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RASSEGNA STAMPA mercoledì 4 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da GreenPlannerMagazine.it del 04/06/14 Premio Impatto Zero per le buone pratiche green dei cittadini Di Bartolo Gallesi 3 giugno 2014Pubblicato in: Eventi Condividi questo articolo su: Condividi su Google Plus Condividi su Facebook Condividi su Twitter Condividi su LinkedIn Condividi su Pinterest Condividi via e-mail premio impatto zeroSi aprono il 5 giugno, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, le iscrizioni alla quarta edizione del Premio Impatto Zero, iniziativa di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative: scelte di vita e comportamenti ecologicamente virtuosi che riducono lo sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e contribuiscono a diffondere la cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita della comunità. Nato a Padova nel 2011 e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è promosso e organizzato da Arci, con il contributo di AcegasAps, società del Gruppo Hera, in collaborazione con Legambiente Nazionale, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno, Confcooperative Padova, e con il patrocinio di Expo Milano 2015, Ministero dell’Ambiente e Comune di Padova. C’è tempo fino al 30 settembre per candidare il proprio progetto o l’azione virtuosa e green, iscrivendosi online all’iniziativa. Un focus specifico sarà dedicato quest’anno alle pratiche di consumo collaborativo e condiviso che vedono sempre maggiore adesione e diffusione anche in Italia, come il bike e il car-sharing, il car-pooling, lo swapping o baratto, i gruppi di acquisto solidale. Sono quattro le categorie in concorso: sharing economy, appunto (condivisione di beni e servizi nella vita quotidiana, acquisti di prodotti materiali; esperienze aggregative per le risorse energetiche e beni comuni, scambio/baratto; ideazione, creazione e utilizzo di servizi per la mobilità, il lavoro, la finanza, il tempo libero; l’utilizzo di spazi e beni immobili); tecno_green (ideazione e gestione di media e nuove strumenti comunicativi per diffondere la cultura della sostenibilità come blog e siti, app, social network…); savethefood (last minute market, progetti per il recupero e la ridistribuzione di eccedenze alimentari e di solidarietà sociale); vivo verde (pratiche quotidiane e scelte di vita ecocompatibili come autoproduzione, acquisto di alimenti da filiera corta, turismo e mobilità sostenibili, riciclo e riuso, mercato dell’usato…). Il concorso suddivide i premi, e quindi le candidature, tra le categorie Veneto e Italia; i riconoscimenti saranno assegnati da un’apposita commissione composta da esperti e rappresentanti istituzionali e dai promotori del Premio. Saranno decisivi nella scelta: l’originalità e la creatività, il minor impatto ambientale, l’efficacia della promozione della sostenibilità, l’esportabilità delle prassi ad altre realtà del territorio, il miglioramento della vita sociale e gli apprezzamenti ottenuti tramite le votazioni online. In palio, buoni sconto per l’acquisto di bici elettriche, forniture di prodotti biologici, cena al ristorante, selle eco friendly per bicicletta, e molto altro ancora… http://magazine.greenplanner.it/2014/06/03/premio-impatto-zero-per-buone-pratichegreen-dei-cittadini/ 2 Da Redattore Sociale del 04/06/14 Dai mozziconi di sigarette allo spreco alimentare, ecco la Giornata dell'Ambiente Tante le cose che si possono fare per aiutare il pianeta e molte le iniziative che domani si svolgeranno in tutta Italia. Tutte improntate a divulgare un migliore approccio con l'ambiente e a potenziare buone pratiche nel campo economico e dei consumi ROMA - Camminare, attivare buone pratiche di sostenibilità, non gettare mozziconi a terra, ecc... Ecco tante azioni virtuose che dovrebbero far parte del bagaglio umano ed educativo di ogni cittadino, ma che spesso vengono dimenticate. La Giornata mondiale dell'Ambiente, che si celebrerà domani, è allora una buona occasione per ricordarle e per rilanciare tutta una serie di campagne e di iniziative di sensibilizzazione. Ne ricordiamo alcune. Contro lo spreco. Domani verrà presentato a Roma il primo Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare. A farlo sarà il ministro dell'Ambiente Galletti e Andrea Segrè, fondatore dell'Osservatorio nazionale sugli sprechi, nonché coordinatore della task force per la riduzione dello spreco alimentare. Il Piano prevede, tra le altre cose, l'introduzione dell'educazione alimentare ambientale tra le materie obbligatorie delle scuole, una campagna di comunicazione nazionale e regole semplici per le donazioni di cibo invenduto (ogni anno vengono buttati via oltre 12 miliardi di euro di cibo consumabile), con sconti sulle tasse per i rifiuti a chi dona. A scuola camminando. Si svolgerà domani a Torino la premiazione della 9^ edizione di "A scuola camminando", il concorso ideato dalla provincia di Torino per diffondere e incentivare gli spostamenti da e verso scuola a piedi o in bicicletta, rivolto alle scuole d’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, statali e paritarie. Quest’anno la “location”è una novità assoluta: la premiazione avrà luogo alle 11 nella Casa del Teatro Ragazzi e Giovani. I partecipanti, oltre a conoscere di persona i vincitori, avranno la possibilità di assistere allo spettacolo “Aquarium”, una piece teatrale che è un'immersione nell'affascinante mondo sottomarino. In una sala della Casa del Teatro sarà allestita la mostra dei materiali che sono stati inviati alla giuria dalle scuole partecipanti, tra i quali ben 32 “alberi dei percorsi sicuri casa-scuola”, molti dei quali in formato tridimensionale. Saranno incoronati i vincitori delle quattro categorie tradizionali del concorso, oltre ai primi classificati nelle sezioni dedicate a chi ha partecipato per la prima volta, a chi ha elaborato la migliore locandina per la prossima edizione e a chi si è concentrato sulla creazione dell’albero, i cui frutti sono le parole-chiave con i quali i bambini e i ragazzi hanno sintetizzato il significato del loro andare a scuola a piedi. Leggi gli appuntamenti a Torino in occasione della Giornata mondiale dell'ambiente. Immagini per la terra. C’è il teatrino con i burattini, fatti di ritagli di stoffa, buste, cartoni. E c’è l’orto verticale realizzato con le bottiglie di plastica. Ci sono i giochi da tavolo e le maschere di carnevale, gli accessori di tendenza, collane e braccialetti, e le borsette alla moda. Nelle aule delle scuole di tutta Italia, trasformate in laboratori del riuso, del riciclo e del ricreo, sono nati oggetti, giocattoli, monili, piccole e grandi opere d’arte. Perché quando l’ambiente chiama, i primi a rispondere sono gli studenti. Lo dimostra la grande partecipazione al concorso nazionale “Immagini per la Terra”, l’iniziativa di educazione ambientale promossa da Green Cross Italia, in collaborazione con il Ministero 3 dell’istruzione e con il sostegno di Acqua Lete, quest’anno incentrata sul tema dei rifiuti: il titolo “Da cosa (ri)nasce cosa”. Boom di adesioni per i più piccoli: circa 20 mila giovanissimi su un totale di 32 mila partecipanti. "La generazione degli under 12 è quindi la più pronta a impegnarsi in prima persona per salvaguardare il Pianeta. Un dato che fa ben sperare per il futuro dell’ambiente, che il 5 giugno festeggia la Giornata mondiale", ricordano i promotori. Parola d’ordine di questa XXII edizione: manualità creativa. Con materiali di recupero come carta, bottiglie, tappi, stoffe, lattine, bambini e ragazzi hanno dato vita a divertenti personaggi che hanno animato le loro storie, evitando l’immissione in discarica di nuovi rifiuti. Regione capofila del riciclo, per numero di istituti partecipanti, il Lazio, seguita da Marche, Toscana e Piemonte. E se tra i banchi dell’infanzia e delle primarie imparare a riciclare è diventato un gioco, per i ragazzi delle secondarie è stato lo spunto per imparare la filosofia delle 4 R: riduco, riciclo, riuso, ri-creo. Basta mozziconi a terra! E' questo il forte messaggio che rappresenta la campagna di sensibilizzazione ambientale promossa da www.bastamozziconiaterra.it volta a divulgare i corretti comportamenti associati alla raccolta dei mozziconi di sigaretta e a educare la popolazione ad avere maggiore rispetto dell’ambiente. In occasione del 5 giugno, la campagna è stata inserita tra gli eventi rivolti alla sensibilizzazione all’ambiente. Quali sono i concetti cardine su cui si fonda la campagna? E’ semplice: salute, educazione, rispetto, sostenibilità e impegno comune. Secondo studi recenti, in Italia si contano circa 13 milioni di fumatori e vengono fumate circa 72 miliardi di sigarette. I numeri sono grandi. In pochi sono consapevoli dei danni ambientali provocati gettando a terra, poco civilmente, i mozziconi di sigaretta. Per citarne solo alcuni: il filtro delle sigarette permane nell’ambiente fino a circa 5 anni a causa della lentissima degradazione e su oltre 4 mila sostanze tossiche presenti nelle sigarette, una modesta parte resta nel filtro abbandonato, liberandosi a danno dell’uomo e dell’ambiente; danni alla salute degli animali, pensando ad esempio ai mozziconi abbandonati nei parchi o sulle spiagge; gran parte dei mozziconi gettati a terra finiscono nelle fognature e nelle acque superficiali contaminandole. La campagna di sensibilizzazione ambientale è rivolta sia a soggetti privati (imprese private, scuole, gestori di spazi ad aggregazione sociale, altre attività…) sia a comuni e amministrazioni pubbliche (biblioteche, parchi, uffici, vie urbane…). L’adesione alla campagna ambientale è preceduta da incontri informativi preventivi presso le sedi degli interessati. Gli incontri sono personalizzati a seconda dei soggetti ai quali sono rivolti (bambini, gestori di esercizi, funzionari…). L’adesione alla campagna prevede inoltre l’utilizzo di appositi pratici