a domanda che viene posta è la seguente:
possiamo parlare di Padania in termini
strettamente economici?
Per rispondere a questa domanda io credo
che ci si debba spogliare da qualsiasi pregiudiziale ideologica e ragionare attorno ad alcuni
dati di tipo oggettivo.
La conclusione a cui perverremo sarà quella
che la Padania economica esiste e questo non
in base a un ragionamento portato avanti in
quanto “leghisti”, bensì in quanto fedeli descrittori della realtà e (rozzi) prescrittivi di una
qualche ricetta per affrontare l’evoluzione economica.
Tutto ciò con un atteggiamento che non vuole
essere - e non è - conflittuale con le esigenze di
sviluppo dell’economia meridionale.
A due economie malate diversamente non può
essere propinata la medesima medicina.
Occorre partire dalla constatazione che la liberalizzazione dei mercati ha prevalso, il protezionismo è (per il momento?) accantonato, il capitalismo detta le sue regole.
I meccanismi di competizione con cui devono
fare i conti le nostre imprese sono inseriti nel
cosiddetto mercato “globale”.
Oggi ha quindi solo senso parlare di economia globale o/e di economia “regionale”, in cui
a differenti sistemi economici territoriali corrispondono differenti strategie geo-economiche.
Potremmo sintetizzare così: Le differenze
fanno la differenza sui mercati internazionali.
Se questa esigenza è universalmente riconosciuta, noi aggiungiamo convintamente che la
Padania è una economia regionale identificata,
in parole povere la dimensione ottimale su cui
ragionare e dare risposte.
Ciò considerato non ha alcun senso parlare di
azienda Italia o “sistema Italia”.
Si farebbe un danno al nord e tanto più al sud.
A questo proposito vorrei portare qualche
esempio.
Sarebbe esercizio troppo scontato disegnare
una cartina colorando in modo diverso le regioni in base al PIL per abitante, ovvero al residuo
16 - Quaderni Padani
fiscale (differenza tra contributo fiscale e ritorno di spesa pubblica sul territorio) o pensionistico (contributi versati e pensioni ricevute), al
tasso di disoccupazione.
Si prenderebbe atto semplicemente che, economicamente, l’Italia “è una mera espressione
geografica”. Ma ciò non giova a risolvere i problemi.
Vorrei parlare invece del tremendo gap tra territori a livello di inserimento nei mercati internazionali (l’85% delle esportazioni italiane sono
attribuibili alle regioni padane) che richiede una
strategia di “mantenimento” per la Padania e di
“inserimento” per il Meridione .
Si pensi al diverso tipo di agricoltura che richiede diverse risposte anche in sede comunitaria rispetto a emergenze ben conosciute (l’80%
del latte e il 79% di bovini sono prodotti al
nord…).
Si pensi altresì al diverso sistema di fare credito tra nord e sud, sottolineato a più riprese anche dal Governatore della Banca d’Italia, che ci
fa ritenere che il mestiere del banchiere richieda
doti e sensibilità diverse rispetto alle piazze in
cui si opera.
La diversità può diventare ricchezza comune
se non viene costretta in una camicia di forza
ideologica.
Esiste un sud assistenziale che non ci piace ed
esiste anche una Padania che non ci piace: quella ripiegata su se stessa, stanca di inventare, intraprendere, rischiare.
Oggi, con una globalizzazione che può non piacere, ma con cui bisogna fare i conti, dobbiamo
indicare una strada che non è facile, fatta di politiche fiscali e del lavoro orientate al rinnovo tecnologico e qualitativo della nostra economia che
sappia coltivare la dimensione internazionale.
In questo approccio l’indicatore fondamentale
deve essere la competitività dei territori: essa va
continuamente coltivata altrimenti scompare.
E qui deve correre in aiuto la cultura e la Politica.
Pensare localmente e agire globalmente è la
nostra missione.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Religiosità in Padania
di Paolo Gulisano
“È poco da invidiare quell’uomo il cui patriottismo non esca rafforzato dalla pianura di Maratona, o la cui pietà non divenga più viva tra le
rovine di Iona”.
(Samuel Johnson, Journey to the Western
Highlands of Scotland)
T
ra gli elementi fondanti e costitutivi dell’identità di un popolo un ruolo di primo piano spetta, da sempre, alla religione. Si può
affermare che accanto all’Ethnos non possa
mancare l’Ethos, e che il radicamento religioso
costituisca l’architrave di ogni altro radicamento. La nostra terra, dicevano gli insorgenti vandeani e bretoni, così come i tirolesi di Andreas
Hofer, gli scozzesi di William Wallace e gli irlandesi perseguitati a causa della Fede e della
Libertà, è quella dove riposano le ossa dei nostri
morti, dove sono i nostri campi e dove svettano
i campanili delle nostre chiese. Il cristianesimo
in Europa ha per secoli contribuito a forgiare
l’identità locale dei popoli e delle nazioni, e
questo appare quanto mai significativo anche
nella storia della cultura e della civiltà padana,
una storia profondamente intrisa di un cristianesimo intensamente vissuto e partecipato, e
dove lo stesso cristianesimo ha prodotto frutti
che hanno pochi eguali rispetto, ad esempio, alle altre realtà politiche e civili della penisola italiana e dell’Europa. Per chi oggi percorra la
grande Pianura o si avventuri sulle propaggini
delle nostre montagne, le Alpi, non possono
sfuggire, nonostante la devastazione antropologica prodotta nell’ultimo secolo dalla forzata
scristianizzazione ideologica delle nostre contrade, i segni di una presenza del sacro cristiano: i santuari mariani, come Oropa o Caravaggio, le mille cappellette disseminate su strade e
sentieri, le basiliche e le cattedrali medievali, i
Sacri Monti, reminescenza controriformistica
degli antichi culti celtici celebrati su quelle alture inerpicandosi sulle quali i nostri progenitori cercavano di avvicinarsi al cielo e quindi al
Divino. La nostra Terra dice di una Padania cristiana, di un luogo che accolse immediatamenAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
te il messaggio di speranza (il Vangelo) che
l’Impero Romano perseguitava ferocemente.
Qui si rifugiò, nelle foreste della Brianza,
Sant’Agostino, e qui arrivò a professare la Fede
di fronte al grande Vescovo di Milano Ambrogio.
Il cristianesimo in Padania assume un suo
volto specifico nell’Alto Medioevo in virtù anche
della peculiarità liturgica e culturale delle due
grandi sedi episcopali: Milano e il Patriarcato di
Aquileia.
Sempre nell’Alto Medioevo non si può trascurare il grande contributo che venne dai pellegrini irlandesi che scendevano dal nord-ovest dell’Europa e percorrevano le grandi vie di pellegrinaggio, le più importanti delle quali attraversavano la Val Padana. Uno dei più importanti
centri di cultura irlandese dell’epoca fu Pavia,
dove sorgevano ospizi per i viaggiatori provenienti dalla verde isola dei santi. Il contributo
che venne dal cristianesimo gaelico fu rilevante:
una fede intensa, esigente, praticata da uomini
appassionati ed eccessivi anche nella Fede. Una
figura chiave di questa presenza irlandese, che è
confermata dai vari santuari dedicati a San Patrizio e a Santa Brigida, fu quella del monaco
Colombano, un autentico trascinatore di uomini che avvinse con la sua regola durissima giovani di tutta Europa e che venne a trascorrere
gli ultimi anni della sua vita a Bobbio, sull’Appennino piacentino, all’incrocio geografico delle principali regioni padane, la Lombardia, l’Emilia, la Liguria, il Piemonte. Colombano lasciò
un segno indelebile di fede nelle nostre terre.
Il monaco venuto dal Leinster impiantò a
Bobbio un modello di vita cristiana, quello gaelico, che condizionò profondamente la composita cultura alto-medievale del VII secolo. Colombano esercitò un importante influsso sulla
corte longobarda di Agilulfo e di Teodolinda,
smantellando la presenza in terra lombarda dell’eresia ariana. Numerose sono le chiese sparse
nella pianura padana ancor oggi dedicate al santo gaelico, così come villaggi e paesi che ne portano il nome.
La cristianità padana trovò nei secoli dell’”Età
Quaderni Padani - 17
di Mezzo” altri significativi modi di espressione:
vogliamo ricordare in primo luogo quel fenomeno particolare che fu la Pataria milanese, ovvero un movimento popolare di difesa dell’integrità delle verità cattoliche messe in pericolo da
un clero eccessivamente mondanizzato e contaminato dalle tentazioni del denaro, del potere e
della carne. La Pataria, che si manifestò come
espressione di una fede popolare, di una devozione intensa, di una preoccupazione commovente di mantenere incorrotta la religiosità tradizionale, si manifestò nella seconda metà dell’XI secolo a Milano e nel suo vasto contado, dove il movimento si diffuse a macchia d’olio e
trovò sostenitori nella piccola nobiltà rurale.
L’opposizione radicale a comportamenti non
conformi agli insegnamenti evangelici, come il
matrimonio del clero e la compravendita delle
cariche ecclesiastiche conobbe anche una fase
violenta, con scontri tra gli opposti sostenitori,
e con crudeltà ed eccessi reciproci che segnarono la società milanese. La Pataria, in questo duro scontro religioso ma anche civile e politico,
si appellò con decisione per valere le proprie ragioni al centro e cuore della Cristianità, il Papato, schierandosi dalla parte delle riforme avviate
da Gregorio VII nella
sua lotta contro gli
abusi del potere imperiale. La Pataria espresse un grande anelito di
unità del popolo lombardo con la Roma papale, unica garante della tradizione della Fede, in contrapposizione
con le interpretazioni
lassiste del clero locale
e incline a compromessi col potere. I nomi
degli eroi della Pataria,
come Arialdo da Cucciago, Anselmo da Baggio, Landolfo Cotta, il
cavaliere Erlembardo
che innalzò in battaglia
il Vessillo di San Pietro
e che era stato incoraggiato dallo stesso Pontefice a guidare “tutti i
fedeli della Lombardia”, meriterebbero di
essere ricordati maggiormente, così come
18 - Quaderni Padani
la loro epopea religiosa e civile.
Una continuità ideale della Pataria si ebbe
con la partecipazione dei popoli padani alle Crociate: genovesi e lombardi erano presenti nel
luglio del 1099 sotto le mura di Gerusalemme,
dando il loro contributo alla liberazione della
Città Santa. Per due secoli i pellegrini in arme
lasciarono le nostre terre per dirigersi verso i
deserti della Siria e della Palestina, riportandone i racconti eroici, le gesta cavalleresche, le
edificanti descrizioni dei Luoghi Santi. L’epoca
crociata segnò anche la presenza nelle nostre
regioni degli Ordini Cavallereschi, in particolare Templari e Ospitalieri, che fondarono ovunque case e mansioni, contribuendo a diffondere
gli ideali della cavalleria cristiana. La religiosità
intensa caratteristica delle nostre terre, di Ambrogio, di Colombano, dei Patari, venne ulteriormente corroborata dall’esperienza delle crociate e della cavalleria. A livello popolare il desiderio di radicalità evangelica continuò a dispiegarsi attraverso la fondazione di ordini religiosi,
come quello degli Umiliati che vide il proprio
motore propulsore in Brianza.
La fedeltà assoluta al Vicario di Cristo e alla
tradizione della Chiesa fecero sì che i popoli padani si schierassero decisamente per il Papa nei
conflitti politici con
l’Impero. La Lega Lombarda, massima espressione del Guelfismo medievale, si innesta sul
vecchio tronco pataro e
popolare, intransigente
nella difesa dell’integrità
della fede e dei diritti e
delle libertà locali.
Il guelfismo padano che
ingaggia una titanica
battaglia contro gli
Hoenstaufen è motivato
dalla voglia di libertà come dal desiderio di salvaguardare l’ortodossia cristiana, minacciata soprattutto dall’eretico
islamizzante Federico II:
non era affatto quella
lotta contro lo “straniero
tedesco” millantata dalla
retorica nazionalista risorgimentale, ma un duro confronto tra autonoAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
mia locale e pretese imperiali, tra un cristianesimo fedele alla tradizione
e al Magistero contro le
idee scettiche, sincretiste
ed eterodosse del sovrano
“illuminato”.
Anche l’epopea della
Lega Lombarda entrò a
far parte della memoria
storica del cristianesimo
padano, tanto che uno dei
giornali dell’opposizione
cattolica intransigente
del secondo ‘800 si chiamava Il Carroccio, simbolo di una identità in
primo luogo religiosa.
La fine del Medioevo e
l’epoca delle riforme protestanti non trova la cattolicissima Valle Padana
impreparata: l’abitudine
alla lotta contro i nemici
della fede, fossero essi
stati il clero lassista, l’eresia albigese o i mussulmani, fece sì che luteranesimo e calvinismo trovassero ben poco spazio nelle nostre terre, che anzi videro una resistenza perfino armata alle nuove idee, come nel
caso della Valtellina.
Alla rottura avvenuta all’interno della Cristianità fino ad allora indivisa si rispose ben presto
con una efficace riforma cattolica, più nota come Controriforma, alla quale diede un contributo importantissimo il genio religioso della
nostra terra. Il grande indiscusso protagonista
di questa grande impresa avviata dalla Chiesa
Cattolica fu Carlo Borromeo. Da lui prese il via
una radicale riforma culturale, spirituale, pastorale, che avrebbe dato un nuovo e duraturo
volto alla civiltà cristiana non solo ambrosiana.
A lui va il merito di avere rilanciato la devozione popolare, la spiritualità intensa, la carità attiva e operosa, la preoccupazione della santità
che hanno improntato il modo di vivere cristiano fino alla secolarizzazione. Con San Carlo fiorirono le Confraternite, e di nuovo si mise mano alla costruzione di nuovi luoghi di culto, in
particolare quei gioielli della fede e dell’arte che
sono i Sacri Monti. Di fronte alle critiche aspre
e malevole che periodicamente esponenti del
pensiero laicista, tra i quali Scalfari e Montanelli, rivolgono alla Controriforma, rimpiangendo
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
per l’Italia la mancata
protestantizzazione che
avrebbe reso il paese moderno, civile e più europeo, ha risposto efficacemente il cardinale Giacomo Biffi, milanesissimo
arcivescovo di Bologna:
“Dove ha agito in profondità (N.d.R. la Controriforma) per esempio con
la Riforma Borromaica –
e cioè nel Nord, fino all’Emilia, la gente è stata
davvero educata a superare le antiche propensioni alla furbizia, alla violenza privata, alla passività, al clientelismo, e si è
trovata pronta a entrare
nella moderna società europea”. I mali che l’illustre prelato presenta non
sono forse quelli considerati atavicamente italiani?
Il fatto che le regioni padano-alpine ne siano state a lungo immuni non
è allora una conferma della bontà della Controriforma che forgiò non solo il carattere spirituale delle nostre terre, ma anche una profonda
coscienza civica e un’etica privata e pubblica
che le accomunò alla Mitteleuropea cattolica,
sobria, virtuosa, alla cui vita le regioni padanoalpine presero parte attivamente a partire dal
‘700, riuscendo così a rimanere sostanzialmente immuni ai peggiori umori dell’Illuminismo e
della Rivoluzione Francese. Una delle ennesime
prove dell’attaccamento dei popoli padani alla
propria identità cattolica fu data proprio in occasione del tentativo di esportare la rivoluzione
giacobina nella penisola italiana nel triennio
1796-99: a questo aggressione militare e ideologica rispose il popolo cristiano con le Insorgenze, che dalla Liguria al Piemonte, dalla Romagna al Tirolo, con lo splendido episodio di Verona a brillare sugli altri e con la tenace resistenza lombarda, segnalarono di fronte all’intera
Europa la volontà dei popoli padano-alpini di
essere liberi e cristiani.
Tuttavia, nonostante la grande vittoria ottenuta sugli invasori napoleonici e i collaborazionisti italiani che nell’occasione avevano innalzato per la prima volta il loro vessillo, il tricolore bianco, rosso e verde, nell’800 le libere realtà
Quaderni Padani - 19
nazionali della penisola avrebbero conosciuto il
loro triste epilogo, travolte dalla rivoluzione
italiana, meglio conosciuta come Risorgimento.
Chi entri oggi nella Basilica di Sant’Ambrogio,
cuore della cristianità lombarda e della sua altissima civiltà medievale, può notare nell’ingresso una statua che è l’unica fattura non medievale della Basilica: è la statua che i milanesi
eressero in onore di Pio IX, il pontefice che resse titanicamente lo scontro con le forze anticristiane scatenate dalla rivoluzione risorgimentale. Questo papa marchigiano non fu solo un difensore della Fede, ma anche un grande federalista che oppose alla marcia degli eserciti sotto
il tricolore la volontà di mantenere le antiche
realtà locali, con i loro usi, costumi, libertà, in
una dimensione federale. Pio IX, fumo negli occhi da più di un secolo per tutti i giacobini,
massoni e laicisti, di destra, di sinistra e persino
sedicenti padanisti, fu il punto di riferimento
per la resistenza cattolica all’unificazione d’Italia così come andò realizzandosi, con la sua violenza, con il suo brutale centralismo, con il suo
delirante nazionalismo imperialista.
L’ opposizione cattolica venne piegata solo
con il ‘900, e in circostanze tragiche.
