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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 4 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da GreenPlannerMagazine.it del 04/06/14
Premio Impatto Zero per le buone pratiche
green dei cittadini
Di Bartolo Gallesi
3 giugno 2014Pubblicato in: Eventi Condividi questo articolo su: Condividi su Google Plus
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Condividi via e-mail premio impatto zeroSi aprono il 5 giugno, in occasione della Giornata
mondiale dell’ambiente, le iscrizioni alla quarta edizione del Premio Impatto Zero, iniziativa
di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche sostenibili di cittadini, associazioni e
cooperative: scelte di vita e comportamenti ecologicamente virtuosi che riducono lo
sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e contribuiscono a diffondere la cultura della
sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita della comunità. Nato a Padova nel
2011 e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è promosso e organizzato
da Arci, con il contributo di AcegasAps, società del Gruppo Hera, in collaborazione con
Legambiente Nazionale, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco
Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo,
Treviso e Belluno, Confcooperative Padova, e con il patrocinio di Expo Milano 2015,
Ministero dell’Ambiente e Comune di Padova. C’è tempo fino al 30 settembre per
candidare il proprio progetto o l’azione virtuosa e green, iscrivendosi online all’iniziativa.
Un focus specifico sarà dedicato quest’anno alle pratiche di consumo collaborativo e
condiviso che vedono sempre maggiore adesione e diffusione anche in Italia, come il bike
e il car-sharing, il car-pooling, lo swapping o baratto, i gruppi di acquisto solidale. Sono
quattro le categorie in concorso: sharing economy, appunto (condivisione di beni e servizi
nella vita quotidiana, acquisti di prodotti materiali; esperienze aggregative per le risorse
energetiche e beni comuni, scambio/baratto; ideazione, creazione e utilizzo di servizi per
la mobilità, il lavoro, la finanza, il tempo libero; l’utilizzo di spazi e beni immobili);
tecno_green (ideazione e gestione di media e nuove strumenti comunicativi per diffondere
la cultura della sostenibilità come blog e siti, app, social network…); savethefood (last
minute market, progetti per il recupero e la ridistribuzione di eccedenze alimentari e di
solidarietà sociale); vivo verde (pratiche quotidiane e scelte di vita ecocompatibili come
autoproduzione, acquisto di alimenti da filiera corta, turismo e mobilità sostenibili, riciclo e
riuso, mercato dell’usato…). Il concorso suddivide i premi, e quindi le candidature, tra le
categorie Veneto e Italia; i riconoscimenti saranno assegnati da un’apposita commissione
composta da esperti e rappresentanti istituzionali e dai promotori del Premio. Saranno
decisivi nella scelta: l’originalità e la creatività, il minor impatto ambientale, l’efficacia della
promozione della sostenibilità, l’esportabilità delle prassi ad altre realtà del territorio, il
miglioramento della vita sociale e gli apprezzamenti ottenuti tramite le votazioni online. In
palio, buoni sconto per l’acquisto di bici elettriche, forniture di prodotti biologici, cena al
ristorante, selle eco friendly per bicicletta, e molto altro ancora…
http://magazine.greenplanner.it/2014/06/03/premio-impatto-zero-per-buone-pratichegreen-dei-cittadini/
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Da Redattore Sociale del 04/06/14
Dai mozziconi di sigarette allo spreco
alimentare, ecco la Giornata dell'Ambiente
Tante le cose che si possono fare per aiutare il pianeta e molte le
iniziative che domani si svolgeranno in tutta Italia. Tutte improntate a
divulgare un migliore approccio con l'ambiente e a potenziare buone
pratiche nel campo economico e dei consumi
ROMA - Camminare, attivare buone pratiche di sostenibilità, non gettare mozziconi a terra,
ecc... Ecco tante azioni virtuose che dovrebbero far parte del bagaglio umano ed
educativo di ogni cittadino, ma che spesso vengono dimenticate. La Giornata mondiale
dell'Ambiente, che si celebrerà domani, è allora una buona occasione per ricordarle e per
rilanciare tutta una serie di campagne e di iniziative di sensibilizzazione. Ne ricordiamo
alcune.
Contro lo spreco. Domani verrà presentato a Roma il primo Piano nazionale di
prevenzione dello spreco alimentare. A farlo sarà il ministro dell'Ambiente Galletti e
Andrea Segrè, fondatore dell'Osservatorio nazionale sugli sprechi, nonché coordinatore
della task force per la riduzione dello spreco alimentare.
Il Piano prevede, tra le altre cose, l'introduzione dell'educazione alimentare ambientale tra
le materie obbligatorie delle scuole, una campagna di comunicazione nazionale e regole
semplici per le donazioni di cibo invenduto (ogni anno vengono buttati via oltre 12 miliardi
di euro di cibo consumabile), con sconti sulle tasse per i rifiuti a chi dona.
A scuola camminando. Si svolgerà domani a Torino la premiazione della 9^ edizione di "A
scuola camminando", il concorso ideato dalla provincia di Torino per diffondere e
incentivare gli spostamenti da e verso scuola a piedi o in bicicletta, rivolto alle scuole
d’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, statali e paritarie.
Quest’anno la “location”è una novità assoluta: la premiazione avrà luogo alle 11 nella
Casa del Teatro Ragazzi e Giovani. I partecipanti, oltre a conoscere di persona i vincitori,
avranno la possibilità di assistere allo spettacolo “Aquarium”, una piece teatrale che è
un'immersione nell'affascinante mondo sottomarino. In una sala della Casa del Teatro
sarà allestita la mostra dei materiali che sono stati inviati alla giuria dalle scuole
partecipanti, tra i quali ben 32 “alberi dei percorsi sicuri casa-scuola”, molti dei quali in
formato tridimensionale.
Saranno incoronati i vincitori delle quattro categorie tradizionali del concorso, oltre ai primi
classificati nelle sezioni dedicate a chi ha partecipato per la prima volta, a chi ha elaborato
la migliore locandina per la prossima edizione e a chi si è concentrato sulla creazione
dell’albero, i cui frutti sono le parole-chiave con i quali i bambini e i ragazzi hanno
sintetizzato il significato del loro andare a scuola a piedi.
Leggi gli appuntamenti a Torino in occasione della Giornata mondiale dell'ambiente.
Immagini per la terra. C’è il teatrino con i burattini, fatti di ritagli di stoffa, buste, cartoni. E
c’è l’orto verticale realizzato con le bottiglie di plastica. Ci sono i giochi da tavolo e le
maschere di carnevale, gli accessori di tendenza, collane e braccialetti, e le borsette alla
moda. Nelle aule delle scuole di tutta Italia, trasformate in laboratori del riuso, del riciclo e
del ricreo, sono nati oggetti, giocattoli, monili, piccole e grandi opere d’arte. Perché
quando l’ambiente chiama, i primi a rispondere sono gli studenti. Lo dimostra la grande
partecipazione al concorso nazionale “Immagini per la Terra”, l’iniziativa di educazione
ambientale promossa da Green Cross Italia, in collaborazione con il Ministero
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dell’istruzione e con il sostegno di Acqua Lete, quest’anno incentrata sul tema dei rifiuti: il
titolo “Da cosa (ri)nasce cosa”.
Boom di adesioni per i più piccoli: circa 20 mila giovanissimi su un totale di 32 mila
partecipanti. "La generazione degli under 12 è quindi la più pronta a impegnarsi in prima
persona per salvaguardare il Pianeta. Un dato che fa ben sperare per il futuro
dell’ambiente, che il 5 giugno festeggia la Giornata mondiale", ricordano i promotori.
Parola d’ordine di questa XXII edizione: manualità creativa. Con materiali di recupero
come carta, bottiglie, tappi, stoffe, lattine, bambini e ragazzi hanno dato vita a divertenti
personaggi che hanno animato le loro storie, evitando l’immissione in discarica di nuovi
rifiuti. Regione capofila del riciclo, per numero di istituti partecipanti, il Lazio, seguita da
Marche, Toscana e Piemonte.
E se tra i banchi dell’infanzia e delle primarie imparare a riciclare è diventato un gioco, per
i ragazzi delle secondarie è stato lo spunto per imparare la filosofia delle 4 R: riduco,
riciclo, riuso, ri-creo.
Basta mozziconi a terra! E' questo il forte messaggio che rappresenta la campagna di
sensibilizzazione ambientale promossa da www.bastamozziconiaterra.it volta a divulgare i
corretti comportamenti associati alla raccolta dei mozziconi di sigaretta e a educare la
popolazione ad avere maggiore rispetto dell’ambiente. In occasione del 5 giugno, la
campagna è stata inserita tra gli eventi rivolti alla sensibilizzazione all’ambiente.
Quali sono i concetti cardine su cui si fonda la campagna? E’ semplice: salute,
educazione, rispetto, sostenibilità e impegno comune. Secondo studi recenti, in Italia si
contano circa 13 milioni di fumatori e vengono fumate circa 72 miliardi di sigarette. I
numeri sono grandi. In pochi sono consapevoli dei danni ambientali provocati gettando a
terra, poco civilmente, i mozziconi di sigaretta. Per citarne solo alcuni: il filtro delle
sigarette permane nell’ambiente fino a circa 5 anni a causa della lentissima degradazione
e su oltre 4 mila sostanze tossiche presenti nelle sigarette, una modesta parte resta nel
filtro abbandonato, liberandosi a danno dell’uomo e dell’ambiente; danni alla salute degli
animali, pensando ad esempio ai mozziconi abbandonati nei parchi o sulle spiagge; gran
parte dei mozziconi gettati a terra finiscono nelle fognature e nelle acque superficiali
contaminandole.
La campagna di sensibilizzazione ambientale è rivolta sia a soggetti privati (imprese
private, scuole, gestori di spazi ad aggregazione sociale, altre attività…) sia a comuni e
amministrazioni pubbliche (biblioteche, parchi, uffici, vie urbane…). L’adesione alla
campagna ambientale è preceduta da incontri informativi preventivi presso le sedi degli
interessati. Gli incontri sono personalizzati a seconda dei soggetti ai quali sono rivolti
(bambini, gestori di esercizi, funzionari…). L’adesione alla campagna prevede inoltre
l’utilizzo di appositi pratici contenitori che consentono la raccolta separata dei mozziconi di
sigaretta. Al termine dello svolgimento della campagna, agli utenti che hanno aderito è
sottoposta una scheda di valutazione dell’esperienza avuta.
Per chi volesse aderire alla campagna, è possibile contattare il numero verde 800587317,
da cell 3472338514 o scrivere all’indirizzo email [email protected] e consultare
il sito www.bastamozziconiaterra.it. Anche il più piccolo impegno rende un ambiente più
sostenibile.
Nella giornata del 5 giugno la campagna sarà presente in alcune città: a Milano, Legnano,
Torino con il posizionamento di appositi contenitori fuori dai centri commerciali, teatri,
cinema, ospedali. Nell'occasione, verrà anche reso noto il vincitore del concorso per
cortometraggi "Basta mozziconi a terra".
Smaltire i rifiuti elettronici. Tre semplici suggerimenti per migliorare le condizioni del nostro
ambiente. Il consorzio Ecolight (che si occupa della gestione dei Raee-rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche, delle pile esauste e dei moduli fotovoltaici a fine
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vita) indica tre piccole azioni che ciascuno può compiere per dare il proprio piccolo ma
significativo contributo per un ambiente migliore.
"È importante - afferma il direttore generale di Ecolight - parlare dei Raee, farli conoscere
e far capire che sono una risorsa importante. Infatti ancora oggi, molti sfuggono al circuito
di gestione. Se per esempio guardiamo solamente ai piccoli elettrodomestici, meno del
20% viene raccolto correttamente. La parte restante probabilmente finisce nella raccolta
indifferenziata se non addirittura intraprende le strade illegali dell’esportazione verso i
Paesi più poveri".
"Un corretto conferimento dei Raee è un primo passo per voler bene all’ambiente. I rifiuti
elettronici sono composti per oltre il 90% del loro peso da materiali che possono essere
recuperati e riciclati permettendo così dei risparmi in termini di reperimento delle materie e
di limitare le emissioni di Co2 in atmosfera. Non certo ultimo, occorre tenere presente che
alcuni Raee contengono sostanze particolarmente inquinanti - come per esempio il
mercurio delle lampadine a risparmio energetico o i gas refrigeranti dei freezer - che
richiedono specifici trattamenti".
Premio Impatto Zero. Sempre domani si aprono le iscrizioni alla quarta edizione del
“Premio Impatto Zero”, iniziativa di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche
sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative: scelte di vita e comportamenti
ecologicamente virtuosi che riducono lo sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e
contribuiscono a diffondere la cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità
della vita della comunità.
Nato a Padova nel 2011 e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è
promosso e organizzato da Arci, con il contributo di AcegasAps-Società del Gruppo Hera,
in collaborazione con Legambiente Nazionale, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane,
Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi Volontariato di Padova,
Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno, Confcooperative Padova, e con il patrocinio
di EXPO Milano 2015, Ministero dell’Ambiente e Comune di Padova.
C’è tempo fino al 30 settembre per candidare il proprio progetto o azione, iscrivendosi al
sito www.premioimpattozero.it. Un focus specifico sarà dedicato quest’anno alle pratiche
di consumo collaborativo e condiviso che vedono sempre maggiore adesione e diffusione
anche in Italia, come il car e bike sharing, il car pooling, lo swapping, i gruppi di acquisto
solidale.
Per informazioni, segreteria organizzativa: Associazione Arci Padova, Viale IV Novembre
19, 35123 Padova; Tel: 049 8805533; e-mail: [email protected].
Da il Velino del 03/06/14
Tv: decretati i finalisti Primed 2014
Il Premio Internazionale del Documentario e del Reportage Mediterraneo
di com/onp - 03 giugno 2014 13:28 fonte ilVelino/AGV NEWS Roma
Conclusi i lavori della giuria di preselezione del PriMed-Premio Internazionale del
Documentario e del Reportage Mediterraneo. La giuria internazionale riunita a Roma dal
26 al 30 maggio, su invito della Rai che assicura il segretariato generale del Cmca con la
dr.ssa Maria du Bessé delle Relazioni Internazionali, ha selezionato i titoli finalisti
dell’edizione 2014. Il PriMed, organizzato dal CMCA Centro Mediterraneo per la
Comunicazione Audiovisiva con la Rai, France Télévisions e con l’ASBU (Arab States
Broadcasting Union, l’unione delle televisioni della Lega araba) è rivolto alle produzioni
audiovisive che si occupano di questioni e temi legati al Mediterraneo. Tematiche di rilievo
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raccontate con sempre maggiore e rinnovato impegno: l’edizione 2014 segna un nuovo
record di iscrizioni 543 opere provenienti da 39 Paesi.
La giuria internazionale composta dall’equipe del CMCA, da professionisti dell’audiovisivo
e da esperti del mondo mediterraneo - Bernadette CARRANZA produttrice con al suo
attivo un David di Donatello, un Golden Globe e una nomination Oscar, Elisabeth
CESTOR del MuCEM (Musée des Civilisations de l'Europe et de la Méditerranée), Gaelle
CUESTA della Ville Méditerranée, Feten FRADI dell’URTI - Union Radiophonique et
Télévisuelle Internationale, i giornalisti Nathalie GALESNE di Bebelmed.net e Zouhir
LOUASSINI di RaiNews24, Marie Christine HELIAS dell’INA-Institut National de
l'Audiovisuel, la poetessa e scrittrice Dalila HIAOUI, Fabio MANCINI del programma DOC3
di RAI3, Raffaella ROSSETTI consulente editoriale e multimediale, Sami SADAK direttore
artistico del Forum des musiques du monde Babel Med Music e Carlo TESTINI dell’ARCI
e componente del board internazionale della BJCEM - Biennale dei Giovani Artisti
d’Europa e del Mediterraneo - ha scelto le opere che concorreranno alle finali di Marsiglia
dall’8 al 13 dicembre.
Questi, per le diverse categorie, i titoli finalisti: Categoria "Sfide del Mediterraneo" - Des
murs et des hommes di Dalila ENNADRE - Les enfants de l'ovale di Grégory FONTANA e
Rachid OUJDI - THE RENEGADE di Sofia AMARA - This is my land di Tamara ERDE
Categoria "Memorie mediterranee" - L'attentat de Sarajevo di Nedim LONCAREVIC Murge, the Cold War Front di Fabrizio GALATEA - Sarajevo, des enfants dans la guerre di
Virginie LINHART - The Division of Cyprus di Andreas APOSTOLIDIS e Yuri AVEROF
Categoria "Arte, Patrimonio e Culture del Mediterraneo" - Children of Flamenco di Katerina
HAGER - DÉsÉquilibre di Julien GAERTNER - Electro Chaabi di Hind MEDDEB - The
Venice Syndrome di Andreas PICHLER Categoria "Opera Prima" - Dell'arte della guerra di
Silvia LUZI e Luca BELLINO - La Femme à la CamÉra di Karima ZOUBIR - L'escale di
Kaveh BAKHTIARI - Quivir di MANUTRILLO Categoria "Reportage Mediterraneo" - La
ConfrÉrie, enquÊte sur les FrÈres Musulmans di Michaël PRAZAN - Le droit au baiser di
Camille PONSIN - Le signal perdu de la dÉmocratie di Yorgos AVGEROPOULOS TraquÉs di Paul MOREIRA
Da Redattore Sociale del 04/06/14
Livorno, profughi ospitati negli alberghi vista
mare. E' polemica
Trenta immigrati provenienti dalla Sicilia hanno trovato rifugio presso
l’elegante Hotel Saint Vincent a Castiglioncello, altri 70 in alberghi
livornesi. Infuria la polemica: “Rovinano la stagione turistica”
LIVORNO - I centri d’accoglienza sono tutti pieni e allora i profughi vengono ospitati negli
alberghi. Succede a Livorno e Castiglioncello, gettonate mete turistiche, proprio alle porte
della stagione estiva. D’altra parte non ci sono molti altri modi per accogliere gli oltre cento
migranti che negli ultimi giorni sono arrivati in provincia di Livorno direttamente dalla
Sicilia. Gli alberghi, dopo essere stati contattati dalla Prefettura, si sono pertanto resi
disponibili ad ospitare i migranti fino al 30 giugno. In cambio, riceveranno dallo Stato venti
euro giornalieri per ciascun profugo. Una cifra che però non è ancora arrivata nelle casse
degli hotel, costretti ad anticipare i soldi.
Il maggior numero di immigrati dimora presso l’hotel Saint Vincent a Castiglioncello, un
elegante albergo con vista mare dove hanno trovato rifugio 29 immigrati, provenienti
soprattutto dal Senegal. Altri 28 profughi si trovano presso l’hotel Città a Livorno, mentre
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una ventina è stata ospitata all’hotel Imperiale. Quattordici migranti sono invece
nell’affittacamere di piazza della Repubblica, di fronte all’hotel Ariston, mentre altri 3
profughi alloggiano presso l’hotel Giappone.