contenitori che consentono la raccolta separata dei mozziconi di sigaretta. Al termine dello svolgimento della campagna, agli utenti che hanno aderito è sottoposta una scheda di valutazione dell’esperienza avuta. Per chi volesse aderire alla campagna, è possibile contattare il numero verde 800587317, da cell 3472338514 o scrivere all’indirizzo email [email protected] e consultare il sito www.bastamozziconiaterra.it. Anche il più piccolo impegno rende un ambiente più sostenibile. Nella giornata del 5 giugno la campagna sarà presente in alcune città: a Milano, Legnano, Torino con il posizionamento di appositi contenitori fuori dai centri commerciali, teatri, cinema, ospedali. Nell'occasione, verrà anche reso noto il vincitore del concorso per cortometraggi "Basta mozziconi a terra". Smaltire i rifiuti elettronici. Tre semplici suggerimenti per migliorare le condizioni del nostro ambiente. Il consorzio Ecolight (che si occupa della gestione dei Raee-rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, delle pile esauste e dei moduli fotovoltaici a fine 4 vita) indica tre piccole azioni che ciascuno può compiere per dare il proprio piccolo ma significativo contributo per un ambiente migliore. "È importante - afferma il direttore generale di Ecolight - parlare dei Raee, farli conoscere e far capire che sono una risorsa importante. Infatti ancora oggi, molti sfuggono al circuito di gestione. Se per esempio guardiamo solamente ai piccoli elettrodomestici, meno del 20% viene raccolto correttamente. La parte restante probabilmente finisce nella raccolta indifferenziata se non addirittura intraprende le strade illegali dell’esportazione verso i Paesi più poveri". "Un corretto conferimento dei Raee è un primo passo per voler bene all’ambiente. I rifiuti elettronici sono composti per oltre il 90% del loro peso da materiali che possono essere recuperati e riciclati permettendo così dei risparmi in termini di reperimento delle materie e di limitare le emissioni di Co2 in atmosfera. Non certo ultimo, occorre tenere presente che alcuni Raee contengono sostanze particolarmente inquinanti - come per esempio il mercurio delle lampadine a risparmio energetico o i gas refrigeranti dei freezer - che richiedono specifici trattamenti". Premio Impatto Zero. Sempre domani si aprono le iscrizioni alla quarta edizione del “Premio Impatto Zero”, iniziativa di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative: scelte di vita e comportamenti ecologicamente virtuosi che riducono lo sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e contribuiscono a diffondere la cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita della comunità. Nato a Padova nel 2011 e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è promosso e organizzato da Arci, con il contributo di AcegasAps-Società del Gruppo Hera, in collaborazione con Legambiente Nazionale, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno, Confcooperative Padova, e con il patrocinio di EXPO Milano 2015, Ministero dell’Ambiente e Comune di Padova. C’è tempo fino al 30 settembre per candidare il proprio progetto o azione, iscrivendosi al sito www.premioimpattozero.it. Un focus specifico sarà dedicato quest’anno alle pratiche di consumo collaborativo e condiviso che vedono sempre maggiore adesione e diffusione anche in Italia, come il car e bike sharing, il car pooling, lo swapping, i gruppi di acquisto solidale. Per informazioni, segreteria organizzativa: Associazione Arci Padova, Viale IV Novembre 19, 35123 Padova; Tel: 049 8805533; e-mail: [email protected]. Da il Velino del 03/06/14 Tv: decretati i finalisti Primed 2014 Il Premio Internazionale del Documentario e del Reportage Mediterraneo di com/onp - 03 giugno 2014 13:28 fonte ilVelino/AGV NEWS Roma Conclusi i lavori della giuria di preselezione del PriMed-Premio Internazionale del Documentario e del Reportage Mediterraneo. La giuria internazionale riunita a Roma dal 26 al 30 maggio, su invito della Rai che assicura il segretariato generale del Cmca con la dr.ssa Maria du Bessé delle Relazioni Internazionali, ha selezionato i titoli finalisti dell’edizione 2014. Il PriMed, organizzato dal CMCA Centro Mediterraneo per la Comunicazione Audiovisiva con la Rai, France Télévisions e con l’ASBU (Arab States Broadcasting Union, l’unione delle televisioni della Lega araba) è rivolto alle produzioni audiovisive che si occupano di questioni e temi legati al Mediterraneo. Tematiche di rilievo 5 raccontate con sempre maggiore e rinnovato impegno: l’edizione 2014 segna un nuovo record di iscrizioni 543 opere provenienti da 39 Paesi. La giuria internazionale composta dall’equipe del CMCA, da professionisti dell’audiovisivo e da esperti del mondo mediterraneo - Bernadette CARRANZA produttrice con al suo attivo un David di Donatello, un Golden Globe e una nomination Oscar, Elisabeth CESTOR del MuCEM (Musée des Civilisations de l'Europe et de la Méditerranée), Gaelle CUESTA della Ville Méditerranée, Feten FRADI dell’URTI - Union Radiophonique et Télévisuelle Internationale, i giornalisti Nathalie GALESNE di Bebelmed.net e Zouhir LOUASSINI di RaiNews24, Marie Christine HELIAS dell’INA-Institut National de l'Audiovisuel, la poetessa e scrittrice Dalila HIAOUI, Fabio MANCINI del programma DOC3 di RAI3, Raffaella ROSSETTI consulente editoriale e multimediale, Sami SADAK direttore artistico del Forum des musiques du monde Babel Med Music e Carlo TESTINI dell’ARCI e componente del board internazionale della BJCEM - Biennale dei Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo - ha scelto le opere che concorreranno alle finali di Marsiglia dall’8 al 13 dicembre. Questi, per le diverse categorie, i titoli finalisti: Categoria "Sfide del Mediterraneo" - Des murs et des hommes di Dalila ENNADRE - Les enfants de l'ovale di Grégory FONTANA e Rachid OUJDI - THE RENEGADE di Sofia AMARA - This is my land di Tamara ERDE Categoria "Memorie mediterranee" - L'attentat de Sarajevo di Nedim LONCAREVIC Murge, the Cold War Front di Fabrizio GALATEA - Sarajevo, des enfants dans la guerre di Virginie LINHART - The Division of Cyprus di Andreas APOSTOLIDIS e Yuri AVEROF Categoria "Arte, Patrimonio e Culture del Mediterraneo" - Children of Flamenco di Katerina HAGER - DÉsÉquilibre di Julien GAERTNER - Electro Chaabi di Hind MEDDEB - The Venice Syndrome di Andreas PICHLER Categoria "Opera Prima" - Dell'arte della guerra di Silvia LUZI e Luca BELLINO - La Femme à la CamÉra di Karima ZOUBIR - L'escale di Kaveh BAKHTIARI - Quivir di MANUTRILLO Categoria "Reportage Mediterraneo" - La ConfrÉrie, enquÊte sur les FrÈres Musulmans di Michaël PRAZAN - Le droit au baiser di Camille PONSIN - Le signal perdu de la dÉmocratie di Yorgos AVGEROPOULOS TraquÉs di Paul MOREIRA Da Redattore Sociale del 04/06/14 Livorno, profughi ospitati negli alberghi vista mare. E' polemica Trenta immigrati provenienti dalla Sicilia hanno trovato rifugio presso l’elegante Hotel Saint Vincent a Castiglioncello, altri 70 in alberghi livornesi. Infuria la polemica: “Rovinano la stagione turistica” LIVORNO - I centri d’accoglienza sono tutti pieni e allora i profughi vengono ospitati negli alberghi. Succede a Livorno e Castiglioncello, gettonate mete turistiche, proprio alle porte della stagione estiva. D’altra parte non ci sono molti altri modi per accogliere gli oltre cento migranti che negli ultimi giorni sono arrivati in provincia di Livorno direttamente dalla Sicilia. Gli alberghi, dopo essere stati contattati dalla Prefettura, si sono pertanto resi disponibili ad ospitare i migranti fino al 30 giugno. In cambio, riceveranno dallo Stato venti euro giornalieri per ciascun profugo. Una cifra che però non è ancora arrivata nelle casse degli hotel, costretti ad anticipare i soldi. Il maggior numero di immigrati dimora presso l’hotel Saint Vincent a Castiglioncello, un elegante albergo con vista mare dove hanno trovato rifugio 29 immigrati, provenienti soprattutto dal Senegal. Altri 28 profughi si trovano presso l’hotel Città a Livorno, mentre 6 una ventina è stata ospitata all’hotel Imperiale. Quattordici migranti sono invece nell’affittacamere di piazza della Repubblica, di fronte all’hotel Ariston, mentre altri 3 profughi alloggiano presso l’hotel Giappone. L’accoglienza migranti, oltre che dalla Prefettura, viene gestita dall’Arci e dal Cesvi. Polemico il presidente dell’Arci livornese Marco Solimano: “Non possiamo sostituire lo Stato nell’accoglienza, stiamo anticipando tutte le risorse e rischiamo di rimanere strozzati dai bilanci”. La presenza dei profughi negli hotel vicini al mare fa storcere il naso a numerosi albergatori della zona: “Siamo in piena alta stagione – dicono in tanti – La presenza di tanti migranti rischia di allontanare i turisti”. 