Agli inizi del ‘900 la storia d’Italia giunse a
una svolta cruciale. Cinquant’anni di unità politica sotto il regno sabaudo non avevano ancora
creato una nazione. Gli italiani, per riecheggiare Cavour, erano ancora lontani dall’essere fatti. Soprattutto era evidente, all’inizio del secolo,
la profonda divisione tra la classe politica e il
mondo culturale ufficiale da una parte e la società reale dall’altra.
Nonostante il fortissimo controllo centralista
dello Stato, esercitato attraverso le strutture
poliziesche i popoli della penisola continuavano
a professare la loro antica religione cristiana , a
costituire una civiltà in gran parte rurale, forte
dei suoi radicati valori. L’opposizione cattolica
intransigente aveva trovato il proprio campione
nel sacerdote lombardo Don Davide Albertario,
che alla guida del suo giornale, L’Osservatore
Cattolico che usciva a Milano, aveva condotto
una battaglia durissima contro lo Stato unitario
risorgimentale, pagando con la vita la sua eroica battaglia: fu infatti condannato al carcere duro nel 1898 dopo aver attaccato la vergognosa
strage di Stato di Milano dove il Governo di Bava Beccarsi aveva fatto sparare coi cannoni sui
milanesi affamati che protestavano per le angherie economiche che dovevano subire, e nel
1902, dopo essere uscito dal carcere per le sue
20 - Quaderni Padani
gravissime condizioni di salute, morì a Carenno, presso Lecco, dove si trovava in domicilio
coatto.
Si diede inizio quindi a una strategia di popolarizzazione delle idee-guida del Risorgimento,
fino ad allora rimaste appannaggio di una ristretta élite. La diffusione della scolarizzazione
di massa e il servizio militare furono i primi
strumenti di cattura del consenso, attraverso
una pesante retorica della patria che sconfinò
ben presto, nei toni e nei contenuti, negli elementi di una “religione civile”. A livello di cultura popolare, la diffusione di massa di questo
sistema di valori alternativo a quello tradizionale viene affidato, negli anni pre-bellici, al libro
“Cuore “di Edmondo De Amicis, pubblicato nel
1886. Lo scrittore ligure, socialista umanitario
e iscritto alla Massoneria, realizzò una modesta
opera per ragazzi, dalle pretese edificanti, che
divenne in realtà per il regime una sorta di
grande saga patriottica, non a caso ambientata
a Torino, destinata a forgiare generazioni di ragazzi all’insegna dell’amor d’Italia. La cosa più
singolare del libro è l’assoluta mancanza di
ogni riferimento alla religione cristiana. Nell’idilliaco scenario deamicisiano che segue un anno di vita di ragazzi in età scolare, mancano i
preti, mancano le festività religiose (mentre abbondano le ricorrenze civili), manca qualsiasi
riferimento a un sacro che non sia civile e patriottico, manca persino la parola Dio. Perfino i
funerali del defunto sovrano, descritti con commozione sentita, mancano totalmente di pietas
cristiana. L’Italia umbertina come la descrive
De Amicis è un paese che può ( o vorrebbe) fare
a meno di Dio. Si potrebbe persino parlare di
un’opera anticipatrice e profetica: il libro è dominato da un’ideologia buonista ma non religiosa, che prende le distanze dagli estremismi
(il ribelle Franti), che esalta i funzionari pubblici nell’esercizio del loro dovere, che traccia i
confini di ciò che all’epoca si configurava politicamente corretto, esaltando l’emigrazione
esterna (che dava lustro all’Italia nel mondo) e
quella interna (si veda l’episodio del piccolo calabrese) che sottolinea l’importanza di addivenire a un’Italia una e unica. Gli scolari modello
di De Amicis non parlano mai in dialetto, e
sembrano non immaginare nemmeno chi sia il
torinese Don Bosco. Mentre dunque negli anni
che precedono il conflitto mondiale si intensificano da parte del Governo i rapporti col Vaticano per arrivare a una soluzione della questione
romana, e soprattutto per recuperare i cattolici,
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
naturaliter moderati, in funzione anti-socialista, la cultura ufficiale continua a esprimere il
più bieco anticlericalismo.
Lo scoppio della guerra in Europa fece venire
definitivamente i nodi al pettine: il conflitto sarebbe stato per il regime la grande occasione
per battezzare nel
sangue il popolo italiano, per forgiarlo
come ferro sull’incudine, per “metterlo in forma”, scrollandogli di dosso
l’indole pacifica del
contadino devoto e
baciapile e trasformarlo in un guerriero spietato, degno erede dei legionari di Cesare. Il fascismo viene anticipato, nella sua retorica romana, dal regime liberale.
La Grande Guerra
in cui vennero immolate
oltre
600.000 giovani vite
di italiani di ogni regione (ma in particolare provenienti
da quelle padano-alpine) fu dunque, anzitutto, una guerra
voluta contro la
Chiesa. Si colse una
duplice occasione: quella di partecipare al grande sforzo, voluto dalle massonerie di Francia e
Inghilterra alla liquidazione dell’Impero Asburgico, nonché di assestare alla propria mortale
nemica, la Santa Sede, un colpo durissimo. L’Italia entrò in guerra con questi obiettivi: completare l’unità d’Italia avviata con il processo risorgimentale (il conflitto fu visto inizialmente
come la IV Guerra d’Indipendenza) ponendo
altresì le condizioni per una dilatazione dei
confini a zone di interesse strategico ma di nulla italianità (Tirolo, Istria, Dalmazia) così da
creare la “Grande Italia”; uscire dall’isolamento
internazionale tanto paventato, aggregandosi
agli interessi francesi e britannici; rinsaldare
l’integrità dello Stato e rintuzzare l’emergere di
una classe dirigente cattolica, seppellendola
sotto un’orgia di retorica nazionalista. Infine, si
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
doveva impedire che la Santa Sede ottenesse dei
vantaggi morali e materiali dalle trattative per
la pace.
La Prima Guerra mondiale assesta al cattolicesimo un colpo durissimo, riuscendo a cooptare una consistente parte di esso a una logica
“collaborazionista”
nei suoi confronti.
Durante gli anni del
fascismo i cattolici
padani si rifugiano
nell’impegno economico, nonché in
quello religioso-pastorale. La lunga stagione democristiana
seguita al regime
mussoliniano sembrò restituire capacità di protagonismo
al nostro mondo: riemersero in ambito
cattolico istanze federaliste, peraltro
decisamente minoritarie. Lo Stato centralista tuttavia con
il passare degli anni
si allontana sempre
più dai cittadini e dai
loro bisogni. La lunga e ben nota serie di
inefficienze, l’arroganza dei partiti e la
loro pessima amministrazione della cosa pubblica portano alla crisi. Sono piccole
realtà politiche, culturali, civili che per mezzo
secolo hanno mantenuto in Italia, a caro prezzo, l’aspirazione al federalismo, fino all’emergere di un fenomeno eclatante: la Lega (prima
Lombarda poi Nord). Nonostante i pessimi rapporti intercorsi nei primi anni tra la Lega e la
Chiesa (specie quella ambrosiana), con il tempo
è emersa una possibilità di confronto e di collaborazione il federalismo è un’idea politica
conforme alla dottrina sociale cristiana, e anzi
raccomandabile. Su autonomie e sussidiarietà,
nonché la crescente preoccupazione in gran
parte dell’Episcopato degli effetti di una massiccia invasione islamica, cresce la speranza che
nuove forme di presenza politica e sociale dei
cattolici nella società padana siano ancora possibili.
Quaderni Padani - 21
L’eredità celto-germanica
dei popoli padano-alpini
di Andrea Mascetti
“Che cosa ci può essere in noi ancora di celtico ?
Come in castelli frammenti di vecchie architetture, così nelle nazioni sono intessuti elementi di stirpi estinte.”
E. Jünger
I
l mito nazionalista italiano, in base al quale
saremmo tutti discendenti di legionari e centurioni dell’Urbe, si fonda, curiosamente, su
una leggenda storica di tipo “sterminazionistica”.
A detta di molti sedicenti storici, i quali inorridiscono al solo sentire parlare di Celti e Longobardi, prima di Roma non esisteva nulla, se
non popoli incivili e rozzi, e dopo Roma fu solo
barbarie….
Per portare la “civiltà”, sempre a detta di questi illustri storici, Roma dovette fare “tabula rasa” di tutto quello che non era romano prima e,
curiosamente, italiano poi.
In sostanza la nazione italiana sarebbe nata
dal genocidio di decine di popoli (Celti, Veneti,
Liguri, Bruzi, Umbri, Siculi, Etruschi, Sabini,
Sanniti, eccetera) i quali, a detta dei sopra ricordati custodi delle italiche vicende, non avrebbero lasciato nulla del loro passato. Ma la storia,
quella vera, fu ben diversa e l’analisi dei diversi
popolamenti che interessarono l’area padano-alpina è lì a raccontarci cosa effettivamente accadde in quei secoli così lontani e, a un tempo, ancora così vicini.
In questa sede mi limiterò, per evidenti ragioni di tempo, a una sintesi panoramica dei popolamenti gallici e germanici, tralasciando il periodo pre-indoeuropeo e alcuni fenomeni di popolamento secondario che, nei secoli, interessarono l’area padano-alpina.
La celtizzazione
Fino a qualche tempo fa la questione relativa
alla data di arrivo dei Celti in Padania era anco22 - Quaderni Padani
ra molto dibattuta a causa di una “doppia cronologia”: da una parte abbiamo gli storici Dionigi di Alicarnasso e Appiano che attribuiscono
la conquista di Roma del 390 a.C. ai primi Celti
arrivati in Italia, collocando quindi la discesa
celtica in Padania tra la fine del V secolo e gli
inizi del IV.
Dall’altra abbiamo invece la testimonianza
dell’attendibilissimo storico romano Tito Livio
che nel I secolo d.C. compilò un’imponente opera sulla storia di Roma dall’epoca della sua mitica fondazione fino ai suoi giorni, dove afferma
che la prima discesa in Padania di popolazioni
celtiche fu quella guidata dal principe celtico
Belloveso, durante il regno di Tarquinio Prisco,
nella seconda metà del VI secolo a.C.
Sempre secondo Livio la discesa dei Celti fu
determinata da una pressione demografica, in
quel periodo particolarmente forte, che costrinse il re Ambigato a mandare i due giovani principi celtici Belloveso e Segoveso, l’uno verso la
Padania, e l’altro verso la selva Ercinia (di ignota
ubicazione ma pressappoco comprendente l’area
centro europea, un tempo coperta da una gigantesca foresta).
Belloveso dunque, a capo di una coalizione di
tribù che avevano le loro sedi nelle regioni della
Loira e della Senna (nel testo classico sono elencate le seguenti tribù: Biturigi, Averni, Senoni,
Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci), valicò le Alpi
piemontesi e, guadato il Ticino, raggiunse la
pianura lombarda.
Qui, nel punto di convergenza di una serie di
vie terrestri e fluviali, Belloveso fondò la sua capitale, Mediolanum, il cui nome gallico significa
“luogo in mezzo alla pianura”, ritenendo di ottimo auspicio l’incontro con una “scrofa semilanuta” (ricordiamo che il cinghiale - con tutta
probabilità corrispondente alla scrofa semilanuta di cui ci parla Livio - era un animale molto
sacro presso i Celti e rappresentava la furia
guerriera) e il fatto di trovare nelle nuove sedi
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
una popolazione che aveva lo stesso nome di
una tribù celtica del cantone degli Edui, quella
degli Insubri.
Oggi, in seguito a nuovi studi e a importanti
ritrovamenti archeologici, i più seri studiosi
hanno definitivamente accettato la cronologia
liviana, portando quindi la discesa dei Celti in
Padania almeno al VI secolo a.C.
Tra le molte prove in tal senso, basti pensare
al ritrovamento presso Castelletto Ticino (NO)
di una iscrizione in caratteri etruschi, ma in
lingua celtica (si tratta di un nome personale in
genitivo, Xosioiso o Xasioiso), databile al VI secolo a.C., che confermerebbe ancora una volta
il racconto liviano e l’etnia celtica dei golasecchiani.
D’altra parte spesso si dimentica che lo stesso
Plutarco, nella Vita di Camillo, asserisce che i
Celti scesero nella penisola “molto tempo
prima” dell’attacco contro Roma.
Successivamente alla discesa di Belloveso, in
Padania giunsero i Cenomani guidati da Etitovio, i quali si stanziarono in un’area comprendente l’attuale bresciano e veronese; la distanza
temporale tra questi due avvenimenti non dovette essere molto grande se è vero, come ci riporta Tito Livio, che Belloveso è ancora vivo
quando Etitovio supera le Alpi, e sarà lo stesso
Belloveso a favorire lo stanziamento dei Cenomani a est dell’Oglio (“ubi nunc Brixia ac Verona urbes sunt”).
Per quanto riguarda le migrazioni celtiche
successive, la determinazione cronologica è alquanto più complessa: Livio ci ricorda soltanto
che sia i Salluvii che i Libui si stanziarono vicino ai Levi, una antica stirpe celto-ligure insediata nei pressi del Ticino e che Boi e Lingoni,
trovando il territorio tra il Po e le Alpi già occupato, si spinsero oltre il grande fiume, occupando la parte meridionale della pianura padana e
scacciando gli avamposti Etruschi e Umbri.
Infine, almeno per quello che riguarda questa
seconda ondata migratoria, giunsero i Senoni a
cui va imputato l’attacco a Chiusi e a Roma
(391-390 a.C.); il loro territorio doveva essere
compreso tra i fiumi Utens (Montone) e Aesis
(Esino): anche la Romagna orientale e il nord
delle Marche sono occupate dai Celti.
Per quanto riguarda la tribù dei Carni, che si
posizionò nell’attuale Friuli, la loro penetrazione in Padania dovette essere antichissima, secondo alcuni autori addirittura una delle prime.
A completare il quadro, almeno a livello delle
tribù principali, ricordiamo i Taurini collocati
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
nell’attuale Piemonte centro-occidentale, i Marici (fondatori dell’attuale Pavia), i Vertamocori
(insediati tra Novara e Vercelli), i Salassi nell’attuale alto Piemonte e in Val d’Aosta, gli Anari
nella zona a sud della attuale provincia di Piacenza, gli Orobi e i Leponzi nell’area alpina tra
la bergamasca, il comasco e il varesotto.
I Veneti (che pure furono ampiamente “celtizzati”), pur non essendo considerati propriamente celtici, sono comunque un popolo indoeuropeo che, salvo la lingua, non si distingueva in nulla, rispetto alle etnie celtiche, per quanto riguarda i costumi; interessante poi notare
che la più importante tribù celtica della Bretagna, era quella dei “Veneti”.
Liguri e Reti sono oggi da considerare come
popolazioni autoctone, con tutta probabilità di
origine indoeuropea, che si unirono a substrati
indigeni antichissimi; attualmente gli studiosi
preferiscono parlare, a causa della celtizzazione
di queste etnie, di celto-reti e di celto-liguri.
La germanizzazione
Nel 408-410 Alarico, a capo dei Visigoti giunge
sotto le mura di Roma, dando inizio alla massiccia penetrazione di popolazioni germaniche su
tutto il territorio della penisola italica.
Nel 476 cade ufficialmente l’Impero romano
(si noti che lo stesso Romolo Augusto, detto
“Augustolo”, era figlio del generale germanico
Oreste) e nel 488 in Italia giungono i Goti, al comando del loro re Teodorico.
Ma è solo con l’arrivo dei Longoardi che l’apporto germanico muta strutturalmente la realtà
etno-culturale della Padania, allora ancora abitata da popolazioni gallo-italiche.
Nell’aprile-maggio del 568 circa 300.000 Longobardi, guidati da re Alboino, penetrarono in
Padania dalle Alpi orientali, varcando l’Isonzo e
occupando Forum Iulii, l’odierna Cividale del
Friuli. In pochi anni conquistarono le principali
città della Padania, compresa Pavia la quale,
con Autari, divenne capitale del regno longobardo.
Senza addentrarci nella complessa storia longobarda ricordiamo che nel 712 fu eletto l’ultimo grande re longobardo, Lituprando, che regnò per 30 anni.
Nel 774 i Franchi, anch’essi germanici, assediarono re Desiderio a Pavia che cadde nello
stesso anno.
Nel 775 Rotgaudo, duca del Friuli, fece l’ultimo tentativo per scacciare i Franchi, ma venne
sconfitto in una terribile battaglia sul Piave dove
Quaderni Padani - 23
cadde, tra gli altri, anche il nobile Waldaudo.
Nonostante queste vicende storiche, fino ad
almeno il XII secolo gli abitanti dello scomparso
regno Longobardo, vennero chiamati “Longobardi” o “Lombardi”, mentre “Longobardia” fu a
lungo sinonimo d’Italia.
Riassumendo i dati storici appena ricordati
scopriamo che, a fronte di una presenza celtoligure ininterrotta di circa 1000 anni, i Romani
hanno tenuto per “soli” 400 anni i territori padano-alpini (e neppure tutti) e a questo periodo
succedette la conquista Germanica la quale, cominciata nel 400 d.C., si sviluppò sino all’epoca
comunale, divenendo l’elemento etno-culturale
dominante del nostro territorio: stiamo parlando di circa 700 anni di storia padana!