L’accoglienza migranti, oltre che dalla Prefettura, viene gestita dall’Arci e dal Cesvi.
Polemico il presidente dell’Arci livornese Marco Solimano: “Non possiamo sostituire lo
Stato nell’accoglienza, stiamo anticipando tutte le risorse e rischiamo di rimanere strozzati
dai bilanci”.
La presenza dei profughi negli hotel vicini al mare fa storcere il naso a numerosi
albergatori della zona: “Siamo in piena alta stagione – dicono in tanti – La presenza di tanti
migranti rischia di allontanare i turisti”.
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ESTERI
del 04/06/14, pag. 12
Obama sfida la Russia “Dagli Usa più jet e
soldati per la sicurezza europea”
Da Varsavia striglia gli alleati: stop tagli alle spese militari “Altre
sanzioni se Putin sostiene ancora i ribelli in Ucraina”
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO INVIATO
VARSAVIA
UN MILIARDO
di dollari alla «Iniziativa per rassicurare l’Europa» perché «la vostra sicurezza è
sacrosanta, è la pietra miliare anche per la sicurezza degli Stati Uniti». Un miliardo per
finanziare più jet militari Usa, più soldati, più tecnologie belliche, più manovre di
esercitazione e più navi da guerra nelle acque del Baltico. Barack Obama inizia il suo tour
di quattro giorni in Europa con una tappa che esprime un messaggio forte: la Polonia, nel
25esimo anniversario della sua liberazione dall’autoritarismo comunista e dalla sfera
d’influenza sovietica. Appena sceso dall’Air Force One all’aeroporto di Varsavia, passa in
rassegna i caccia F-16 che compiono missioni di pattugliamento sui cieli dei paesi baltici:
operazioni varate di recente, in collaborazione con la Luftwaffe tedesca, dopo l’escalation
di tensione con la Russia per l’annessione della Crimea e le violenze in Ucraina.
La crisi con Vladimir Putin dominerà anche la seconda tappa, oggi, quel G7 di Bruxelles
che sostituisce il G8 di Sochi, cancellato dopo l’espulsione della Russia e le sanzioni
decise dagli alleati atlantici. Infine Parigi e la Normandia, per il 70esimo anniversario dello
sbarco e quindi della disfatta nazifascista. In Normandia ovviamente anche
Putin ci sarà, e Obama non farà nulla per evitarlo: «Certo che ci incontreremo. Io ci sarò»
e lui pure: non si può ignorare il ruolo che la sua nazione ebbe nella seconda guerra
mondiale». Ma dopo l’omaggio alla storica alleanza Usa-Urss contro Hitler, il presidente
americano precisa quello che dirà a Putin: «Con lui nel corso di questa crisi ho sempre
mantenuto una “business relationship”, non abbiamo smesso di parlarci. Mantenere
buone relazioni con un grande paese come la Russia è importante. Ma questo non ci deve
far dimenticare le lezioni della storia. Non si sacrificano i principi: la libertà, la sovranità,
l’integrità territoriale. Nessuno lo sa meglio dei polacchi».
Obama diffida Putin dal «sostenere milizie armate che destabilizzano l’Ucraina», perchè
deve essere il popolo ucraino a decidere il proprio futuro. E dunque al G7 si parlerà di
nuovo delle “ulteriori sanzioni” contro interi settori dell’economia russa, qualora Mosca non
receda dalle interferenze destabilizzanti. Si parlerà anche delle “potenziali” esportazioni di
energia dall’America verso l’Europa, per ridurne la dipendenza dal gas russo.
Primo, rassicurare i polacchi e gli altri ex-membri del Patto di Varsavia, che per l’America
«non c’è differenza tra vecchi e nuovi membri della Nato», tutti hanno diritto alla stessa
difesa comune. Ma mentre Obama annuncia il rafforzamento della presenza militare Usa,
e la richiesta al Congresso di quel miliardo di dollari aggiuntivi, non perde occasione per
applaudire lo sforzo della Polonia che s’impegna ad aumentare le proprie spese militari
fino al 2% del Pil. E’ un livello dal quale molti altri paesi della Nato, Italia per prima, sono
lontani. Obama non li nomina uno per uno, ma li striglia lo stesso: «Ciascun alleato deve
fare la sua parte, deve sopportare la sua quota dell’onere di difesa. Oggi la Nato dipende
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troppo dal contributo americano. La Polonia è un’eccezione, altri paesi hanno fatto il
contrario, hanno ridotto le spese per la difesa comune».
A riprova della tensione provocata in tutta l’Europa orientale dalle mosse di Putin, questa
tappa a Varsavia si è trasformata in un vertice allargato tra il presidente americano e i
leader di tutti i paesi dell’Est: sono arrivati qui per incontrare Obama i leader dei tre paesi
baltici, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Croazia. Alcuni
vogliono molto di più da Obama.
La Polonia desidera avere delle basi permanenti della Nato, come esistono in Italia o in
Germania. «Non accettiamo restrizioni alle forze Nato sul nostro territorio», dice il
presidente polacco Bronislaw Komorowski. È un’allusione all’accordo del 1997 con cui la
Nato per rassicurare la Russia s’impegnò a non stazionare «forze da combattimento
ingenti e permanenti» negli Stati che furono parte del blocco sovietico. Quello stesso
accordo però comportava da parte della Russia l’impegno «ad astenersi dalle minacce o
dall’uso della forza, che violerebbero la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza
politica dei paesi vicini». La Polonia vede nelle gesta di Putin in Crimea e Ucraina valide
ragioni per insediare basi Nato che non siano una presenza simbolica. La Casa Bianca
finora preferisce un aumento di truppe «a rotazione ».
del 04/06/14, pag. 7
Varsavia, ora è il centro strategico Usa in
Europa
Mauro Caterina
Obama in Polonia. Aumenta di 450 unità il contingente americano in
Polonia
Fino a poco tempo fa la Polonia era considerata a tutti gli effetti una «periferia». Un paese
in piena crescita economica e culturalmente vivace, ma sempre periferia d’Europa e
d’occidente se rapportata ad una scala globale. La crisi ucraina ha cambiato radicalmente
lo «Status internazionale» di Varsavia e dintorni. Oggi la Polonia è al centro del proscenio
diplomatico e strategico dell’occidente e la visita del presidente americano ne è la
conferma.
Barak Obama è arrivato ieri mattina Varsavia. Ad attenderlo c’era il presidente polacco
Bronislaw Komorowski. L’immagine più emblematica, forse, è stata la stretta di mano tra i
due in un hangar dell’aeroporto Chopin, con un F-16 a fare da sfondo a margine della
piccola cerimonia di benvenuto. Subito dopo, Obama ha incontrato i 150 militari americani
e il personale di volo del piccolo contingente a stelle e strisce si stanza a Varsavia sin
dallo scorso aprile. Nei prossimi giorni il numero dei militari statunitensi aumenterà di altre
450 unità.
E in futuro potrebbero essere ancora di più dopo che lo stesso Obama in conferenza
stampa ha annunciato un piano di 1 miliardo di dollari per «riprogrammare» la presenza
militare made in Usa nel vecchio continente. Una presenza temporanea, ma che potrebbe
essere permanente in base alle richieste avanzate da alcuni paesi alleati (repubbliche
baltiche e Polonia). «Ci troviamo insieme come amici ed alleati», ha detto Obama.
Komorowski non ha perso tempo nel sottolineare, in prospettiva, un aumento della spesa
militare da parte polacca.
L’inquilino della Casa Bianca ha incontrato il premier polacco Donald Tusk, garantendogli
il supporto incondizionato della Nato sul fronte della sicurezza militare.
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Definitivamente archiviato il progetto dello scudo spaziale, adesso la priorità Usa è quella
di ridefinire la presenza militare americana nell’Europa centrale. Nei giorni scorsi era stato
Ben Rhodes (consigliere per la sicurezza nazionale) a sottolineare l’importanza di questo
incontro: «L’alleanza con la Polonia è cruciale per le relazioni transatlantiche ed è la base
per un sostegno americano non solo ai polacchi, ma anche al resto degli alleati
dell’Europa orientale».
Dello stesso avviso Roman Kuzniar, consigliere politico per gli affari internazionali del
presidente Komorowski: «Obama vuole dimostrare, con la sua presenza, l’impegno degli
Stati uniti per la difesa dei confini polacchi e allo stesso tempo come qualificare e definire il
nuovo protagonismo russo, e lo dirà chiaramente nel discorso di oggi». Già, tutti aspettano
il discorso di Obama che parlerà durante le celebrazioni del 25° anniversario delle prime
elezioni democratiche della Polonia post-comunista.
A Varsavia saranno presenti tutti i capi di stato dell’ex blocco sovietico, compreso il neo
presidente ucraino Petro Koroshenko. E che fosse la questione ucraina il «cuore» della
visita di Obama in Polonia era chiaro a tutti. Ieri il presidente americano di fronte ai
giornalisti era stato chiaro: «Gli ucraini dovrebbero decidere loro stessi del futuro del
proprio paese, senza interferenze esterne o pressioni da parte di militanti finanziati da
paesi limitrofi che stanno cercando di sabotare il processo di cambiamento e
rafforzamento delle istituzioni democratiche in Ucraina».
Un piccolo assaggio di quello che dirà oggi. In molti si aspettano un passo avanti Usa sul
versante economico. Aiuti che potrebbero rappresentare l’inizio di un percorso di
avvicinamento verso l’Ucraina tutt’altro che scontato (almeno dal punto di vista russo).
Staremo a vedere. Tornando alla giornata di ieri, Obama ha discusso con il ministro degli
esteri polacco Radoslaw Sikorski – uno dei protagonisti indiscussi durante le giornate
calde di Maidan – di rivedere la politica Usa sui visti. A quanto pare, ci sarebbe la volontà
da parte americana di togliere le restrizioni per i cittadini polacchi che vogliono recarsi
negli Stati Uniti. Niente di ufficiale per il momento. Di sicuro, sarà «merce di scambio»
quando ci sarà da mettere la firma su contratti militari e altro ancora, visto che la Polonia è
ufficialmente diventata una delle figlie predilette di mamma America.
del 04/06/14, pag. 8
Commissione Ue, Merkel sonda il terreno per
Lagarde
● La candidatura sarebbe stata sollevata
con Hollande. L’Eliseo: «Non una buona idea»
Angela Merkel vuole Christine Lagarde alla presidenza della Commissione europea? La
domanda si è posta e ha fatto un po’ di rumore ieri sera, dopo che l’agenzia Reuters ha
sostenuto di aver appreso da fonti dell’Eliseo che il nome della direttrice del Fondo
Monetario Internazionale sarebbe stato evocato, durante una telefonata privata tra la
cancelliera e François Hollande, in relazione a una possibile candidatura alla guida
dell’esecutivo dell’Unione europea. Il presidente francese, sempre secondo la Reuters,
non avrebbe preso una posizione precisa ma avrebbe fatto notare all’interlocutrice che
non gli parrebbe «una buona idea per l’Europa perdere la guida del Fmi». Fin qui la
cronaca. C’è da aggiungere che già nei giorni scorsi il nome della Lagarde era circolato
insieme con molti altri, tra i quali pure l’ex premier britannico Tony Blair e l’italiano Enrico
Letta, nello scenario di una nomina che potrebbe essere avocata dal Consiglio europeo, e
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quindi dai governi, non tenendo conto delle candidature emerse dal voto per il Parlamento
europeo. Cioè il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker o il socialdemocratico
Martin Schulz. Ma quella di Christine Lagarde sarebbe una candidatura politicamente
molto difficile da sostenere, visto e considerato che l’ex ministra delle Finanze di Nicolas
Sarkozy, arrivata alla guida del Fmi dopo lo scandalo che ha stroncato la carriera del suo
predecessore Dominique Strauss-Kahn, è considerata una punta di diamante della linea
dura in materia di disciplina di bilancio e una delle ispiratrici della strategia dell’austerity.
Una strategia che è opinione ormai abbastanza diffusa e consolidata che dovrà essere
modificata in favore di una politica più orientata verso gli investimenti e la promozione del
lavoro. Se le indiscrezioni raccolte dalla Reuters avessero qualche fondamento esse
metterebbero in luce in modo ancor più evidente che nei giorni scorsi le esitazioni e le
contraddizioni in cui si sta sviluppando l’iniziativa della cancelliera e del governo tedesco
in merito alla presidenza della Commissione. Frau Merkel, che a suo tempo aveva
accettato obtorto collo la candidatura da parte dei popolari di Juncker, per il quale nutre
una non nascosta antipatia, dopo l’esito del voto per un po’ ha evitato di prendere
posizione a favore del lussemburghese mentre dal suo entourage venivano fatti circolare
nomi diversi. Poi, alla fine, costretta dalle pressioni del Partito Popolare e dai suoi alleati
socialdemocratici nella grosse Koalition, ha dovuto esprimersi ufficialmente per lui. È
pensabile che la (presunta) avance con Hollande su Christine Lagarde sia la
testimonianza di una ennesima giravolta? La Reuters non dice quando sarebbe stata fatta
la telefonata, ma se il contatto fosse reale e fosse avvenuto nelle ultime ore, si tratterebbe
di un vero e proprio sgarbo di Angela Merkel non solo a Junckermaa tutto il Ppe e agli
alleati in casa. A complicare ancora un po’ il quadro, l’agenzia aggiunge che le fonti
dell’Eliseo sosterrebbero che Hollande, «sotto pressione dell’estrema destra del Fronte
Nazionale che ha vinto le elezioni e dell’ala sinistra del suo stesso partito (?), potrebbe
appoggiare un esponente dell’opposizione di centro-destra» per la guida della
Commissione. A parte la stranezza dell’affermazione secondo cui a proporre un’esponente
di destra sarebbe, chissà perché, pure la sinistra socialista, l’ipotesi di un Hollande pronto
ad appoggiare Christine Lagarde in quanto esponente della destra è in contraddizione con
l’opinione, che la stessa agenzia gli attribuisce, secondo cui l’Europa non dovrebbe
perdere la guida del Fmi. Insomma, le indiscrezioni diffuse ieri sera appaiono abbastanza
confuse e contraddittorie. La questione della presidenza della Commissione è complessa
e non manca di riservare sorprese, ma tutto lascia pensare che Christine Lagarde resterà
a Washington alla guida del Fondo fino a che il suo mandato non scadrà, tra due anni.
del 04/06/14, pag. 1/30
Il toto-Europa tra Lagarde e Blair
ANDREA BONANNI
BRUXELLES
QUESTA sera i leader del G7 si ritrovano a cena a Bruxelles con una possibile sorpresa.
L’ordine del giorno è quasi interamente dedicato all’Ucraina, visto che la riunione
sostituisce quella del G8 con la Russia, inizialmente prevista a San Pietroburgo .
MA CHE è saltata proprio a causa dell’invasione russa della Crimea. Ma c’è un altro tema
che sicuramente sarà discusso a lungo da Merkel, Renzi, Hollande e Cameron dietro le
quinte del summit: la nomina dei vertici europei, a cominciare da quella del presidente
della Commissione.
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La discussione si annuncia accesa, perché questa è veramente una questione che divide i
leader europei e potrebbe portare a spaccature gravissime. Se non si raggiunge un
accordo al più presto, l’Europa finirà per sbattere contro uno dei due muri: o un conflitto
durissimo con la Gran Bretagna, che ha già minacciato di accelerare l’uscita dall’Ue;
oppure uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Consiglio dei capi di governo e il
Parlamento europeo che bloccherebbe le nomine.
Il problema è che il Parlamento vuole che la poltrona di presidente della Commissione
vada ad uno dei candidati che i partiti politici hanno presentato alle elezioni europee,
in particolare Juncker per i popolari e Schulz per i socialisti. Poiché il Ppe è il partito di
maggioranza relativa, il primo incarico dovrebbe andare a Juncker. La cancelliera Merkel
lo appoggia, anche se forse non lo ama. Ma il britannico Cameron, pressato dal trionfo del
partito euroscettico in Gran Bretagna, non vuole sentir parlare di Juncker, che considera
troppo europeista. E soprattutto non vuole che un organo federale come il Parlamento
imponga i propri candidati sminuendo la sovranità dei governi nazionali.
Per bloccare questa procedura, e per far fuori Juncker, i britannici sono pronti a tutto. E fin
dal primo giorno dopo le elezioni, quando Juncker ha rivendicato il diritto all’incarico,
hanno cominciato il tiro al piccione per cercare di impallinarlo. Visto che finora i veti
espressi pubblicamente dal premier inglese non sono serviti a nulla, la strada più semplice
da seguire è quella di cercare di trovare consensi su altre personalità, nella speranza che
qualche governo, allettato dal miraggio di una poltrona prestigiosa, possa unirsi a loro
nella crociata anti-parlamentare. Finora Cameron ha fatto circolare i nomi dell’irlandese
Enda Kenny e del finlandese Katainen. Ma entrambi sono membri del Ppe e hanno
pubblicamente espresso il loro sostegno per Juncker. A questo punto Londra ha provato a
far circolare il nome della premier danese Helle Thorning-Schmidt, che è
socialdemocratica. Ma anche questa candidatura sembra destinata a fare poca strada.
Ieri l’agenzia Reuters ha diffuso una notizia, attribuita a non meglio identificate fonti
francesi, secondo cui la cancelliera Merkel avrebbe telefonato al presidente
Hollande per proporgli il nome della francese Christine Lagarde, oggi direttore del Fondo
Monetario Internazionale, alla guida della Commissione. Il nome della Lagarde era già
circolato tra quelli dei possibili candidati. Ma si scontra con due obiezioni di fondo: la prima
è che difficilmente il socialista Hollande accetterebbe di spingere una ex ministra di
Sarkozy, che milita nel partito rivale; la seconda è che, se anche Lagarde lasciasse
anticipatamente dopo Strauss-Kahn la guida del Fmi, l’Europa rischierebbe di perdere
definitivamente quella poltrona.
In serata, puntuale, è arrivata la smentita della Cancelleria alla notizia Reuters. Un evento,
la smentita di una notizia priva di fonte, di per sé abbastanza raro. La Merkel, dice Berlino,
è fermamente impegnata a sostenere la candidatura di Juncker, anche se preferirebbe
che si arrivasse ad una nomina condivisa da tutti i capi di governo. Tuttavia si può star
certi che, fino a che non si troverà un accordo con Cameron, lo stillicidio di voci,
indiscrezioni, e candidature-fantoccio continuerà.