7 ESTERI del 04/06/14, pag. 12 Obama sfida la Russia “Dagli Usa più jet e soldati per la sicurezza europea” Da Varsavia striglia gli alleati: stop tagli alle spese militari “Altre sanzioni se Putin sostiene ancora i ribelli in Ucraina” FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO INVIATO VARSAVIA UN MILIARDO di dollari alla «Iniziativa per rassicurare l’Europa» perché «la vostra sicurezza è sacrosanta, è la pietra miliare anche per la sicurezza degli Stati Uniti». Un miliardo per finanziare più jet militari Usa, più soldati, più tecnologie belliche, più manovre di esercitazione e più navi da guerra nelle acque del Baltico. Barack Obama inizia il suo tour di quattro giorni in Europa con una tappa che esprime un messaggio forte: la Polonia, nel 25esimo anniversario della sua liberazione dall’autoritarismo comunista e dalla sfera d’influenza sovietica. Appena sceso dall’Air Force One all’aeroporto di Varsavia, passa in rassegna i caccia F-16 che compiono missioni di pattugliamento sui cieli dei paesi baltici: operazioni varate di recente, in collaborazione con la Luftwaffe tedesca, dopo l’escalation di tensione con la Russia per l’annessione della Crimea e le violenze in Ucraina. La crisi con Vladimir Putin dominerà anche la seconda tappa, oggi, quel G7 di Bruxelles che sostituisce il G8 di Sochi, cancellato dopo l’espulsione della Russia e le sanzioni decise dagli alleati atlantici. Infine Parigi e la Normandia, per il 70esimo anniversario dello sbarco e quindi della disfatta nazifascista. In Normandia ovviamente anche Putin ci sarà, e Obama non farà nulla per evitarlo: «Certo che ci incontreremo. Io ci sarò» e lui pure: non si può ignorare il ruolo che la sua nazione ebbe nella seconda guerra mondiale». Ma dopo l’omaggio alla storica alleanza Usa-Urss contro Hitler, il presidente americano precisa quello che dirà a Putin: «Con lui nel corso di questa crisi ho sempre mantenuto una “business relationship”, non abbiamo smesso di parlarci. Mantenere buone relazioni con un grande paese come la Russia è importante. Ma questo non ci deve far dimenticare le lezioni della storia. Non si sacrificano i principi: la libertà, la sovranità, l’integrità territoriale. Nessuno lo sa meglio dei polacchi». Obama diffida Putin dal «sostenere milizie armate che destabilizzano l’Ucraina», perchè deve essere il popolo ucraino a decidere il proprio futuro. E dunque al G7 si parlerà di nuovo delle “ulteriori sanzioni” contro interi settori dell’economia russa, qualora Mosca non receda dalle interferenze destabilizzanti. Si parlerà anche delle “potenziali” esportazioni di energia dall’America verso l’Europa, per ridurne la dipendenza dal gas russo. Primo, rassicurare i polacchi e gli altri ex-membri del Patto di Varsavia, che per l’America «non c’è differenza tra vecchi e nuovi membri della Nato», tutti hanno diritto alla stessa difesa comune. Ma mentre Obama annuncia il rafforzamento della presenza militare Usa, e la richiesta al Congresso di quel miliardo di dollari aggiuntivi, non perde occasione per applaudire lo sforzo della Polonia che s’impegna ad aumentare le proprie spese militari fino al 2% del Pil. E’ un livello dal quale molti altri paesi della Nato, Italia per prima, sono lontani. Obama non li nomina uno per uno, ma li striglia lo stesso: «Ciascun alleato deve fare la sua parte, deve sopportare la sua quota dell’onere di difesa. Oggi la Nato dipende 8 troppo dal contributo americano. La Polonia è un’eccezione, altri paesi hanno fatto il contrario, hanno ridotto le spese per la difesa comune». A riprova della tensione provocata in tutta l’Europa orientale dalle mosse di Putin, questa tappa a Varsavia si è trasformata in un vertice allargato tra il presidente americano e i leader di tutti i paesi dell’Est: sono arrivati qui per incontrare Obama i leader dei tre paesi baltici, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Croazia. Alcuni vogliono molto di più da Obama. La Polonia desidera avere delle basi permanenti della Nato, come esistono in Italia o in Germania. «Non accettiamo restrizioni alle forze Nato sul nostro territorio», dice il presidente polacco Bronislaw Komorowski. È un’allusione all’accordo del 1997 con cui la Nato per rassicurare la Russia s’impegnò a non stazionare «forze da combattimento ingenti e permanenti» negli Stati che furono parte del blocco sovietico. Quello stesso accordo però comportava da parte della Russia l’impegno «ad astenersi dalle minacce o dall’uso della forza, che violerebbero la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dei paesi vicini». La Polonia vede nelle gesta di Putin in Crimea e Ucraina valide ragioni per insediare basi Nato che non siano una presenza simbolica. La Casa Bianca finora preferisce un aumento di truppe «a rotazione ». del 04/06/14, pag. 7 Varsavia, ora è il centro strategico Usa in Europa Mauro Caterina Obama in Polonia. Aumenta di 450 unità il contingente americano in Polonia Fino a poco tempo fa la Polonia era considerata a tutti gli effetti una «periferia». Un paese in piena crescita economica e culturalmente vivace, ma sempre periferia d’Europa e d’occidente se rapportata ad una scala globale. La crisi ucraina ha cambiato radicalmente lo «Status internazionale» di Varsavia e dintorni. Oggi la Polonia è al centro del proscenio diplomatico e strategico dell’occidente e la visita del presidente americano ne è la conferma. Barak Obama è arrivato ieri mattina Varsavia. Ad attenderlo c’era il presidente polacco Bronislaw Komorowski. L’immagine più emblematica, forse, è stata la stretta di mano tra i due in un hangar dell’aeroporto Chopin, con un F-16 a fare da sfondo a margine della piccola cerimonia di benvenuto. Subito dopo, Obama ha incontrato i 150 militari americani e il personale di volo del piccolo contingente a stelle e strisce si stanza a Varsavia sin dallo scorso aprile. Nei prossimi giorni il numero dei militari statunitensi aumenterà di altre 450 unità. E in futuro potrebbero essere ancora di più dopo che lo stesso Obama in conferenza stampa ha annunciato un piano di 1 miliardo di dollari per «riprogrammare» la presenza militare made in Usa nel vecchio continente. Una presenza temporanea, ma che potrebbe essere permanente in base alle richieste avanzate da alcuni paesi alleati (repubbliche baltiche e Polonia). «Ci troviamo insieme come amici ed alleati», ha detto Obama. Komorowski non ha perso tempo nel sottolineare, in prospettiva, un aumento della spesa militare da parte polacca. L’inquilino della Casa Bianca ha incontrato il premier polacco Donald Tusk, garantendogli il supporto incondizionato della Nato sul fronte della sicurezza militare. 9 Definitivamente archiviato il progetto dello scudo spaziale, adesso la priorità Usa è quella di ridefinire la presenza militare americana nell’Europa centrale. Nei giorni scorsi era stato Ben Rhodes (consigliere per la sicurezza nazionale) a sottolineare l’importanza di questo incontro: «L’alleanza con la Polonia è cruciale per le relazioni transatlantiche ed è la base per un sostegno americano non solo ai polacchi, ma anche al resto degli alleati dell’Europa orientale». Dello stesso avviso Roman Kuzniar, consigliere politico per gli affari internazionali del presidente Komorowski: «Obama vuole dimostrare, con la sua presenza, l’impegno degli Stati uniti per la difesa dei confini polacchi e allo stesso tempo come qualificare e definire il nuovo protagonismo russo, e lo dirà chiaramente nel discorso di oggi». Già, tutti aspettano il discorso di Obama che parlerà durante le celebrazioni del 25° anniversario delle prime elezioni democratiche della Polonia post-comunista. A Varsavia saranno presenti tutti i capi di stato dell’ex blocco sovietico, compreso il neo presidente ucraino Petro Koroshenko. E che fosse la questione ucraina il «cuore» della visita di Obama in Polonia era chiaro a tutti. Ieri il presidente americano di fronte ai giornalisti era stato chiaro: «Gli ucraini dovrebbero decidere loro stessi del futuro del proprio paese, senza interferenze esterne o pressioni da parte di militanti finanziati da paesi limitrofi che stanno cercando di sabotare il processo di cambiamento e rafforzamento delle istituzioni democratiche in Ucraina». Un piccolo assaggio di quello che dirà oggi. In molti si aspettano un passo avanti Usa sul versante economico. Aiuti che potrebbero rappresentare l’inizio di un percorso di avvicinamento verso l’Ucraina tutt’altro che scontato (almeno dal punto di vista russo). Staremo a vedere. Tornando alla giornata di ieri, Obama ha discusso con il ministro degli esteri polacco Radoslaw Sikorski – uno dei protagonisti indiscussi durante le giornate calde di Maidan – di rivedere la politica Usa sui visti. A quanto pare, ci sarebbe la volontà da parte americana di togliere le restrizioni per i cittadini polacchi che vogliono recarsi negli Stati Uniti. Niente di ufficiale per il momento. Di sicuro, sarà «merce di scambio» quando ci sarà da mettere la firma su contratti militari e altro ancora, visto che la Polonia è ufficialmente diventata una delle figlie predilette di mamma America. del 04/06/14, pag. 8 Commissione Ue, Merkel sonda il terreno per Lagarde ● La candidatura sarebbe stata sollevata con Hollande. L’Eliseo: «Non una buona idea» Angela Merkel vuole Christine Lagarde alla presidenza della Commissione europea? La domanda si è posta e ha fatto un po’ di rumore ieri sera, dopo che l’agenzia Reuters ha sostenuto di aver appreso da fonti dell’Eliseo che il nome della direttrice del Fondo Monetario Internazionale sarebbe stato evocato, durante una telefonata privata tra la cancelliera e François Hollande, in relazione a una possibile candidatura alla guida dell’esecutivo dell’Unione europea. Il presidente francese, sempre secondo la Reuters, non avrebbe preso una posizione precisa ma avrebbe fatto notare all’interlocutrice che non gli parrebbe «una buona idea per l’Europa perdere la guida del Fmi». Fin qui la cronaca. C’è da aggiungere che già nei giorni scorsi il nome della Lagarde era circolato insieme con molti altri, tra i quali pure l’ex premier britannico Tony Blair e l’italiano Enrico Letta, nello scenario di una nomina che potrebbe essere avocata dal Consiglio europeo, e 10 quindi dai governi, non tenendo conto delle candidature emerse dal voto per il Parlamento europeo. Cioè il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker o il socialdemocratico Martin Schulz. Ma quella di Christine Lagarde sarebbe una candidatura politicamente molto difficile da sostenere, visto e considerato che l’ex ministra delle Finanze di Nicolas Sarkozy, arrivata alla guida del Fmi dopo lo scandalo che ha stroncato la carriera del suo predecessore Dominique Strauss-Kahn, è considerata una punta di diamante della linea dura in materia di disciplina di bilancio e una delle ispiratrici della strategia dell’austerity. Una strategia che è opinione ormai abbastanza diffusa e consolidata che dovrà essere modificata in favore di una politica più orientata verso gli investimenti e la promozione del lavoro. Se le indiscrezioni raccolte dalla Reuters avessero qualche fondamento esse