I conti sono presto fatti: il mito romano fu,
appunto, solo un mito e il popolamento di tipo
celto-germanico dei territori padano-alpini fu,
non solo indiscutibilmente più importante, ma,
soprattutto, si sviluppò per un numero di secoli
nettamente superiore.
Considerazioni
L’enorme differenza etno-culturale che separa
l’Italia etnica dalle regioni padano-alpine, trova
la sua ragione d’essere nel diverso popolamento
che interessò lungo i secoli e i millenni, i due rispettivi territori.
Il pur complesso e spesso confuso processo di
popolamento delle due diverse aree vede, fin dall’inizio, una vasta celtizzazione del territorio a
nord del fiume Po che si estenderà, successivamente, a tutta l’area della pianura padana sino al
crinale appenninico .
Tale fenomeno trova i suoi prodromi nella
cultura di Canegrate e Golasecca: siamo attorno
al XIII-X sec. a.C. La successiva e più amplia
celtizzazione di quella che un tempo era chiamata Gallia Cisalpina si estenderà sino alle attuali Marche e a tutta l’Emilia e la Romagna,
popolate rispettivamente dai clans senoni, boici
e lingoni. E’ interessante notare come la celtizzazione di questo territorio rimanga tutt’oggi
evidente nelle lingue parlate in quei territori
che rappresentarono l’avamposto più meridionale di quell’antica migrazione. Se volessimo,
infatti, tracciare un limes tra l’Italia etnica e l’area padano-alpina, utilizzando come metodo di
comparazione il solo dato linguistico, scopriremo che gli ultimi territori in cui si parla una
lingua gallo-romanza è l’area corrispondente alle Marche settentrionali (un tempo corrispondente al Ducato del Montefeltro), e cioè all’area
24 - Quaderni Padani
di celtizzazione più meridionale del gruppo cisalpino.
La celtizzazione sopravvisse alla romanizzazione la quale rappresentò un fenomeno di trasformazione più culturale che etnico, soprattutto nei territori a nord del Po che, notoriamente,
non subirono deduzioni coloniali.
Si ricordi inoltre che:
1) vaste aree di montagna rimasero prive di
qualsivoglia presenza romana per secoli;
2) durante tutto il periodo imperiale sono registrate, annualmente, rivolte e sommosse in tutta la fascia alpina la quale, evidentemente, ha
sempre e costantemente visto Roma come una
realtà lontana e nemica.
La romanizzazione, organizzata dal II secolo
a.C., si sviluppò almeno fino al 400 d.C. allorché
i popoli cosiddetti barbarici (tribù germaniche
in testa), calarono sui territori padano-alpini, riportando una civilizzazione di tipo centro-nord
europeo.
Un sottile filo rosso ci permette di ricollegarci,
nel dipanarsi delle vicende umane, a questo
straordinario passato. Le tracce di questa storia
“altra” rispetto a quella ufficiale propagandata
dai nazionalisti italiani possono essere individuate nei seguenti filoni di studio:
❐ lingua
❐ toponomastica
❐ onomastica
❐ tradizioni popolari
❐ etnografia
Potremmo dedicare un intero convegno a ciascuno di questi aspetti.
In questa sede è nostra intenzione segnalare
solo alcuni esempi che ci permetteranno di
comprendere quella “visione di insieme” che ci
permetterà ben più ampli approfondimenti.
Lingua
Le lingue padano-alpine appartengono, per lo
più, al gruppo “gallo-romanzo” (sulla lingua veneta e sulle lingue germaniche minori presenti
sul nostro territorio rimandiamo l’approfondimento a un’altra sede), a quel gruppo di lingue,
quindi, che nacquero dalla fusione degli idiomi
gallici locali, e preesistenti alla romanizzazone,
con il latino. I Celti cisalpini, in sostanza, cominciarono sì a parlare la “lingua ufficiale”, imposta dai conquistatori romani, ma a modo loro. Il latino venne quindi modificato dalle strutture linguistiche galliche (pensiamo al doppio
pronome davanti al verbo - per esempio: in meAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
neghino l’espressione “tu
vai” viene tradotta in “ti
te vet”) e molti vocaboli
celtici rimasero negli
idiomi locali. In particolari alcuni “relitti celtici”
si sono conservati in modo perfetto: il “mi” o
“me” al posto dell’“io”
italiano è un altro importante segnale di questo
antico retaggio linguistico.
Con l’arrivo delle popolazioni germaniche
questa lingua venne ulteriormente trasformata
con l’innesto di elementi
tipici delle lingue nordiche (parole, costruzioni,
verbi, eccetera).
Toponomastica
La toponomastica del
nostro territorio vede
una impressionante predominanza di nomi di
origine gallica: come è
ormai noto a tutti, i suffissi –ate o –ago sono infatti dei tipici prediali celtici, cioè dei suffissi indicanti una proprietà. Si noti come anche in
territorio venetico si trovino importanti tracce
di questa avanzata celtizzazione (oltre al territorio veronese, controllato dai Galli Cenomani,
anche in territorio strettamente venetico troviamo toponimi tipicamente gallici come “Cazzago” (provincia di Venezia). Il termine “Dun” in
celtico significa altura forticata e da esso derivano tutti i toponimi in –duno o nelle varianti
contratte: Induno, Duno, Gravedona, Belluno,
eccetera.
Onomastica
Anche molti nomi delle nostre genti riflettono questo prezioso patrimonio nordico: alcuni
nomi come Macchi, Brovelli, Artoni derivano,
con ogni evidenza, dal celtico, come ci è dato
oggi sapere dalle iscrizioni celtiche arrivate fino
a oggi. Nella Lombardia Occidentale, ad esempio, gli Albuzzi (e quindi anche le varianti dei
“Buzzi” e “Butti”) hanno una origine gallica:
questa notizia possiamo ricavarla sempre da
una iscrizione che ci parla di una “gens gallica
Albuzia” in territorio insubrico. Ma molte altre
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
derivazioni non ci sono
ancora chiare a causa
della ancora troppo scarsa attività di comparazione realizzata in questi decenni.
Folklore
I riti carnevaleschi, le
Giöbie, le feste del Maggio, piuttosto che le celebrazioni del Giorno dei
Morti, spezzano con il
folklore mediterraneo rimandandoci alla tradizione centro-nord europea.
Il rapporto privilegiato
con l’Albero (si pensi ai
riti del Maggio nella bergamasca) e quindi con
l’elemento naturale,
piuttosto che il “rogo
della “Vecchia”, ci aprono porte su un immaginario le cui origini si
perdono nella notte dei
tempi, ben prima che la
romanizzazione si imponesse. Un patrimonio
che sta sparendo ma che ancora riesce a mostrarci sentieri che ci portano direttamente alle
radici del nostro passato.
Comparazioni etno-genetiche
Gli studi sui codici genetici condotti da Piazza
e Cavalli Sforza, unitamente alle ricerche effettuate da gruppi di genetisti francesi, ci hanno
permesso di enucleare una specifica etnia in tutta l’Italia settentrionale che rimanda ovviamente
al popolamento gallo-ligure-alpino.
Questi studi sono stati divulgati su importanti
riviste del settore tanto che un uomo del livello
scientifico di Sabatino Moscati, sulla celebre rivista Archeo, non esitò a scrivere che l’Italia è
ancora oggi spaccata, dal punto di vista genetico, in tre grandi gruppi: quello gallo-ligure al
nord, quello etrusco al centro e quello greco al
sud.
Un’antica eredità, dunque, ancora tutta da
scoprire e da riportare alla luce, per noi e per i
nostri Popoli, finalmente liberati da quell’antico
pregiudizio romanocentrico che non ha esitato
a usare ogni mezzo, culturale e politico, per
cancellare le nostre identità.
Quaderni Padani - 25
Cultura e territorio
di Gilberto Oneto
I
l legame con la terra ha bisogno di tempi naturali, degli stessi tempi lunghissimi della
geologia, della creazione di ecosistemi stabili.
Non basta arrivare in un posto, comperarlo,
conquistarlo o rubarlo per costruire un legame
fra un popolo e un territorio. Il randagismo di
marca americana o mondialista significa solo
una cosa: che si porta via la terra a qualcuno, in
termini di colonialismo (si diventa padroni di altri) o di pulizia etnica (li si espelle).
I nostri sono qui da sempre: lo provano la stabilità millenaria del residuo genetico, la continuità linguistica (la lingua è archeologia vivente), la toponomastica che è a volte più resistente
dello stesso aspetto fisico dei luoghi.
Si dice che ciascuno è quello che beve o che
mangia (una immagine piuttosto brutta in tempi di mucca pazza e di schifose polpettazze rotonde): la cosa vale solo in parte anche per un
individuo che ha passato gran parte della sua vita in un posto diverso da quello di cui è originario ma ci vogliono millenni prima che questo
principio possa applicarsi a un popolo intero, a
una civiltà. E’ passato più di mezzo millennio da
quando gli Europei si sono trasferiti in America
ma non hanno neanche cominciato a sembrare
a un pellerossa o alla sua terra. L’hanno se mai
trasformata.
Il rapporto simbiotico con la terra è infatti a
doppio senso: una comunità umana viene plasmata dai caratteri del territorio e il territorio
viene trasformato da essa fino a formare un insieme inestricabile. Questa nostra terra è quella
che l’hanno fatta diventare generazioni e generazioni di nostri antenati che ci hanno vissuto,
che l’hanno lavorata e che ci sono morti ritornando ad essere essi stessi terra.
Terra e popolo sono una cosa sola. Il pezzo di
terra di ciascuno di noi può solo passare di mano individualmente. Non si può vendere la terra
di un popolo, come diceva un capo indiano: la si
può dare in gestione a gente della nostra gente
ma non la si può dare a un altro popolo, pena la
distruzione del nostro popolo. Questo è succes26 - Quaderni Padani
so nella storia tante volte. Mai in Padania.
È vero che ci sono passati popoli diversi: i Liguri, i Celti o i Veneti (che poi non erano neanche tanto diversi fra di loro). Ma è poi infatti vero che gli uni si sono sostituiti agli altri o non è
più facile che ci siano sempre stati? Il XII secolo
a.C. di Golasecca non significa forse “sempre” in
termini storici?
I Longobardi - e in parte i Goti - si dirà che sono venuti da fuori: qualche cretino ha addirittura detto che erano gli immigrati del tempo. Non
erano dei Longobardi o dei Goti che venivano
qui: erano tutti i Longobardi (nel senso dell’intero popolo longobardo) e tutti i Goti che venivano qui. Non solo, non erano neppure degli
estranei, dei foresti in senso stretto: erano la nostra stessa gente che scappava da un’altra parte.
Avevano infatti gli stessi antenati, gli stessi dei,
le stesse usanze di quelli che abitavano qui già
da sempre. Si sono di fatto rifugiati dai loro parenti, li hanno rinsanguati, rivitalizzati, ringiovaniti.
Tutti gli altri, quelli che ci sono venuti da invasori, da foresti veri, hanno invece fatto una
brutta fine. I Romani e i Bizantini sono stati
cacciati o sono stati “estinti”; i Saraceni non sono mai riusciti a entrarci; adesso ci riprovano altri personaggi ugualmente poco raccomandabili:
seguiranno – lo speriamo – la stessa sorte.
Il territorio e il popolo sono la stessa cosa, l’identità è una.
Il nostro popolo è ben definito.
Il nostro territorio è ben definito. È un bacino
idrografico, una grande valle e i suoi dintorni.
Solo un’isola è fisicamente meglio definita di
una valle. Tutto comincia sulle Alpi settentrionali o meridionali e finisce in Adriatico, tutti nomi magici per il nostro popolo. Fa eccezione
una sottile fetta di Liguria, ma è un pizzo, una
decorazione, il completamento ornamentale della valle. In realtà è il suo cordone ombelicale visto che quella sottile striscia di terra è quasi certamente il luogo di origine della nostra civiltà.
I nostri sono venuti su solidi e spigolosi come
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
le nostre montagne e le nostre coste, pazienti
come le lagune e le pianure, tenaci come i fiumi, fantasiosi e volubili come i nostri grandi
cambiamenti stagionali. In ogni angolo di Padania ognuno assomiglia al territorio dove stà. Ma
anche il territorio ha preso nel tempo a somigliare a chi ci abita, è stato modificato, rifatto.
Lo testimoniano il suo aspetto fisico e i suoi nomi. Dare un nome è dare vita, dare un nome è
possedere. Uno dei più antichi legami con il territorio è la toponomastica, che è la sovrapposizione della lingua e del carattere delle nostre
genti sul territorio. I nomi sono antichi, famigliari, ci ricordano arcaiche comunanze magiche,
famigliarità religiose, la
quotidianità dei millenni.
I nostri paesi sono tutti
diversi e tutti uguali.
Ogni paese padano è diverso da tutti gli altri, ma
lo si riconosce come padano dalla forma, dal
rapporto col territorio,
dal rapporto di gerarchie
interne con gli edifici civili e sacri. Lo si riconosce dall’architettura.
L’architettura della Padania è fatta di strutture e
di forme particolari, ma è
soprattutto fatta di colori: nessun altro paese ha
mai avuto tanti colori. I
nostri erano agglomerati
con i tetti in pietra o in
paglia. E’ sempre stato il
paesaggio della pietra e
dell’acqua: è del tutto naturale che anche l’architettura seguisse le stesse
vie. E’ l’acqua che faceva crescere le canne e che
serviva a impastare l’argilla. Infatti alle canne si
è sostituito il coppo, la più grande invenzione
architettonica del mondo, l’efficienza assoluta,
la terra che con l’acqua e con il fuoco diventa
pietra. Non è un caso che il termine copo derivi
dal nome dalla tecnica di legare le coperture di
paglia, anche lessicalmente i coppi sono una figliazione diretta delle antiche coperture in paglia. Il limite meridionale del coppo lombardo è
il confine meridionale della Padania. Il limite
settentrionale dei tetti in sasso è assai meno definito: anche l’architettura ci da un confine netAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
to a sud e il segno della grande e fraterna continuità alpina a nord.
Non è un caso che chi ci opprime tenti di distruggere il nostro territorio perché sa che il legame è vitale. Gli Americani disboscavano il West e vi costruivano grandi reticoli quadrati di
strade per cacciare gli Indiani e prendersi il loro
territorio, e per distruggere i loro legami sacri
con la terra. Lo stesso hanno fatto i Romani con
la centuriazione e con la distruzione sistematica
delle foreste padane. Anche gli Italiani fanno lo
stesso. Cercano di distruggere le nostre identità
facendo posti tutti uguali, annientando ogni diversità: nelle scuole si
insegna l’uguaglianza architettonica nel brutto,
si disprezzano i linguaggi locali, si introducono
stilemi apolidi, mondialisti e banalizzanti. Le
periferie padane devono
sembrare a quelle siciliane: è il patriottismo delle
galere e della distruzione
ambientale. Hanno anche cambiato i nomi dei
paesi e dei posti. Ne hanno distrutto la riconoscibilità in un processo che
Luisa Bonesio chiama
(in tedesco) di Entortung, e cioè “la cancellazione dei tratti differenziali che distinguono un
luogo dall’altro” e che
creano “spaesatezza”. La
spaesatezza è il paesaggio dell’oppressione, le
differenze fanno quello
delle libertà.
Hanno distrutto i legami
col sacro, e non è un caso. Il Cristianesimo cristianizzava luoghi e monumenti ma non li distruggeva perché era espressione della stessa
gente che aveva in parte cambiato religione. I
nostri oppressori di oggi sono altra gente e per
distruggere la Padania e la padanità devono distruggere il suo territorio. In questo i Padani (e
tutti i popoli) non sono diversi dagli animali, dai
panda che muoiono con la distruzione delle foreste dei bambù.
Fare morire una terra significa fare morire lo
spirito e l’identità del suo popolo; fare rinascere
un popolo significa fare rinascere la sua terra.
Quaderni Padani - 27
Oggi la Padania è oppressa e impoverita. Il
suo territorio è disastrato, trascurato, sporco.È una grande discarica.
Israele, rinato, ha per
prima cosa ha ricostruito i suoi boschi, ha
riscoperto i suoi luoghi
sacri. Oggi Israele si distingue dai suoi vicini
anche nelle fotografie
satellitari.
Una consolidata leggenda celtica vuole che
la malattia di Re Artù
provocasse anche la
malattia della sua terra.
Il re si identificava
completamente con il
suo popolo e con il suo
territorio. La sua malattia e la sua salute
erano la malattia e la
salute dell’ambiente.
Nel Signore degli
Anelli, gli Hobbit che
avevano partecipato alla guerra vittoriosa per la
salvezza del mondo tornano nella Contea e trovano che vi si erano insediati, durante la loro assenza, gli ultimi brandelli di quel male che avevano sconfitto.È una storia che ricorda molto la
nostra attuale condizione, con il comunismo
che, sconfitto ovunque, si è incistato nella nostra terra. Il male aveva distrutto il loro territorio e in particolare aveva costruito nuovi quartieri di case bruttissime e abbattuto gli alberi.