Stasera e domani, i quattro membri europei del G7 avranno la possibilità di cercare un
compromesso. Difficile. La questione è come indurre i britannici ad accettare la nomina di
Juncker alla Commissione. Che cosa dargli in cambio? L’ipotesi più credibile, al momento,
potrebbe essere una candidatura di Tony Blair alla presidenza del Consiglio europeo in
sostituzione di Van Rompuy. Questa potrebbe essere la vera sorpresa del vertice di oggi e
domani. Ma non è detto che il conservatore Cameron sia disposto ad accettarla.
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del 04/06/14, pag. 6
Per Netanyahu si mette Maalox
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Israele/Territori Occupati. Il premier e i ministri israeliani puntano
l'indice contro Washington che lunedì si è detta pronta a collaborare
con l'esecutivo nato dalla riconciliazione Fatah-Hamas. Soddisfazione in
casa palestinese per la presa di posizione americana
Come Beppe Grillo anche Benyamin Netanyahu ha dovuto ingurgitare una pastiglia di
Maalox per spegnere il bruciore di stomaco che lo ha colpito lunedì sera quando la sempre
ben pettinata portavoce del Dipartimento di stato Usa, Jennifer Psaki, ha annunciato che
«Alla luce di ciò che sappiamo, lavoreremo con questo governo palestinese». Il premier
israeliano piuttosto avrebbe dovuto usare del ghiaccio per la sua guancia rossa e gonfia.
Perchè l’altra sera ha ricevuto dall’Amministrazione americana una bella sberla.
Washington si è allineata alla posizione dell’Europa e vede il nuovo esecutivo palestinese
per quello che è: un governo tecnico appoggiato dall’esterno da varie forze politiche, a
cominciare dai movimenti Fatah e Hamas che si sono riconciliati. E lo ha fatto dopo che il
Segretario di stato John Kerry, forse per smarcarsi da una decisione presa dallo stesso
Barack Obama, aveva dichiarato che gli Usa ritengono «appropriata» la reazione di Israele
alla riconciliazione tra palestinesi e sono preoccupati per il coinvolgimento di Hamas.
Netanyahu non ha alcuna intenzione di porgere l’altra guancia. Ieri il premier e buona
parte del governo hanno lanciato il contrattacco accusando l’Amministrazione americana
di «ingenuità». Un’azione corale che ha avuto la sua punta più avanzata nel primo
ministro. «Sono profondamente turbato dall’annuncio che gli Usa lavoreranno con il
governo palestinese appoggiato da Hamas che ha ucciso innumerevoli civili israeliani», ha
commentato il primo ministro. Poco dopo Netanyahu ha rincarato la dose durante un
colloquio telefonico con Francois Hollande. Dopo aver ringraziato il presidente francese
per l’arresto del sospettato per il recente attentato di Bruxelles, ha proclamato che «L’unità
palestinese con l’appoggio di Hamas è un passo contro la pace e a favore del terrorismo.
Sarebbe uno sbaglio dargli la legittimazione». Pesanti i commenti di altri esponenti del
governo. Per il ministro delle comunicazioni Gilad Erdan «l’ingenuità americana ha
superato tutti i record». Per il suo collega della sicurezza nazionale, Yuval Stenitz, gli
alleati statunitensi hanno due voci: «Non potete presentarlo privatamente come un
governo di Hamas per poi dire pubblicamente che è formato da tecnici».
Il noto analista politico Oded Eran da parte invita alla calma. «Non si tratta di una frattura
(tra Israele e Stati Uniti) ma di un disaccordo – ha detto al manifesto – lo stesso accadde
un po’ di anni fa quando Washington decise di aprire un canale di comunicazione con l’Olp
di Yasser Arafat contro il volere di Israele. Non è stato un attacco alle spalle. Il primo
ministro sapeva delle intenzioni americane». In ogni caso la battaglia ora si sposta negli
Stati Uniti dove il governo Netanyahu spera che il Congresso, più filo israeliano della
stessa Knesset, ora giochi qualche brutto scherzo ad Obama, magari bloccando i
finanziamenti annuali per centinaia di milioni di dollari all’Anp che l’Amministrazione ha
detto di voler continuare anche con il nuovo governo palestinese.
Il caponegoziatore palestinese Saeb Erekat ieri non stava nella pelle. Ironizzava sul
premier israeliano. «Se Madre Teresa fosse il presidente palestinese, Thomas Jefferson
primo ministro e Montesquieu presidente del parlamento palestinese, Netanyahu li
accuserebbe di non essere buoni partner per la pace», ha commentato facendo sfoggio di
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cultura politica. E invece non è il caso di scherzare perchè i palestinesi non hanno ancora
conquistato nulla e non possono rallegrarsi più di tanto per una occasionale presa di
posizione degli Stati Uniti che non cambia nella sostanza la linea americana in Medio
Oriente. Le aspirazioni palestinesi perciò restano al palo. A ricordarlo è il 47esimo
anniversario dell’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza che cade proprio in questi
giorni. Ieri i soldati hanno ucciso un uomo nei pressi di Nablus (era armato secondo il
portavoce militare), portando a oltre 60 il numero dei morti palestinesi in Cisgiordania dallo
scorso luglio, quando ripresero i colloqui bilaterali mediati dagli Usa.
Le punizioni israeliane si annunciano pesanti, a cominciare dalle misure per impedire la
partecipazioni dei candidati di Hamas alle elezioni parlamentari e presidenziali previste
entro sei mesi. L’ultranazionalista ministro dell’economia Naftali Bennett, continua a
lanciare appelli per l’annessione immediata a Israele dell’area C (il 60% della
Cisgiordania). Altrettanto dure saranno le sanzioni economiche, a cominciare dal blocco
dei fondi palestinesi (tasse e dazi doganali) per un ammontare di 100 milioni di dollari al
mese. E il nuovo esecutivo di consenso nazionale dovrà pensare anche a come coprire i
buchi di bilancio del disciolto governo di Hamas a Gaza, giunto con le casse vuote
all’appuntamento della riconciliazione e 50mila dipendenti pubblici e miliziani sulle spalle. Il
Qatar si dice pronto coprire per qualche mese il costo della “unificazione amministrativa”
ma non durerà per sempre.
del 04/06/14, pag. 14
Il premier proponeva il Nobel, ma ha incassato solo no “È uno
straniero”
“Wiesel presidente”. E Israele insorge
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
Due sconfitte, due uppercut in grado di atterrare il più navigato dei politici, segnano sul
barometro israeliano la rapida discesa di Benjamin Netanyahu. “King Bibi” lo aveva
ribattezzato Time lodandone il trasformismo politico, ma adesso, prima con la disfatta sulla
corsa alla presidenza e poi con il governo Fatah-Hamas addirittura appoggiato dagli
americani, la sua l’immagine è molto appannata. Paradossalmente è più la prima sconfitta
a pesare sul premier che non la seconda. Perché nella storia bizzarra e ricca di eventi alla
“House of cards” di questa elezione del 10° presidente di Israele, il premier ha un ruolo da
protagonista, con le sue tresche, i suoi tranelli, la sua sfacciata e inutile opera di lobbyng
per candidare il premio Nobel Elie Wiesel alla successione del presidente Shimon Peres
che termina il suo settennato e passerà la mano in luglio.
La saga inizia un paio di mesi fa quando dopo aver attentamente osservato il panorama
delle possibili candidature alla presidenza, e non avendo trovato nessuno di suo
gradimento, Netanyahu inizia a far circolare la possibilità che Peres possa estendere di 6
mesi il suo mandato in attesa di una nuova legge per stabilire nuove competenze per la
prima carica dello Stato. Un’idea che nell’ordine è stata bocciata da Peres, dal suo partito,
dall’opposizione, dalla società civile. Ma Netanyahu era pronto a qualunque cosa pur di
scongiurare la quasi certa elezione — fra i sei candidati ufficiali — di Reuven Rivlin, l’ex
presidente del Parlamento e dirigente del Likud, verso il quale la “royal family” d’Israele
nutre un’avversione che sfiora l’ossessione. Netanyahu ha cercato in ogni modo di trovare
un altro nome da sostenere (dopo i no o i ritiri di Shalom, Levy, Eldestein, Sharansky) per
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arrivare poche ore prima della scadenza dei termini a telefonare a New York a Wiesel per
proporgli la presidenza. Un candidato a cui nessuno avrebbe azzardato ad opporsi.
Ma non aveva fatto i conti con la lucidità del pensiero dell’ottantaseienne premio Nobel per
la Letteratura che, sordo ad ogni pressione, lusinga e bugia politica di Netanyahu, ha detto
chiaramente il suo «no». «Non riuscendo ad ottenere le risposte che voleva», ha
raccontato Elie Wiesel a Naum Barnea di Yedioth Aaronot, «ha iniziato a fare pressioni
pesanti attraverso amici comuni, ma io so come farvi fronte. E alla fine gli ho detto, non fa
per me: io scrivo libri. Non sono tagliato per questo».
I giornali continuano a mantenere alta l’attenzione sul caso, soprattutto perché nelle tre
conversazioni Netanyahu approfitta della buona fede di Wiesel al quale dice di «avere un
ampio consenso», «è tutto organizzato, deve solo dire sì».
Quando invece l’idea non aveva mai varcato la porta del suo ufficio. Tutti i commentatori
dei giornali hanno mandato un silenzioso ringraziamento al Premio Nobel per il suo “no”.
Elie Wiesel è uno degli ebrei più importanti e autorevoli nel mondo, ma oltre a non essere
cittadino israeliano, non ha mai vissuto in Israele, si è occupato solo di libri e letteratura
per tutta la sua vita. «Che immagine avremmo dato di noi eleggendo come presidente un
ebreo americano di origini rumene?», ha scritto Haaretz, «Avremmo inviato il messaggio
che Israele dopo 66 anni di vita e storia non era in grado di scegliere uno tra i suoi cittadini
per rappresentarlo nel mondo».
( f. s.)
del 04/06/14, pag. 15
Nei seggi del quartiere di Bab Tuma uno dei pochi dove l’affluenza è alta
L’Occidente boccia la consultazione Il regime pensa di uscirne più forte
Con i miliziani cristiani “Votiamo contro i
jihadisti” Ma l’opposizione accusa “Le
elezioni, farsa di Assad”
ALBERTO STABILE
DAMASCO
I VICOLI di Bab Tuma, il quartiere cristiano della Città vecchia, sono affollati di uomini in
divisa mimetica, scarponi e kalashnikov a tracolla. Qua e là, fra le squadre armate messe
a guardia dei seggi, spunta anche la chioma bionda di una donna, anch’essa in divisa, o la
faccia immatura di qualche adolescente. Sono i miliziani della minoranza religiosa schierati
a difesa del quartiere nel giorno in cui, dicono in coro, i ribelli che combattono il regime
cercheranno d’impedire l’ampiamente prevista vittoria elettorale di Assad, colpendo ancora
una volta loro, i cristiani, obbiettivo ricorrente dell’opposizione armata da quando la rivolta
è degenerata in guerra civile.
Diciamo subito che questa previsione non s’è avverata, almeno fino al calar della sera. Il
grande attentato capace di sabotare le elezioni di ieri nella capitale non c’è stato. Ma tre
colpi di mortaio, esplosi dalle postazioni ribelli di Jobar, la periferia distante poche
centinaia di metri in linea d’aria, si sono abbattuti di prima mattina su Bab Tuma, senza
provocare feriti, ma solo danni materiali. Quanto basta, per galvanizzare gli animi dei
miliziani con la croce di Cristo tatuata sul braccio e giustificare a posteriori la loro
mobilitazione.
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Davanti alla porta consacrata all’Apostolo Tommaso, Philippe Thabet 44 anni, proprietario
di un piccolo ristorante, sposato, tre figli, racconta che lui, come molti altri miliziani,
appartiene ad un famiglia originaria di Maalula, il paese-santuario di Santa Tecla, sulle
montagne del Qalamoun, dove si parlava, e si palerebbe ancora, se soltanto fosse abitato,
l’aramaico, la lingua di Gesù.
Assalita dai ribelli, poi liberata dall’esercito siriano, oggi Maalula è una landa deserta.
Dopo la sua liberazione, infatti, i cristiani non vi hanno più fatto ritorno per evidente
diffidenza verso il precario status quo. «La mia casa di Maalula è stata bruciata dai jihadisti — racconta Philippe — . Se sono qui, stamattina, è innanzitutto per
riconoscenza verso una terra che a noi cristiani ha dato tanto e perché non voglio che
anche la mia casa di Damasco venga distrutta ».
Phlippe fa squadra con con Elias Faddun, orefice. Stamattina sveglia alle 5, racconta,
messa alle 6 e raduno con gli altri 250 uomini mobilitati per la giornata
elettorale. «Oggi è un giorno speciale per noi. Siamo qui per difendere il paese, il nostro
quartiere e le nostre chiese». Domanda: ma non sentite disagio a dover combattere contro
altri siriani? «Siriani?» risponde Philippe. «C’è di tutto là in mezzo. E sono sicuro che quelli
che hanno distrutto Maalula non sono siriani ». Ma come mai non siete riusciti a
difenderla? «È molto semplice: loro erano 3000, noi 150».
La ricostruzione prevalente vuole che Maalula sia stata infine strappata ai ribelli con l’aiuto
decisivo degli Hezbollah, la milizia sciita libanese, intervenuta militarmente accanto
all’esercito siriano. Anche per questo gli Hezbollah sono estremamente popolari da queste
parti, come dimostra un gran poster che raffigura il leader sciita, Nasrallah, accanto al
presidente Assad.
«Rispettiamo Nasrallah — dice chiaro e tondo Phlilippe — perché è una persona seria che
fa quello che dice».
Oggi non solo Bab Tuma, ma tutta la capitale, che negli ultimi mesi aveva molto confidato
nei successi dell’esercito al punto da allentare le misure di sicurezza, s’è svegliata
immersa in un clima di guerra. L’artiglieria non ha taciuto un attimo. L’urlo assordante dei
Mig lanciati a bassa quota ha attraversato di continuo il cielo. Spesso s’è sentito anche lo
schianto dei mortai sparati dalla guerriglia. Era questa la colonna sonora che ha
accompagnato Assad e la moglie Asma alla sezione in cui il rais ha votato per rimanere
altri sette anni al potere.
Ma è questo il clima che può garantire la legittimità del voto, in un paese in cui intere
province sono nelle mani dei ribelli e l’elettorato s’è ridotto a 15 milioni (dati del Ministero
dell’Interno) dopo che 7 milioni di siriani hanno dovuto abbandonare le loro case e due
milioni e mezzo il loro stesso paese? Ma quella che per l’opposizione, molti paesi
Occidentali e gli arabi del golfo è «una farsa», per la nomenklatura del partito Baath uscita
dalla penombra per sottoporsi alle telecamere piazzate intorno ai seggi, è una chiara
manifestazione di sovranità popolare. Dalla quale, Assad uscirà rafforzato.
Molti i cortei di macchine con gli altoparlanti a tutto volume che inneggiavano al Rais.
Nessuno a favore dei due concorrenti, il businessman di Damasco, Hassan al Nuri e l’ex
deputato comunista, rinnegato dal suo partito, Maher Hajar, di Aleppo. Stanca ritualità di
una elezione scontata, si direbbe, anche se la Commissione elettorale «visto lo
straordinario afflusso» ha rinviato di cinque ore la chiusura dei seggi. In realtà, solo a Bab
Tuma abbiamo visto uomini, donne, famiglie molto motivate e decise a lottare. «Per
vincere — dice Toni, 45 anni, orologiaio e comandante della milizia cristiana —, perché
una riconciliazione dopo tutto quello che è successo mi sembra improbabile».
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del 04/06/14, pag. 9
Bavaglio sul web e arresti, 25 anni dopo Tien
An Men
Oscurato Google, intimiditi anche i giornalisti stranieri:mai tanta cautela dal regime,
la protesta dell’89 è ancora tabù nella Cina di Xi
Altro che primavera! A Pechino sembra di essere in pieno inverno ». Amara ironia di Hu
Jia, attivista per i diritti umani, confinato da tre mesi nel suo appartamento con obbligo di
non uscirne fino a nuovo ordine. Èpesante il clima che si respira nella Repubblica
popolare, dove anche Google inquieta il governo al punto da bloccarne l’utilizzo, caso mai
qualche internauta volesse andare in cerca di notizie sulla tragedia di 25 anni fa. La strage
che il 4 giugno 1989 pose fine alla Primavera democratica cinese. Le autorità quest'anno
si sono mosse con largo anticipo. Solitamente gli arresti preventivi avvenivano a ridosso
del 15 aprile, giorno in cui nel 1989morì Hu Yaobang, che era stato da poco estromesso
dalla guida del partito comunista a causa del suo orientamento riformatore. I primi raduni
sulla Tian An Men si formarono in suo onore, nel lutto per la scomparsa di una figura
simbolo della speranza di rinnovamento. Settimana dopo settimana il movimento crebbe a
dismisura, e assieme salì l'angoscia degli uomini al comando. Alla fine Deng Xiaoping, la
cui fantasia riformatrice non andava oltre i recinti dell’economia, ordinò all’esercito di
intervenire senza pietà. Ancora oggi le cifre del massacro sono ignote, mille morti secondo
Amnesty International. Da molti anni a questa parte Maya Wang, che lavora per la sezione
di Hong Kong dell’associazione Human Rights Watch, non aveva visto «un intervento così
duro e intenso» da parte delle autorità per fermare in anticipo qualunque tentativo di
commemorare quei tragici avvenimenti. I giornalisti stranieri sono stati convocati dalla
polizia e ammoniti a stare alla larga dalla famosa piazza, l’associazione stampa estera
denuncia atti intimidatori. I membri di una troupe televisiva francese che cercavano di
parlare con i passanti sulla Tian An Men sono stati sottoposti a un interrogatorio di sei ore.
Arrestato Guo Jian, artista australiano di origini cinesi, che ha dedicato all’ecatombe del 4
giugno 1989 una scultura allusivamente fatta con carne di porco. Molte decine i dissidenti
finiti agli arresti, fra loro anche gli organizzatori di un seminario dedicato alla Primavera
cinese. Benché fosse la riunione privata di un piccolo gruppo di persone in una casa di
Pechino, la polizia ha accusato i partecipanti di «disturbo alla quiete pubblica». Tutti in
attesa di processo: Hao Jian docente all’Accademia di cinema della capitale, Xu Youyu,
filosofo, Pu Zhiqiang, avvocato. C’è chi è finito in galera per molto meno. Si chiama Liu
Wei, giovane operaio di Chongqing. Di passaggio a Pechino, ha pensato bene di mettere
in rete un «selfie» che lo ritrae con le dita alzate nel segno di vittoria sullo sfondo dei
monumenti di Tian An Men. Lo fanno molti turisti. Fatto dal povero Liu Wei sapeva
evidentemente di sovversione. L’impressione degli osservatori è che tanta rigidità da parte
del potere derivi dal timore che le tensioni sociali siano arrivate a un livello pericoloso.