metterebbero in luce in modo ancor più evidente che nei giorni scorsi le esitazioni e le contraddizioni in cui si sta sviluppando l’iniziativa della cancelliera e del governo tedesco in merito alla presidenza della Commissione. Frau Merkel, che a suo tempo aveva accettato obtorto collo la candidatura da parte dei popolari di Juncker, per il quale nutre una non nascosta antipatia, dopo l’esito del voto per un po’ ha evitato di prendere posizione a favore del lussemburghese mentre dal suo entourage venivano fatti circolare nomi diversi. Poi, alla fine, costretta dalle pressioni del Partito Popolare e dai suoi alleati socialdemocratici nella grosse Koalition, ha dovuto esprimersi ufficialmente per lui. È pensabile che la (presunta) avance con Hollande su Christine Lagarde sia la testimonianza di una ennesima giravolta? La Reuters non dice quando sarebbe stata fatta la telefonata, ma se il contatto fosse reale e fosse avvenuto nelle ultime ore, si tratterebbe di un vero e proprio sgarbo di Angela Merkel non solo a Junckermaa tutto il Ppe e agli alleati in casa. A complicare ancora un po’ il quadro, l’agenzia aggiunge che le fonti dell’Eliseo sosterrebbero che Hollande, «sotto pressione dell’estrema destra del Fronte Nazionale che ha vinto le elezioni e dell’ala sinistra del suo stesso partito (?), potrebbe appoggiare un esponente dell’opposizione di centro-destra» per la guida della Commissione. A parte la stranezza dell’affermazione secondo cui a proporre un’esponente di destra sarebbe, chissà perché, pure la sinistra socialista, l’ipotesi di un Hollande pronto ad appoggiare Christine Lagarde in quanto esponente della destra è in contraddizione con l’opinione, che la stessa agenzia gli attribuisce, secondo cui l’Europa non dovrebbe perdere la guida del Fmi. Insomma, le indiscrezioni diffuse ieri sera appaiono abbastanza confuse e contraddittorie. La questione della presidenza della Commissione è complessa e non manca di riservare sorprese, ma tutto lascia pensare che Christine Lagarde resterà a Washington alla guida del Fondo fino a che il suo mandato non scadrà, tra due anni. del 04/06/14, pag. 1/30 Il toto-Europa tra Lagarde e Blair ANDREA BONANNI BRUXELLES QUESTA sera i leader del G7 si ritrovano a cena a Bruxelles con una possibile sorpresa. L’ordine del giorno è quasi interamente dedicato all’Ucraina, visto che la riunione sostituisce quella del G8 con la Russia, inizialmente prevista a San Pietroburgo . MA CHE è saltata proprio a causa dell’invasione russa della Crimea. Ma c’è un altro tema che sicuramente sarà discusso a lungo da Merkel, Renzi, Hollande e Cameron dietro le quinte del summit: la nomina dei vertici europei, a cominciare da quella del presidente della Commissione. 11 La discussione si annuncia accesa, perché questa è veramente una questione che divide i leader europei e potrebbe portare a spaccature gravissime. Se non si raggiunge un accordo al più presto, l’Europa finirà per sbattere contro uno dei due muri: o un conflitto durissimo con la Gran Bretagna, che ha già minacciato di accelerare l’uscita dall’Ue; oppure uno scontro istituzionale senza precedenti tra il Consiglio dei capi di governo e il Parlamento europeo che bloccherebbe le nomine. Il problema è che il Parlamento vuole che la poltrona di presidente della Commissione vada ad uno dei candidati che i partiti politici hanno presentato alle elezioni europee, in particolare Juncker per i popolari e Schulz per i socialisti. Poiché il Ppe è il partito di maggioranza relativa, il primo incarico dovrebbe andare a Juncker. La cancelliera Merkel lo appoggia, anche se forse non lo ama. Ma il britannico Cameron, pressato dal trionfo del partito euroscettico in Gran Bretagna, non vuole sentir parlare di Juncker, che considera troppo europeista. E soprattutto non vuole che un organo federale come il Parlamento imponga i propri candidati sminuendo la sovranità dei governi nazionali. Per bloccare questa procedura, e per far fuori Juncker, i britannici sono pronti a tutto. E fin dal primo giorno dopo le elezioni, quando Juncker ha rivendicato il diritto all’incarico, hanno cominciato il tiro al piccione per cercare di impallinarlo. Visto che finora i veti espressi pubblicamente dal premier inglese non sono serviti a nulla, la strada più semplice da seguire è quella di cercare di trovare consensi su altre personalità, nella speranza che qualche governo, allettato dal miraggio di una poltrona prestigiosa, possa unirsi a loro nella crociata anti-parlamentare. Finora Cameron ha fatto circolare i nomi dell’irlandese Enda Kenny e del finlandese Katainen. Ma entrambi sono membri del Ppe e hanno pubblicamente espresso il loro sostegno per Juncker. A questo punto Londra ha provato a far circolare il nome della premier danese Helle Thorning-Schmidt, che è socialdemocratica. Ma anche questa candidatura sembra destinata a fare poca strada. Ieri l’agenzia Reuters ha diffuso una notizia, attribuita a non meglio identificate fonti francesi, secondo cui la cancelliera Merkel avrebbe telefonato al presidente Hollande per proporgli il nome della francese Christine Lagarde, oggi direttore del Fondo Monetario Internazionale, alla guida della Commissione. Il nome della Lagarde era già circolato tra quelli dei possibili candidati. Ma si scontra con due obiezioni di fondo: la prima è che difficilmente il socialista Hollande accetterebbe di spingere una ex ministra di Sarkozy, che milita nel partito rivale; la seconda è che, se anche Lagarde lasciasse anticipatamente dopo Strauss-Kahn la guida del Fmi, l’Europa rischierebbe di perdere definitivamente quella poltrona. In serata, puntuale, è arrivata la smentita della Cancelleria alla notizia Reuters. Un evento, la smentita di una notizia priva di fonte, di per sé abbastanza raro. La Merkel, dice Berlino, è fermamente impegnata a sostenere la candidatura di Juncker, anche se preferirebbe che si arrivasse ad una nomina condivisa da tutti i capi di governo. Tuttavia si può star certi che, fino a che non si troverà un accordo con Cameron, lo stillicidio di voci, indiscrezioni, e candidature-fantoccio continuerà. Stasera e domani, i quattro membri europei del G7 avranno la possibilità di cercare un compromesso. Difficile. La questione è come indurre i britannici ad accettare la nomina di Juncker alla Commissione. Che cosa dargli in cambio? L’ipotesi più credibile, al momento, potrebbe essere una candidatura di Tony Blair alla presidenza del Consiglio europeo in sostituzione di Van Rompuy. Questa potrebbe essere la vera sorpresa del vertice di oggi e domani. Ma non è detto che il conservatore Cameron sia disposto ad accettarla. 12 del 04/06/14, pag. 6 Per Netanyahu si mette Maalox Michele Giorgio GERUSALEMME Israele/Territori Occupati. Il premier e i ministri israeliani puntano l'indice contro Washington che lunedì si è detta pronta a collaborare con l'esecutivo nato dalla riconciliazione Fatah-Hamas. Soddisfazione in casa palestinese per la presa di posizione americana Come Beppe Grillo anche Benyamin Netanyahu ha dovuto ingurgitare una pastiglia di Maalox per spegnere il bruciore di stomaco che lo ha colpito lunedì sera quando la sempre ben pettinata portavoce del Dipartimento di stato Usa, Jennifer Psaki, ha annunciato che «Alla luce di ciò che sappiamo, lavoreremo con questo governo palestinese». Il premier israeliano piuttosto avrebbe dovuto usare del ghiaccio per la sua guancia rossa e gonfia. Perchè l’altra sera ha ricevuto dall’Amministrazione americana una bella sberla. Washington si è allineata alla posizione dell’Europa e vede il nuovo esecutivo palestinese per quello che è: un governo tecnico appoggiato dall’esterno da varie forze politiche, a cominciare dai movimenti Fatah e Hamas che si sono riconciliati. E lo ha fatto dopo che il Segretario di stato John Kerry, forse per smarcarsi da una decisione presa dallo stesso Barack Obama, aveva dichiarato che gli Usa ritengono «appropriata» la reazione di Israele alla riconciliazione tra palestinesi e sono preoccupati per il coinvolgimento di Hamas. Netanyahu non ha alcuna intenzione di porgere l’altra guancia. Ieri il premier e buona parte del governo hanno lanciato il contrattacco accusando l’Amministrazione americana di «ingenuità». Un’azione corale che ha avuto la sua punta più avanzata nel primo ministro. «Sono profondamente turbato dall’annuncio che gli Usa lavoreranno con il governo palestinese appoggiato da Hamas che ha ucciso innumerevoli civili israeliani», ha commentato il primo ministro. Poco dopo Netanyahu ha rincarato la dose durante un colloquio telefonico con Francois Hollande. Dopo aver ringraziato il presidente francese per l’arresto del sospettato per il recente attentato di Bruxelles, ha proclamato che «L’unità palestinese con l’appoggio di Hamas è un passo contro la pace e a favore del terrorismo. Sarebbe uno sbaglio dargli la legittimazione». Pesanti i commenti di altri esponenti del governo. Per il ministro delle comunicazioni Gilad Erdan «l’ingenuità americana ha superato tutti i record». Per il suo collega della sicurezza nazionale, Yuval Stenitz, gli alleati statunitensi hanno due voci: «Non potete presentarlo privatamente come un governo di Hamas per poi dire pubblicamente che è formato da tecnici». Il noto analista politico Oded Eran da parte invita alla calma. «Non si tratta di una frattura (tra Israele e Stati Uniti) ma di un disaccordo – ha detto al manifesto – lo stesso accadde un po’ di anni fa quando Washington decise di aprire un canale di comunicazione con l’Olp di Yasser Arafat contro il volere di Israele. Non è stato un attacco alle spalle. Il primo ministro sapeva delle intenzioni americane». In ogni caso la battaglia ora si sposta negli Stati Uniti dove il governo Netanyahu spera che il Congresso, più filo israeliano della stessa Knesset, ora giochi qualche brutto scherzo ad Obama, magari bloccando i finanziamenti annuali per centinaia di milioni di dollari all’Anp che