Leggiamo alcuni brevi brani conclusivi di una
delle opere letterarie più belle di tutto il 900. I
componenti hobbit della Compagnia dell’Anello
sono ritornati nella contea e l’hanno liberata dai
nemici ma si trovano a dovere affrontare la distruzione del loro paesaggio:
“La perdita più grave e dolorosa era quella
degli alberi. Per ordine di Sharkey, erano stati
abbattuti senza criterio e in quantità enorme in
tutto il territorio della Contea; era questo, soprattutto, che tormentava Sam. Molto tempo
sarebbe dovuto passare prima che la ferita guarisse, e soltanto i suoi pronipoti, egli pensava,
avrebbero potuto rivedere la Contea com’era
stata ai bei tempi. (…)
Così Sam piantò degli alberelli in tutti i luo28 - Quaderni Padani
ghi in cui erano state
distrutte piante particolarmente belle o
amate, e mise un granello della preziosa
polvere (la polvere magica che aveva avuto
dagli Elfi) alla radice
di ognuno. Percorse la
Contea in lungo e in
largo per svolgere il
suo lavoro, ma si curò
particolarmente di
Hobbiville e di Lungacque, e nessuno trovò
nulla da ridire. Infine
vide che gli rimaneva
ancora un po’ di polvere; allora si recò alla
Pietra dei Tre Decumani, che è praticamente
il centro della Contea,
e la sparse in aria con
la sua benedizione. La
piccola noce d’argento
(altro talismano donato dagli Elfi) fu piantata al posto dell’Albero
della Festa; e Sam si domandò che cosa ne sarebbe venuto fuori. Lasciò passare l’inverno il
più pazientemente possibile, cercando di trattenersi dal girare la Contea per vedere se accadeva qualcosa.
La primavera superò ogni sua più ardita speranza. Gli alberi incominciarono a germogliare
e a crescere; il tempo sembrava aver fretta, come se un anno contasse per venti. Nel Campo
della Festa spuntò uno splendido alberello: aveva la corteccia argentata e lunghe foglie, e in
aprile si coprì di fiori dorati. Era un mallorn, e
divenne la meraviglia del vicinato. E dopo alcuni anni, quando crebbe in grazia e in bellezza,
la sua fama dilagò, e la gente veniva da lontano
per vederlo: l’unico mallorn ad ovest delle Montagne e ad est del Mare, ed uno dei più belli del
mondo”.
Io non so come finirà la nostra storia soprattutto in questi momenti difficili, nei quali l’aurora sembra lontana, ma sono certo che la nostra polvere magica degli Elfi siamo noi con la
nostra voglia di libertà e di identità. Ognuno di
noi padanisti è un seme di un albero, è un granello che potrà forse un giorno fare rinascere
questa terra magica e ridarle libertà.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Le origini e la storia antica
di Elena Percivaldi
L
a nostra storia è stata sin dalle origini caratterizzata da una ricchezza di popoli e culture, a volte differenti, a volte affini. Malgrado
questo, per motivi che non è difficile etichettare
come politici, i libri di scuola italiani solitamente
confinano a poche pagine vicende e genti che
hanno conosciuto uno sviluppo secolare se non
millennario (citando due esempi a caso: i Celti e
i Liguri). Al loro posto, si privilegia l’insegnamento e lo studio di altre civiltà (sempre citando a caso: Egizi, Sumeri, Assiri, Babilonesi) che,
per quanto importanti nel dispiegarsi della storia umana nella sua globalità, con la nostra terra
hanno avuto poco o nulla a che fare.
Non intendo in questa sede elencare fatti e date. Rimando, per quanto concerne il periodo che
va dagli albori delle nostre civiltà alla caduta dell’Impero romano, all’ottimo lavoro di Ermanno
Sondrio e di Gilberto Oneto, che hanno compilato una cronologia accurata, pubblicata dalla Libera Compagnia, di fatti ed eventi.
Voglio però mettere l’accento sul fatto che, anche solo considerando questo “breve” lasso di
tempo, non sia quasi passato anno che non abbia
visto qualcosa di importante succedere in Padania o nella Mitteleuropa. È un segno evidente,
questo, che i nostri territori sono stati sin dalle
origini tutt’altro che terre depresse. E che la luce
della civiltà, con buona pace di storici che troppo
spesso ci tocca leggere, non è necessariamente
stata irradiata solo dal faro romano.
A onor del vero, negli ultimi tempi sono sempre di più i testi che rendono giustizia alla storia
dei nostri progenitori – Celti e Germani, ma anche Liguri, Veneti, Arpitani, Rezi, Camuni, eccetera – alzando il velo su mondi e civiltà che pur
essendo profondamente parte di noi, ci sono stati a lungo rubati. Ma ancora molto c’è da fare.
Le origini della Padania e la sua storia antica
non sono argomenti facili da sintetizzare. Come
ho già detto, Gilberto Oneto nel suo ottimo libro
L’invenzione della Padania ha fornito tutti i dettagli sulle cosiddette “ragioni” della Padania stessa. Tra queste, motivazioni di carattere culturale,
geografico, storico, etnico, musicale, artistico.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Vorrei invece sottolineare, tra i tanti possibili,
solo alcuni filoni generali della nostra storia antica, quelli che più di tanti altri hanno contribuito all’identità della nostra terra, e che quando
parliamo di “ragioni della Padania” dovremmo a
mio avviso sempre aver presente.
Le lotte fra Padani e Romani:
uniti si vince, divisi no
Il primo di questi spunti ci viene fornito dalle
lunghe lotte che per secoli hanno visto opposte
le popolazioni celtiche e liguri che abitavano le
nostre terre alle truppe romane, venute per conquistarle e sottometterle. È una storia triste, fatta di secoli di guerre, di genocidi (quelli ai danni
dei celti Boi che abitavano l’Emilia, ad esempio),
di deportazioni di massa (alcuni clan di genti celto-liguri furono sconfitti e spediti al sud, isolati
in una valle appenninica, in modo da non poter
più nuocere) e, dopo la vittoria definitiva dei Romani (nel 222 a.C., a seguito della battaglia di
Casteggio), di devastazioni del territorio (foreste
rase al suolo per paura di celtiche adunate sediziose, città spianate e rase al suolo come Milano,
eccetera), in alcuni casi di colonizzazioni forzate
(molte zone della Padania furono lottizzate e date in premio ai veterani delle legioni, che mutarono così il secolare equilibrio del territorio).
Allora i nostri antenati furono sconfitti perché
troppo litigiosi, troppo volonterosi di mantenere
la loro indipendenza reciproca. Non seppero se
non solo in rari momenti combattere uniti contro il nemico (lo fecero alleandosi ad Annibale, e
furono sul punto di farcela). Purtroppo in questa bagarre qualcuno di loro (come i Celti Cenomani) si mise dalla parte di Roma, e questo significò per tutti la perdita dell’indipendenza e
l’inizio di una dominazione fatta di sfruttamento
e colonizzazione. Ricordo solo (e giudicate voi
quanta somiglianza ci sia con la situazione attuale) che il nord della Penisola era denominato
“Italia annonaria”, e fungeva cioè – come dice la
parola stessa - da serbatoio da cui attingere l’annona, ovvero le tasse. Chi ci accusa di rivangare
inutilmente storie sepolte da millenni e ormai
Quaderni Padani - 29
senza più alcuna ripercussione al giorno d’oggi,
dovrebbe spiegarci perché invece questa circostanza continua a ripetersi intatta – salvo troppo
brevi pause.
I Longobardi e la Fara: i semi dell’autonomia
Secondo spunto di riflessione: la Padania come la intendiamo noi nacque con i Longobardi,
dopo la conquista del nord della penisola da parte di re Alboino (nel 568), che pose i presupposti
per quella che sarebbe stata denominata per secoli “Langobardia”. Essa si estendeva dal Friuli
al Piemonte, dalle Alpi alla Toscana, escluse le
coste liguri (conquistate da re Rotari) e adriatiche (cadute in loro mano in seguito e rimaste
però per poco tempo). Questi territori, governati da una corona che ebbe sede in Pavia (a mio
avviso la nostra vera capitale morale, dunque),
furono caratterizzati durante il dominio longobardo da forti autonomie locali, rappresentati
dai singoli ducati. Una struttura che nasceva e si
sviluppava dall’istituto tipico della “fara”, o
gruppo famigliare allargato, depositario di poteri militari e amministrativi, nonché forte nucleo
di aggregazione sociale. Vale appena lo sforzo di
ricordare che fu proprio la “fara” l’antenato diretto – potremmo dire quasi psicologico - dei
nostri futuri Comuni medievali, circostanza dimostrata dal fatto che altrove in Europa (penso
soprattutto alla situazione d’oltralpe) i Comuni
esistettero sì, ma senza tutte le implicazioni e
autonomie che ebbero in Pianura Padana. Lì infatti i Longobardi non erano arrivati.
I Comuni: un’idea di libertà
Terzo e ultimo spunto: la nascita e lo sviluppo
dei Comuni. La storia è nota: a causa del lento
appannarsi dell’autorità imperiale sui territori
“italiani” a seguito della disgregazione dell’Impero carolingio, tra il X e l’XI secolo le città della
Padania conobbero a partire dal Mille un momento di straordinaria espansione economica e
sociale, che in breve le portò a volersi svincolare
dalle ingerenze della forte aristocrazia fondiaria e
feudale cui erano sottoposte e cercare, complici i
loro vescovi, forme di autogoverno. I Comuni nel
XII secolo esercitavano di fatto (se non ancora di
diritto) molti poteri sottratti all’autorità imperiale: stabilivano le tasse, si valevano dei diritti di
mercato, amministravano la giustizia e controllavano le vie di comunicazione, garantivano la difesa e la sicurezza. L’imperatore del resto era troppo occupato a sedare i contrasti interni in Germania e i suoi irrequieti feudatari per badare alle
30 - Quaderni Padani
questioni “italiane”. Quando però Federico Barbarossa, sovrano d’alta tempra, volle tentare di riconquistare il controllo anche sui Comuni, fallì
dopo una lotta durata decenni e che vide formarsi
contro di lui la famosa Lega Lombarda, vittoriosa
a Legnano nel 1176. In tal caso i Comuni, uniti
contro lo stesso nemico, misero da parte le rivalità che li opponevano (e che avevano all’inizio
contribuito peraltro alla discesa del Barbarossa in
Italia, chiamato da Lodi e Pavia contro la “tiranna” Milano) e riuscirono a mantenere le proprie
libertà, avviandosi così a un processo di trasformazione che li avrebbe visti nei decenni successivi mutarsi da Comune consolare a Comune podestarile, e poi in seguito da Comune podestarile a
Signoria e Stato territoriale.
Questo intervento non ha la pretesa di essere
esaustivo, naturalmente, ma solo di fornire qualche utile spunto di riflessione. Più sopra sostenevo che, nonostante alcuni tentativi di “rimettere le cose a posto” in campo storiografico siano
in fase di sperimentazione, ancora molto c’è da
fare. E lo dimostra un episodio, non saprei se definirlo curioso oppure inquietante, cui ho assistito in questi giorni, mentre navigavo in Internet
su un sito di Storia medievale. Nel forum di discussione relativo, ho letto uno scambio di opinioni piuttosto acceso sulle motivazioni che
avrebbero portato i Comuni a vincere la lotta
contro il Barbarossa. Un interlocutore della
“mailing list” chiedeva e si chiedeva perché le
milizie Comunali, malgrado fossero meno preparate militarmente del “potentissimo esercito imperiale”, alla fine abbiano conseguito la vittoria e
ottenuto di preservare e veder riconosciute dal
sovrano le loro ampie autonomie. Gli rispondeva
una sedicente studiosa che le forze decuplicano
“quando si è sorretti da forti motivazioni, come
quella di difendere la Patria” (P maiuscolo, ndr),
aggiungendo a mo’ di “ramanzina ideologica”
“come nel caso del nostro Risorgimento”. A
commento di questa sconcertante affermazione
(che dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno,
quanto purtroppo sia viva e vegeta ancora oggi
l’ottica “risorgimentalista” di interpretare la storia, con tutte le storture e le forzature del caso)
uno studioso evidentemente più serio e meno fazioso chiosava che le motivazioni del successo
dei Comuni vanno cercate proprio in quella loro
forte volontà di difendere e preservare le proprie
autonomie. Il che equivale a dire - Patrie a parte - che quando si è convinti di una cosa, bisogna lottare fino in fondo per ottenerla. E soprattutto, che bisogna crederci.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Canti e balli
della tradizione padana
di Mariella Pintus
N
on c’è dubbio che il canto appartenesse al
popolo che lo imparava nella sua lingua e
lo modificava nel tempo con infinite varianti: fissata una melodia, le parole mutavano
col passare di bocca in bocca, da luogo a luogo.
Verso la metà del XIX secolo, numerosi ricercatori e cultori delle tradizioni popolari si indirizzarono allo studio della musica e dei canti ritenuti importanti per avere una visione più ampia della storia dei popoli. La ricerca doveva essere fatta nel tempo, stabilendo le forme originali o derivate, e nello spazio, per le forme simili o uguali, poiché tra le varie regioni della
Padania, avvenivano scambi di tipo musicale,
dipendenti dai traffici e dalle relazioni commerciali. Ben presto la passione per la ricerca si trasformò in una disciplina scientifica con regole e
metodi propri: nacquero addirittura le prime riviste di cultura popolare, autorevoli e culturalmente elevate.
Nel 1888, fu accolta da recensioni favorevoli e
unanimi, la raccolta di Canti popolari di Costantino Nigra: diplomatico, poeta, scrittore, filosofo e linguista; tale raccolta fu vista come la
“summa” di tutti i principi della ricerca storica,
applicata al folclore dei popoli.
Nigra affermò che il canto popolare era una
elaborazione dovuta a molti individui, quindi
l’opera di una collettività, in continua evoluzione, per quanto riguardava la forma musicale,
metrica, narrativa e linguistica. Sempre nella
sua analisi, lo studioso sosteneva che la lingua
utilizzata nel canto popolare, finchè non veniva
scritta, poteva essere contaminata da forme lessicali e grammaticali usate nel tempo in cui tale
canto veniva eseguito, sfalsando, per certi versi,
l’antichità della melodia.
Costantino Nigra divise il canto popolare in
due fasce ben distinte: Nord e Sud, dove per
Nord si intendeva e noi intendiamo la Padania;
La peculiarità del canto dell’Italia Superiore (e
intendiamo sempre la Padania) è fondata sulla
canzone narrativa con substrato celtico, di caAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
rattere oggettivo; la tipicità della melodia dell’Italia inferiore, è costituita dallo strambotto con
substrato italico di tipo soggettivo.
Diceva ancora il Nigra che nei due rami dialettali della Penisola, la parte fonologica e sintattica erano notevolmente differenti, a causa
della diversità originaria delle due razze prevalenti: nel Sud, le popolazioni fra le quali, i Latini, appartenevano al ceppo italico mentre la
Padania era popolata da Galli e altre razze celtiche che prima di subire il dominio romano,
parlavano i propri idiomi.
Adottando la lingua dei vincitori, i Celti subirono il lessico e le forme grammaticali latine,
ma non la fonetica e la sintassi che sono strettamente correlate col pensiero che nelle due
razze (parole del Nigra) non doveva essere assolutamente identico: per questo motivo, i caratteri del canto popolare, sono nettamente separati, sia per i caratteri esterni (il substrato di
due razze distinte), sia per i caratteri interni
che riguardano il contenuto. La poesia dell’Italia inferiore, strambotti e stornelli, è lirica
mentre quella della Padania è narrativa dettata
per lo più, da fatti storici e romanzeschi o di carattere familiare; la differenza che distingue le
due poesie popolari, è basata su un fatto etnico:
la canzone epica che così poco piaceva ai Latini,
fu prediletta in ogni tempo (sono parole del Nigra), dall’immaginoso temperamento dei Celti
che convertivano la loro storia e le loro leggende in qualcosa di poetico e drammatico allo
stesso tempo.
Anche in tempi più recenti, lo studioso Giulio Fara, autore nel 1920, del Saggio L’anima
musicale in Italia, analizzò la distribuzione del
canto popolare, e come il Nigra, individuò due
zone caratteristiche, accorpando il Piemonte, la
Lombardia, il Veneto, il Trentino e l’Emilia Romagna, in un’area cosiddetta “alpina”; le altre
regioni furono attribuite alla zona “italica”.
Fin dal Medioevo, le popolazioni della Padania e dell’Ausonia erano vissute in contesti molQuaderni Padani - 31
to diversi: quest’ultima aveva subito le influenze della cultura araba mentre la Padania aveva
risentito della vicinanza dei popoli celto-germanici, sviluppando melodie e canti propri della
tradizione provenzale; non mi dilungherò sui
troubadors di cui ho già parlato anche alla nostra radio, essendo innegabile il loro apporto
per quanto riguarda le composizioni poeticomusicali, ma voglio ricordare che molto spesso
il canto era accompagnato da danze che prendevano il nome dagli strumenti che accompagnavano il ballo:
la Rotta, anticipatrice delle fughe di Bach, era
uno strumento simile
all’arpa;
il Calisson era una
specie di liuto mentre
la Giga era un violino
provenzale medioevale;
la Pandora era invece un mandolino con
corde di metallo;
la Piva o il Baghet
erano la cornamusa.
A questi strumenti
aggiungiamo: la Ghironda, l’Organetto diatonico, lo Scacciapensieri, il Flauto e altri
ancora che accompagnavano canti e danze
dei padani.
Dobbiamo sottolineare che la danza era
per i nostri popoli un
momento di grande socialità, nel quale i ballerini, in gruppo, mostravano una grande
coordinazione unita a
una ben precisa coreografia: niente a che vedere con la tarantella
napoletana o col salterello ciociaro che vede
passi molto elementari, ballati soltanto dalla
coppia.