Secondo alcuni il presidente Xi Jinping, che pure ha legato il suo nome da un lato a
progetti di sviluppo e liberalizzazione economica, dall’altro a una lotta senza quartiere alla
corruzione, soffre della sindrome di Gorbaciov. Teme che qualunque spiraglio di libertà
politica spalanchi la porta a un vento di cambiamento inarrestabile sino al rovesciamento
del regime. Il sinologo americano Perry Link era «agnostico » circa le vere intenzioni di Xi
Jinping. Ma il modo in cui è stata affrontata la lunga vigilia di Tian An Men lo induce ora a
pensare che Xi «se potesse governerebbe con la stessa durezza di Mao». Eppure, proprio
nel momento in cui la stretta del potere si fa più soffocante, sembra aumentare la voglia di
libertà. Sorprendono piacevolmente i risultati dell’inchiesta svolta da un ricercatore cinese
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dell’università di Shantou fra gli studenti di giornalismo di otto diverse università cinesi.
Protetti dall’anonimato 120 hanno risposto a un questionario inviato loro on line. I dati non
sono ancora stati diffusi nella loro interezza, ma l’aspetto che colpisce è la generale ostilità
alla censura, la sfiducia nella credibilità dei media ufficiali, e l’opposizione alla regola
secondo cui i giornalisti debbano appartenere al partito comunista.
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INTERNI
del 04/08/14, pag. 10
Il premier convoca Boschi e Finocchiaro e detta i tempi. Ma Forza Italia
boccia la mediazione sul modello francese, possibile nuovo incontro
con Berlusconi. Valanga di oltre 5.000 emendamenti, 3.800 solo dalla
Lega
Renzi: “Entro giugno il sì sul Senato”
SILVIO BUZZANCA GIOVANNA CASADIO
ROMA .
«Dobbiamo chiudere in poche settimane. Prima della riunione del Consiglio europeo del
27, l’abolizione del Senato deve essere stata approvata in un ramo del Parlamento».
Matteo Renzi incalza. Sa che Forza Italia frena. Vuole rinviare. Ma non ci sta. E arriva
anche a minacciare di votare la riforma con la sola maggioranza. Berlusconi è avvertito.
Così come sono avvertiti i “dissidenti” del Pd: «Non si possono accettare defezioni».
Nell’incontro mattutino, alle 9, a Palazzo Chigi con la ministra Maria Elena Boschi e con la
presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Anna Finocchiaro,
il premier allora non ammette repliche. «Abbiamo alcuni giorni per la trattativa, ma non per
fare melina ». Il tono è perentorio. Il presidente del Consiglio è convinto, e l’ha detto più
volte, che in Europa l’Italia deve presentarsi con un’accelerazione anche sulla riforma
dell’architettura istituzionale. Il “bottino” del voto delle europee va fatto fruttare subito.
Per questo Renzi è tanto irritato nei confronti della minoranza del partito che alla vigilia dei
ballottaggi per le amministrative di domenica, non rinuncia a contestazioni e dissensi. A
Luigi Zanda e ad Anna Finocchiaro è affidato il compito di mediare. Zanda nell’assemblea
del gruppo del Pd fa un appello alla responsabilità. Conclude: «Abbiamo già discusso
tanto. Giorgio Tonini ci ha appena ricordato che neppure alla Costituente si discusse tanto
sul Senato. Ora bisogna andare avanti e il Pd deve votare in modo compatto ». E ha
evocato elezioni anticipate se le riforme fallissero.
Ma il percorso verso una Camera delle autonomie sul “modello francese” - che è il piano A
del governo sulle riforme - è ancora pieno di ostacoli. Forza Italia, appunto, si mette di
traverso. Paolo Romani, presidente dei senatori forzisti, giudica un Senato “alla
francese” «inaccettabile, diciamo no assolutamente e indefettibilmente ». Si riparla di un
futuro colloquio tra Renzi e Berlusconi. Nel pomeriggio a Palazzo Grazioli l’ex Cavaliere
convoca una riunione, durante la quale addirittura si è parlato di alzare la posta sulle
riforme con una raccolta di firme per il presidenzialismo e l’abolizione secca del Senato.
Ma soprattutto l’ex premier vuole trattare. Non intende vestire l’abito dell’attore non
protagonista.
E a complicare le cose c’è il braccio di ferro tra governo e Regioni sul Titolo V, ovvero il
federalismo. La ministra Boschi incontra il presidente della Conferenza delle Regioni,
Vasco Errani. Un confronto difficile. In casa dem considerano questo il nodo più
complesso da sbrogliare. In più la pioggia di emendamenti sul nuovo Senato: sono 5.200.
Stravolgono il testobase, che è quello del governo. Il leghista Roberto Calderoli, che ha
trasportato personalmente su un carrello la valanga di emendamenti in commissione,
minaccia: «I nostri emendamenti sono 3.806. Se c’è dialogo siamo pronti a ritirarli, se no
possono anche aumentare ». E ironizza: «Contrabbandare la riforma del Senato per un
sistema francese è come dire che il Gorgonzola e il Roquefort sono la stessa cosa perché
in comune hanno solo la muffa....». Il “modello francese” prevede l’elezione indiretta dei
senatori da parte di una platea di amministratori che Forza Italia teme possano arrivare a
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oltre centomila. Ma c’è un piano B di cui si è riparlato a Palazzo Chigi, cioè l’elezione
attraverso un listino contemporaneamente all’elezione regionale.
Finocchiaro si incarica anche di mantenere i contatti con Gaetano Quagliariello, che
gestisce la partita riforme per conto di Alfano. «Siamo in attesa di capire - commenta il
coordinatore del Nuovo centro destra - per questo abbiamo chiesto intanto una riunione di
maggioranza. Prima vediamo tra di noi, e poi si parla con Fi». Ncd ritiene quindi
indispensabile un vertice di maggioranza. Però nel gruppo del Pd la fibrillazione resta alta.
Vannino Chiti, Felice Casson, Walter Tocci, Massimo Mucchetti, Corradino Mineo e l’altra
ventina di senatori dem che vogliono un Senato elettivo trasformano il disegno di legge
che avevano presentato in emendamenti. «Il modello francese è peggio di prima»,
commenta Casson. Sarcastico è Mineo su Facebook: «Che devo fare, mettermi a ridere?
Ma come si fa a prendere un mediano dalla nazionale francese se a noi serve un
centravanti?».
Mineo potrebbe essere rimosso dalla commissione Affari costituzionali, dove aveva preso
il posto di Marco Minniti. Sarebbe sostituito dal renziano Stefano Collina. Il tam tam della
sostituzione si fa sempre più insistente e Mineo reagisce: «Non ci penso proprio a
dimettermi». Zanda lo ha convocato per un incontro stamani. In serata Finocchiaro e
Boschi si vedono un’altra volta per fare il punto sui contatti avuti e sulla tela da tessere.
Oggi è la giornata della svolta.
del 04/06/14, pag. 18
Milano, nel 2011 la fine di Michele Ferrulli. Il pm chiede la condanna dei
poliziotti che lo pestarono dopo il fermo “Quattro giovani contro un
anziano bloccato a terra che gridava aiuto: una violenza gratuita e non
giustificabile”
“Morì dopo l’arresto, 7 anni agli agenti”
SANDRO DE RICCARDIS
MILANO .
C’era una «persona anziana a terra» e «quattro giovani » che continuavano a colpire,
«prima tre volte, poi altre sette», anche quando l’uomo «completamente bloccato»
sull’asfalto, «gridava “aiuto, aiuto, aiuto, basta, la testa, basta, aiuto”». Dall’arrivo della
volante Mecenate in via Varsavia, quel 20 giugno 2011, allertata da un residente che
sentiva grida e musica ad alto volume, fino alla morte in strada di Michele Ferrulli, la
requisitoria del pm Gaetano Ruta è il lungo racconto di «un intervento di polizia di una
banalità assoluta » finito invece in tragedia, con i quattro agenti che continuano a colpire
con «una violenza gratuita e non giustificabile».
Per la morte di quell’uomo di 51 anni, il pm ha chiesto ieri una condanna a sette anni per
gli agenti Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Piva e Sebastiano Cannizzo,
accusati di omicidio preterintenzionale e falso ideologico, perché avrebbero redatto una
relazione di sevizio «falsa ed edulcorata» su quella notte. Il pm ha chiesto ai giudici della
Corte d’assise di riconoscere le attenuanti generiche, perché fino a quella sera — lo hanno
testimoniato molti colleghi — i poliziotti «non hanno mai dato problemi in servizio».
Anche in via Varsavia erano bastati 36 secondi per disinnescare la tensione. Dopo l’arrivo
della prima volante, la telecamera della farmacia mostra come il furgone da cui proveniva
la musica venga immediatamente spento. E lo stesso Ferrulli getta in un cestino la bottiglia
di birra che agitava in aria. «L’intervento aveva sortito i suoi effetti — ricostruisce il pm —
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In 36 secondi tutto sembra tornare alla normalità». Ma ecco che nella registrazione si vede
l’agente Ercoli che «si rivolge a Ferrulli o dandogli uno schiaffo, o comunque alzando il
gomito in modo minaccioso, un comportamento indubbiamente provocatorio».
Il gruppo scompare dietro il furgone bianco, ed è grazie all’iphone di due rom che si vede
— due minuti dopo — Ferrulli a terra colpito dagli agenti. «L’uso o meno del manganello
— spiega Ruta — è un falso problema, perché io posso fare molto male a una persona a
terra sia con un manganello, sia con un pugno chiuso. Quattro giovani in piedi contro un
anziano, completamente bloccato: vogliamo veramente ritenere che potesse avere
giustificazione l’esercizio di una violenza fisica?».
La procura riconosce agli imputati che non volevano uccidere: hanno chiamato loro i
soccorsi quando hanno capito quanto stava male Ferrulli, che pochi minuti dopo sarebbe
morto per arresto cardiocircolatorio. «Gli agenti erano in grado di comprendere che agire
così avrebbe potuto provocare la morte dell’uomo ». Sono in grado di capirlo anche le
donne rom che parlano nell’audio del telefonino: «Così gli viene un infarto e muore»,
dicono. «Lasciatelo, gli fate male », chiede il suo compagno di bevute che invece viene
portato via su una volante. Poi, l’estremo grido d’aiuto di Ferrulli: «Aiuto, aiuto, aiuto,
basta, la testa, basta, aiuto».
«Non ci sentiamo più soli, ora lo Stato è dalla nostra parte», ha commentato la figlia della
vittima, Domenica Ferrulli, assistita dagli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa. «La
nostra speranza è che gli agenti vengano condannati e non indossino più la divisa, per
rispetto di mio padre e anche di chi la indossa onestamente».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 04/06/14, pag. 11
Nuovo verbale dell’imprenditore arrestato per tangenti “L’ex funzionario
del Pci consultava Bersani e Fassino”
Expo, Maltauro accusa “Referente di Greganti
la vecchia guardia Pd”
EMILIO RANDACIO
MILANO .
«Primo Greganti, all’interno della “Cupola” di Expo, rappresentava gli interessi della
vecchia guardia del Pd». Con queste dichiarazioni rese dall’imprenditore vicentino Enrico
Maltauro, il fronte giudiziario dell’inchiesta Expo registra nuovi particolari sul ruolo del
«compagno G» tra la cerchia di faccendieri ed ex politici che gravitava su Expo, sulla
sanità lombarda e sui relativi appalti. Mentre sul piano politico — proprio in conseguenza
del terremoto provocato dall’inchiesta sull’Esposizione del 2015 — si registra il faccia a
faccia di un’ora e mezza, a Palazzo Chigi, tra il premier Matteo Renzi e il numero uno di
Expo, Giuseppe Sala, durante il quale si è discusso proprio degli strumenti da utilizzare
per escludere dai lavori la Maltauro, cioè l’azienda coinvolta nelle indagini.
Nel giorno in cui i legali di Luigi Grillo discutono davanti al Tribunale del Riesame la
scarcerazione del proprio assistito, trapelano nuovi dettagli sul verbale reso ai pubblici
ministeri Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio da uno dei primi pentiti dell’inchiesta che ha
portato in cella per associazione a delinquere anche Gianstefano Frigerio e l’ex
responsabile acquisti di Expo, Angelo Paris. Maltauro, finito in cella con l’accusa di aver
«unto» la cupola per ottenere anche appalti Expo, nel suo verbale ha sostenuto che i
referenti politici dell’organizzazione erano definiti. Frigerio — ecco la versione di Maltauro,
difeso dai legali Giovanni Maria Dedola e Paolo Grasso — si interfacciava direttamente
con Arcore e con Silvio Berlusconi. Di Greganti, invece, Maltauro racconta «come i suoi
interlocutori fossero uomini della vecchia guardia del Pd». Nulla visto di persona — ha
aggiunto l’imprenditore — ma ascoltato nei corridoi dello studio di Frigerio a Milano, in
viale Andrea Doria. I pm hanno chiesto di sapere se l’imprenditore vicentino conoscesse
anche i nomi di chi consultava Greganti, e la risposta è stata «Fassino, Bersani e anche
altri ». Non ci sono elementi — come del resto per il presunto coinvolgimento di Berlusconi
— che possano portare, al momento, a nuove iscrizioni nel registro degli indagati, ma si
tratta di uno spunto su cui la procura di Milano punterà comunque i fari nelle prossime
settimane. Va ricordato che il nome dell’ex segretario del Pd era già uscito nelle carte
dell’inchiesta, ma Bersani aveva subito definito gli accostamenti come «illazioni».
A Palazzo Chigi, invece, Renzi, secondo quanto trapelato, avrebbe valutato con il
commissario Expo lo stato dei lavori, ma anche il futuro della Maltauro all’interno di Expo.
Non è escluso che, dopo l’esplodere dell’inchiesta, si tenti di escludere la società vicentina
dal prosieguo dei lavori proprio a causa del coinvolgimento nell’indagine. Da qualunque
parte la si guardi, è una nuova incognita per il rispetto della tabella di marcia dei lavori
dell’Expo. «Sono sempre positivo », l’unico commento di Sala, una volta concluso
l’incontro a Roma.
Infine, il gip ha respinto la nuova richiesta di scarcerazione di Frigerio, ex segretario della
Dc lombarda e poi parlamentare di Forza Italia. A lanciare l’allarme sullo stato di salute del
presunto regista della cupola che si spartiva gli affari di Expo, era stato il suo legale,
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Manola Murdolo, con un’istanza in cui si denunciavano le cattive condizioni di salute
dell’indagato, oggi settantaquattrenne. Soprattutto per un grave problema a un occhio,
l’ipertensione e una forma di diabete. Ma il gip Fabio Antezza ha nuovamente respinto
l’istanza. Questa volta dopo aver letto il parere di un medico, Marco Scaglione, che è
giunto a conclusioni esattamente opposte. «Le condizioni di salute — ha scritto il perito —
non sono tali da controindicarne la prosecuzione del regime carcerario all’interno di una
struttura dotata di centro clinico (come Opera, ndr ) ». Il giudice — oltre a ritenere che
«permangono immutate le eccezionali esigenze cautelari» rileva che «la gravità del
quadro probatorio (...) si è ulteriormente aggravata».
del 04/06/14, pag. 12
Expo 2015, in arrivo il decreto
Oltre un'ora e mezza di faccia a faccia tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il
commissario del governo per Expo 2015, Giuseppe Sala. Al termine dell'incontro a
palazzo Chigi, Sala non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione, salvo dirsi «sempre
positivo» rispetto alla situazione del progetto dell’Esposizione universale di Milano. Il nodo
da sciogliere riguarda i poteri di controllo da affidare a Raffaele Cantone, presidente
dell`Autorità nazionale anti corruzione, per affrontare i problemi nati dalle inchieste
giudiziarie sugli appalti. Per escludere gli imprenditori indagati, senza però ritardare i
lavori, sarebbe necessario un decreto legge apposito che potrebbe essere discusso nel
Consiglio dei Ministri di venerdì. Il decreto dovrebbe contenere appunto alcune norme per
velocizzare i lavori in preparazione all`Expo e l`affidamento di nuovi poteri di controllo a
Cantone. La questione dei poteri di Cantone è determinante per garantire il regolare
svolgimento dei lavori e la realizzazione di tutti i padiglioni previsti. Già nei giorni scorsi
Cantone aveva dichiarato di non voler fare «gite» a Milano, ma di voler esercitare il suo
ruolo solo con adeguati poteri. E il governo, dopo aver sentito tutte le parti in causa, si
appresta a varare il decreto ad hoc. Ieri c’è stato un incontro anche tra il presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione, Cantone ed il presidente dell'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Sergio Santoro, in ordine alle problematiche
di Expo 2015. «Dallo scambio di informazioni - si legge in una nota - e di opinioni tra i due
è emersa una piena sintonia istituzionale e la volontà di collaborare ».
Intanto sul fronte delle indagini continua il lavoro dei magistrati che stanno valutando i
primi interrogatori. Gianstefano Frigerio e Primo Greganti, i collettori di tangenti, restano,
per ora, in carcere. In particolare Greganti ha rinunciato a presentare ricorso al Tribunale
del riesame contro la detenzione in carcere. Greganti, dunque, resta in carcere così come
stabilito per lui dal Gip Fabio Antezza. Nel frattempo, è in corso l'udienza del Tribunale del
Riesame sulla richiesta di scarcerazione presentata dall'ex senatore Luigi Grillo. Il verdetto
è atteso entro 5 giorni.
del 04/06/14, pag. 11
Bruti-Robledo, Csm verso l’archiviazione
LIANA MILELLA
ROMA .
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Al Csm l’hanno già battezzata come un’archiviazione «vestita». È la procedura che
domani potrebbe segnare il primo round sullo scontro Robledo vs Bruti. Le due
commissioni, la prima (trasferimenti d’ufficio) e la settima (organizzazione del lavoro),
passerebbero al plenum una richiesta di chiusura che lascerebbe ai loro posti il
procuratore di Milano Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, ma entrambe invierebbero le
carte più discusse alla sezione disciplinare e alla quinta commissione (incarichi direttivi).
Quindi la querelle che ha diviso la procura più esposta d’Italia è destinata a continuare, per
giunta in due sedi più delicate che di fatto dovrebbero riaprire il processo sui singoli
comportamenti dei due magistrati. Bruti, alla boa della sua riconferma per altri 4 anni al
vertice della procura, rischia di saltare, Robledo potrebbe finire sotto inchiesta per aver
portato prima al Csm, e quindi svelato, l’inchiesta su Expo.
Giornata di grande tensione a palazzo dei Marescialli. Mariano Sciacca, relatore in prima
commissione, e Pina Casella, presidente della settima, entrambi di Unicost, depositano la
relazione. Il senso è chiaro. In prima si esclude il trasferimento d’ufficio per le due toghe, si
ipotizza l’archiviazione, che però sarà «vestita» dalla richiesta, sui casi controversi,
dell’invio del fascicoli alla disciplinare e alla quinta, dov’è in ballo la riconferma o la
bocciatura di Bruti. Idem in settima, dove si allineano i rilievi alla gestione Bruti.