l’Amministrazione ha detto di voler continuare anche con il nuovo governo palestinese. Il caponegoziatore palestinese Saeb Erekat ieri non stava nella pelle. Ironizzava sul premier israeliano. «Se Madre Teresa fosse il presidente palestinese, Thomas Jefferson primo ministro e Montesquieu presidente del parlamento palestinese, Netanyahu li accuserebbe di non essere buoni partner per la pace», ha commentato facendo sfoggio di 13 cultura politica. E invece non è il caso di scherzare perchè i palestinesi non hanno ancora conquistato nulla e non possono rallegrarsi più di tanto per una occasionale presa di posizione degli Stati Uniti che non cambia nella sostanza la linea americana in Medio Oriente. Le aspirazioni palestinesi perciò restano al palo. A ricordarlo è il 47esimo anniversario dell’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza che cade proprio in questi giorni. Ieri i soldati hanno ucciso un uomo nei pressi di Nablus (era armato secondo il portavoce militare), portando a oltre 60 il numero dei morti palestinesi in Cisgiordania dallo scorso luglio, quando ripresero i colloqui bilaterali mediati dagli Usa. Le punizioni israeliane si annunciano pesanti, a cominciare dalle misure per impedire la partecipazioni dei candidati di Hamas alle elezioni parlamentari e presidenziali previste entro sei mesi. L’ultranazionalista ministro dell’economia Naftali Bennett, continua a lanciare appelli per l’annessione immediata a Israele dell’area C (il 60% della Cisgiordania). Altrettanto dure saranno le sanzioni economiche, a cominciare dal blocco dei fondi palestinesi (tasse e dazi doganali) per un ammontare di 100 milioni di dollari al mese. E il nuovo esecutivo di consenso nazionale dovrà pensare anche a come coprire i buchi di bilancio del disciolto governo di Hamas a Gaza, giunto con le casse vuote all’appuntamento della riconciliazione e 50mila dipendenti pubblici e miliziani sulle spalle. Il Qatar si dice pronto coprire per qualche mese il costo della “unificazione amministrativa” ma non durerà per sempre. del 04/06/14, pag. 14 Il premier proponeva il Nobel, ma ha incassato solo no “È uno straniero” “Wiesel presidente”. E Israele insorge DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . Due sconfitte, due uppercut in grado di atterrare il più navigato dei politici, segnano sul barometro israeliano la rapida discesa di Benjamin Netanyahu. “King Bibi” lo aveva ribattezzato Time lodandone il trasformismo politico, ma adesso, prima con la disfatta sulla corsa alla presidenza e poi con il governo Fatah-Hamas addirittura appoggiato dagli americani, la sua l’immagine è molto appannata. Paradossalmente è più la prima sconfitta a pesare sul premier che non la seconda. Perché nella storia bizzarra e ricca di eventi alla “House of cards” di questa elezione del 10° presidente di Israele, il premier ha un ruolo da protagonista, con le sue tresche, i suoi tranelli, la sua sfacciata e inutile opera di lobbyng per candidare il premio Nobel Elie Wiesel alla successione del presidente Shimon Peres che termina il suo settennato e passerà la mano in luglio. La saga inizia un paio di mesi fa quando dopo aver attentamente osservato il panorama delle possibili candidature alla presidenza, e non avendo trovato nessuno di suo gradimento, Netanyahu inizia a far circolare la possibilità che Peres possa estendere di 6 mesi il suo mandato in attesa di una nuova legge per stabilire nuove competenze per la prima carica dello Stato. Un’idea che nell’ordine è stata bocciata da Peres, dal suo partito, dall’opposizione, dalla società civile. Ma Netanyahu era pronto a qualunque cosa pur di scongiurare la quasi certa elezione — fra i sei candidati ufficiali — di Reuven Rivlin, l’ex presidente del Parlamento e dirigente del Likud, verso il quale la “royal family” d’Israele nutre un’avversione che sfiora l’ossessione. Netanyahu ha cercato in ogni modo di trovare un altro nome da sostenere (dopo i no o i ritiri di Shalom, Levy, Eldestein, Sharansky) per 14 arrivare poche ore prima della scadenza dei termini a telefonare a New York a Wiesel per proporgli la presidenza. Un candidato a cui nessuno avrebbe azzardato ad opporsi. Ma non aveva fatto i conti con la lucidità del pensiero dell’ottantaseienne premio Nobel per la Letteratura che, sordo ad ogni pressione, lusinga e bugia politica di Netanyahu, ha detto chiaramente il suo «no». «Non riuscendo ad ottenere le risposte che voleva», ha raccontato Elie Wiesel a Naum Barnea di Yedioth Aaronot, «ha iniziato a fare pressioni pesanti attraverso amici comuni, ma io so come farvi fronte. E alla fine gli ho detto, non fa per me: io scrivo libri. Non sono tagliato per questo». I giornali continuano a mantenere alta l’attenzione sul caso, soprattutto perché nelle tre conversazioni Netanyahu approfitta della buona fede di Wiesel al quale dice di «avere un ampio consenso», «è tutto organizzato, deve solo dire sì». Quando invece l’idea non aveva mai varcato la porta del suo ufficio. Tutti i commentatori dei giornali hanno mandato un silenzioso ringraziamento al Premio Nobel per il suo “no”. Elie Wiesel è uno degli ebrei più importanti e autorevoli nel mondo, ma oltre a non essere cittadino israeliano, non ha mai vissuto in Israele, si è occupato solo di libri e letteratura per tutta la sua vita. «Che immagine avremmo dato di noi eleggendo come presidente un ebreo americano di origini rumene?», ha scritto Haaretz, «Avremmo inviato il messaggio che Israele dopo 66 anni di vita e storia non era in grado di scegliere uno tra i suoi cittadini per rappresentarlo nel mondo». ( f. s.) del 04/06/14, pag. 15 Nei seggi del quartiere di Bab Tuma uno dei pochi dove l’affluenza è alta L’Occidente boccia la consultazione Il regime pensa di uscirne più forte Con i miliziani cristiani “Votiamo contro i jihadisti” Ma l’opposizione accusa “Le elezioni, farsa di Assad” ALBERTO STABILE DAMASCO I VICOLI di Bab Tuma, il quartiere cristiano della Città vecchia, sono affollati di uomini in divisa mimetica, scarponi e kalashnikov a tracolla. Qua e là, fra le squadre armate messe a guardia dei seggi, spunta anche la chioma bionda di una donna, anch’essa in divisa, o la faccia immatura di qualche adolescente. Sono i miliziani della minoranza religiosa schierati a difesa del quartiere nel giorno in cui, dicono in coro, i ribelli che combattono il regime cercheranno d’impedire l’ampiamente prevista vittoria elettorale di Assad, colpendo ancora una volta loro, i cristiani, obbiettivo ricorrente dell’opposizione armata da quando la rivolta è degenerata in guerra civile. Diciamo subito che questa previsione non s’è avverata, almeno fino al calar della sera. Il grande attentato capace di sabotare le elezioni di ieri nella capitale non c’è stato. Ma tre colpi di mortaio, esplosi dalle postazioni ribelli di Jobar, la periferia distante poche centinaia di metri in linea d’aria, si sono abbattuti di prima mattina su Bab Tuma, senza provocare feriti, ma solo danni materiali. Quanto basta, per galvanizzare gli animi dei miliziani con la croce di Cristo tatuata sul braccio e giustificare a posteriori la loro mobilitazione. 15 Davanti alla porta consacrata all’Apostolo Tommaso, Philippe Thabet 44 anni, proprietario di un piccolo ristorante, sposato, tre figli, racconta che lui, come molti altri miliziani, appartiene ad un famiglia originaria di Maalula, il paese-santuario di Santa Tecla, sulle montagne del Qalamoun, dove si parlava, e si palerebbe ancora, se soltanto fosse abitato, l’aramaico, la lingua di Gesù. Assalita dai ribelli, poi liberata dall’esercito siriano, oggi Maalula è una landa deserta. Dopo la sua liberazione, infatti, i cristiani non vi hanno più fatto ritorno per evidente diffidenza verso il precario status quo. «La mia casa di Maalula è stata bruciata dai jihadisti — racconta Philippe — . Se sono qui, stamattina, è innanzitutto per riconoscenza verso una terra che a noi cristiani ha dato tanto e perché non voglio che anche la mia casa di Damasco venga distrutta ». Phlippe fa squadra con con Elias Faddun, orefice. Stamattina sveglia alle 5, racconta, messa alle 6 e raduno con gli altri 250 uomini mobilitati per la giornata elettorale. «Oggi è un giorno speciale per noi. Siamo qui per difendere il paese, il nostro quartiere e le nostre chiese». Domanda: ma non sentite disagio a dover combattere contro altri siriani? «Siriani?» risponde Philippe. «C’è di tutto là in mezzo. E sono sicuro che quelli che hanno distrutto Maalula non sono siriani ». Ma come mai non siete riusciti a difenderla? «È molto semplice: loro erano 3000, noi 150». La ricostruzione prevalente vuole che Maalula sia stata infine strappata ai ribelli con l’aiuto decisivo degli Hezbollah, la milizia sciita libanese, intervenuta militarmente accanto all’esercito siriano. Anche per questo gli Hezbollah sono estremamente popolari da queste parti, come dimostra un gran poster che raffigura il leader sciita, Nasrallah, accanto al presidente Assad. «Rispettiamo Nasrallah — dice chiaro e tondo Phlilippe — perché è una persona seria che fa quello che dice». Oggi non solo Bab Tuma, ma tutta la capitale, che negli ultimi mesi aveva molto confidato nei successi dell’esercito al punto da allentare le misure di sicurezza, s’è svegliata immersa in un clima di guerra. L’artiglieria non ha taciuto un attimo. L’urlo assordante dei Mig lanciati a bassa quota ha attraversato di continuo il cielo. Spesso s’è sentito anche lo schianto dei mortai sparati dalla guerriglia. Era questa la colonna sonora che ha accompagnato Assad e la moglie Asma alla sezione in cui il rais ha votato per rimanere altri sette anni al potere. Ma è questo il clima che può garantire la legittimità del voto, in un paese in cui intere province sono nelle mani dei ribelli e l’elettorato s’è ridotto a 15 milioni (dati del Ministero dell’Interno) dopo che 7 milioni di siriani hanno dovuto abbandonare le loro case e due milioni e mezzo il loro stesso paese? Ma quella che per l’opposizione, molti paesi Occidentali e gli arabi del golfo è «una farsa», per la nomenklatura del partito Baath uscita dalla penombra per sottoporsi alle telecamere piazzate intorno ai seggi, è una chiara manifestazione di sovranità popolare. Dalla quale, Assad uscirà rafforzato. Molti i cortei di macchine con gli altoparlanti a tutto volume che inneggiavano al Rais. Nessuno a favore dei due concorrenti, il businessman di Damasco, Hassan al Nuri e l’ex deputato comunista, rinnegato dal suo partito, Maher Hajar, di Aleppo. Stanca ritualità di una elezione scontata, si direbbe, anche se la Commissione elettorale «visto lo straordinario afflusso» ha rinviato di cinque ore la chiusura dei seggi. In realtà, solo a Bab Tuma abbiamo visto uomini, donne, famiglie molto motivate e decise a lottare. «Per vincere — dice Toni, 45 anni, orologiaio e comandante della milizia cristiana —, perché una riconciliazione dopo tutto quello che è successo mi sembra improbabile». 