Tornando al canto popolare, se escludiamo la
Sardegna, la polifonia fu appannaggio delle
classi colte o degli ordini monastici, mentre si
sviluppava il canto monodico, eredità della cultura islamica, che riconosciamo ancora oggi, in
certi cantanti come Nino D’angelo e l’attualissimo Pino Daniele che farebbe bene a tacere. Fortunatamente in epoca recente, vennero restau32 - Quaderni Padani
rati, quindi riscoperti, i codici occitani che ci
sono pervenuti, in minima parte; ci si accorse
immediatamente che essi erano gli antesignani
della più moderna musica celtica; divenne palese che i testi conservati in Vaticano, tutti classificati come poesie provenzali erano in realtà
opere musicali di autori padani, borgognoni,
aquitani, guasconi, catalani e galizi traslati in
franco o in franco-provenzale dalla lingua originale occitana.
Un fortuito ritrovamento, avvenuto nella prima metà del secolo ventesimo, diede un forte
impulso alla ricerca: un certo Pedro Vindel, restauratore antiquario
di Madrid, rimuovendo
la rilegatura deteriorata in pergamena di un
libro cinquecentesco,
scoprì che si trattava
di un frammento di un
antico codice musicale, il cui testo era già
conosciuto negli archivi vaticani, classificato
come poesia “Degli
amici” dove amici stava per amanti; nella
facciata interna della
pergamena, svilita a
copertina, si era salvata una pagina quasi intera, di un certo Codice Martin (Martin Codax), di chiara fattura
femminile. Fortuna
volle che il rilegatore
fosse pure un antiquario in grado di intuire
l’importanza del reperto. Questo ritrovamento dimostrava il disprezzo della cultura
rinascimentale per la
cultura medioevale e occitana in particolare,
ma proprio questo disprezzo ha salvato dal rogo, la pergamena in oggetto che ci ha svelato
una musica bellissima, sensuale e ritmica anche
nelle composizioni religiose.
Nonostante gli studi e le ricerche però, il nostro patrimonio musicale ha ancora molto da
offrirci: non tutto è stato scoperto, ma in un futuro speriamo prossimo, potremo rivendicare la
paternità padana di melodie, oggi ascritte ad altre popolazioni, soprattutto del Nord Europa.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Le radici letterarie della Padania
di Andrea Rognoni
L
a Padania fu, la Padania è e sarà per sempre.
Attualmente si trova in una fase storica di
riscoperta e rilancio, vuole finalmente trovare una veste istituzionale, entrare nel consesso
delle nazioni di un mondo al quale finora ha dato tanto ricevendo poco. Ma la sua anima esiste
da sempre, dalla notte dei tempi, da quando un
gran mare la copriva dalle Alpi agli Appennini. E
la sua anima crebbe colla preistoria (si pensi al
famoso Homo di Quinzano), con una protostoria
oscura ma feconda, a dispetto di quanto scritto
sui testi di regime (civiltà d’Este e Golasecca,
tribù celtiche, liguri e venetiche, società terramaricole, eccetera), con una storia antica che
Roma repubblicana e imperiale inghiottirono
con un abile furto e un alta dose di cinismo, con
la rinascita altomedievale e la gloriosa epopea
dei Comuni, dopo l’arrivo di Longobardi, Franchi e Svevi.
Poesia e letteratura hanno cominciato a campeggiare in Padania dai tempi di Plinio, Tito Livio, Catullo e Virgilio, tutti grandi autori che
vendettero un grande patrimonio d’arte e cultura a una Roma affamata di gloria, disposta a
compensarli in vari modi.
Da Sant’Ambrogio ai tempi di Carlo Magno,
attraverso Boezio e per finire con Pier lombardo
(ma non dimentichiamo che Sant’Agostino
scrisse il meglio proprio in Padania) una cultura
cristiana che si esprimeva in un tardo latino
trovò nella nostra terra uno dei massimi centri
di riferimento.
A noi interessa però la cultura padana a partire dall’epoca in cui cominciarono ad apparire le
prime produzioni in lingua cosiddetta volgare,
distinguibili quindi in modo chiaro come padane rispetto a quelle latine o italiche. In quel periodo, tra il 1000 e il 1200, cominciò a formarsi,
a nostro avviso, il volto artistico, letterario e
culturale di quella nazione europea che solo ora
sta riuscendo a far passare il suo nome in modo
inequivocabile, ritrovando antiche origini e precise identità.
Per comprendere le vere origini della letteratura padana medievale occorre dare prima una
rapida occhiata alla cultura dell’ “Evo Medio” in
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Europa. Ma perchè innanzitutto chiamarlo ancora, come ripetono affannosamente i pignoli
custodi intellettuali degli Stati moderni (eredi
dei Cerberi che hanno voluto affossare le mille
identità del Duecento, del Trecento e del Quattrocento), Evo medio, pausa cioè tra la ”gloriosa“ cultura classica e la “illuminata” cultura moderna?
Il Medioevo non fu quell’epoca oscura, piena
solo di ignoranza e superstizione, come per decenni ci ha voluto far credere la propaganda nazionalistica e successivamente quella azionistica
e internazionalistica. Nel Medioevo c’erano molte iniziative culturali, nel senso più ampio del
termine, spesso anche lontano dalle città, nel segreto dei feudi e dei conventi, che permettevano
di tramandare le antiche conoscenze da una parte e creare nuove opere dall’altra.
Certo, nel Medioevo prevalsero sempre i motivi religiosi, anche quando si crearono i comuni
e i ceti borghesi: la figura della donna angelicata
o quella del cavaliere e crociato difensore della
fede. Ma è arrivata fino a noi anche una produzione di altrettanta profondità e importanza che
riguarda da un lato spunti e questioni più strettamente sentimentali e dall’altro un variegato
universo che vede al centro il simbolismo degli
elementi naturali, sia terrestri che celesti: si
pensi soprattutto ai cosiddetti erbari, bestiari e
lapidari (trattati su piante, animali e pietre)o all’esoterismo a base astrologica e alchemica.
Così, quando in Europa e in Padania cominciarono a venir elaborate delle composizioni
poetiche o prosastiche in dialetto o lingua volgare esse si ispirarono in gran parte a certi inconfondibili argomenti e figure che erano stati
trattati dalla letteratura colta in lingua latina,
anche se si verificò una sorta di arricchimento
attraverso l’impiego di spunti e vicende più decisamente tratte dall’esperienza di vita della gente
comune.
Le prime opere di una certa rilevanza non
scritte in latino, diffuse in Francia e Provenza
dopo il Mille, andarono a poco a poco a costituire un modello e un repertorio, al quale si rifecero poi altre nazioni e regioni europee, tra le
Quaderni Padani - 33
quali spicca appunto la nostra amata Padania.
Non che le varie regioni della Padania non fossero già fin d’allora in grado di esprimere una propria cultura autonoma, fatta di spunti e moduli
espressivi unici e inconfondibili, sui quali torneremo tra poco, ma la ventata di poesia proveniente dalla vicinissima Provenza servì sicuramente alla letteratura del bacino del Po da lievito provvidenziale per far maturare meglio l’insieme dei motivi ispiratori che caratterizzavano
la nostra Musa.
Va detto inoltre che la parlata volgare presente
in Padania all’alba del secondo millennio era
molto più simile a quella praticata al di là delle
Alpi Occidentali rispetto al neolatino italico, a
causa,come noto, delle comuni origini celtiche
di Francia, Provenza e Padania, mai cancellate
dal latino imposto dalla Roma cesariana e imperiale. Questo fatto ha così favorito un grande
scambio di informazioni e di spunti artistici tra
due nazioni, la nostra appunto e quella provenzale, che trovo molto simili per posizione geografica e destino politico (dotate entrambe di
due floridi bacini fluviali posti tra l’altro alla
stessa latitudine che non a caso venivano denominati dagli antichi “Eridano” e schiave per
troppo tempo di due grandi città come Roma e
Parigi).
Ecco quindi il fiorire
e la fortuna della produzione poetica in lingua d’Oc (parlata in
Provenza), termine
che ha dato origine
anche all’aggettivo
“occitano” (che si usa
tuttora in Padania riferendosi alle valli occitane del Piemonte sudoccidentale, dove si
parla un linguaggio di
tipo provenzale), anche a est della catena
alpina. In lingua d’Oc
ebbe successo in Padania soprattutto la lirica
sentimentale dei cosiddetti “trovatori”, cavalieri dall’animo nobile e triste che componevano poesie d’amore e d’amicizia, poi
intonate e musicate da
giullari disposti a in34 - Quaderni Padani
trattenere le corti feudali e il pubblico sensibile
all’arte letteraria. “Trobador” deriva dal verbo
provenzale trobar, che significa “comporre un
canto in onore di Dio”, canto che poteva assumere i caratteri del lamento, ispirato a un tradimento amoroso, dell’alba, poesia di separazione
e arrivederci degli amanti e del famoso plor,
pianto per la morte del proprio signore e amico.
Questi temi, che sono passati in tempi più recenti nel bagaglio della più schietta letteratura
romantica, vennero trattati anche dai trobadori
nostrani, che preferirono appunto per un certo
periodo far poesia in lingua d’Oc perchè già
molto conosciuta e nel complesso meglio attrezzata del volgare, soprattutto sul piano del vocabolario, per trattare la complessa dinamica e
gamma dei sentimenti. Tuttavia in Padania le tematiche amorose, in sintonia anche con quelle
civili, assunsero una tonalità più concreta e realistica, attenta ai problemi della vita quotidiana,
pur mantenendo intatto lo spirito cavalleresco
che caratterizza il vero trobar.
Ecco emergere in Padania due autori, dal nome molto simile, che potrebbe far pensare a
qualche giovanissimo padano d’oggi alla forza di
un noto personaggio cinematografico d’Oltreoceano, fondatori probabilmente di due scuole:
Rambertino Buvalelli a Bologna e Rambaldo di
Vaqueiras a Genova. Il
primo si dichiara più
apertamente seguace
dei provenzali, in virtù
dell’insegnamento ricevuto direttamente da
un maestro che preferiva il Po al nativo Rodano, Aimeric de Pegulhan, presso la corte
estense, un ambiente
colto e fertile che avremo modo di rivedere
in tutti i suoi prodigiosi aspetti. Il secondo
assume un atteggiamento dialettico, arrivando a usare nelle
sue liriche sia il provenzale che un magnifico linguaggio padano-ligure capace di
tratteggiare i profondi
moti dell’animo, specie di quello femminile. L’epoca è quella delAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
la rinascita sociale che caratterizzò dodicesimo
e tredicesimo secolo nelle terre poste a nord dell’Appennino.
Rambertino conosce a Ferrara anche Beatrice
d’Este e se innamora perdutamente. Sentiamo
come si rivolge a lei in una poesia che meriterebbe più spazio nelle antologie scolastiche; è
scritta in lingua d’Oc ma certi accenti e certe
strutture richiamano abbastanza chiaramente il
padano dell’Emilia orientale, nonchè, quanto a
contenuto, una sana e tutta bolognese ristorazione dei sensi.
“Qan mi soven del bels digz amoros
e dels plazers qem saubetz far tant gen
bella domna cui hom sui leialmen
gran esfortz fauc car me loigne de vos”.
Ecco la traduzione:
“Quando mi ricordo dei bei detti d’amore
e dei piaceri che dolcemente mi procuraste
piacente signora di cui sono uomo fedele,
faccio molta fatica a staccarmi da voi”.
Sulle coste del Mar ligure la presenza dei poeti
e dei giullari provenzali si faceva sentire in maniera più massiccia che a Bologna, data la vicinanza geografica. Ma all’ombra della Lanterna i
rimatori in lingua d’Oc pensavano anche a sedurre, forti della loro fama, le “povere donne
”genovesi, eccitati forse dalla fresca brezza marina. I tentativi di conquista venivano per lo più
abilmente o duramente arginati, specie da parte
delle “superbe” che si erano già fidanzate o sposate.
A questo clima di arrembaggio si riferisce il rimatore Rambaldo nel comporre quella che, a
mio giudizio, rimane una delle più riuscite poe-
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
sie comiche della storia della letteratura europea. La tecnica compositiva è quella del “contrasto”, duetto tra un uomo e una donna che non
riescono a intendersi. La genialità del Rambaldino fu quella di creare un contrasto bilingue, dove si alterna l’incalzare del corteggiatore provenzale in lingua d’Oc colle risposte dure e irremovibili in lingua padana della corteggiata genovese, in grado di prendere in giro le scarse
qualità economiche e linguistiche dell’uomo,
anche grazie al lessico e alla sintassi che era fiorita attorno al Mille tra il Po e il mare.
Ecco un esempio della strenua e aspra difesa
della donna:
“Juiar, voi no sei corteso
“Giullare, non siete cortese,
que me chaidejai de zo,
che mi affliggete per ciò
que negota no farò
che io proprio mai farò.
Ance fossi voi apeso
Piuttosto sarete impiccato.
Vostr’amia non serò.
Vostra amica non sarò.
certo ja ve scanerò,
di sicuro piuttosto vi scannerò
provenzal malaurao!”
malaugurato provenzale!”
Avrete agevolmente notato i vocaboli e la
struttura padana, ereditata in parte fino a oggi.
Spicca ad esempio quel “negota”, che tuttora significa “nulla” in Lombardia (“negot”). Confrontate la traduzione in italiano con l’originale:
com’è più rapido ed espressivo, fin dal Duecento, il padano idioma!
Quaderni Padani - 35
La ragione linguistica
della Padania
di Sergio Salvi
L
na delle ragioni “forti” che permettono di
identificare la Padania all’interno dello Stato
italiano (ma anche in aree confinanti appartenenti a Stati stranieri) è la lingua.
Si tratta di una ragione “formidabile” anche se,
purtroppo, poco conosciuta e ancora meno rivendicata perfino da molti di coloro che si dichiarano padanisti. Eppure resta, insieme al territorio e alla cultura (che è del resto strettamente legata alla lingua), una caratteristica fondamentale e ineliminabile dell’essere padani: il motivo principale dell’affinità tra padani e padani e
della differenza tra i padani e gli altri popoli che
li circondano. E’ comunque una nozione che va
chiarita.
La lingua padana è una comunità di dialetti
priva di regolamentazione normativa (koiné, lingua standard) anche se non è certamente l’unica
delle lingue viventi che versa in queste condizioni: lo era il catalano prima del 1932; il basco prima del 1982; lo è il curdo ancora oggi. È però
quella i cui attuali fruitori stentano di più a riconoscere l’unità profonda. Ciò si deve soprattutto
a ragioni storiche e politiche ma anche a una
mancanza di informazione linguistica generale
che coinvolge la scuola e i mass media della stessa Padania, totalmente tributaria, in questo settore, dello Stato italiano. Nessun intellettuale padano ha supplito a questa carenza dando origine
a un movimento di rivendicazione specifica, come è invece accaduto ad altre “nazioni” prive di
Stato proprio.
Si può così dire che il padano è la lingua con il
minor grado di consapevolezza culturale espresso finora dai suoi locutori: al punto di mostrarsi
priva, lungo quasi tutto l’arco della sua storia, a
eccezione di un momento felice verificatosi a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, di qualsiasi soprassalto di coscienza linguistica.
Ciò non toglie che, da un punto di vista glottologico, questo idioma mostri una propria identità davvero spiccata. Purtroppo, astraendo da
motivazioni linguistiche, è difficile rendersi con36 - Quaderni Padani
to di questa identità. Per farlo è infatti necessario
un addestramento culturale, lo ripetiamo, che la
scuola italiana non ha mai predisposto per i suoi
utenti, salvo forse gli studenti degli istituti universitari di glottologia.
Mentre tutti i cittadini padani riconoscono a
vista la differenza tra un bassotto e un levriero,
ma hanno anche imparato che si tratta sempre di
cani e che, in quanto cani, entrambi gli animali,
pur differenti tra loro, sono collettivamente differenti dai gatti, pochi sono coloro i quali riconoscono a orecchio che gesa, cesa e cisa sono sì
parole in apparenza (anche se poco) diverse tra
loro ma sono anche parole in fondo assai simili:
e che divergono assai di più, e nello stesso modo,
dalla parola chiesa per un elemento particolare
che le accomuna: la palatizzazione del CL- latino
di ecclesia, parola dalla quale derivano. Questo
tratto è condiviso soltanto dalle parlate padane.
Non vogliamo addentrarci in questioni tecniche. Vogliamo soltanto far presente che l’unità
glottologica tra parlate in apparenza diverse non
significa che queste parlate debbano essere identiche (altrimenti sarebbero una parlata sola): significa soltanto che devono condividere un certo
numero di tratti comuni che non appaiono in altre parlate o gruppi di parlate.
Quando si dice che tutti gli uomini sono anatomicamente uguali non significa che debbano
essere identici ma che condividono un certo numero di tratti comuni che li identificano come
uomini e non come cani oppure gatti. Le differenze non sono soltanto superficiali e tutte immediatamente percettibili. Tornando alle differenze tra gli uomini, per valutarle correttamente
occorre anche un esame più profondo quale può
offrire, ad esempio, la genetica.