I caso sono noti. Potrebbe finire alla disciplinare la faccenda Sea-Gamberale, processo di
cui Bruti «dimentica», come ha ammesso, il fascicolo in cassaforte. Stessa destinazione
per lo scatto di nervi che fece dire a Bruti contro Robledo «se quelli di Md fossero andati a
fare la pipì al momento del voto tu non saresti stato eletto...». Robledo in disciplinare per
non aver detto che aveva citato Berlusconi per danni non astenendosi dai suoi processi.
Solo una critica a Bruti sul processo Ruby e sull’assegnazione all’aggiunto Boccassini,
«senza la regolamentare motivazione scritta». In bilico il famoso caso Sallusti, perché se
fu plausibile la scelta di cambiare la regola sui domiciliari Bruti la presentò all’inizio «come
un’eccezione» scatenando a quel punto le proteste degli altri pm milanesi. Altra pagina
difficile, su cui al Csm c’è rissa, è quella del doppio pedinamento per Expo che però Bruti
conferma, ma Robledo nega supportato dalla Gdf. Delle due l’una, se ci fu, potrebbe
configurarsi come un abuso d’ufficio, oppure come il frutto di una procura in cui non c’è
dialogo. Infine una decisione facile. Sull’ipotetica iscrizione di Formigoni per il San
Raffaele il Csm alzerebbe le mani dicendo «noi non siamo la Cassazione».
del 04/06/14, pag. 3
Pane, cozze, caffè: ma che truffa
Antonio Sciotto
Contraffazioni. Il crimine alimentare è un business: aumentano fatturati
e sequestri. Sarà pure il tema dell’Expo, ma su questo fronte restiamo
deboli. Il dossier Cgil
E proprio nel paese dell’Expo 2015 – tema la qualità del cibo – le contraffazioni
abbondano. Il Rapporto su Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto
presenta un’interessante disamina dei casi più eclatanti di truffe alimentari, spesso
organizzate dalla criminalità. Bufala, pane, caffè, pesce, olio, pomodori: «un menù per tutti
i gusti», lo slogan scelto dalla Flai Cgil per il dossier-denuncia.
Intanto qualche dato: secondo l’Ocse dal 2000 al 2007 il commercio di prodotti contraffatti,
e il relativo fatturato, sono aumentati del 150%. Solo in Italia, negli ultimi 10 anni, secondo
la Commissione parlamentare d’inchiesta su questo fenomeno, siamo al +128%: il giro
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d’affari del cibo «truffaldino» sarebbe di 1 miliardo di euro, pari al 16% sulla totalità dei
prodotti contraffatti. Molto più ampio invece il fatturato delle agromafie: ben 12,5 miliardi di
euro, secondo il rapporto dello scorso gennaio della Direzione Nazionale Antimafia.
Per questa ultima cifra, il riferimento è all’intera filiera: ovvero il controllo che le
organizzazioni criminali esercitano su produzione, arrivo delle merci nei porti, mercati
all’ingrosso e grande distribuzione e confezionamento.
Torniamo però ai casi di contraffazione alimentare del made in Italy. Come detto, nel
nostro Paese siamo intorno a 1 miliardo di euro di fatturato. Ma se ci riferiamo ai prodotti
alimentari italiani nel mondo, quello che dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello,
secondo i dati del ministero dello Sviluppo la fatturazione del contraffatto sale a ben 60
miliardi di euro. Un terzo circa del fatturato dei prodotti originali: si tratta del cosiddetto
Italian sounding, cioè l’utilizzo di etichette e simboli che evocano l’italianità ma che in
realtà di italiano non hanno nulla. Come dire: ci sarebbe lo spazio potenziale per ben 60
miliardi di euro per i produttori italiani, che oggi ci vengono «soffiati» da chi si millanta
come tale.
In Italia, c’è il caso del caffè di cattiva qualità imposto dal clan Vollaro ai bar napoletani e
dalla mafia a quelli siciliani. Caffè Nobis e Caffè Floriò: i bar erano costretti comunque a
comprare prodotto di qualità per non perdere la clientela. Da Brindisi invece, la Sacra
Corona Unita impone insieme al caffè pessimo anche slot truccate.
In Provincia di Caserta le frodi riguardano la mozzarella di bufala: l’azienda Mandara ad
esempio è sotto processo perché secondo la Dda di Napoli utilizzava latte di bufala
congelato proveniente dall’Est Europa, spacciando il prodotto per mozzarella Dop.
E il pomodoro delle nostre salse? in buona parte viene dalla Cina. Indagini doganali hanno
dimostrato che tutto il concentrato importato dalla Cina ha come unica destinazione Napoli
e Salerno (dove si trovano più della metà degli impianti di trasformazione italiani). L’import
di concentrato cinese è aumentato negli ultimi 10 anni del 272%. E così sono stati
sequestrati milioni di barattoli di «San Marzano Dop», falso, destinati al mercato Usa.
Pasta e taralli? Vittime anche loro. Decine di tonnellate di prodotti etichettati con «Qualità
e tipicità 100% made in Puglia» o «Prodotta con semola di grano duro della Puglia» sono
state sequestrate in provincia di Barletta, Andria e Trani: il grano era extra Ue.
A Palermo si è scoperto che l’intero mercato di Ballarò era rifornito da un maxi macello
clandestino: carne controllata dal mandamento di Porta Nuova. A Napoli sono decine i
panifici clandestini sequestrati, ma non basta: molto attivo è anche il contrabbando di
pesce e addirittura di acqua di mare (inquinata), mentre a Taranto i clan si fanno la guerra
per il commercio delle cozze.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 04/06/14, pag. 5
Però ci pensa il caporale
Antonio Sciotto
Il dossier. Rapporto Flai Cgil sul lavoro nei campi: oltre 100 mila i «para-schiavi».
Sottratti 600 milioni di euro l’anno all’Inps. «Serve una legge per punire le imprese e
tutelare chi denuncia»
Baljit Singh è indiano: ha lavorato diversi anni in un’azienda di Pontinia (Latina), come
mungitore. I padroni italiani erano pronti a lasciarlo morire, pur di non venire allo scoperto:
«Un giorno mi hanno chiesto di pulire un frigorifero, con acido misto a candeggina. I fumi
mi hanno stordito, e loro si sono rifiutati di portarmi all’ospedale perché ero irregolare.
Sarei morto se non mi avesse accompagnato un mio collega: loro poi mi hanno raggiunto
al pronto soccorso, imponendomi di tacere. Poi sono andato alla Cgil, e li abbiamo
denunciati».
Il secondo Rapporto su Agromafie e Caporalato della Flai Cgil è pieno zeppo di storie di
questo tipo: preparato dall’Osservatorio Placido Rizzotto (non a caso dedicato a un
sindacalista morto per difendere i lavoratori del Meridione), mette insieme cifre e dati di
un’economia malsana – quella italiana, in gran parte sommersa – e offre un’interessante
mappatura di tutto il territorio nazionale. Basandosi sulle denunce al sindacato, i rapporti
istituzionali e le attività delle forze dell’ordine, offre un quadro ragionato delle attività della
criminalità organizzata in campo agroindustriale e alimentare. Con una particolare
attenzione allo sfruttamento del lavoro.
Il primo dato che salta all’occhio, come nota Stefania Crogi, segretaria della Flai Cgil, è il
numero delle persone denunciate per il reato di «caporalato»: «Sono ben 355 dal 2011,
cioè da quando è stata approvata la legge che noi abbiamo sollecitato. Una conquista
importante: ma adesso ci resta da completare l’opera. Vorremmo che si applicasse la
direttiva Ue 52/2009, che dispone di individuare e punire anche l’“utilizzatore finale” dei
lavoratori intermediati dal caporale, ovvero l’impresa. E poi si dovrebbe permettere ai
lavoratori che denunciano di ottenere un permesso di soggiorno: a causa della Bossi-Fini,
se sono irregolari rischiano di essere mandati in un Cie e poi espulsi. Un paradosso: in
questo modo chi denuncerà mai?».
Il caporalato in agricoltura, secondo le stime del Rapporto Cgil, costa allo Stato
un’evasione contributiva non inferiore ai 600 milioni di euro annui. Sono almeno 400 mila,
l’80% dei quali stranieri, i potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi
ogni giorno con il caporalato. Mentre sono sicuramente 100 mila quelli che vivono una
grave condizione di sfruttamento lavorativo, oltre al grave disagio abitativo e igienicosanitario.
Chi si affida a un caporale non solo viene sfruttato nei campi: da Nord a Sud, il dossier
sfata il falso mito secondo cui il para-schiavismo si concentrerebbe solo nel Meridione. Il
Piemonte ad esempio è molto colpito, come anche la Lombardia, il Veneto e l’Emilia,
spesso nelle coop della logistica o nelle aziende di confezionamento. Ma poi viene spesso
«accolto» in luoghi fatiscenti e sporchi, senza acqua potabile e servizi igienici, e lì deve
vivere: magari non perché forzato, ma anche solo per il semplice fatto che all’alba il
caporale viene lì, e non altrove, a prenderti.
Dati da brivido: il 62% dei lavoratori impegnati nelle raccolte non ha accesso ai servizi
igienici; il 64% non ha accesso all’acqua corrente; il 72% di quelli che si sono sottoposti a
visita medica, ha sviluppato malattie legate al lavoro.
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E come vengono retribuiti? Naturalmente in nero, con ampi margini di risparmio per le
imprese rispetto al lavoro regolare: tra i 25 e i 30 euro al giorno, per una media di 10–12
ore di lavoro. Ma mica possono tenerseli tutti. C’è la «tassa» per i caporali, spesso vicina
al 50% del già magro salario: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino, 1,5 euro per la
bottiglietta d’acqua.
«I caporali forniscono due cose fondamentali per i lavoratori – dice Enrico Pugliese,
sociologo del Lavoro – La prima è il trasporto, o ad esempio l’acqua: a peso d’oro, tanti
campi non hanno neanche una fontanella. La seconda è l’informazione: solo io so dove c’è
lavoro oggi, altrimenti resti a casa. Se il pubblico fornisse mezzi per andare nei campi,
come è stato sperimentato a Cosenza, o un collocamento efficace, questa piaga sarebbe
già eliminata senza bisogno di puntare solo su controlli e repressione, che pure ci
vogliono».
Tra le richieste della Cgil al governo Renzi, infatti, come spiega Roberto Iovino, che per la
Flai ha curato il Rapporto su Agromafie e Caporalato, c’è quella di creare «un
collocamento trasparente e legale in rete per la domanda e l’offerta».
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SOCIETA’
del 04/06/14, pag. 18
Vent’anni di Gay Pride
Roma sfila e chiede «adesso fuori i diritti»
Sabato un corteo attraverserà il centro della Capitale. Tante le iniziative:
dal web fino al teatro
Delia Vaccarello
I GESTI E LE PAROLE. PRIDE È SFILATA, MA NON SOLO. NELLA SETTIMANA IN
CORSO CHE CULMINERÀ NEL CORTEO DEL 7 GIUGNO dell'orgoglio omosessuale a
Roma, si sottolineano l'importanza delle parole e la forza del teatro, aprendo le iniziative
che si svolgeranno nelle altre città. Che senso ha dire «preferenza sessuale » quando si
parla di lesbiche o gay? L'orientamento non è una preferenza, un gusto o un appetito, è
invece una inclinazione a stringere legami sentimentali, esistenziali, erotici con le persone
del proprio genere. Dice preferenza spesso chi vuole accreditare presso l'interlocutore una
propria apertura di vedute ma in realtà compie l'operazione opposta, sminuendo di molto il
significato dell'essere omosessuali. Ancora, è possibile che il parlante in questioni riveli
anche un certo eterocentrismo, che suona come «etnocentrismo » e lo rievoca,
significando il dare per scontato che solamente l'orientamento sessuale etero sia quello di
default e che quelli gay, lesbico e bisessuale siano una eccezione, una minoranza da
tollerare. Anche il termine «comportamento omosessuale» è riduttivo, può indicare una
pratica eccezionale o un incontro sporadico e non ha nulla a che vedere con
l'orientamento. «Soltanto quando ci innamoriamo», quando siamo presi e coinvolti per una
persona del nostro sesso possiamo dire di essere omosessuali, allora cade a fagiolo
l'espressione «essere bicurios»”, termine che deriva dalla crasi tra bisessuale e curioso
che indica persone in fase di sperimentazione ma anche donne e uomini etero che hanno
anche comportamenti omosessuali. Insomma il mondo dei termini che riguardano sesso e
sessualità, genere, ruolo, identità, orientamento è vasto e frastagliato. Per conoscerlo
l'associazione Gaynet lancia per il Pride 2014 lo «stylebook» disponibile sul sito da oggi e
lo presenta venerdì al Pride Park della capitale (alle 17.30 in via Casilina vecchia 42). Se
Gaynet dà il il peso che merita a termini e locuzioni, all'Argentina va in scena per tre
giornate (4 , 6, 8) l'anteprima «altri amori» della rassegna di Rodolfo Giammarco. Così
Pippo Delbono s’accosta per la prima volta a Bernard- Marie Koltès, e prende spunti dal
monologo di culto Lanottepocoprimadella foresta, mentre Valter Malosti propone la resa
sul palcoscenico dell'anima provocatoria di Violette Leduc dirigendo Isabella Ragonese (in
scena con la giovane Roberta Lanave) nell'adattamento teatrale del romanzo
ThérèseeIsabelle. Ancora, nella terza serata un parallelo tra l’universo di Jean Genet, di
cui viene proiettato il breve film Un chant d’amour, e la omosessualità di Francis Bacon in
Caro George di Federico Bellini ad opera di Giovanni Franzoni diretto da Antonio Latella.
Iniziative d'autore per il pride romano che compie venti anni. Era il giugno del 1994
quando sfilò a Roma il primo corteo italiano del gay pride. Dopo due decenni e tante
attese, nulla o quasi è stato riconosciuto del tantissimo che serve.Edunque lo slogan è
«adesso fuori i diritti», una richiesta all'esecutivo e al parlamento perché si varino norme in
grado di soddisfare la completa parità e la piena cittadinanza. Il principio cardine è la
liberazione da ogni forma di sopruso, autoritarismo e totalitarismo, laddove si proclamano
come fondativi della società democratica «i valori costituzionali dell’uguaglianza, della
libertà, dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo». Il logo della
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manifestazione è un cerchio – simbolo di unità, inclusione, condivisione – formato dai sei
colori dell’arcobaleno, nessun colore è più importante di un altro, ma tutti si mescolano per
creare tonalità uniche. All’interno campeggia la scritta «Roma Pride» . L'invito è «a vedersi
fuori»: vivere con libertà e pienezza il proprio modo di essere, rispettare e far rispettare
nella scuola come nello sport, al lavoro, come a casa e ovunque, il senso autentico della
parola libertà. On line un'applicazione che permette a chi vuole di «metterci la faccia » e
colorare il proprio volto con i segni del war painting arcobaleno (http://
www.romapride.it/2014/metticilafaccia/). «Dietro ogni volto – dichiara Andrea Maccarrone,
portavoce della manifestazione - c’è la consapevolezza che dopo 20 anni di Pride, la
nostra battaglia contro i pregiudizi è più attuale che mai» Il corteo partirà da piazza della
Repubblica alle 16.30. E invece a Toronto, in Canada, dal 20 al 29 giugno ci sarà il Pride
internazionale.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 04/06/14, pag. 5
Maxi blitz contro il movimento per la casa.
Arresti e 111 indagati
Mauro Ravarino
Torino. Contestati 39 reati che sarebbero stati commessi durante la
campagna anti-sfratti. Colpiti da misure cautelari anche tre dei militanti
No Tav già in carcere con l’accusa di terrorismo
Blitz extra-large nei confronti del movimento torinese per il diritto alla casa. Centoundici
indagati, 29 misure cautelari, di cui 11 in carcere, 6 arresti domiciliari, 4 divieti di dimora a
Torino, 4 obblighi di dimora nei comuni di residenza e 4 obblighi di firma. Nel mirino degli
inquirenti ci sono 39 episodi di reati contestati, commessi dal settembre 2012 al gennaio
2014, durante la campagna anti-sfratti (picchetti e blocchi, soprattutto). E tra i militanti
colpiti dalle misure cautelari ci sono anche tre dei quattro attivisti No Tav già in carcere
con l’accusa di terrorismo: Niccolò Blasi e Claudio Alberto sono stati raggiunti da una
misura di custodia cautelare in carcere; per Chiara Zenobi il provvedimento notificato è di
arresti domiciliari. Non sono pochi quelli che, fuori e dentro il movimento, sottolineano una
recrudescenza giudiziaria fuori misura.
L’inchiesta è condotta dai pm Antonio Rinaudo (impegnato nelle principali indagini sui No
Tav) ed Emanuela Pedrotta, le cui richieste sono state accettate dal gip Cristiano
Trevisan, contestando «gravi indizi di reato» e la «pericolosità sociale». I reati contestati
vanno dal danneggiamento alla resistenza e violenza aggravata a pubblico ufficiale, dalla
violenza privata all’invasione di edifici, a un capo ben più grave come il sequestro di
persona. Secondo le indagini, le persone colpite dai provvedimenti avrebbero commesso
ripetutamente reati per impedire gli sfratti, creando situazioni di conflitto con le forze
dell’ordine, con ricadute sul piano della sicurezza pubblica come minacce, blocchi stradali
e assalti a caserme. Contestati, inoltre, gli assalti alle sedi del Pd torinese.
Il blitz principale è scattato all’alba all’Asilo di via Alessandria, storica occupazione di area
anarchica. All’arrivo della Digos alcuni militanti sono saliti sul tetto dell’edificio. Gli arresti,
eseguiti anche dai carabinieri, sono scattati alle 4 oltre che a Torino ad Alessandria,
Cesenatico, Roma, Ferrara, Milano, Trento, Cuneo, Cosenza e Modena.
A Torino il problema casa è una vera emergenza. Mentre perdeva posti nella classifica
della produttività, il capoluogo piemontese scalava quella degli sfratti, diventando — negli
ultimi anni — la capitale italiana degli sfratti per morosità incolpevole, dovuti a
disoccupazione o cassa integrazione. Una media di 4mila ogni anno. L’11 luglio Torino
ospiterà, in un vertice sull’occupazione giovanile, i primi ministri dell’Ue, Renzi compreso.
E il sito Infoaut si chiede: «Sarà un caso che questa operazione viene a cadere tre giorni
dopo un’assemblea nazionale dei movimenti contro l’austerity, riunitisi qui a Torino per
preparare una mobilitazione di massa per l’11 luglio?».