16 del 04/06/14, pag. 9 Bavaglio sul web e arresti, 25 anni dopo Tien An Men Oscurato Google, intimiditi anche i giornalisti stranieri:mai tanta cautela dal regime, la protesta dell’89 è ancora tabù nella Cina di Xi Altro che primavera! A Pechino sembra di essere in pieno inverno ». Amara ironia di Hu Jia, attivista per i diritti umani, confinato da tre mesi nel suo appartamento con obbligo di non uscirne fino a nuovo ordine. Èpesante il clima che si respira nella Repubblica popolare, dove anche Google inquieta il governo al punto da bloccarne l’utilizzo, caso mai qualche internauta volesse andare in cerca di notizie sulla tragedia di 25 anni fa. La strage che il 4 giugno 1989 pose fine alla Primavera democratica cinese. Le autorità quest'anno si sono mosse con largo anticipo. Solitamente gli arresti preventivi avvenivano a ridosso del 15 aprile, giorno in cui nel 1989morì Hu Yaobang, che era stato da poco estromesso dalla guida del partito comunista a causa del suo orientamento riformatore. I primi raduni sulla Tian An Men si formarono in suo onore, nel lutto per la scomparsa di una figura simbolo della speranza di rinnovamento. Settimana dopo settimana il movimento crebbe a dismisura, e assieme salì l'angoscia degli uomini al comando. Alla fine Deng Xiaoping, la cui fantasia riformatrice non andava oltre i recinti dell’economia, ordinò all’esercito di intervenire senza pietà. Ancora oggi le cifre del massacro sono ignote, mille morti secondo Amnesty International. Da molti anni a questa parte Maya Wang, che lavora per la sezione di Hong Kong dell’associazione Human Rights Watch, non aveva visto «un intervento così duro e intenso» da parte delle autorità per fermare in anticipo qualunque tentativo di commemorare quei tragici avvenimenti. I giornalisti stranieri sono stati convocati dalla polizia e ammoniti a stare alla larga dalla famosa piazza, l’associazione stampa estera denuncia atti intimidatori. I membri di una troupe televisiva francese che cercavano di parlare con i passanti sulla Tian An Men sono stati sottoposti a un interrogatorio di sei ore. Arrestato Guo Jian, artista australiano di origini cinesi, che ha dedicato all’ecatombe del 4 giugno 1989 una scultura allusivamente fatta con carne di porco. Molte decine i dissidenti finiti agli arresti, fra loro anche gli organizzatori di un seminario dedicato alla Primavera cinese. Benché fosse la riunione privata di un piccolo gruppo di persone in una casa di Pechino, la polizia ha accusato i partecipanti di «disturbo alla quiete pubblica». Tutti in attesa di processo: Hao Jian docente all’Accademia di cinema della capitale, Xu Youyu, filosofo, Pu Zhiqiang, avvocato. C’è chi è finito in galera per molto meno. Si chiama Liu Wei, giovane operaio di Chongqing. Di passaggio a Pechino, ha pensato bene di mettere in rete un «selfie» che lo ritrae con le dita alzate nel segno di vittoria sullo sfondo dei monumenti di Tian An Men. Lo fanno molti turisti. Fatto dal povero Liu Wei sapeva evidentemente di sovversione. L’impressione degli osservatori è che tanta rigidità da parte del potere derivi dal timore che le tensioni sociali siano arrivate a un livello pericoloso. Secondo alcuni il presidente Xi Jinping, che pure ha legato il suo nome da un lato a progetti di sviluppo e liberalizzazione economica, dall’altro a una lotta senza quartiere alla corruzione, soffre della sindrome di Gorbaciov. Teme che qualunque spiraglio di libertà politica spalanchi la porta a un vento di cambiamento inarrestabile sino al rovesciamento del regime. Il sinologo americano Perry Link era «agnostico » circa le vere intenzioni di Xi Jinping. Ma il modo in cui è stata affrontata la lunga vigilia di Tian An Men lo induce ora a pensare che Xi «se potesse governerebbe con la stessa durezza di Mao». Eppure, proprio nel momento in cui la stretta del potere si fa più soffocante, sembra aumentare la voglia di libertà. Sorprendono piacevolmente i risultati dell’inchiesta svolta da un ricercatore cinese 17 dell’università di Shantou fra gli studenti di giornalismo di otto diverse università cinesi. Protetti dall’anonimato 120 hanno risposto a un questionario inviato loro on line. I dati non sono ancora stati diffusi nella loro interezza, ma l’aspetto che colpisce è la generale ostilità alla censura, la sfiducia nella credibilità dei media ufficiali, e l’opposizione alla regola secondo cui i giornalisti debbano appartenere al partito comunista. 18 INTERNI del 04/08/14, pag. 10 Il premier convoca Boschi e Finocchiaro e detta i tempi. Ma Forza Italia boccia la mediazione sul modello francese, possibile nuovo incontro con Berlusconi. Valanga di oltre 5.000 emendamenti, 3.800 solo dalla Lega Renzi: “Entro giugno il sì sul Senato” SILVIO BUZZANCA GIOVANNA CASADIO ROMA . «Dobbiamo chiudere in poche settimane. Prima della riunione del Consiglio europeo del 27, l’abolizione del Senato deve essere stata approvata in un ramo del Parlamento». Matteo Renzi incalza. Sa che Forza Italia frena. Vuole rinviare. Ma non ci sta. E arriva anche a minacciare di votare la riforma con la sola maggioranza. Berlusconi è avvertito. Così come sono avvertiti i “dissidenti” del Pd: «Non si possono accettare defezioni». Nell’incontro mattutino, alle 9, a Palazzo Chigi con la ministra Maria Elena Boschi e con la presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Anna Finocchiaro, il premier allora non ammette repliche. «Abbiamo alcuni giorni per la trattativa, ma non per fare melina ». Il tono è perentorio. Il presidente del Consiglio è convinto, e l’ha detto più volte, che in Europa l’Italia deve presentarsi con un’accelerazione anche sulla riforma dell’architettura istituzionale. Il “bottino” del voto delle europee va fatto fruttare subito. Per questo Renzi è tanto irritato nei confronti della minoranza del partito che alla vigilia dei ballottaggi per le amministrative di domenica, non rinuncia a contestazioni e dissensi. A Luigi Zanda e ad Anna Finocchiaro è affidato il compito di mediare. Zanda nell’assemblea del gruppo del Pd fa un appello alla responsabilità. Conclude: «Abbiamo già discusso tanto. Giorgio Tonini ci ha appena ricordato che neppure alla Costituente si discusse tanto sul Senato. Ora bisogna andare avanti e il Pd deve votare in modo compatto ». E ha evocato elezioni anticipate se le riforme fallissero. Ma il percorso verso una Camera delle autonomie sul “modello francese” - che è il piano A del governo sulle riforme - è ancora pieno di ostacoli. Forza Italia, appunto, si mette di traverso. Paolo Romani, presidente dei senatori forzisti, giudica un Senato “alla francese” «inaccettabile, diciamo no assolutamente e indefettibilmente ». Si riparla di un futuro colloquio tra Renzi e Berlusconi. Nel pomeriggio a Palazzo Grazioli l’ex Cavaliere convoca una riunione, durante la quale addirittura si è parlato di alzare la posta sulle riforme con una raccolta di firme per il presidenzialismo e l’abolizione secca del Senato. Ma soprattutto l’ex premier vuole trattare. Non intende vestire l’abito dell’attore non protagonista. E a complicare le cose c’è il braccio di ferro tra governo e Regioni sul Titolo V, ovvero il federalismo. La ministra Boschi incontra il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani. Un confronto difficile. In casa dem considerano questo il nodo più complesso da sbrogliare. In più la pioggia di emendamenti sul nuovo Senato: sono 5.200. Stravolgono il testobase, che è quello del governo. Il leghista Roberto Calderoli, che ha trasportato personalmente su un carrello la valanga di emendamenti in commissione, minaccia: «I nostri emendamenti sono 3.806. Se c’è dialogo siamo pronti a ritirarli, se no possono anche aumentare ». E ironizza: «Contrabbandare la riforma del Senato per un sistema francese è come dire che il Gorgonzola e il Roquefort sono la stessa cosa perché in comune hanno solo la muffa....». Il “modello francese” prevede l’elezione indiretta dei senatori da parte di una platea di amministratori che Forza Italia teme possano arrivare a 19 oltre centomila. Ma c’è un piano B di cui si è riparlato a Palazzo Chigi, cioè l’elezione attraverso un listino contemporaneamente all’elezione regionale. Finocchiaro si incarica anche di mantenere i contatti con Gaetano Quagliariello, che gestisce la partita riforme per conto di Alfano. «Siamo in attesa di capire - commenta il coordinatore del Nuovo centro destra - per questo abbiamo chiesto intanto una riunione di maggioranza. Prima vediamo tra di noi, e poi si parla con Fi». Ncd ritiene quindi indispensabile un vertice di maggioranza. Però nel gruppo del Pd la fibrillazione resta alta. Vannino Chiti, Felice Casson, Walter Tocci, Massimo Mucchetti, Corradino Mineo e l’altra ventina di senatori dem che vogliono un Senato elettivo trasformano il disegno di legge che avevano presentato in emendamenti. «Il modello francese è peggio di prima», commenta Casson. Sarcastico è Mineo su Facebook: «Che