I gemelli omozigoti, i più simili in apparenza
tra loro tra tutti gli uomini, al punto di essere
scambiati abitualmente l’uno per l’altro quando
li si guarda, hanno in comune soltanto l’80% del
patrimonio genetico. Figuriamoci gli altri.
Si potrebbe dire allora che le parlate padane, in
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
apparenza tanto superficialmente diverse, stanno
tra di loro, se non come gemelli omozigoti, perlomeno come fratelli. Di ciò ci si rende conto,
spesso, anche a vista: ci se ne rende conto però
sempre attraverso una indagine più approfondita, in questo caso di tipo strettamente glottologico. L’indagine glottologica è assai meno difficile
di quella genetica e non necessita di strumenti
complessi di laboratorio. Bastano una conoscenza linguistica di base e un registratore. E’ un po’
come la matematica elementare. Se ci si limita ai
nostri sensi non possiamo affermare che 2131 +
1750 fa 3881. Ma è facile farlo con una calcolatrice o anche soltanto con carta e penna.
La scienza linguistica ha già provveduto a individuare nelle varie parlate padane un gruppo linguistico fondamentalmente omogeneo e a se
stante entro il panorama delle lingue neo-latine
o romanze: un gruppo che ha, paradossalmente,
più affinità con il francese standard (e con il
gruppo delle parlate “francesi” alle quali il dialetto di Parigi ha fornito la base per il francese standard) che con l’italiano. Anche se è meno diverso
dal francese che dall’italiano, è comunque diverso anche dal francese.
Purtroppo, il padano non ha prodotto, come
ha fatto il francese e anche l’italiano, una lingua
standard dall’interno delle sue parlate: una forma di riferimento nella quale tutte queste parlate si riconoscono a orecchio. Ma questo complesso di parlate esiste e di esso va tenuto conto.
Tuttavia, per afferrarne la struttura, è necessario confrontarlo con complessi di parlate omogenei e non soltanto con le lingue standard. Non si
sommano le mele con le pere, ma le pere con le
pere e le mele con le mele. Equivocando con i
nomi delle attuali regioni, imposte dallo Stato
italiano spesso contro la ragioni della storia e
delle identità etniche, si suole parlare di “lingua
piemontese” (o “lombarda” o “emiliana” e così
via) e per dimostrarne l’esistenza solitaria si confrontano i suoi tratti con quelli dell’italiano standard. Ma è un procedimento sbagliato.
Per dimostrarlo, ci riferiremo a un saggio del
professor Bruno Villata nel quale si compara il
piemontese con l’italiano per dimostrare che è
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
un’altra lingua. Ma i suoi argomenti non valgono
se si compara il piemontese, ad esempio, con il
lombardo.
Il piemontese ha il suono s-è che l’italiano non
ha: s-èiamé (esclamare). Ma questo suono lo ha
anche il lombardo: s-èena (schiena); il ligure:
s-èiavitü (schiavitù); il veneto: s-èiao (schiavo). Il
piemontese ha il suono n- (faucale): lün-a (luna);
ma lo ha anche il ligure: San-a (Savona). Il piemontese, anziché io, usa il pronome oggetto mi:
ma tutte (ripeto: tutte) le parlate padane (e soltanto esse) fanno lo stesso (se non usano mi usano me, che è la stessa cosa).
L’elenco potrebbe continuare. Risulta tuttavia
già evidente che non si tratta di tratti relativi al
solo piemontese ma di tratti condivisi da tutte le
parlate padane, cioè da tutte le mele del paniere
(che possono essere di tipo diverso: golden, regina, delizía, boskoop, grammy-smith ma sono
sempre mele e nessuna di loro è una pera): non
si può prendere una sola mela (una golden) e
confrontarla con una pera astratta (costruita in
base a caratteri comuni alle varie qualità di pere)
per dimostrare che quella mela fa categoria merceologica a sé, prescindendo dalle altre mele.
All’obiezione che una stessa forma linguistica
può apparire diversa a seconda che si tratti di
piemontese o di lombardo, risponderemo che la
stessa cosa accade anche all’interno del solo piemontese: a Torino si dice anduma (andiamo) ma
nel Canavese si dice anden (a Milano, andem). A
Torino si dice lait (latte) ma nel Monferrato laè
(come a Milano).
Se dai singoli suoni, dalle singole parole e dalle
singole forme morfologiche si passa alla sintassi
(la vera “struttura” di una lingua) ci si accorge
che essa è assolutamente identica in tutte le parlate padane: è la filigrana delle banconote che distingue quelle vere da quelle false più delle sfumature di colore.
Detto questo, non ci resta che augurare ai padani di riconoscere finalmente l’esistenza della
loro lingua, di là dalle singole varianti locali, e di
riconoscersi in essa, e non soltanto nel desiderio,
magari legittimo, di non separarsi dalle troppe
banconote pretese dal fisco dello Stato italiano.
Quaderni Padani - 37
Calcio Politico
di Leo Siegel
E
ro appena diventato maggiorenne, studiavo
in un liceo classico milanese, giocavo nel
Seregno e mi chiesero se ero disposto ad
andare al Crotone. Ne parlai in casa con papà
zurighese, mamma e nonna piemontesi savoiarde, mi scrutarono come un matto, capii che
non era il caso di insistere.
Così, la mia carriera (si fa per dire..) calcistica
rimase confinata nella Lombardia. Replay da allenatore, quando Mario Robbiano mi propose la
panchina di Grumo Nevano, all’ombra del Vesuvio.
Questa volta, fu la consorte svizzera ticinese, a
guardarmi allibita, e buon per me che il bimbet-
to non fosse in grado di capire. Niente Grumese.
dunque, ed a fine carriera pallonara la mia unica
esperienza meridionale si limiterà a una stagione nello staff tecnico del Catania, in B, vissuta
per lo più a distanza dal presidente Angelo Massimino, bravuomo bersagliato da fulminanti
aneddoti tipo: “Cameriere, questo prosciutto sa
di pesce”. Infatti, era salmone.
Incapace di pronunciare esattamente il mio
cognome, mi faceva chiamare al telefono dalla
moglie, poliglotta di famiglia. Umanamente ne
serbo un buon ricordo, ma fallì il tentativo di
avvezzarmi alla gremolata di caffè con brioche
del mezzogiorno, e alla dissetante bevanda a ba-
Presenze 1990-2000
Roma ....................10 Seguono con 2:
Napoli......................5 Seguono con 1:
Palermo ..................5
Salerno....................3
Bari, Terni, Parma, Udine
Genova, Foggia, Cesena, Torino, Cagliari, Firenze, Trieste, Pescara,
Reggio Emilia, Cremona, Perugia, Trieste, Catania, Ancona, Pisa,
Bologna, Lecce, Reggio Calabria, Milano
L’ultima volta di...
Bergamo..........................24-1-1987........................................................Italia-Malta ....................................5-0
Brescia ............................4-6-1988..........................................................Italia-Galles....................................0-1
Verona ............................22-4-1989........................................................Italia-Uruguay................................1-1
Vicenza............................11-11-1989......................................................Italia-Algeria ..................................1-0
Torino..............................25-5-1992........................................................Italia-Germania..............................1-0
Milano ............................17-11-1993......................................................Italia-Portogallo ............................1-0
Dalla proclamazione della Padania a oggi
Perugia ....9-10-1996........Italia-Georgia ..............1-0
Palermo....22-1-1997........Italia-Irlanda Nord ......2-0
Trieste ......29-3-1997........Italia-Moldova ............3-0
Napoli ......30-4-1997........Italia-Polonia ..............3-0
Roma ........11-10-1997......Italia-Inghilterra ........0-0
Napoli ......15-11-1997......Italia-Russia ................1-0
Catania ....28-1-1998........Italia-Slovacchia ........3-0
Parma ......22-4-1998........Italia-Paraguay............3-1
Udine ........10-10-1998......Italia-Svizzera ............2-0
38 - Quaderni Padani
Salerno ..........18-11-1998 ....Italia-Spagna ..........2-2
Roma ............16-12-1998 ....Italia-All Stars ........6-2
Pisa ................10-2-1999 ......Italia-Norvegia ......0-0
Ancona ..........31-3-1999 ......Italia-Bielorussia....1-1
Bologna ........5-6-1999 ........Italia-Galles ............4-0
Napoli ............5-9-1999 ........Italia-Danimarca ....2-3
Lecce..............13-11-1999 ....Italia-Belgio............1-3
Palermo ........23-2-2000 ......Italia-Svezia............1-0
R. Calabria ....26-4-2000 ......Italia-Portogallo ....2-0
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
se di limone e sale irrorata al Cibali, stadio reso
famoso non solo da vicende strettamente calcistiche.
Sentite questa. Alcuni tifosi di curva, per comodità avevano preso il vizio di urinare dall’alto sul cortiletto esterno del custode. Al di là
delle conseguenze igieniche, per la famigliola
non era certo un colpo d’occhio edificante, e un
brutto giorno l’uomo, esasperato, non trovò di
meglio che imbracciare il fucile e fare fuoco.
Poteva capitare anche dalle nostre parti, per carità. ma resta comunque il fatto che pure nel
calcio, e relativi dintorni, i mondi nordisti e sudisti rappresentano realtà diverse. Questione di
passionalità, innanzitutto.
Ricordate le immagini del San Paolo gremito
in occasione dell’arrivo di Maradona? A Milano
o Torino, sarebbe bastato un balcone della sede.
Il rito, fatte le debite proporzioni, si è ripetuto
recentemente per la presentazione di Edmundo, che ha richiamato sugli spalti 15mila partenopei. È banale, rilevare che al nord, in settimana, la gente lavora? E che dire, della vicenda
dell’Inter a luci rosse? Vi immaginate se un fatto del genere fosse accaduto al sud? I baldi erotomani, protagonisti oltretutto di una stagione
fallimentare, avrebbero avuto seri problemi a
raggiungere il campo d’allenamento incolumi,
a Milano invece i tifosi l’hanno messa sul ridere, consigliando a Moratti l’acquisto della pornostar Selen e chiedendo di esser invitati alla
prossima ammucchiata.
Già, perchè qui si è propensi a separare la vita
privata da quella professionale, mentre giù si fa
di ogni erba un fascio. Mi consolava un giocatore che aveva militato nel napoletano: ”Mister,
lei si lamenta dei fischi casalinghi, ma fuori
dallo stadio finisce tutto. Alla vigilia di una
partita difficile, invece, mia moglie doveva fare
la spesa doppia, perchè in caso di sconfitta,
stanca di essere insultata come una zoccola
per strada e perfino nei negozi, il lunedì si barricava in casa e al martedì, alla ripresa degli
allenamenti, davanti agli spogliatoi, doveva vigilare una macchina della Polizia”. Lungi dal
voler separare geograficamente buoni e cattivi,
è comunque giusto rilevare, cronache alla mano, come le teste calde del nord si scatenino soprattutto contro gli avversari per rivalità spesso
di campanile, quindi extracalcistiche, mentre al
sud sia spesso l’idea del “tradimento” a scatenare la violenza.
Quanto alla politica, dalla Capitale in giù l’intreccio con il calcio è particolarmente solido e
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
reciprocamente redditizio. Senza scomodare il
Duce e Andreotti che avrebbero portato la Roma allo scudetto o, meglio, lo scudetto a Roma,
(e lo scudetto Giubileo della Lazio?), è incontestabile che certe ascese e certi sprofondamenti
siano stati fenomeni politici. Ricordate la serie
A del demitiano Avellino? Promozioni in cambio di voti e voti in cambio di promozioni, secondo l’antica formula “panem et circenses”,
vincente soprattutto dove i vincoli ideologici
sono precari, e i tifosi fluttuano allegramente
dall’una dall’altra sponda.
Se ieri era “Franza o Spagna, purché se magna”, oggi è “Destra o manca, purché si vinca”,
e per Matarrese, se il Bari retrocederà, saranno
dolori. Altra musica, invece, al nord, dove il fenomeno Berlusconi vive ormai solo marginalmente della componente Milan, e per contro
l’Ulivo milanese sognava un Moratti anti-Albertini, malgrado la tragicomica stagione dell’Inter.
La diserzione di qualche interista incazzato,
sarebbe stata compensata dai milanisti antiberlusconiani del Leoncavallo e di altre frange ultrà.
Eloquente quanto accadde al presidente nerazzurro Fraizzoli, i cui appelli agli Inter Club
non fruttarono neppure l’elezione consigliare a
Palazzo Marino nell’allora egemone DC. Vi approderà più tardi solo per ripescaggio, dopo alcune dimissioni.
Capitolo a parte, infine, per la nazionale italiana, che ha cessato di essere “Cosa loro” solo
con l’avvento del lumbard Trapattoni. L’allegata
tabella denuncia chiaramente l’abbuffata del
centrosud, dove gli stadi, a uso della connivente
RAI, si trasformavano in patetici teatrini patriottardi, con puntuali zoomate sui politici governativi in passerella.
Certo, in Padania tirava aria secessionistica, e
comunque la gente non avrebbe barattato il diritto al fischio con una bandiera tricolore
omaggio, l’applauso forzato con un biglietto
gratuito filtrato dal papavero locale a elettorale
memoria.
Dalla nostre pur disastrate parti, il dignitoso
rifiuto di farsi burattini, quale che sia la collocazione politica, passa pure attraverso uno stadio. Questo. soprattutto, diversifica le due aree
calcistiche, il clientelismo e il servilismo che il
regime, anziché debellare ha assecondato e alimentato. Poi, sul campo, vinca pure il migliore,
anche la Roma, anche l’Italia.
Sportivamente, bisogna saper accettare tutto.
Quaderni Padani - 39
I caratteri etnici della Padania
di Stefano Spagocci
È
opinione comune che in Italia non si possa
parlare di etnie. Secondo questa opinione,
l’Italia avrebbe conosciuto un numero incredibile di invasioni, e sarebbe quindi assurdo
pretendere che al proprio interno esistano ancor
oggi gruppi etnici ben distinti. Una tale posizione è scientificamente infondata, come spiegheremo in seguito. Ma se anche fosse scientificamente fondata, non si
capirebbe poi perché,
quando si vogliano giustificare le caratteristiche che il “popolo italiano” avrebbe, si invochi a loro spiegazione
una presunta eredità etnica “latina” o “mediterranea”. In altre parole, in Italia le etnie
sembrano non esistere
quando si invochino
ascendenze “nordiche”,
mentre le ascendenze
“mediterranee” sono
non solo invocate, ma
anche imposte a tutti.
In realtà, l’identità etnica della Padania, e
della regione geografica
italiana in generale, è
stata studiata in dettaglio già da alcuni anni,
costruendo mappe della
distribuzione di particolari geni. Ci riferiamo
ai fondamentali studi di
Piazza [1] e Cavalli Sforza [2], che hanno mostrato come l’identità etnica dell’Europa, e dunque
anche della Padania, sia sostanzialmente “congelata” alla situazione preromana. L’Italia, in
particolare, risulta essere composta da un insieme di etnie ancor oggi ben distinte. Nessuno,
crediamo, può dubitare della serietà scientifica
di questi studi, apparsi peraltro in forma divulgativa su una rivista ben lontana da ogni fer40 - Quaderni Padani
mento etnista, e anzi spesso schierata su posizioni “politicamente corrette”.
Le identità etniche nella regione geografica italiana, e dunque anche in Padania, sono state
studiate sia in se stesse sia in rapporto all’Europa. Si è trovato che gli abitanti della regione
geografica italiana sono in buona sostanza i discendenti delle tribù preromane. Non esiste alcun gruppo etnico “italiano”, ma esistono al
contrario popolazioni
ancora oggi ben distinte, derivanti dalle popolazioni che abitavano
questa regione prima
della conquista romana.
Tali popolazioni si raggruppano in tre distinte
etnie, corrispondenti rispettivamente a Padania, Italia peninsulare
del nord (fino a sopra
Roma) e Italia peninsulare del sud, cui si aggiunge la Sardegna,
non interessata dalla
studio ma notoriamente isolata geneticamente dal resto d’Europa.
La Padania e l’Italia
nord-peninsulare risultano legate all’Europa
centrale e a quelle iberica (Padania occidentale) e danubiana (Padania orientale e Italia
nord-peninsulare). L’Italia sud-peninsulare risulta invece legata all’Europa meridionale,
escluse le aree iberiche e danubiane. In particolare, la Padania ha un carattere etnico celtico, ligure (a ovest) e venetico (a est). L’Italia nord-peninsulare ha invece un carattere genetico etrusco (a ovest) e umbro (a est). L’Italia sud-peninsulare ha infine un carattere genetico osco e
greco.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Parlando in particolare della Padania, si può
affermare che i suoi caratteri etnici siano celtici,
anche considerando il sostrato ligure e venetico
in essa presente. Attualmente, infatti, non si
pensa più ai Celti come a un gruppo etnico formatosi in una ristretta zona e poi emigrato in
massa. Si pensa, al contrario, a un insieme di
popolazioni aventi un certo legame etnico e culturale che, attraverso un lungo processo di compenetrazione e le successive invasioni storiche,
abbiano ulteriormente sviluppato le precedenti
comunanze, dando origine alla “confederazione
etnica” celtica.