Torino vive giorni difficili. Nella notte tra sabato e domenica, Andrea, un ragazzo di 27 anni
è stato accoltellato sulla metropolitana da un gruppo di giovanissimi neofascisti, perché
«vestiva da zecca». Tranne qualche voce isolata (tra gli altri, Prc e i consiglieri di Sel
Michele Curto e Marco Grimaldi e del Pd Luca Cassiani) dalle istituzioni, compreso il
sindaco Fassino, si è levato un silenzio assordante. Ieri, Alberto Gelmi, il ventenne
arrestato per l’accoltellamento, non ha risposto al gip Anna Ricci. Il pm gli contesta il reato
di tentato omicidio di cui è accusato anche un 17enne detenuto nel carcere minorile.
30
del 04/06/14, pag. 14
L’appello
Le parole non si processano, si liberano.
Il 5 giugno si terrà a Torino l’udienza preliminare del processo che vede Erri De Luca
imputato per il reato di istigazione a delinquere per aver pubblicamente manifestato la
propria contrarietà ad un’opera ritenuta inutile e la solidarietà alla lotta NO TAV.
Raggiunge così il suo apice il processo di criminalizzazione di un movimento avviato dalla
Procura di Torino che arriva ormai a colpire anche coloro che, esercitando un diritto
costituzionalmente garantito, esprimono solidarietà e vicinanza alla popolazione valsusina
che da anni resiste, nell’interesse collettivo, contro l’avanzamento di una grande opera
inutile e insensata.
Si arriva al punto di evocare il reato di opinione, di fascista memoria, mettendo alla sbarra
le opinioni di uno dei migliori poeti italiani e calpestando il diritto di manifestazione del
pensiero, sancito dall’articolo 21 della Costituzione.
Tramite la minaccia dell’azione penale si vuole impedire il diritto alla libera espressione del
dissenso e della disobbedienza civile.
Crediamo che il diritto di libertà e la tutela dell’ambiente costituzionalmente garantiti
valgano per tutti, e che tutti debbano essere tutelati.
Le idee e le parole, anche se disobbedienti, non possono essere processate.
Liberiamo le parole. In occasione dell’inizio del processo leggiamo tutti insieme le parole di
Erri: davanti al Tribunale di Torino, nelle piazze italiane, nelle librerie, dovunque ci
troviamo.
Primi firmatari:
Ascanio Celestini (artista); Fiorella Mannoia (cantautrice); Wu Ming (collettivo di scrittori);
Fabio Geda (scrittore); Ugo Zamburru (psichiatra); Luca Rastello (giornalista); Andrea Doi
(giornalista); Fabrizio Gatti (giornalista); Loredana Lipperini (giornalista); Haidi Gaggio
Giuliani; Fulvio Vassallo Paleologo (docente universitario); Maria Attanasio (scrittrice);
Antonella Cilento (scrittrice); Peppe Lanzetta (scrittore); Alex Zanotelli; Isa Danieli (attrice);
Titti Marrone (giornalista); Francesco Durante (giornalista); Luciano D’Alessandro
(fotografo); Ugo Mattei (docente); Pino Petruzzelli (scrittore, attore e regista); Luca Mercalli
(metereologo); Raffaele K. Salinari (terre des hommes); Patrizio Gonnella (antigone);
Tommaso Di Francesco (il manifesto).
31
INFORMAZIONE
del 04/06/14, pag. 4
Rai, il mistero buffo dello sciopero
Cavallo pazzo. La commissione di garanzia dice no allo sciopero del servizio
pubblico l'11 giugno. Cgil e Uil insistono ma Bonanni si dissocia e l'Usigrai ci pensa
di Micaela Bongi
I 150 milioni si allontanano dalle casse di viale Mazzini con il sì delle commissione bilancio
e finanze di palazzo Madama all'articolo 21 del decreto Irpef. Ma nel frattempo nella
vicenda del prelievo deciso dal governo sul canone Rai del 2014 sono già precipitate
tensioni e polemiche che poco hanno a che fare con la spending review imposta dal
governo all'azienda. E anche il futuro della tv pubblica diventa campo di battaglia nella
guerra che Matteo Renzi ha dichiarato ai sindacati.
Mentre l'Usigrai, il sindacato dei giornalisti, continua a tirare il freno a mano rispetto allo
sciopero dei dipendenti proclamato per l'11 giugno, la segretaria generale della Cgil
Susanna Camusso non arretra: «Noi insistiamo, le vertenze si fanno così. È grave
sostenere che lo sciopero è umiliante. Qualunque controparte dovrebbe sapere che è una
cosa normale. Se cambiano le cose, siamo pronti a discutere, ma si deve dire che il
decreto non si fa così e si apre un confronto». E Camusso elenca quello che non va nel dl:
la vendita di Raiway, che «mette a rischio il sistema paese»; il mancato riconoscimento
alla Rai di una quota del canone, che è una tassa di scopo; la questione delle sedi
regionali, «patrimonio da difendere». L'emendamento dei relatori approvato ieri prevede
che in ogni regione ci siano una sede giornalistica e strutture produttive, lasciando
comunque all'azienda libertà organizzativa. La tv pubblica è esclusa dai tagli previsti in
generale per le società partecipate, ma si prevede la cessione di quote di Raiway. Il taglio
dei 150 milioni resta appunto confermato e anche il segretario generale della Uil, Luigi
Angeletti, in conferenza stampa ieri mattina tuonava: «Il governo chiede una tangente alla
Rai».
Ma nello scontro entra a gamba tesa la commissione di garanzia sugli scioperi nei servizi
pubblici essenziali: quello dell'11 giugno sarebbe «illegittimo», sentenzia, perché l'Usb
aveva già comunicato per il 19 un'astensione dal lavoro nello stesso settore, e dunque non
verrebbe rispettata la regola che prevede un intervallo di 10 giorni tra iniziative analoghe.
Sciopero confermato, ripetono però le sigle sindacali che hanno indetto quello contro i tagli
alla Rai, perché, scrivono al garante, «non risulta che l'Usb abbia una consistenza
rappresentativa tale integrare la violazione» della normativa.
Ma i sindacati non sono più compatti. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni,
da giorni cercava di evitare lo scontro frontale e dunque ieri non ha partecipato alla
conferenza stampa delle altre sigle, per poi chiedere un ripensamento dopo l'altolà del
garante. Motivo: «Non trasformare questa vertenza in un inutile braccio di ferro dal sapore
politico con il governo». E infine a sera la Cisl si sfila definitivamente dallo sciopero. Anche
l'Usigrai continua a «riflettere» sulla protesta, salutando con favore le aperture del governo
che in realtà va avanti su un suo binario. Perché a parte le rassicurazioni sulle sedi
regionali quanto richiesto dai giornalisti (l'anticipo di due anni della concessione di servizio
pubblico, la riforma del canone e l'avvio di una discussione su una riforma di sistema) era
già previsto. E il sottosegretario Giacomelli l'altro giorno avvertiva: discussione sì, ma «non
ci faremo dettare l'agenda dai sindacati». L'Usigrai aprirà una nuova consultazione sullo
sciopero confermando allo stesso tempo contrarietà al taglio di 150 milioni, rispetto al
quale è stato presentato il parere di incostituzionalità del professor Alessandro Pace.
32
Nel dibattito sciopero sì sciopero no, dopo aver lanciato l'allarme sul rischio di tagli
all'offerta e ai dipendenti, il dg della Rai, Luigi Gubitosi ora si dice contrario perché anche
l'azienda deve «partecipare al cambiamento», «bisogna ringiovanirla» e insomma,
«faremo il sacrificio». Mentre per il presidente della commissione di vigilanza, il 5 Stelle
Roberto Fico, lo sciopero «è giusto» perché Renzi «tenta di svendere i ponti Rai», ma
«andava fatto prima per contrastare l'ingerenza della politica». In questa vicenda piena di
contraddizioni, i 5 Stelle sono in difficoltà: avendo accettato al grido di 'fuori i partiti dalla
Rai' la presidenza della commissione deputata a lottizzare, Renzi ha gioco facile nello
scippare ai grillini anche questa battaglia. E così Fico sale sul carro della riforma: «Va
assolutamente fatta». Oggi la vigilanza Rai ascolterà che che hanno da dire la presidente
di viale Mazzini, Anna Maria Tarantola, e il cda.
del 04/06/14, pag. 8
Rai, sindacati spaccati la Cisl non sciopera
più Lo stop del Garante
Cgil e Uil avanti: “Il governo così chiede il pizzo” Il Senato salva le sedi
regionali, i tagli però restano
ROMA .
Lo sciopero Rai dell’11 giugno è “illegittimo” a detta dell’Autorità di garanzia per gli
scioperi. Ma Cgil e Uil confermano lo sciopero, contestano le ragioni date dall’Authority
(l’11 sarebbe una data troppo vicina all’astensione del 19 giugno dalla Usb). Il fronte della
protesta però si spacca: la Cisl non ci sta, l’Usigrai traballa. In mattinata, al Teatro delle
Vittorie, i leader di Cgil e Uil tuonano contro Renzi. «Grave che si definisca umiliante uno
sciopero» attacca Susanna Camusso, convinta che il decreto Irpef «metta a rischio la Rai
nella dimensione di Servizio pubblico e di grande impresa del Paese». Per Luigi Angeletti
«Renzi si comporta come un pessimo ad dell’azienda pubblica, ha preso una cantonata».
Di più: «Il prelievo di 150 milioni sono il “pizzo”, la tangente chiesta alla Rai».
Un tono esagerato per Ernesto Magorno (Pd) che vuole le «scuse» da Angeletti: il
linguaggio sarebbe «offensivo per le vittime della mafia e della malavita».
Raffaele Bonanni, segretario Cisl, prende le distanze, coglie al volo la decisione del
Garante per evitare di «bloccare la Rai con uno sciopero».
Sulla polemica interna ai sindacati si infila Roberto Fico (M5s), presidente della Vigilanza:
«Difendo lo sciopero della Rai, nella parte in cui si vuole difendere l’infrastruttura pubblica
di Raiway». Ma riconosce che
l’azienda «va riformata, trasformata: deve cambiare il numero delle testate giornalistiche
perché sono troppe, bisogna rivedere la forma di governance, si devono ridurre gli appali
esterni che ammontano a 1,3-1,4 miliardi l’anno». Mentre in Italia si discute di un taglio di
150 milioni in Inghilterra la Bbc si appresta a licenziare 600 persone (su 8mila dipendenti)
tra giornalisti e tecnici. Sarà anche per questo che ieri il sindacato dei giornalisti Rai
(Usigrai), pur mantenendo la «contrarietà» in merito ai tagli che incombono sull’azienda,
ha evidenziato che nell’azione di governo ci sono fatti positivi come «l’anticipo di 2 anni
della Concessione del servizio pubblico, la riforma del canone per recuperare l’evasione,
la conferma di redazioni Rai in ogni regione». Passaggi che servono ad aprire un utile
confronto. Anche se in Commissione Bilancio, al Senato, il “deprecato” taglio di 150 milioni
viene confermato, con la possibilità di cedere quote di Raiway e di dismettere Rai World.
33
Oggi il presidente Rai, Anna Maria Tarantola e i consiglieri Rai, saranno ascoltati in
Vigilanza sulla spending review Rai.
( le. pa.)
del 04/06/14, pag. 1
Rai, chi spara sulla croce rossa
Norma Rangeri
Ci vuole coraggio, mentre l’Istat sforna l’ennesimo bollettino di guerra sui numeri choc
della disoccupazione italiana, a convocare uno sciopero della Rai contro Renzi, anzi,
contro Matteo. Per capirlo basta accendere un telegiornale o un talk-show a caso. Senza
bisogno di alcuna riforma, siamo al Telegiornale Unico del Pd. Già durante la campagna
elettorale, e ancor di più dopo i clamorosi risultati delle elezioni europee, è esplosa
l’entusiasta adesione del servizio pubblico verso il “partito della nazione”, fino ai toni di
vibrante commozione con cui i tg commentavano il “bagno di folla” del capo del governo
nella giornata del 2 Giugno.
Un conformismo asfissiante che, fossimo nei panni del popolare presidente del consiglio,
cercheremmo di contenere consigliando al fan-club di Saxa Rubra di placare questa onda
berlusconiana di ritorno. E infatti dopo la proclamazione della protesta sindacale, nel
volgere di qualche ora, sono comparsi i distinguo, i dubbi, le dissociazioni, l’apertura a un
supplemento di riflessione da parte dello stesso sindacato dei giornalisti, che ora deve fare
i conti con il divieto pronunciato ieri dalla commissione di garanzia sugli scioperi che dice
no alla data dell’11 giugno.
Le ragioni dello sciopero sono note: la richiesta di Palazzo Chigi di fare cassa per 150
milioni, approvata ieri dalle commissioni Bilancio e Finanze del senato, insieme all’esplicita
richiesta di cessione di quote importanti di RayWay (i trasmettitori di frequenza). Soldi
subito per coprire le necessità del decreto Irpef e dismissione di una parte dell’asse
strategico RayWay (da custodire invece gelosamente in mano pubblica, materia prima per
tutti i nuovi servizi della banda ultralarga).
Ciascun attore ha fatto la sua parte in commedia. Il governo ha sparato sulla crocerossa,
proseguendo nella linea vincente di prosciugare l’acqua al mulino grillino, profittando del
discredito che colpisce un’azienda sfinita dalla lottizzazione, omologata alla tv
commerciale, affidata al lavoro di migliaia di precari. Il direttore generale ha minacciato
“lacrime e sangue” anziché controbattere con un piano a medio termine di risparmi,
doverosi in un’azienda dove i generali sono più dei soldati semplici, e tra consulenze,
appalti, collaborazioni esterne siamo più vicini a una catena feudale che al modello della
più grande azienda culturale del paese. Il presidente-cittadino della Vigilanza anziché
applaudire ai tagli contro l’odiata casta, come Grillo comanda, promette di unirsi alla
protesta. Infine il sindacato che non ha mai scioperato quando un solo padrone governava
la Rai in simbiosi con le sue televisioni private, mettendo a rischio, non solo il servizio
pubblico, ma la democrazia del paese. Salvo minacciare di incrociare le braccia di fronte a
una spending dura ma sostenibile, d’accordo tutte le sette sigle sindacali e tutte le
categorie, dalle sgretarie ai dirigenti, ai giornalisti.
Questa commedia conferma la funzione di sismografo della Rai nei passaggi cruciali della
politica nazionale, quando il cavallo deve acconciarsi a portare il peso del nuovo cavaliere.
Ma tutto sarà stato utile se sarà servito ad aprire una discussione pubblica su una radicale
riforma dell’azienda e del prodotto.
34
del 04/08/14, pag. 14
Il punto Rai
Vincenzo Vita
Attorno alla questione Rai – neanche troppo oscuro oggetto del desiderio — si sta
giocando una partita che supera di gran lunga i confini dell’azienda. Una prova di forza, ad
alto contenuto simbolico, decisa dal governo. Del resto, ora il presidente del consiglio è
sospinto dai venti degli dei e il dibattito (non certo solo sulla Rai) sta assumendo le
sembianze del pensiero unico. Attenzione, però, a non strafare. I promotori dello sciopero,
vale a dire le organizzazioni sindacali e non solo la componente giornalistica Usigrai,
saranno pure «brutti, sporchi e cattivi», come un certo neoconformismo vuole dipingerli,
ma pongono problemi seri. Pesa la decisione della Commissione di vigilanza sugli
scioperi, certo. Da capire.
Ma la grande parte dei lavoratori della Rai guadagna cifre assai modeste. I privilegiati,
dunque, sono una minoranza, peraltro ascrivibile alle logiche del divismo, dell’ossessiva
ricerca dell’ascolto, al connubio tra programmi e pubblicità. Ciò non toglie che la
quaresima è indispensabile, dopo anni di sprechi e di spese assurdi, di assurdi appalti
dispendiosi: altra faccia di quel «duopolio» Rai-Mediaset, che per anni è stato l’approdo e
l’isola felice del sistema politico-clientelare italiano.
All’origine dei mali della Rai sta proprio quel tempo, in cui la concorrenza (apparente più
che reale) faceva lievitare i costi, creando un indotto graditissimo a pezzi di partito, a lobby
fameliche, ai salotti della «grande bellezza». E chi era contro era, per ciò stesso, un
eretico marginale. Complice il conflitto di interessi sempre determinante, ogni tentativo di
cambiamento è stato affossato.
Il rosario delle leggi affossate è lungo. Ben venga, allora, un vento innovatore. Con
qualche punto fermo. Innanzitutto, il diritto di sciopero è sacrosanto e suscita un retrogusto
amaro assistere alla gara di queste ore a mostrarsi fedelissimi al «buon governo».
L’eccesso di zelo è sempre sospetto. Inoltre, va ricordato – non rimosso — il punto da cui
origina la vertenza. Con un atto di dubbia costituzionalità, come ben sottolineato dalla
memoria preparata al riguardo da Alessandro Pace, il taglio delle risorse è stato inserito in
un decreto legge, il n.66 sull’Irpef. Sui principi non si transige. Anche un esecutivo guidato
da Lenin e composto da Mao, Ho Chi Minh e Rosa Luxemburg non l’avrebbe scampata.
Se, poi, l’avesse fatto Berlusconi, che avrebbero detto e scritto tanti commentatori?
Perché non è stato proposto un disegno di legge centrato su tre punti: indipendenza della
Rai dai partiti e dai poteri esterni, regolazione del conflitto di interessi, abrogazione della
legge Gasparri che santificò il duopolio?
Il governo gode di un enorme favore popolare e di una altrettanto estesa simpatia
mediatica. Davvero sarebbe augurabile che l’incidente si chiudesse, ma con
l’individuazione di un impegnativo tavolo di confronto tra governo, sindacati e azienda.
Il sottosegretario Giacomelli ha fatto finalmente un’apertura su uno dei nodi qualificanti
della vertenza: la conferma anticipata del rinnovo della «Convenzione Stato — Rai». Solo
così, tra l’altro, si può immaginare una strategia, ivi compresa la questione di Rai-Way,
che oggi – in assenza di un piano globale — rischia di essere una mera e suicida
operazione di cassa. Altro ci vuole, però. Una visione. Negli anni Sessanta in Gran
Bretagna fu istituita una commissione presieduta da Harry Pilkington per riformare la Bbc.
Non si può fare lo stesso in Italia? O è in corso una prova muscolare preventiva?
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ECONOMIA E LAVORO
del 04/06/14, pag. 2
Mai così tanti senza lavoro tra i giovani si sale
al 46% giù anche i contratti precari
Sono tre milioni e mezzo nei primi tre mesi, il 13,6 per cento
Confindustria: strisciamo sul fondo. Europa a rischio deflazione
LUISA GRION
ROMA .