devo fare, mettermi a ridere? Ma come si fa a prendere un mediano dalla nazionale francese se a noi serve un centravanti?». Mineo potrebbe essere rimosso dalla commissione Affari costituzionali, dove aveva preso il posto di Marco Minniti. Sarebbe sostituito dal renziano Stefano Collina. Il tam tam della sostituzione si fa sempre più insistente e Mineo reagisce: «Non ci penso proprio a dimettermi». Zanda lo ha convocato per un incontro stamani. In serata Finocchiaro e Boschi si vedono un’altra volta per fare il punto sui contatti avuti e sulla tela da tessere. Oggi è la giornata della svolta. del 04/06/14, pag. 18 Milano, nel 2011 la fine di Michele Ferrulli. Il pm chiede la condanna dei poliziotti che lo pestarono dopo il fermo “Quattro giovani contro un anziano bloccato a terra che gridava aiuto: una violenza gratuita e non giustificabile” “Morì dopo l’arresto, 7 anni agli agenti” SANDRO DE RICCARDIS MILANO . C’era una «persona anziana a terra» e «quattro giovani » che continuavano a colpire, «prima tre volte, poi altre sette», anche quando l’uomo «completamente bloccato» sull’asfalto, «gridava “aiuto, aiuto, aiuto, basta, la testa, basta, aiuto”». Dall’arrivo della volante Mecenate in via Varsavia, quel 20 giugno 2011, allertata da un residente che sentiva grida e musica ad alto volume, fino alla morte in strada di Michele Ferrulli, la requisitoria del pm Gaetano Ruta è il lungo racconto di «un intervento di polizia di una banalità assoluta » finito invece in tragedia, con i quattro agenti che continuano a colpire con «una violenza gratuita e non giustificabile». Per la morte di quell’uomo di 51 anni, il pm ha chiesto ieri una condanna a sette anni per gli agenti Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Piva e Sebastiano Cannizzo, accusati di omicidio preterintenzionale e falso ideologico, perché avrebbero redatto una relazione di sevizio «falsa ed edulcorata» su quella notte. Il pm ha chiesto ai giudici della Corte d’assise di riconoscere le attenuanti generiche, perché fino a quella sera — lo hanno testimoniato molti colleghi — i poliziotti «non hanno mai dato problemi in servizio». Anche in via Varsavia erano bastati 36 secondi per disinnescare la tensione. Dopo l’arrivo della prima volante, la telecamera della farmacia mostra come il furgone da cui proveniva la musica venga immediatamente spento. E lo stesso Ferrulli getta in un cestino la bottiglia di birra che agitava in aria. «L’intervento aveva sortito i suoi effetti — ricostruisce il pm — 20 In 36 secondi tutto sembra tornare alla normalità». Ma ecco che nella registrazione si vede l’agente Ercoli che «si rivolge a Ferrulli o dandogli uno schiaffo, o comunque alzando il gomito in modo minaccioso, un comportamento indubbiamente provocatorio». Il gruppo scompare dietro il furgone bianco, ed è grazie all’iphone di due rom che si vede — due minuti dopo — Ferrulli a terra colpito dagli agenti. «L’uso o meno del manganello — spiega Ruta — è un falso problema, perché io posso fare molto male a una persona a terra sia con un manganello, sia con un pugno chiuso. Quattro giovani in piedi contro un anziano, completamente bloccato: vogliamo veramente ritenere che potesse avere giustificazione l’esercizio di una violenza fisica?». La procura riconosce agli imputati che non volevano uccidere: hanno chiamato loro i soccorsi quando hanno capito quanto stava male Ferrulli, che pochi minuti dopo sarebbe morto per arresto cardiocircolatorio. «Gli agenti erano in grado di comprendere che agire così avrebbe potuto provocare la morte dell’uomo ». Sono in grado di capirlo anche le donne rom che parlano nell’audio del telefonino: «Così gli viene un infarto e muore», dicono. «Lasciatelo, gli fate male », chiede il suo compagno di bevute che invece viene portato via su una volante. Poi, l’estremo grido d’aiuto di Ferrulli: «Aiuto, aiuto, aiuto, basta, la testa, basta, aiuto». «Non ci sentiamo più soli, ora lo Stato è dalla nostra parte», ha commentato la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, assistita dagli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa. «La nostra speranza è che gli agenti vengano condannati e non indossino più la divisa, per rispetto di mio padre e anche di chi la indossa onestamente». 21 LEGALITA’DEMOCRATICA del 04/06/14, pag. 11 Nuovo verbale dell’imprenditore arrestato per tangenti “L’ex funzionario del Pci consultava Bersani e Fassino” Expo, Maltauro accusa “Referente di Greganti la vecchia guardia Pd” EMILIO RANDACIO MILANO . «Primo Greganti, all’interno della “Cupola” di Expo, rappresentava gli interessi della vecchia guardia del Pd». Con queste dichiarazioni rese dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il fronte giudiziario dell’inchiesta Expo registra nuovi particolari sul ruolo del «compagno G» tra la cerchia di faccendieri ed ex politici che gravitava su Expo, sulla sanità lombarda e sui relativi appalti. Mentre sul piano politico — proprio in conseguenza del terremoto provocato dall’inchiesta sull’Esposizione del 2015 — si registra il faccia a faccia di un’ora e mezza, a Palazzo Chigi, tra il premier Matteo Renzi e il numero uno di Expo, Giuseppe Sala, durante il quale si è discusso proprio degli strumenti da utilizzare per escludere dai lavori la Maltauro, cioè l’azienda coinvolta nelle indagini. Nel giorno in cui i legali di Luigi Grillo discutono davanti al Tribunale del Riesame la scarcerazione del proprio assistito, trapelano nuovi dettagli sul verbale reso ai pubblici ministeri Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio da uno dei primi pentiti dell’inchiesta che ha portato in cella per associazione a delinquere anche Gianstefano Frigerio e l’ex responsabile acquisti di Expo, Angelo Paris. Maltauro, finito in cella con l’accusa di aver «unto» la cupola per ottenere anche appalti Expo, nel suo verbale ha sostenuto che i referenti politici dell’organizzazione erano definiti. Frigerio — ecco la versione di Maltauro, difeso dai legali Giovanni Maria Dedola e Paolo Grasso — si interfacciava direttamente con Arcore e con Silvio Berlusconi. Di Greganti, invece, Maltauro racconta «come i suoi interlocutori fossero uomini della vecchia guardia del Pd». Nulla visto di persona — ha aggiunto l’imprenditore — ma ascoltato nei corridoi dello studio di Frigerio a Milano, in viale Andrea Doria. I pm hanno chiesto di sapere se l’imprenditore vicentino conoscesse anche i nomi di chi consultava Greganti, e la risposta è stata «Fassino, Bersani e anche altri ». Non ci sono elementi — come del resto per il presunto coinvolgimento di Berlusconi — che possano portare, al momento, a nuove iscrizioni nel registro degli indagati, ma si tratta di uno spunto su cui la procura di Milano punterà comunque i fari nelle prossime settimane. Va ricordato che il nome dell’ex segretario del Pd era già uscito nelle carte dell’inchiesta, ma Bersani aveva subito definito gli accostamenti come «illazioni». A Palazzo Chigi, invece, Renzi, secondo quanto trapelato, avrebbe valutato con il commissario Expo lo stato dei lavori, ma anche il futuro della Maltauro all’interno di Expo. Non è escluso che, dopo l’esplodere dell’inchiesta, si tenti di escludere la società vicentina dal prosieguo dei lavori proprio a causa del coinvolgimento nell’indagine. Da qualunque parte la si guardi, è una nuova incognita per il rispetto della tabella di marcia dei lavori dell’Expo. «Sono sempre positivo », l’unico commento di Sala, una volta concluso l’incontro a Roma. Infine, il gip ha respinto la nuova richiesta di scarcerazione di Frigerio, ex segretario della Dc lombarda e poi parlamentare di Forza Italia. A lanciare l’allarme sullo stato di salute del presunto regista della cupola che si spartiva gli affari di Expo, era stato il suo legale, 22 Manola Murdolo, con un’istanza in cui si denunciavano le cattive condizioni di salute dell’indagato, oggi settantaquattrenne. Soprattutto per un grave problema a un occhio, l’ipertensione e una forma di diabete. Ma il gip Fabio Antezza ha nuovamente respinto l’istanza. Questa volta dopo aver letto il parere di un medico, Marco Scaglione, che è giunto a conclusioni esattamente opposte. «Le condizioni di salute — ha scritto il perito — non sono tali da controindicarne la prosecuzione del regime carcerario all’interno di una struttura dotata di centro clinico (come Opera, ndr ) ». Il giudice — oltre a ritenere che «permangono immutate le eccezionali esigenze cautelari» rileva che «la gravità del quadro probatorio (...) si è ulteriormente aggravata». del 04/06/14, pag. 12 Expo 2015, in arrivo il decreto Oltre un'ora e mezza di faccia a faccia tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il commissario del governo per Expo 2015, Giuseppe Sala. Al termine dell'incontro a palazzo Chigi, Sala non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione, salvo dirsi «sempre positivo» rispetto alla situazione del progetto dell’Esposizione universale di Milano. Il nodo da sciogliere riguarda i poteri di controllo da affidare a Raffaele Cantone, presidente dell`Autorità nazionale anti corruzione, per affrontare i problemi nati dalle inchieste giudiziarie sugli appalti. Per escludere gli imprenditori indagati, senza però ritardare i lavori, sarebbe necessario un decreto legge apposito che potrebbe essere discusso nel Consiglio dei Ministri di venerdì. Il decreto dovrebbe contenere appunto alcune norme per velocizzare i lavori in preparazione all`Expo e l`affidamento di nuovi poteri di controllo a Cantone. La questione dei poteri di Cantone è determinante per garantire il regolare svolgimento dei lavori e la realizzazione di tutti i padiglioni previsti. Già nei giorni scorsi Cantone aveva dichiarato di non voler fare «gite» a Milano, ma di voler esercitare il suo ruolo solo con adeguati poteri. E il governo, dopo aver sentito tutte le parti in causa, si appresta a varare il decreto ad hoc. Ieri c’è stato un incontro anche tra il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Cantone ed il presidente dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Sergio Santoro, in ordine alle problematiche di Expo 2015. «Dallo scambio di informazioni - si legge in una nota - e di opinioni tra i due è emersa una piena sintonia istituzionale e la volontà di collaborare ». Intanto sul fronte delle indagini continua il lavoro dei magistrati che stanno valutando i primi interrogatori. Gianstefano Frigerio e Primo Greganti, i collettori di tangenti, restano, per ora, in carcere. In particolare Greganti ha rinunciato a presentare ricorso al Tribunale del riesame contro la detenzione in carcere. Greganti, dunque, resta in carcere così come stabilito per lui dal Gip Fabio Antezza. Nel frattempo, è in corso l'udienza del Tribunale del Riesame sulla richiesta di scarcerazione presentata dall'ex senatore Luigi Grillo. Il verdetto è atteso entro 5 giorni. del 04/06/14, pag. 11 Bruti-Robledo, Csm verso l’archiviazione LIANA MILELLA ROMA . 