La Padania ha un sostrato protoceltico, come
lo hanno tutte le altre aree europee di ascendenza celtica. Genetisti come Cavalli Sforza [2] o archeologi come Moscati [3] hanno affermato molto esplicitamente che le popolazioni dell’Italia del
Nord (che noi preferiamo chiamare Padania) sono di origine celtica. Liguri e (paleo)Veneti in
parte si celtizzarono già quando l’etnia celtica
andava formandosi in Europa. I Golasecchiani,
abitanti in una larga parte della Padania occidentale, sono per esempio tra i Celti più antichi
d’Europa [4]. Seguirono poi le invasioni galliche
del IV sec. a.C. e anche quella parte di Liguri o
Veneti che avevano mantenuto caratteristiche
proprie subirono un processo di celtizzazione [4]
(incidentalmente estesa in parte anche all’area
umbro-picena). Coerentemente a quanto qui affermato, la mappa genetica della Padania mostra
chiaramente le aree liguri e venetiche, ma mostra anche come sovrapposte a essa vi sia una
componente celtica che le unifica. Non esiste
quindi alcuna etnia italiana, ma esiste invece
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
un’etnia padana, poi articolata al proprio interno.
In conclusione, non esiste dal punto di vista
etnico alcun popolo italiano (neanche dal punto
di vista culturale, evidentemente). Esistono invece nella regione geografica italiana quattro etnie diverse, poi articolate al proprio interno.
L’etnia padana deriva i suoi caratteri dagli apporti liguri, venetici e celtici (oltre ad avere un
certo contributo germanico). Adottando per il
termine “Celti” il significato che l’archeologia
ha imposto oggi di dare, i Padani possono essere
definiti popolazione celtica a tutti gli effetti, come spiegato più sopra. D’altronde, se la presenza
di un sostrato preceltico o protoceltico rendesse
una popolazione non meritevole di definirsi celtica a pieno titolo, allora dovremmo affermare
che non esistono popolazioni celtiche in Europa, e che i Celti non sono sostanzialmente mai
esistiti. Gli Irlandesi, per esempio, non sarebbero Celti. Qualche archeologo “politicamente
corretto” effettivamente lo sostiene [5], riconoscendo però che i veri Celti risiedono in Europa
centrale, e anche in Padania.
Bibliografia
[1] A. Piazza, “L’Eredità Genetica dell’Italia Antica”, su Le Scienze, 278 (1991) 62.
[2] L. e F. Cavalli Sforza, Chi Siamo, Mondadori,
Milano, 1993.
[3] S. Moscati, “Chi Siamo?”, su Archeo, 5
(1996) 3.
[4] V. Manfredi e V. Kruta, I Celti in Italia, Mondadori, Milano, 1999.
[5] S. James, I Celti Popolo Atlantico, Newton &
Compton, Roma, 1999.
Quaderni Padani - 41
La voglia di libertà
di Carlo Stagnaro
S
ul finire del XII secolo, un gran numero di
comuni padani diedero vita a un’alleanza,
passata alla storia come Lega Lombarda,
con lo scopo di difendere i propri diritti e le proprie autonomie dalle mire egemoniche dell’Imperatore Federico Barbarossa. In particolare, essi erano fermamente determinati a continuare a
gestire, come avevano fatto fino ad allora, il
frutto del proprio lavoro. All’epoca la pressione
fiscale era bassissima (si parla di un livello vicino al 4-5 per mille del reddito). Ciò nonostante,
i comuni pretendevano di essere loro a decidere
quante e quali tasse imporre, e loro a stabilire
come spenderne i proventi. Facendo una piccola
forzatura, si può affermare che la Lega Lombarda nacque come tentativo di rivolta fiscale.
Cinque secoli più tardi, nel corso della seconda metà del 1700, una situazione del tutto analoga si presentò nelle colonie inglesi d’oltreoceano. Il sovrano britannico Giorgio III stava già
da qualche tempo calcando la mano su quelle
popolazioni. Aumentando le tasse e rendendo
più stretta la regolamentazione su una serie di
questioni, egli riteneva probabilmente di sottolineare la propria autorità. Invece pensieri e parole di rivolta circolavano sempre più apertamente
tra quei cittadini laboriosi – e vale la pena ricordare che uno dei libelli più letti all’epoca era Dei
delitti e delle pene, del lombardo Cesare Beccaria. La goccia che fece traboccare il vaso della
rabbia americana fu la decisione di affidare alla
“Compagnia delle Indie” il monopolio del commercio del tè. Come è noto, gli esasperati abitanti delle tredici colonie diedero luogo a una
clamorosa protesta passata alla storia come “Boston Tea Party”, e da lì cominciò una serie di feroci scontri – la Guerra di Indipendenza – che si
risolsero con la totale libertà politica per i neonati stati, ormai divenuti Stati Uniti d’America.
Ancora una volta, tutto nacque da una rivolta fiscale.
C’è un filo rosso che lega questi due avvenimenti, e i tanti che si sono verificati in diversi
momenti storici. E’ la voglia di libertà, un desi42 - Quaderni Padani
derio irrefrenabile e innato che da sempre anima questi popoli. La nascita della nazione americana, d’altronde, avvenne in condizioni del
tutto analoghe a quelle in cui la Padania si trova
oggi. Un lontano governo centrale imponeva la
propria volontà ai cittadini senza curarsi minimamente del loro consenso. Se vi era dunque
un principio tirannico nel metodo, non diverse
erano le questioni di merito: la tassazione raggiungeva livelli inaccettabili per individui e comunità e una miriade di leggi impediva loro di
godere dei propri giusti diritti.
In effetti, per quanto venga generalmente disprezzata (soprattutto in seguito a una stanca
retorica di sinistra) la libertà economica è un
momento fondamentale e qualificante della libertà tout court. Quando, a causa di una eccessiva regolamentazione, un individuo non può fare l’uso che crede dei propri averi; quando, per
colpa della tassazione, una parte preponderante
del frutto del lavoro di una persona viene estorta
al suo legittimo titolare; allora vi è una oggettiva aggressione al suo diritto, naturale e pre-politico, alla proprietà privata. E questo comporta
una serie di altre gravi limitazioni alla libertà
personale e, in definitiva, alla possibilità di un
individuo di conseguire la propria felicità.
La storia della Padania, oltre tutto, è una storia di libertà e la sua tradizione è una tradizione
di libertà. Nel periodo più fiorente e prospero
della propria plurimillenaria esperienza di vita,
l’epoca comunale, la Padania vide istituzionalizzate talune caratteristiche che sono endemiche
e sempre presenti nella sensibilità dei suoi abitanti.
Da un lato, era massima la libertà economica.
Individui e comunità potevano commerciare e
scambiare i propri beni legittimamente acquisiti.
La pressione fiscale era minima e quasi ogni attività era lasciata a quell’ordine naturale e spontaneo che passa sotto il nome di mercato. Questo
permise ai nostri popoli di sviluppare proprie
leggi e costumi, spesso entro un ordinamento
molto vicino alla common law anglosassone.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
A sua volta, tale fatto è estremamente significativo, in quanto è manifestazione aperta ed
evidente di una concezione del diritto come ricerca di una legge di natura, piuttosto che creazione di disposizioni universalmente valide da
parte di una casta in qualche maniera superiore
– il ceto politico. “Politico” era tutto quanto
ruotava attorno alla interazione libera e volontaria tra individuo e individuo, e tra individuo e
comunità e non, come accade spesso oggi, relativo alle attività e ai desideri (non di rado perversi) degli uomini politici. I popoli padani, insomma, sembravano e sembrano manifestare
una naturale diffidenza per quelle persone che
si ritengono autorizzare a stabilire arbitrariamente leggi valide per tutti gli altri
e, quindi, pare che abbiano fatte proprie,
ancora prima che venissero proferite, le
ben note parole di Lysander Spooner: “non
si può essere al tempo
stesso uomini onesti e
uomini politici”.
Una terza caratteristica che merita di essere evidenziata è la
tradizionale disgregazione istituzionale dei
popoli padani, testimoniata ancora oggi
dalle reciproche antipatie e dalla gelosa
conservazione dei restanti brandelli di autonomia. Uno degli
argomenti storicamente più forti a favore dell’unità d’Italia
è la presunta necessità di fornire un quadro istituzionale comune a quello che prima era soltanto un coacervo di “stati e staterelli”. In
realtà, tale tesi può essere facilmente rovesciata.
In primo luogo, è del tutto evidente che le popolazioni di quella miriade di piccole patrie avevano tutta la volontà (per non dire l’interesse) a
mantenere la propria indipendenza. Non serve
in questa sede ricordare le orrende nefandezze
che si sono compiute nel nome dell’Italia. Il
“nostro Paese”, come ipocritamente viene chiaAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
mato, è nato nel ferro e nel fuoco, è stato battezzato nel sangue ed è cresciuto tra le fucilate
e i colpi di cannone. Non per niente tutti i più
sinceri difensori della nazione italiana, Benito
Mussolini in testa, non avevano tema di teorizzare la necessità di forgiare una più profonda
coscienza nazionale attraverso l’immane sacrificio della guerra. Il generale Bava Beccaris e le
carneficine sul Carso, la ridicola legislazione fascista e la traballante politica degli ultimi cinquant’anni sono tutti aspetti del medesimo tentativo di creare un sentimento nazionale laddove tale sentimento non esisteva e, soprattutto,
tra popolazioni che non ne avevano la necessità
e che anzi non lo volevano.
Secondo, ma non meno importante, è un
fatto ormai assodato
che le realtà politiche
territorialmente ridotte tendano a essere
più liberali rispetto a
quelle più grandi.
Non solo: la ristretta
estensione dell’area di
sua pertinenza impedisce, di fatto, a un
governo di assumere
decisioni autarchiche
o addirittura tiranniche, perché i costi di
uscita per i cittadini
sono minimi.
La Padania, dunque,
ha tutte le ragioni –
storiche e culturali,
economiche e politiche – per reclamare la
propria totale autonomia e indipendenza.
Questo è vero nei
confronti dell’Italia non di meno di quanto valga verso l’invadenza dell’Unione Europea. Roma
e Bruxelles, da questo punto di vista, pari sono:
entrambe, infatti, sono espressione di un tentativo egemonico di marca schiettamente socialista, volto a schiacciare diritti e libertà individuali e di gruppo in nome di un esperimento
follemente costruttivista di ingegneria sociale.
In particolare, il diritto di secessione della Padania è doppiamente valido. Da un lato, infatti,
l’Italia esercita un regime oggettivamente dispotico, che legittima l’insorgere di una resiQuaderni Padani - 43
stenza da parte del Nord della penisola. Tale opposizione al furto e alla sottrazione di libertà
non può che assumere l’aspetto della rottura
dei vincoli politici che legano le nostre regioni
alla capitale. In questo senso, riveste particolare
rilevanza e suscita estremo interesse l’antica
proposta, mai tramontata, di uno “sciopero fiscale”, con lo scopo di tagliare alle strutture parassitarie del “Belpaese” la loro linfa vitale.
Non di meno, è pure possibile rintracciare nei
vecchi Stati pre-unitari quelle “sovranità originarie” sempre indispensabili all’esercizio del diritto di secessione. Essi appaiono perfettamente
funzionali all’uopo, in quanto rispondono a tutte le caratteristiche unanimemente individuate
dalla filosofia liberale come necessarie: dalla
condizione di oppressione al soggiogamento di
individui e comunità politiche contro la loro
stessa volontà. Proprio questo – la volontarietà
– è tratto peculiare e irrinunciabile dell’indipendentismo padano.
Mentre in altre parti del mondo le rivendicazioni autonomistiche giungono non di rado da
gruppi numericamente ristretti e culturalmente marginali, in Padania l’indipendentismo travalica qualunque possibile identificazione politica. Sebbene sia possibile individuare movimenti che costituiscono in qualche maniera un
punto di riferimento per quanti sostengono la
necessità di nuove istituzioni, il sentimento secessionista è altamente diffuso e di difficile collocazione entro il cosiddetto arco parlamentare.
È questa, in fondo, la ragione principale per
cui l’indipendentismo padano ha un carattere
profondamente legato alla lotta culturale, prima ancora che politica (cioè partitica). Invero,
la cultura padanista è anche forzosamente politica padanista: intendendo tale termine non
tanto nel senso corrente, quanto in quello più
ampio di impegno civile e individuale, a prescindere dalle decisioni espresse tramite le
schede elettorali – o fuori dai seggi, nel caso dei
milioni di cittadini che hanno deciso di manifestare il proprio dissenso radicale disertando le
urne.
Se la battaglia si svolge principalmente su un
piano culturale (e l’esistenza stessa de La Libera Compagnia Padana ne è dimostrazione lampante) un ultimo accenno va rivolto ai mezzi
con cui lo scontro deve essere condotto. Essi
sono proprio, e per certi versi in maniera paradossale, i mezzi di comunicazione. In un primo
momento le rivendicazioni padaniste si sono
dovute infrangere contro il muro di gomma
44 - Quaderni Padani
della grande stampa e delle televisioni statali o
falsamente private. Oggi, invece, l’esistenza di
uno strumento come Internet ha fornito nuovo
vigore alle forze libertarie che sono marcatamente schierate al di qua della barricata. La comunicazione immediata (cioè, letteralmente,
non mediata) ha permesso alle idee “sovversive”
di propagarsi con rapidità ed efficacia, raggiungendo un numero difficilmente quantificabile,
ma senz’altro assai elevato, di individui e contribuendo a contagiarne una grossa fetta.
Non è un caso che gli utenti della rete siano
in larga misura settentrionali, né che le principali esperienze di comunicazione politica su Internet siano giunti, fin dai primi tempi, proprio
dagli ambienti autonomisti. La voglia di libertà
che invade e pervade i nostri popoli si è tradotta
in una sorta di innato desiderio di mettersi in
comunicazione: entro i nostri stessi confini e al
di fuori di essi. E’ con l’esplosione del web che
molti movimenti libertari operanti all’estero sono venuti a conoscenza delle rivendicazioni padaniste, fornendo immediato sostegno – ne sia
un esempio il forte interesse che il secessionismo padano ha suscitato nel Sud degli Stati
Uniti.
Vale la pena ricordare, in ultima istanza, che,
proprio mentre l’unificazione d’Italia veniva
portata a termine, si combatteva in America
una terribile guerra. Sugli opposti fronti, erano
schierati da un lato i difensori dei diritti degli
Stati e della libertà economica e politica e, dall’altro, i fautori di invasive politiche federali. E’
indubbio che, negli States come in Padania, abbia trionfato la forza militare dei secondi e, alla
lunga, anche la loro penetrazione culturale abbia ottenuto successi rilevanti. Questo non toglie che l’impianto da essi edificato poggi su
fragili fondamenta – costruite di un cemento
fatto di soprusi e invasioni, tradimenti e guerre
– e che l’antico gusto per la libertà covi tuttora
sotto la cenere.
Il tiranno si aggira per le nostre vie e piazze
privo dei propri indumenti e tutti noi, quasi
fossimo vittime di un potente incantesimo, abbiamo l’impressione di vederlo riccamente addobbato. Il libertario, il secessionista, colui che
interviene e partecipa a incontri come questo
recita autenticamente il ruolo del bambino che,
nella favola, grida: “Il Re è nudo!”. Coloro che
hanno preso atto di tale semplice verità hanno
il dovere morale di tramutarsi in untori della libertà e spargere in ogni dove il contagioso morbo della ribellione.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Utilità della cucina padana
tradizionale
di Ferruccio Vercellino
S
e oggi siamo qui, é perché condividiamo degli obiettivi e la strada per raggiungerli, anche se quest’ultima, costruita sull’impegno
culturale, è la più lunga e la più difficile, ma anche quella che sarà foriera di tangibili soddisfazioni. A tal proposito, non è senza rilevanza l’apporto culturale della gastronomia. La conoscenza di un popolo, infatti, passa anche attraverso
la conoscenza della sua alimentazione. Non può
sfuggire come la cucina padana, nata in ambiente agricolo, sia montano che di pianura, risulti
essenzialmente povera; venivano, infatti, utilizzati i prodotti rimasti invenduti. Una vera e propria scienza dell’utilizzazione degli avanzi che
consentiva, però, un’alimentazione sapida e robusta, atta a soddisfare le istanze di stomaci che,
dopo una dura giornata di lavoro, spedivano
pressanti ambasciate a tutte le altre parti del
corpo.
Di un ritorno alla cucina tradizionale, abbiamo più volte discorso. Sappiamo che deve essere
un ritorno temperato dalla saggezza, poiché
nulla può e deve essere assolutamente come una
volta: ce lo impedisce, di fatto, una quotidianità
permeata d’urgenza e di sfrenato attivismo. Tuttavia, la tradizione può essere un mezzo per riscoprire alimenti più sani (basti pensare al pane
e al burro, demonizzati a favore di pasta e olio,
in nome di una balorda italianità) e per ritagliare, nella preparazione dei cibi, momenti di divagazione e intelligente rilassatezza.
La nostra cucina padana può essere altresì di
aiuto, a una necessaria lotta a diversi aspetti negativi che, per brevità, possiamo ridurre a tre, e
che risultano di allarmante attualità.