Tre milioni e mezzo d’italiani a spasso, in cerca di un lavoro che non trovano, e un tasso di
disoccupazione da record che vola al 13,6 per cento e che fra i giovani raggiunge
l’imbarazzante vetta del 46. Ecco gli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro nei primi tre
mesi dell’anno: una sequenza di numeri mai così negativi da trentasette anni a questa
parte (l’istituto di statistica fa partire le serie storiche dal 1977) che segnala una sempre
più netta spaccatura nel Paese.
Fra Nord e Sud, infatti, il divario continua ad allargarsi: guardando ai dati grezzi (quindi
non ancora depurati dai giorni di mancato lavoro) l’Istat fa notare che nel primo trimestre
dell’anno la disoccupazione giovanile — i 739 mila ragazzi fra i 15 e 24 anni che non
hanno un lavoro pur cercandolo — è arrivata al 46 per cento (stabile rispetto al precedente
trimestre), ma quel dato — pur se da «ripulire» — nel Mezzogiorno vola al 60,9 per cento
(se invece si considerano le cifre destagionalizzate riferite ad aprile, abbiamo una
disoccupazione generale del 12,6 e una giovanile del 43,3).
Cifre allarmanti, lo dicono tutti. Dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi — che parla
di un livello «veramente preoccupante» e assicura che «stiamo strisciando sul fondo» —
ai sindacati, che fanno notare l’aumento delle diseguaglianze (Cgil), invitano a rilanciare gli
investimenti piuttosto che a modificare le norme sul lavoro (Cisl) e concludono che il 2014
non sarà l’anno della svolta (Uil). Né migliora il quadro il fatto che il ministro dell’Economia
Pier Carlo Padoan abbia precisato che «la crescita è molto debole».
Dietro ai tassi record c’è l’aumento degli scoraggiati, che sfiorano i 2 milioni e dei neet (i
giovani under 30 che non studiano, non lavorano, non fanno formazione): ormai 2 milioni e
442 mila, in crescita del 4,8 per cento rispetto allo scorso anno. Il Paese, dunque, è fermo
e sarà importante capire, dalle prossime rilevazioni, se il decreto del lavoro firmato dal
ministro Poletti avrà smosso qualcosa.
Dai dati disponibili va detto che risultano in calo sia i contratti a tempo indeterminato (fra il
primo trimestre 2014 e lo stesso periodo del 2013 sono 169 mila in meno, in calo dell’1,4
per cento) che quelli a termine (66 mila in meno, in calo del 3,1), cui va ad aggiungersi la
contrazione delle collaborazioni (meno 21 mila, in calo del 5,5 per cento).
In questo quadro, il rimbalzo della produzione industriale segnalato dal Centro studi
Confindustria — a maggio data all’1,2 per cento in crescita rispetto allo stesso mese del
2013 — non può bastare a risollevare gli animi. Né è positivo il rischio deflazione che
continua a volteggiare sull’Eurozona: secondo le prime stime Eurostat sul mese di maggio
il costo della vita, nei 18 paesi dell’area, continua a diminuire (0,5 su base annua rispetto
allo 0,7 di aprile).
L’andamento dei prezzi — complice il debito pubblico e privato di molti Paesi, i consumi
fermi e il credito bancario ancora intasato — viaggia così da mesi a meno della metà
dell’obiettivo vicino al 2 per cento fissato dallo statuto della Banca centrale europea.
36
In attesa di conoscere le decisioni in proposito della Bce, le associazioni dei consumatori
Adusbef e Federconsumatori chiedono un «piano straordinario per il lavoro», per
contrastare livelli «spaventosi». Confindustria, con il presidente Squinzi rilancia: anche per
lui «serve un piano straordinario, come nel dopoguerra».
del 04/06/14, pag. 2
Precari choc, mai così tanti
Roberto Ciccarelli
Istat. Record storico della disoccupazione: nel primo trimestre 2014 tra i
giovani è al 46%, quella generale ha raggiunto quota 13,6%
Disoccupati come nel 1977 quando i senza lavoro erano il 7% e l’Istat ha iniziato a redarre
le serie storiche trimestrali. Per l’Istituto Nazionale di statistica oggi i senza lavoro sono il
13,6%.
Tra i giovani italiani tra i 15 e i 24 anni la quota dei senza lavoro sul totale di quelli
occupati, o in cerca di un’attività remunerata, è aumentata al 46% ad aprile, 0,4 punti
percentuali in più rispetto a marzo, +3,8% in un anno. Non va meglio l’analisi dei dati
destagionalizzati e più aggiornati, forniti ieri dall’Istat: il tasso di disoccupazione tra i
giovani under 25 ad aprile era al 43,3% I senza lavoro hanno toccato l’apice da 37 anni a
questa parte nelle regioni meridionali. Su un campione di 685 mila persone, nel primo
trimestre 2014 è stata superata la soglia choc del 60,9%. Per l’Istat sono 347mila i ragazzi
in cerca di lavoro nel Sud, pari al 14,5% della popolazione nella stessa fascia d’età. Per
capire la rilevanza, traumatica, di questo aumento incontrollato della disoccupazione da 11
trimestri consecutivi basta fare un confronto con i dati continentali. Secondo Eurostat il
tasso dei giovani senza lavoro in Europa si è attestato al 23,5% in calo rispetto al 23,9%
del 2013. Nell’Unione europea a 28 è al 22,5% contro il 23,6% dell’aprile precedente. La
Grecia con il 56,9%, la Spagna con il 53,5% e la Croazia con il 49% precedono l’Italia. Li
raggiungerà presto visto che la progressione dell’ultimo anno è stata imponente.
Sono questi gli effetti di un’economia in stagnazione che nel primo trimestre 2014 ha
prodotto una crescita negativa dello 0,1% e nei prossimi anni non produrrà occupazione
stabile. Il nuovo record che ha cancellato il timido segnale positivo emerso a marzo,
dev’essere letto come un epifenomeno della jobless recovery, cioè della ripresa senza
occupazione. Le vittime di questo processo sono i più giovani, e i meno protetti sul
mercato del lavoro. La loro condizione non dev’essere misurata soltanto in base alle
statistiche che calcolano il numero delle forze di lavoro, ma anche su due indicatori usati a
livello europeo: i poveri al lavoro (in-work poors) e i lavoratori poveri (working poors). Oltre
ai disoccupati, ci sono anche i giovani che svolgono lavori precari o informali, non hanno
un reddito, e rientrano nella categoria dei «lavoratori potenziali». Per l’Istat nel 2013 il
totale degli «inattivi» più vicini al mercato del lavoro è arrivato a 3.205 milioni con un
incremento di 417 mila unità. Dagli ultimi dati si deduce che questa zona grigia tra il
precariato, la povertà e l’inoccupazione sta dilagando.
Questo andamento è stato riscontrato dall’Istat anche nella disoccupazione generale. Il
numero di disoccupati, pari a 3 milioni 216 mila, è calato dello 0,4% rispetto a marzo (-14
mila) ma è schizzato del 4,5% su base annua (+138 mila). Il tasso di disoccupazione resta
al 12,6%, invariato rispetto al mese precedente e in aumento di 0,6 punti percentuali nei
dodici mesi. Parliamo del 13,6% sulla popolazione attiva. Nel primo trimestre del 2014 il
numero dei senza lavoro ha raggiunto la quota 3 milioni 487mila (in aumento di 212mila su
base annua) Secondo l’Eurostat l’Italia mantiene stabilmente il terzo posto in classifica in
37
Europa dopo la Grecia con il 26,5% e la Spagna con il 25,1%. Austria (4,9%) e Germania
(5,2%) confermano che il continente è diviso a metà e che le politiche di austerità hanno
colpito a senso unico la cintura meridionale degli stati membri dell’Unione europea.
«Le indicazioni di aprile sono in linea con i dati di un’economia sostanzialmente stagnante
da metà 2013 — conferma Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma — Le
indicazioni trimestrali confermano alcuni segnali di sofferenza emersi nell’ultima
recessione, in particolare la caduta occupazionale nel segmento del tempo pieno e
indeterminato, dove si concentra la categoria dei breadwinner e il 59% dei disoccupati, di
coloro che sono senza lavoro da oltre un anno».
Plastico il commento del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: «Stiamo strisciando
sul fondo». E la pandemia peggiorerà quando il governo seguirà le «raccomandazioni»
della Commissione Ue che lunedì ha «suggerito» di fare una manovra correttiva per
rispettare i parametri del patto di stabilità. E se non sarà una manovra, nella legge di
stabilità a fine anno arriveranno i tagli alla spesa sociale pari allo 0,2% del Pil. Qualcuno li
ha calcolati in 9 miliardi di euro. All’orizzonte della legge delega, seconda parte del «Jobs
Act» ora in parlamento, non c’è un reddito di base per tutelare precari e senza lavoro. C’è
solo la «Nuova Aspi» che coinvolgerà tra anni poco più di 1,2 milioni di cassa integrati e
cocopro. Come svuotare l’oceano con un cucchiaio.
Per il ministro del lavoro Giuliano Poletti i dati sono «figli di una crisi che abbiamo alle
spalle ma che ha ancora una coda velenosa». Parole pronunciate da chi ha già escluso un
impatto significativo sull’occupazione di una riforma che porta il suo nome, ideata per
precarizzare i contratti a termine. Quella di Poletti è una seduta di auto-ipnosi, la crisi c’è,
la crescita sarà più bassa dello 0,8% indicato dal governo nel Def e non produrrà nuova
occupazione.
del 04/06/14, pag. 1/31
Il miraggio delle garanzie
TITO BOERI
NEL primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione fra chi ha meno di venticinque
anni è balzato in Italia al 46 per cento. Peggio di noi in Europa ormai fanno solo la
Croazia, la Grecia e la Spagna, dove comunque la disoccupazione giovanile è in calo.
SAPEVAMO già che le vere vittime della Grande Recessione e della successiva crisi
dell’Euro sono i più giovani. Ce lo hanno ricordato con il voto alle elezioni europee. Sono
loro che nei paesi della crisi del debito, Italia compresa, hanno dato massicciamente il voto
ai movimenti populisti. Tsipras, Front National, Movimento 5 Stelle e Podemos sono stati
spesso il partito di maggioranza relativa e, in alcune giurisdizioni, addirittura di
maggioranza assoluta fra gli under 30.
L’Europa non può permettersi di ignorare questo disagio profondo. È frutto, in gran parte,
degli squilibri fra i diversi paesi europei. Nel 2007, alla vigilia della Grande Recessione,
gran parte delle differenze fra i tassi di disoccupazione giovanile fra le regioni europee si
spiegava con le differenze nelle condizioni del mercato del lavoro all’interno dei singoli
paesi. Ad esempio, le regioni settentrionali italiane avevano più o meno gli stessi tassi di
disoccupazione della Baviera o del Noord-Holland, vicine alla piena occupazione. Oggi ciò
che demarca alta e bassa disoccupazione giovanile sono i confini nazionali e molto meno
quelli regionali. Non solo nel Mezzogiorno, ma anche in Piemonte e in Liguria la
disoccupazione giovanile è sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania è
saldamente al di sotto delle due cifre. Sono, dunque, i paesi della crisi del debito nel loro
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complesso ad essere afflitti da questa malattia, grave perché rischia di consegnarci intere
generazioni di persone destinate ad avere a lungo un rapporto molto difficile con il mercato
del lavoro.
Non può certo essere la cosiddetta Garanzia Giovani la risposta dell’Europa a questo
disagio che mina alle basi l’unione dell’Europa. È un programma che vale troppo poco (6
miliardi in due anni per l’Ue nel suo complesso) e soprattutto studiato in modo tale da far
sì che questi soldi vadano a tutti tranne che ai giovani e ai loro datori di lavoro. Le regole
per la concessione delle risorse della Youth Guarantee sono in gran parte le stesse
utilizzate per i fondi strutturali, quelle che portano a non spendere i fondi oppure a
disperderli in una miriade di piccoli progetti, che hanno costi amministrativi superiori al
valore dei servizi e dei trasferimenti monetari erogati.
Bisogna prendere atto del fatto che le politiche di coesione oggi non possono che avere
una dimensione nazionale. Bene allora permettere ai governi nazionali di utilizzare i fondi
della Youth Guarantee e gli stessi fondi strutturali per ridurre subito le tasse sul lavoro nei
paesi della crisi dell’Eurozona. Ad esempio, permettendo il pagamento immediato (
frontloading ) di almeno la metà delle risorse stanziate dal bilancio comunitario per i fondi
strutturali e destinate al nostro paese nell’esercizio 2014-2020, si avrebbero 30 miliardi per
tagliare subito le tasse sul lavoro. Perché queste misure abbiano effetto immediato, meglio
la strada degli incentivi automatici, piuttosto che i trasferimenti discrezionali.
Fondamentale, inoltre, incentivare la creazione piuttosto che la ricerca di lavoro. Non è
tanto un problema di spingere i giovani a mettersi in coda per trovare un lavoro, come
previsto da molti piani della Youth Guarantee. C’è ben poco da cercare quando il lavoro
non c’è.
Le tasse vanno ridotte per tutti, non solo per i giovani. Saranno comunque i primi a
beneficiare di una domanda di lavoro che riparte, così come sono stati i primi a pagare per
la sua caduta. I giovani saranno anche i primi a beneficiare di politiche che alleggeriscano
la stretta creditizia alle imprese, soprattutto quelle di più piccole dimensioni. Draghi ha
fatto spesso riferimento ai problemi dei giovani nei suoi discorsi istituzionali in questi anni.
Speriamo che le decisioni che verranno prese domani a Francoforte siano conseguenti
con questa sua attenzione. Non possiamo più permetterci rinvii nel sostenere in modo
diretto la domanda di lavoro delle imprese.
Il fatto che il problema dei giovani chiami in causa l’Europa non alleggerisce le
responsabilità dei governi nazionali. Ha fatto bene lunedì la Commissione Europea a
ricordare al Governo Renzi che non ha ancora attuato una riforma del lavoro. Ci ha anche
fatto capire che, qualora si facesse una vera riforma, le autorità sovranazionali e
intergovernative europee saranno disposte a concederci tempi più lunghi nel rientro del
debito. Bene utilizzare al più presto il potere contrattuale che il voto europeo ci ha conferito
in questa direzione. Anche perché non c’è tempo da perdere se non vogliamo che la
disoccupazione giovanile superi la soglia, psicologicamente devastante, del 50 per cento.
del 04/06/14, pag. 5
Catasto e semplificazione entro il 20 giugno
● Lungo incontro tra Renzi e Padoan, prime azioni concrete della delega
fiscale ● Il Bonus Irpef sarà esteso anche alle famiglie numerose
● Il problema del debito si risolve con la crescita
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L'Italia è «di fronte a un bivio: vivacchiare e crescere soltanto un po', oppure accelerare la
crescita. La differenza la fa la politica economica, è nelle mani dei policy maker decidere
dove andare». La reazione del ministro Pier Carlo Padoan al verdetto di Bruxelles sui conti
italiani non lascia spazio a dubbi. Inutile attaccarsi allo zero virgola, bisogna puntare sulla
crescita. Come dire: non accettiamo più giudizi ragionieristici sui decimali di deficit. Quello
che preoccupa il ministro non è tanto l’indebitamento e quel ritmo di avvicinamento al
pareggio, quanto l’enorme mole di debito pubblico. Se il Pil non recupera, il «rosso»
accumulato sarà ingestibile. E sarà troppo oneroso tener fede all’impegno di riduzione
fissato dal Fiscal compact. Per questo Padoan ripropone il piano privatizzazioni,
confermando operazioni pari allo 0,7% del Pil nei prossimi anni. «Ci sono già Poste e
Enav, presto arriveranno altre cessioni di qui a fine anno», dichiara il ministro parlando alla
stampa estera. Ma non saranno le vendite di Stato a risolvere il problema di fondo. Ancora
una volta (come ha già fatto più volte) il titolare dell’Economia parla del «pacchetto riforme
» come passaggio ineludibile per rilanciare la crescita.
IL COLLOQUIO
Al primo posto nel ruolino di marcia c’è la delega fiscale da attuare al più presto, come
richiesto anche da Bruxelles. Il testo prevede diverse misure sulla lotta all’evasione, e altre
molto incisive sul catasto, che rendono più equo il prelievo sugli immobili. La delega è
stata al centro di un colloquio di tre ore ieri sera a Palazzo Chigi tra Padoan e il premier
Matteo Renzi. Si è deciso di varare i primi decreti attuativi su semplificazione e catasto
entro il 20 giugno. Entro fine luglio si vareranno i decreti sulla certezza del diritto, mentre
entro settembre si affronterà il tema dell’agenda telematica. la tabella di marcia è
stringente: si ha a disposizione un anno per attuare la delega. Intanto in Senato procede
l’esame in commissione del decreto Irpef, quello sugli 80 euro in busta paga. Ieri è stato
votato un emendamento dei 5Stelle che riprende una vecchia proposta sugli affitti d’oro,
bocciata nel decreto salva- Roma. Si prevede che le amministrazioni pubbliche e gli organi
costituzionali, nell'ambito della propria autonomia, possano comunicare entro il 31 luglio
2014 il preavviso di recesso dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di
entrata in vigore del decreto. Il recesso potrà essere perfezionato dopo 180 giorni dal
preavviso. Confermato dalle commissioni anche il taglio di 150 milioni al bilancio Rai,
mentre slitta di due anni l’obbligo di pubblicare solo online (e non sulla carta) i bandi per le
gare d’appalto. Tra le altre novità approvate oggi, l'emendamento di Mauro Maria Marino,
del Pd, che riapre la possibilità di rateizzazione dei pagamenti delle cartelle di Equitalia.
«Aver ricreato le condizioni per riammettere al beneficio della rateizzazione quegli italiani
che vogliono mantenere il loro patto con lo Stato ma, avendo condizioni economiche così
difficili che glielo avevano impedito, è un segnale di speranza - dichiara Marino - Questa
misura oltretutto servirà anche allo Stato perché permetterà di fare cassa». Infine c’è
l'esclusione per il 2014 delle tassazione della quota incentivo per l'energia rinnovabile di
tipo agricolo. Ma a tenere banco ieri è stata la proposta Ncd (ancora non votata) di
estendere il bonus Irpef alle famiglie monoreddito con figli a carico. Ad annunciarlo il
relatore al provvedimento Antonio D’Alì. «Si sta ragionando su un plafond di risorse di 6070 milioni di euro - ha spiegato D’Alì - L'intervento, consentirà di realizzare l'80% di quanto
proposto da Ncd». La richiesta di Ncd prevedeva l'ampliamento del beneficio alle famiglie
monoreddito con due e con tre figli a carico, e le risorse necessarie si aggiravano intorno
ai 100 milioni. «l’estensione ci sarà» ha ribadito più volte D’Alì. Ma allo stato si è ancora al
lavoro per reperire le coperture necessarie. Il tema del potenziamento dell' Irap, altra
richiesta di Ncd, non sarà affrontato nell'ambito dell'esame del dl Irpef, ma rimandato in
sede di delega fiscale. Tra gli emendamenti accantonati c’è quello sulla fatturazione
elettronica e quello che sterilizza l'aumento al 26% della tassazione sulle rendite
finanziarie aumentando all'11,5% la tassazione sui fondi pensione.
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del 04/06/14, pag. 1/15
Lo Sblocca Lobby non serve all’Italia
Paolo Berdini
Dopo il provvedimento sul lavoro fondato sulla precarietà si apre il capitolo dello «Sblocca
Italia», l’efficace slogan coniato da Matteo Renzi al festival dell’economia di Trento. Il
premier annuncia di aver inviato una email a tutti i comuni italiani per conoscere quali
siano i progetti bloccati. Sulla base delle risposte promette di costruire, entro luglio, un
provvedimento legislativo fondato sulla «diminuzione delle autorizzazioni e sulle
limitazione dei ricorsi al Tar».
Per un primo ministro sarebbe stato più corretto sotto il profilo istituzionale aprire un
confronto con tutte le istituzioni che hanno competenze sul territorio e non solo con i
comuni. In questo modo — e per di più in un momento di grave crisi economica — si
addita all’opinione pubblica il capro espiatorio: le soprintendenze ai beni ambientali e
archeologici, ree di applicare la Costituzione, e la magistratura amministrativa. Si rischia
così di disarticolare ulteriormente la struttura dello stato messa a dura prova da vent’anni
di tagli e umiliazioni. Nessuna novità. Quando era sindaco, Renzi aveva tuonato contro il
soprintendente che si era opposto all’affitto di Ponte Vecchio per una festa della Ferrari:
un bene straordinario, patrimonio di tutta la popolazione italiana, utilizzato a fini privati. La
festa si era svolta nonostante il parere contrario del soprintendente.
Ma vediamo nel merito le opere che dovrebbero sbloccare l’Italia. Da dieci anni esiste una
potentissima lobby che piange quotidianamente sulle sventure dell’Italia bloccata dai veti e
ha fatto della guerra al Nimby il proprio motivo di vita. Corriere della Sera , Repubblica e il
Sole24ore hanno colto al volo le dichiarazioni di Renzi ed hanno subito rilanciato le
statistiche del Nimby forum. Afferma l’ultimo rapporto che delle 354 opere ferme (in media
una ogni 27 comuni, una cifra ridicola) il 63% riguardano contestazioni sul comparto
elettrico (centrali di produzione, impianti a biomasse e parchi eolici); il 28% il settore dei
rifiuti e solo il 7,6% il settore delle infrastrutture.
Il Nimby Forum è sostenuto dai colossi Enel, Edison e Terna che hanno interessi
giganteschi nello sbloccare le opere, e da altri attori come il Consorzio Venezia Nuova
(quello del Mose) che di recente ha dato elevatissima prova di rispetto della legalità
finendo in massa in galera. Questa lobby ha in mente dunque di riempire l’Italia di impianti
a biomasse e termovalorizzatori. Mentre l’Europa privilegia la formazione dei giovani e
finanzia nuovi lavori basati su tecnologie avanzate, nella riqualificazione e messa in
sicurezza dell’ambiente e delle città, noi marciamo spediti con la testa rivolta al passato.
Da venti anni saccheggiamo il territorio e l’ambiente ed è lo stesso Nimby Forum ad
ammetterlo affermando che «i numerosi no alle rinnovabili colpiscono… anche e
soprattutto i piccoli impianti i quali si sono moltiplicati anche in virtù del percorso
autorizzativo semplificato» e la soluzione proposta è quella di allentare ulteriormente la
legalità. Anche qui nessuna meraviglia: l’ultimo rapporto Nimby Forum 2012 era stato
presentato anche da Corrado Clini che di legalità si intendeva magistralmente, almeno
stando alle accuse che lo hanno colpito.
Matteo Renzi con il suo provvedimento tenta di completare lo scellerato disegno del
ventennio liberista: non attacca più (per ora almeno) la Magistratura — anche perché tra
prescrizioni brevi e cancellazione del reato di falso in bilancio ha ben pochi strumenti per
perseguire il malaffare — ma un altro fondamentale potere dello stato, quello delle
soprintendenze cancellandone ogni ruolo in totale spregio della Costituzione.
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La guerra alla burocrazia non c’entra nulla: lo «Sblocca Italia» è la continuazione della
scempio del territorio che trionfa incontrastato da venti anni. Nei prossimi mesi si aprirà
dunque uno scontro decisivo per il futuro del paese. Da un lato le lobby che hanno
contribuito alla rapina negli anni del liberismo e vogliono continuare a far festa
saccheggiando il territorio. Dall’altra tantissimi giovani e i comitati spesso senza
rappresentanza politica che tentano di costruire un futuro legato alla qualità del territorio e
anche alla semplificazione delle regole, ma nel rispetto dei poteri dello stato.
Del 04/06/2014, pag. 3
Contratti da 13 mesi e part time obbligato
Ecco la generazione dei «mille euro»
Dal 2008 a oggi 1,4 milioni di occupati in meno nella fascia di età 25-34
L’hanno definita la «Generazione mille euro», ci hanno fatto film e libri. Ma in Italia sono
tantissimi i giovani che magari avessero mille euro al mese. Devono invece accontentarsi
di paghe inferiori, spesso in nero. Quando va bene ottengono un contratto regolare, ma a
termine, sei mesi, un anno, sperando che dopo qualche rinnovo arrivi l’assunzione. Un
percorso lento, incerto, che rende più complicato metter su casa e famiglia. Basti pensare
che il 90% dei giovani fino a 24 anni vive ancora con i genitori, mentre riesce a rendersi
indipendente dalla famiglia d’origine non più del 38% di quelli tra 25 e 29 anni. Percorsi
tortuosi, fatti di anni e anni di redditi bassi e intermittenti che avranno un domani
conseguenze negative sulle pensioni calcolate col metodo contributivo. Si prenda, per fare
un esempio, il caso dei collaboratori a progetto iscritti alla gestione separata Inps: quasi
650mila, che nel 2012 hanno avuto un reddito medio di 9.953 euro lordi, meno di 830 euro
al mese. Per capire che cosa è successo negli ultimi sei anni, da quando è cominciata la
crisi mondiale, partiamo da alcuni dati Istat che illustrano come il lavoro sia diventato
scarso. Nel 2008 gli occupati nella fascia 15-34 anni erano 7,1 milioni. Nel primo trimestre
del 2014 sono scesi a 5 milioni. In altre parole ci sono più di 2 milioni di giovani in meno a
lavorare rispetto a sei anni fa, di cui solo 900 mila si giustificano col calo della popolazione
in questa fascia d’età (13,2 milioni nel 2013). Il dato diventa forse ancora più drammatico
restringendo l’osservazione alla fascia 25-34 anni, escludendo cioè tutti coloro che in
teoria potrebbero essere impegnati nello studio. Nel 2008 gli occupati in questa fascia
erano 5,6 milioni, nel primo trimestre di quest’anno sono scesi a 4,2 milioni: 1,4 milioni in
meno in sei anni. Come dice il Rapporto annuale dell’istituto di statistica, «sono i giovani i
più colpiti dalla crisi». «Nel periodo 2008-2013 il tasso di occupazione tra i 15 e i 34 anni
cala in Italia di 10,2 punti percentuali attestandosi al 40,2%». Cioè mentre prima della crisi
avevano un lavoro più di 50 giovani su 100 adesso sono solo 40 su 100. Con forti
differenze tra il Nord, dove ha un’occupazione un giovane su due, e il Sud dove lavora
solo uno su quattro. Si difendono meglio i laureati, dice l’Istat, ma spesso devono
«accettare lavori meno qualificati rispetto al proprio titolo di studio». Anzi, talvolta
nascondono il possesso della laurea per ottenere il posto. Il lavoro scarseggia e, quando
lo si trova, è quasi sempre a tempo determinato. «Nel 2013 l’incidenza di forme non
standard tra i nuovi occupati è pari al 68,8%: su 100 nuovi occupati nel primo trimestre
2013, circa 50 trovano un impiego atipico, 19 un lavoro parzialmente standard (per
esempio, part time, ndr. ) e soltanto 31 un’occupazione standard». La parte del leone la
fanno i contratti a termine, in genere di breve durata: 13 mesi in media nel 2013, con poco
più della metà dei rapporti di lavoro che dura meno di un anno. Inoltre, «sono 527 mila gli
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atipici che svolgono lo stesso lavoro da almeno cinque anni» intrappolati in una
successione di contratti brevi. Nel periodo 2012-2013 il 56,4% degli atipici, passato un
anno, non aveva trovato ancora un lavoro stabile. A stabilizzarsi è riuscito solo il 16,5%
mentre era il 24% nel periodo 2007-2008. E il 21,8% è finito addirittura nella
disoccupazione contro il 16,1% nel periodo pre-crisi. Va molto forte anche il part time che
coinvolge un milione 131 mila giovani fino a 34 anni, ma nei tre quarti dei casi l’orario
ridotto non è una scelta, bensì l’unica possibilità di lavorare.
Accade spesso nei call center. Che oggi scioperano. Nel settore lavorano circa 80 mila
addetti, molti dei quali giovani. Oggi in migliaia manifesteranno a Roma. Ci sarà anche il
segretario della Cgil, Susanna Camusso. «Si tratta di una generazione — dice Michele
Azzola, segretario nazionale Slc-Cgil — che quando è entrata, circa 10 anni fa, era
appena laureata. Adesso hanno 35-40 anni, spesso sono sposati e con famiglia e quello
che doveva essere un lavoretto è diventato con gli anni spesso l’unica fonte di
sostentamento». I sindacati chiedono un miglioramento delle condizioni di lavoro e dei
salari, danneggiati da una concorrenza sleale di grandi imprese che lavorano all’estero,
dall’Albania all’India, dove il costo del lavoro è bassissimo. Da noi invece il settore è
polverizzato in 2.270 aziende. Diecimila lavoratori, dicono Cgil, Cisl e Uil, rischiano il
posto, se il governo non metterà fine alle gare d’appalto al massimo ribasso e non frenerà
la delocalizzazione. È solo l’ultima puntata di una telenovela che attende un finale
migliore. Il governo Renzi ha risposto all’emergenza giovani con la liberalizzazione dei
contratti a termine (che fa infuriare la Cgil) convinto che se si consente alle aziende di
assumere liberamente per tre anni l’occupazione aumenterà. Ci sarebbe poi una grande
opportunità: il programma europeo Garanzia Giovani, finanziato con 1,5 miliardi per dare
ai giovani un’opportunità di formazione o di lavoro entro tre mesi dalla conclusione del
ciclo di studi o dalla perdita di un precedente lavoro. Anche a causa del cambio di governo
l’Italia è partita in ritardo e con l’handicap di un difficile coordinamento tra ministero del
Lavoro e Regioni che hanno la responsabilità di attuare il piano. Ma sarebbe
imperdonabile sprecare anche questa occasione.
Del 04/06/2014, pag. 5
Rinvio sul bonus alle famiglie numerose
Comuni ritardatari, così la Tasi a ottobre
Andrea Ducci
Slitta il pagamento della Tasi. Ieri in tarda serata il governo ha presentato un
emendamento al decreto Irpef per rinviare il versamento dell’imposta comunale sui servizi
indivisibili. Il rinvio è fissato a ottobre (la data esatta sarà stabilita oggi). Sul fronte
dell’allargamento dei beneficiari del bonus da 80 euro resta, invece, irrisolta la sfibrante
trattativa per garantire il beneficio fiscale anche alle famiglie monoreddito con più figli.
L’estensione della platea dei destinatari del credito di imposta previsto dal decreto Irpef
continua a infrangersi sui dubbi del governo. A dispetto dell’impuntatura da parte del
Nuovo centrodestra, che rivendica il bonus per le famiglie, la riunione in tarda serata al
Senato tra i relatori del decreto, la maggioranza e il governo non ha sciolto il problema
delle coperture. Inizialmente l’introduzione del «fattore famiglia», perorata dal partito di
Angelino Alfano, era stimata in circa 90 milioni di euro. Ma ieri il relatore, Antono D’Alì
(Ncd), annunciando l’estensione del beneficio fiscale ha aggiunto «stiamo ragionando su
un plafond di 60-70 milioni». La modifica riguarderebbe in particolare i nuclei familiari con
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più figli e un reddito netto fino a 2.600 euro al mese. Ma, stante l’impasse delle ultime ore,
per i dettagli sull’esatta platea dei destinatari occorrerà attendere la valutazione attesa per
questa mattina da parte delle commissioni Bilancio e Finanze del Senato. Con
l’eventualità, sempre più probabile che, se il governo non dovesse cedere alle istanze
dell’Ncd, potrebbe tutto slittare alla prossima legge di Stabilità. Sul versante delle
modifiche al decreto non è invece previsto alcun emendamento per ritoccare verso l’alto il
taglio all’Irap destinato alle imprese, che resterà perciò al 10%. Una sforbiciata
dell’Imposta regionale sulle attività produttive potrebbe, secondo D’Alì, essere discusso
nell’ambito della delega fiscale.
La discussione sull’estensione del bonus ha catalizzato a lungo i lavori delle commissioni
Bilancio e Finanze del Senato, che intanto ieri hanno approvato alcuni emendamenti. La
proposta depositata da Salvatore Tomaselli (Pd), ha stabilito il rinvio al 15 settembre del
termine per il versamento dei canoni per le concessioni balneari. Una proposta
emendativa dei relatori D’Alì e Cecilia Guerra (Pd) ha stabilito maggiore elasticità nei tagli
imposti alle società partecipate dallo Stato. In pratica, le riduzioni dei costi operativi del
2,5% nel 2014 e del 4% nel corso del 2015 avverranno con modalità diverse e meno
stringenti rispetto a quanto stabilito finora nel decreto. L’unica certezza è che gli obiettivi di
risparmio dovranno restare invariati. Un altro emendamento depositato dal Pd consente ai
contribuenti decaduti dal beneficio della rateizzazione fiscale di Equitalia di essere
riammessi ai pagamenti dilazionati. In dettaglio, è previsto che i contribuenti che non
hanno rispettato le scadenze delle cartelle esattoriali potranno di nuovo beneficiare della
rateizzazione, a patto che la violazione sia precedente al 22 giugno del 2013. In questo
caso, una volta ripresentata la domanda di pagamento a rate sarà possibile saldare il
debito con il fisco al massimo entro 72 mesi.
Ieri intanto mentre proseguiva l’esame del provvedimento al Senato da parte delle
commissioni, in vista dell’arrivo in aula slittato a questa mattina, il premier, Matteo Renzi,
ha avuto un lungo incontro con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. L’incontro è
servito a rivedere in dettaglio la delega fiscale arrivata dalle Camere, che in base ai piani
di Renzi dovrebbe vedere i primi decreti applicativi entro il mese di giugno. Nel
provvedimento ci sono, per esempio, misure come l’annunciato modello 730 precompilato
e l’accorpamento delle scadenze fiscali. L’obiettivo è la semplificazione.
del 04/06/14, pag. 6
L’Ue: “Alitalia resti europea” Governo e
azienda rassicurano “Malpensa sarà
rafforzata”
Nord mobilitato contro l’ipotesi di lasciare i soli voli merci Lupi: con
l’Expo raddoppio destinazioni. Esuberi a 2.500
LUCIO CILLIS
ROMA .
Bruxelles chiede ufficialmente chiarimenti sulla governance di Alitalia. La nuova
compagnia pronta a cadere tra le braccia di Etihad, per la Ue «deve restare in mani
europee». Non solo. Nello stesso giorno un nuovo caso Malpensa torna ad agitare
le acque dell’accordo: è bastato un accenno fatto da una fonte anonima alla possibile
“vocazione cargo di Malpensa”, che secondo indiscrezioni sarebbe nei piani del vettore
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arabo, a riaccendere le polemiche sull’hub soprattutto in vista dell’Expo. Il Nord si è subito
mosso compatto a difesa dell’aeroporto e degli 11 voli intercontinentali a marchio Alitalia
che partono ogni settimana. Ma in serata è stata la stessa azienda a smentire le
indiscrezioni. Non solo le voci sono infondate ma, a detta del vertice del vettore romano,
Malpensa sarà rafforzata sia per passeggeri che per merci e soprattutto o in vista
dell’evento del 2015 con nuovi voli su Shanghai e Abu Dhabi: «Alitalia smentisce
categoricamente la notizia di una qualsivoglia volontà di chiudere o ridurre le sue attività
all’aeroporto di Milano Malpensa — ha spiegato l’azienda — e ribadisce invece
l’intenzione, nell’ambito delle trattative per l’ingresso di Etihad in Alitalia, di rafforzare la
presenza della compagnia nell’aeroporto di Malpensa attraverso una crescita dell’attività
cargo e un incremento dei voli intercontinentali anche in occasione del prossimo Expo». In
campo, a difesa dell’accordo e del rilancio di Malpensa, è sceso pure il ministro Maurizio
Lupi: «Sono stupito dai commenti sul piano industriale per Alitalia da parte di molti che
dimostrano di non averlo letto e inseguono voci che sembrano dettate da chi non vuole
che l’accordo con Etihad vada in porto. Faccio solo una domanda a tutti: passare da 11
frequenze settimanali a 25, più che raddoppiando i voli, vuol dire ridimensionare Malpensa
o rilanciare? Malpensa e Fiumicino sono i due grandi hub su cui punta il piano industriale
di Alitalia/Etihad. Da questo accordo può solo venire sviluppo per tutto il sistema
aeroportuale italiano».
Di allarme sociale invece parlano i sindacati in risposta alle dichiarazioni del ministro del
Lavoro Giuliano Poletti che ha parlato di circa «2.500 esuberi» in Alitalia. I sindacati,
compatti non ci stanno e in attesa del piano industriale, lanciano messaggi durissimi e
minacciano di passare all’azione nei prossimi giorni. E proprio per affrontare questo
passaggio al meglio e mettere a punto col governo alcuni aggiustamenti richiesti nella
lettera giunta domenica sera a Fiumicino da Abu Dhabi, il vertice di Alitalia è andato ieri al
ministero dell’Economia. Sarà però decisiva la partita che si dovrà giocare in Europa, il
primo di una certa rilevanza che coinvolga una linea aera di rango dell’Ue e un compratore
in espansione come quello di Abu Dhabi. Ieri il portavoce del commissario ai Trasporti
Siim Kallas ha detto con estrema chiarezza che «la compagnia aerea deve non solo avere
una proprietà europea di maggioranza, ma il suo controllo deve restare in mani europee».
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