Gli alimenti transgenici
Cosa sono? Sono vegetali che hanno nelle cellule una caratteristica speciale. Con l’ingegneria
genetica sono stati “convinti” ad acquisire qualità che non hanno in natura. Risultano sodi, appetitosi, belli, a lunga conservazione, arricchiti
di vitamine, senza grassi nocivi, addirittura ipoAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
calorici. Insomma: perfetti. Sono nocivi alla salute? Potrebbero, alla lunga, scatenare allergie,
turbare l’equilibrio ecologico, modificare la nostra resistenza agli antibiotici? I fautori del transgenico, rispondono con un convinto no e, ci ricordano che da millenni, gli agricoltori praticano mutazioni genetiche empiriche, e che i piselli che mangiamo oggi non sono i piselli di duemila anni fa. Resta il fatto che, un conto è l’empirismo, un conto è un’ingegneria che risponde
a una logica di produzione industriale. C’è un
altro aspetto che mi lascia perplesso. Se io desidero essere accolto in una delle vostre case e godere della vostra ospitalità, ve lo dico chiaramente e non entro di soppiatto, come farebbe
un ladro. Questi cibi, invece, hanno fatto irruzione in silenzio, nascosti nelle confezioni più
innocenti: merendine da forno, brodi in scatola,
gelati, surgelati, dolci e zuppe. Se fossero fosforescenti, le nostre dispense brillerebbero di luce
propria! Personalmente preferisco veder marcire
i pomidoro dopo pochi giorni, piuttosto che ammirare la loro longevità, dovuta al fatto che in
essi è stato disattivato il gene della maturazione.
Comunque la si pensi, dobbiamo avere tutti un
preciso obiettivo: chiedere con forza una chiara
etichettatura sugli alimenti, a garanzia della nostra irrinunciabile libertà di scelta. È questo il
vero problema. Forze, peraltro non troppo occulte, hanno necessità d’imporre, di scegliere
per noi e di non farci ragionare. Se il consumo
di alimenti tradizionali può mettere in crisi questi signori, questa è già ragione sufficiente per
praticarlo!
Globalizzazione alimentare
Questo aspetto è ancora più pericoloso del
precedente. Si tratterebbe di garantire a tutti dei
prodotti igienicamente corretti, di alto valore
nutritivo, di prezzo controllato, di gusto costante eccetera. In realtà si tratta di un appiattimento del gusto, di una perdita d’identità e tipicità, a
tutto vantaggio delle multinazionali dell’alimenQuaderni Padani - 45
tazione. La globalizzazione, essendo ad alto rischio culturale, viene proposta in modi ancora
più striscianti e subdoli. Un esempio banale, ma
emblematico è quello riguardante il “target” degli adolescenti e dei giovani. Da sempre consumatori in “overdose” di telefilm e film, soprattutto di produzione americana, sono da essi
particolarmente attratti. Gli eroi di queste pellicole hanno un rapporto del tutto casuale con i
cibi. Entrano in casa leggendo il consueto fasci-
colo portato dall’ufficio (comportamento che
indica grande attivismo e professionalità) e,
proseguendo a leggere, cacciano la mano nel
frigorifero arpionando la prima cosa che capita
loro sottomano (tanto sono tutte eguali), ingerendo, così, il giusto carico di proteine e vitamine che gli consenta di portare a termine la lettura del loro maledetto fascicolo. Unico tratto
di fugace umanità, lo scolarsi un bicchierone di
“Bourbon” con molto ghiaccio, a stemperare un
leggero retrogusto di petrolio. Scherzi a parte,
il modo più infido di imporre la globalizzazione
è quello istituzionale. Una sciagurata legislazione continua a produrre assurde norme igienico46 - Quaderni Padani
sanitarie, che costituiscono una vera e propria
concorrenza sleale a favore delle multinazionali. Il risultato della loro applicazione, è quindi
quello di far scattare pesanti sanzioni per tutti i
piccoli produttori agricoli che non siano in grado di rispettarle e, conseguentemente, la sparizione di una produzione tipica di cui è ricca, in
modo particolare, proprio la Padania. Apprestiamoci dunque a salutare, come eroi caduti in
guerra, quei prodotti che, dopo aver gagliardamente nutrito generazioni di padani, presto rimarranno solo un ricordo lontano: il formaggio
di fossa e il formaggio di grotta di Predappio, la
pitina e il formaggio salato morbido in Friuli, il
Bruzzu e il formaggio d’alpeggio di Triora in Liguria, il salame di San Benedetto cotto sotto la
cenere in Lombardia, i formaggi Testun e Bettelman in Piemonte, la zighera e la vezzena in
Trentino e sud Tirolo, il formazdo e il rebleque
in Val d’Aosta. Ma la partita ancora non è perduta. Dipende da noi. Dipende dalla capacità di difendere i nostri prodotti tradizionali, senza lasciarci invaghire dall’accattivante seduzione di
alimenti che, dietro gli smaglianti sorrisi della
pubblicità, nascondo la potenzialità di vere e
proprie bombe chimiche. Sarebbe importante, e
mi pare anche il luogo adatto per lanciare questa idea, porre in cantiere un Atlante del patrimonio gastronomico padano, con una particolare rilevanza a quello montano. Quest’ultimo è
ancor di più in pericolo, perché ha meno possibilità di difesa; eppure i prodotti montani (in
particolare latte e frutti di sottobosco) hanno
una qualità biologica che non ha eguali.
Alienazione familiare
L’iconografia è nota: famiglia riunita per la cena, televisore acceso, pressoché totale assenza di
colloquio. A far da contrappeso, ho precisi e intatti ricordi giovanili della preparazione degli
agnolotti, la vigilia di Natale. Tutta la famiglia
era chiamata in causa, chi a girare la manovella
del tritacarne, chi a imbiancare di farina il tavolo su cui si sarebbe posata la sfoglia, chi a riempire, chi a defilare, chi a sovrintendere l’operazione che acquistava qualcosa di rituale magico.
Anche nei giorni feriali, quando la tavola era più
sobria e frugale, il pranzo era sempre un chiacchierio, un discutere anche vivacemente, un
parlare di storia un po’ alla buona, un paragonare il Verdi ai canzonettisti di moda; insomma,
un modo per sentirci “famiglia”.
Oggi le cose sono cambiate. Gli impegni lavorativi non consentono che cene frettolose e le
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
immagini televisive di
morti ammazzati si
sposano, come un pugno sui denti, con un
trionfo di surgelati, refrigerati, precotti, scatolame o, nella migliore delle ipotesi, carissimi prodotti di rosticceria. Certo un ritorno
alla gastronomia tradizionale, in senso pieno, è difficilmente realizzabile; tuttavia con
un po’ di saggezza o di
semplice buon senso è
possibile ridare un
volto più umano alle
nostre tavolate. Sarebbe sufficiente salvare i
pranzi del fine settimana, la cui preparazione potrebbe costituire motivo di svago e
anche di ricerca (tra
l’altro, in quei momenti, si potrebbero cucinare
piatti da consumarsi freddi o riscaldati nei primi
giorni della settimana a venire). Vorrei anche ricordare che lo studio, la ricerca e la pratica della
nostra cucina padana, costituiscono importanti
veicoli all’educazione alimentare. È inutile constatare, un po’ falsamente, che stanno scomparendo i ristoranti tradizionali, quando pretendiamo di mangiare insalata di pesce a millecinquecento metri di altezza. È inutile cantare il de
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
profundis al bollito
misto, se vogliamo solo la fettina di vitello,
senza un filo di grasso.
È ipocrita lamentare la
scarsa digeribilità di
alcuni piatti, se poi
siamo pronti a gettarci
tra le morbide braccia
di dolci che, più che
dal pasticciere, paiono
partoriti da un ingegnere chimico. Non è
sensato ordinare al ristorante un risotto e
pretendere che venga
servito nel giro di una
decina di minuti. È
sciocco cercare la tipicità e la tradizionalità
nelle osterie con l’acca
davanti.
Quelle sino a qui esposte, vogliono essere
delle proposte di riflessione. Il limitato tempo a disposizione, non consente un approfondimento. Una cosa, però, voglio ancora sottolineare. Il ritorno ad una cucina tradizionale, ha il grande merito di indurre
alla percezione etica. Essere cioè consapevoli
che, andando contro natura, facciamo male a
noi stessi ed al mondo che ci ospita.
Un abbraccio ed un saluto a tutti voi, amici
padani.
Viva la nostra terra, viva la Padania!
Quaderni Padani - 47
L
ettera inviata il 4 marzo 2001 alla Ottava Giornata di Cultura Padanista di
Belgirate da Ron Holland, della League of the South, il movimento indipendentista
degli stati confederati americani.
4 Marzo 2001
Voglio rivolgere le mie congratulazioni ai nostri fratelli e sorelle secessionisti della Padania
(Nord Italia), che come noi vogliono stabilire il proprio destino, scegliere il proprio governo
“o l’assenza di governo” e scegliere il proprio futuro economico con la loro gente e nella loro
regione. Forse voi avete letto e imparato dai coraggiosi difensori degli Stati Confederati d’America di 140 anni fa; io però sono un Sudista che ha capito quanta strada ci resta ancora da
fare, oggi, nel XXI secolo, proprio dai fieri e coraggiosi cittadini della nazione Padana, a cui
auguro di essere presto indipendente.
Diversi anni fa stavo guidando dal Canton Ticino verso il Nord Italia e ben presto, appena oltrepassato il confine, vidi ovunque scritte e graffiti: “Padania Libera”. Voglio che ognuno di
voi sappia che, ogni volta che vedo la bandiera confederata o ascolto Dixie, avverto un brivido
lungo la spina dorsale, quasi come se fossi con una bellissima donna, durante un’esperienza
mistica o toccato dallo Spirito Santo. Quando guidavo lungo le strade della vostra nazione occupata, quel giorno, venendo dalla Svizzera, non sapevo nulla di voi e conoscevo il vostro movimento solo per sentito dire. Ma provai le medesime sensazioni di quando vedo le insegne
confederate. Feci notare a mia moglie Tami che “queste persone sono proprio come noi, solo
qualche anno avanti nella battaglia per la libertà, l’indipendenza e l’emancipazione economica
da un governo corrotto e lontano che li rende schiavi, li depreda delle loro ricchezze e ruba la
loro libertà allo scopo di comprare voti e restare al potere”.
Auguro a voi e al vostro movimento per l’indipendenza il successo che a buon diritto meritate e spero di potervi conoscere e, magari, partecipare un incontro e bere una birra o un bicchiere di vino insieme a voi tutti verso la fine di aprile, quando sarò nel vostro paese.
Per l’indipendenza,
Ron Holland
Marketing Director della League of the South
48 - Quaderni Padani
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
1981- 2001: vent’anni dopo
Bobby Sands resta un martire
della libertà
di Gianni Sartori
I
l cinque maggio del 1981, esattamente
vent’anni fa, in seguito allo sciopero della fame, all’età di soli ventisette anni moriva Robert (Bobby) Sands, la prima vittima della protesta attuata dai prigionieri politici dell’Ulster
nelle carceri di Sua Maestà. Bobby era nato a
Rathcoole (nord Belfast) nel 1954 da una famiglia non particolarmente impegnata politicamente (da madre cattolica e padre protestante)
e viveva in un quartiere a maggioranza protestante. Durante gli anni dell’adolescenza Bobby
conobbe di persona la repressione, gli attacchi
lealisti, la perdita continua dell’occupazione (lavorò soprattutto come apprendista meccanico in
qualche carrozzeria) che caratterizzano la vita
di un gran numero di giovani cattolici. Schedato
come “sospetto” già all’età di quattordici anni, a
diciotto anni, nell’autunno del 1972, aderì all’Ira Provisional. Appena un mese dopo venne arrestato e condannato a tre anni da scontare a
Long Kesh. Erano i giorni
dello “Special Category Status” e Bobby seppe impiegarli proficuamente: studiò l’Irlandese con passione e lesse
accuratamente le opere di
Fanon e Gorge Jackson. I
compagni di prigionia lo ricordano come dotato di una
grande personalità, che funzionava da catalizzatore nelle discussioni. In libertà nell’aprile del ’76, si sposò ed
ebbe un figlio: Gerard. A
Twinbrook dove viveva si impegnò a fondo a favore della
sua comunità: aprì una sede
locale del Sinn Fein e della
“Croce Verde” per assistere i
prigionieri politici repubbliAnno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
cani. Nell’ottobre 1976 venne coinvolto con Joe
McDonnel nell’attentato al Balmoral Forniture
Company. Condotto al famigerato Centro per gli
interrogatori di Castlereagh, vi subì la tortura e
fu condannato a quattordici anni per il possesso
di una pistola. Nel settembre 1977 venne trasferito al Blocco H di Long Kesh (prigioniero n.
1066) dove si unì immediatamente alla “protesta
della coperta”. Convinto che fosse necessario
informare e coinvolgere il più possibile la gente
all’esterno sui problemi dei detenuti, cominciò a
scrivere lettere e a scrivere articoli al Republican News, il giornale del Sinn Fein. In carcere si
prodigò per appianare le divergenze tra militanti
dell’IRA e dell’INLA, convinto che per riportare
una vittoria nella campagna per lo “status di prigioniero politico” bisognava avere una stessa
strategia unitaria. La sera del 27 gennaio 1981, i
96 prigionieri coinvolti nello spostamento d’ala
dei blocchi H3 e H5 si ribellarono dopo che la
direzione del carcere si era
rifiutata di restituire i loro
abiti (un modo per costringerli a indossare l’uniforme
dei detenuti). Cominciarono
a distruggere sistematicamente mobili, suppellettili e
finestre delle celle. La risposta fu brutale. Furono rinchiusi nelle celle con i muri
ricoperti di escrementi e i
pavimenti di acqua, urina e
cibo. Furono costretti a restarsene in quelle celle senza
coperte e materassi. Prima di
dare inizio allo sciopero della
fame Bobby si preoccupò di
risolvere questa situazione e
solo dopo che i prigionieri
erano stati trasferiti (il 1°
Quaderni Padani - 49
marzo) cominciò a rifiutare il cibo. Contribuì di
persona alla stesura della dichiarazione che annunciava l’inizio del nuovo sciopero della fame:
“Noi, i Repubblicani Pows (Prigionieri di guerra, ndr), nei blocchi H di Long Kesh e le nostre
compagne nella prigione di Armagh, abbiamo il
diritto e con la presente chiediamo lo status politico. Rifiuteremo oggi come abbiamo costantemente rifiutato ogni giorno dal 14/9 1976,
quando iniziò la protesta della coperta, i tentativi del governo inglese di criminalizzare le nostre lotte”. L’11 marzo 1981 il Comitato Nazionale del Blocco H sollevò il problema dei prigionieri alla Commissione dei Diritti Umani a Ginevra. Il 23 marzo Bobby Sands venne trasferito
dall’H3 all’ospedale della prigione per tentare di
50 - Quaderni Padani
isolarlo. Venne presentato come candidato nazionalista per Fermanagh South Tyrone al seggio di Westminster, vacante per la morte di Frnak Maguire. Sebbene fosse molto debole dopo
un mese di sciopero della fame, si impegnò a
fondo durante la campagna elettorale e venne
eletto. Ormai completamente cieco, senza riflessi, paralizzato a metà coperto da piaghe da decubito (il suo peso era sceso da 60 a 40 chili) morì
dopo due giorni di coma, alle 1 e 15 del mattino
del 5 maggio 1981, nell’ospedale della prigione
di Long Kesh. I funerali si svolsero nella chiesa
di San Luca (Twinbrook – West Belfast) e vi parteciparono circa centomila persone. Tra questi
anche sei parlamentari europei. L’IRA gli rese gli
onori militari. È sepolto a Milltown.
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Errata corrige
Nel numero 32 dei Quaderni Padani, dedicato in
forma monografica all’autonomismo piemontese sono
stati commessi alcuni errori di trascrizione nell’intervista a Tavo Burat. Riportiamo di seguito le correzioni
che ci sono state richieste dall’autore con cui ci scusiamo.
A pagina 41, al termine della seconda colonna, il testo corretto è:
“Prendendo in considerazione soltanto il primo tipo
di partecipazione, si realizza un Ente burocratico di
deventramento, non una “comunità” che costituisca
anche un centro di “contro-potere (…)”.
A pagina 43, al termine della prima colonna, il testo
corretto è:
“(…) ma anche quanto gli è stato portato via culturalmente, degradando la sua forma d’espressione da
plus-valore “lingua” a minus-valore “dialetto”: la
rapina del “minus-valore” dopo quella del plus-valore”. Neppure Marx poteva pensare che si sarebbe arrivati a tanto.”
Precisazione
Nello stesso numero della rivista è stato inserito a
pagina 69 lo stemma del Grup d’Assion Piemontéisa
Val Pélis fra i contrassegni politici presentati nel tempo alle varie competizioni elettorali, sotto il titolo
“Contrassegni di confusione”. Ci
viene fatto notare che tale simbolo non è invece mai stato
presentato a elezioni politiche né amministrative, ma
solo alle elezioni del Parlamento Padano del 1997.
Chiediamo perciò scusa
agli amici del Grup d’Assion
Piemontéisa Val Pélis per
l’imprecisione.
Nota bene: l’errata corrige qui segnalata è valida per il n. 32 dei Quaderni Padani stampato nel Febbraio 2001 e per il file in formato PDF presente sul CD
“Quaderni Padani 1÷33 - Febbraio 2001” distribuito nell’ottava giornata di
cultura padanista tenutasi a Belgirate il 4 Marzo 2001.
Per i CD realizzati successivamente e su Internet le correzioni sono già state
effettuate
Anno VII, N. 34 - Marzo-Aprile 2001
Quaderni Padani - 51