23 Al Csm l’hanno già battezzata come un’archiviazione «vestita». È la procedura che domani potrebbe segnare il primo round sullo scontro Robledo vs Bruti. Le due commissioni, la prima (trasferimenti d’ufficio) e la settima (organizzazione del lavoro), passerebbero al plenum una richiesta di chiusura che lascerebbe ai loro posti il procuratore di Milano Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, ma entrambe invierebbero le carte più discusse alla sezione disciplinare e alla quinta commissione (incarichi direttivi). Quindi la querelle che ha diviso la procura più esposta d’Italia è destinata a continuare, per giunta in due sedi più delicate che di fatto dovrebbero riaprire il processo sui singoli comportamenti dei due magistrati. Bruti, alla boa della sua riconferma per altri 4 anni al vertice della procura, rischia di saltare, Robledo potrebbe finire sotto inchiesta per aver portato prima al Csm, e quindi svelato, l’inchiesta su Expo. Giornata di grande tensione a palazzo dei Marescialli. Mariano Sciacca, relatore in prima commissione, e Pina Casella, presidente della settima, entrambi di Unicost, depositano la relazione. Il senso è chiaro. In prima si esclude il trasferimento d’ufficio per le due toghe, si ipotizza l’archiviazione, che però sarà «vestita» dalla richiesta, sui casi controversi, dell’invio del fascicoli alla disciplinare e alla quinta, dov’è in ballo la riconferma o la bocciatura di Bruti. Idem in settima, dove si allineano i rilievi alla gestione Bruti. I caso sono noti. Potrebbe finire alla disciplinare la faccenda Sea-Gamberale, processo di cui Bruti «dimentica», come ha ammesso, il fascicolo in cassaforte. Stessa destinazione per lo scatto di nervi che fece dire a Bruti contro Robledo «se quelli di Md fossero andati a fare la pipì al momento del voto tu non saresti stato eletto...». Robledo in disciplinare per non aver detto che aveva citato Berlusconi per danni non astenendosi dai suoi processi. Solo una critica a Bruti sul processo Ruby e sull’assegnazione all’aggiunto Boccassini, «senza la regolamentare motivazione scritta». In bilico il famoso caso Sallusti, perché se fu plausibile la scelta di cambiare la regola sui domiciliari Bruti la presentò all’inizio «come un’eccezione» scatenando a quel punto le proteste degli altri pm milanesi. Altra pagina difficile, su cui al Csm c’è rissa, è quella del doppio pedinamento per Expo che però Bruti conferma, ma Robledo nega supportato dalla Gdf. Delle due l’una, se ci fu, potrebbe configurarsi come un abuso d’ufficio, oppure come il frutto di una procura in cui non c’è dialogo. Infine una decisione facile. Sull’ipotetica iscrizione di Formigoni per il San Raffaele il Csm alzerebbe le mani dicendo «noi non siamo la Cassazione». del 04/06/14, pag. 3 Pane, cozze, caffè: ma che truffa Antonio Sciotto Contraffazioni. Il crimine alimentare è un business: aumentano fatturati e sequestri. Sarà pure il tema dell’Expo, ma su questo fronte restiamo deboli. Il dossier Cgil E proprio nel paese dell’Expo 2015 – tema la qualità del cibo – le contraffazioni abbondano. Il Rapporto su Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto presenta un’interessante disamina dei casi più eclatanti di truffe alimentari, spesso organizzate dalla criminalità. Bufala, pane, caffè, pesce, olio, pomodori: «un menù per tutti i gusti», lo slogan scelto dalla Flai Cgil per il dossier-denuncia. Intanto qualche dato: secondo l’Ocse dal 2000 al 2007 il commercio di prodotti contraffatti, e il relativo fatturato, sono aumentati del 150%. Solo in Italia, negli ultimi 10 anni, secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta su questo fenomeno, siamo al +128%: il giro 24 d’affari del cibo «truffaldino» sarebbe di 1 miliardo di euro, pari al 16% sulla totalità dei prodotti contraffatti. Molto più ampio invece il fatturato delle agromafie: ben 12,5 miliardi di euro, secondo il rapporto dello scorso gennaio della Direzione Nazionale Antimafia. Per questa ultima cifra, il riferimento è all’intera filiera: ovvero il controllo che le organizzazioni criminali esercitano su produzione, arrivo delle merci nei porti, mercati all’ingrosso e grande distribuzione e confezionamento. Torniamo però ai casi di contraffazione alimentare del made in Italy. Come detto, nel nostro Paese siamo intorno a 1 miliardo di euro di fatturato. Ma se ci riferiamo ai prodotti alimentari italiani nel mondo, quello che dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello, secondo i dati del ministero dello Sviluppo la fatturazione del contraffatto sale a ben 60 miliardi di euro. Un terzo circa del fatturato dei prodotti originali: si tratta del cosiddetto Italian sounding, cioè l’utilizzo di etichette e simboli che evocano l’italianità ma che in realtà di italiano non hanno nulla. Come dire: ci sarebbe lo spazio potenziale per ben 60 miliardi di euro per i produttori italiani, che oggi ci vengono «soffiati» da chi si millanta come tale. In Italia, c’è il caso del caffè di cattiva qualità imposto dal clan Vollaro ai bar napoletani e dalla mafia a quelli siciliani. Caffè Nobis e Caffè Floriò: i bar erano costretti comunque a comprare prodotto di qualità per non perdere la clientela. Da Brindisi invece, la Sacra Corona Unita impone insieme al caffè pessimo anche slot truccate. In Provincia di Caserta le frodi riguardano la mozzarella di bufala: l’azienda Mandara ad esempio è sotto processo perché secondo la Dda di Napoli utilizzava latte di bufala congelato proveniente dall’Est Europa, spacciando il prodotto per mozzarella Dop. E il pomodoro delle nostre salse? in buona parte viene dalla Cina. Indagini doganali hanno dimostrato che tutto il concentrato importato dalla Cina ha come unica destinazione Napoli e Salerno (dove si trovano più della metà degli impianti di trasformazione italiani). L’import di concentrato cinese è aumentato negli ultimi 10 anni del 272%. E così sono stati sequestrati milioni di barattoli di «San Marzano Dop», falso, destinati al mercato Usa. Pasta e taralli? Vittime anche loro. Decine di tonnellate di prodotti etichettati con «Qualità e tipicità 100% made in Puglia» o «Prodotta con semola di grano duro della Puglia» sono state sequestrate in provincia di Barletta, Andria e Trani: il grano era extra Ue. A Palermo si è scoperto che l’intero mercato di Ballarò era rifornito da un maxi macello clandestino: carne controllata dal mandamento di Porta Nuova. A Napoli sono decine i panifici clandestini sequestrati, ma non basta: molto attivo è anche il contrabbando di pesce e addirittura di acqua di mare (inquinata), mentre a Taranto i clan si fanno la guerra per il commercio delle cozze. 25 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 04/06/14, pag. 5 Però ci pensa il caporale Antonio Sciotto Il dossier. Rapporto Flai Cgil sul lavoro nei campi: oltre 100 mila i «para-schiavi». Sottratti 600 milioni di euro l’anno all’Inps. «Serve una legge per punire le imprese e tutelare chi denuncia» Baljit Singh è indiano: ha lavorato diversi anni in un’azienda di Pontinia (Latina), come mungitore. I padroni italiani erano pronti a lasciarlo morire, pur di non venire allo scoperto: «Un giorno mi hanno chiesto di pulire un frigorifero, con acido misto a candeggina. I fumi mi hanno stordito, e loro si sono rifiutati di portarmi all’ospedale perché ero irregolare. Sarei morto se non mi avesse accompagnato un mio collega: loro poi mi hanno raggiunto al pronto soccorso, imponendomi di tacere. Poi sono andato alla Cgil, e li abbiamo denunciati». Il secondo Rapporto su Agromafie e Caporalato della Flai Cgil è pieno zeppo di storie di questo tipo: preparato dall’Osservatorio Placido Rizzotto (non a caso dedicato a un sindacalista morto per difendere i lavoratori del Meridione), mette insieme cifre e dati di un’economia malsana – quella italiana, in gran parte sommersa – e offre un’interessante mappatura di tutto il territorio nazionale. Basandosi sulle denunce al sindacato, i rapporti istituzionali e le attività delle forze dell’ordine, offre un quadro ragionato delle attività della criminalità organizzata in campo agroindustriale e alimentare. Con una particolare attenzione allo sfruttamento del lavoro. Il primo dato che salta all’occhio, come nota Stefania Crogi, segretaria della Flai Cgil, è il numero delle persone denunciate per il reato di «caporalato»: «Sono ben 355 dal 2011, cioè da quando è stata approvata la legge che noi abbiamo sollecitato. Una conquista importante: ma adesso ci resta da completare l’opera. Vorremmo che si applicasse la direttiva Ue 52/2009, che dispone di individuare e punire anche l’“utilizzatore finale” dei lavoratori intermediati dal caporale, ovvero l’impresa. E poi si dovrebbe permettere ai lavoratori che denunciano di ottenere un permesso di soggiorno: a causa della Bossi-Fini, se sono irregolari rischiano di essere mandati in un Cie e poi espulsi. Un paradosso: in questo modo chi denuncerà mai?». Il caporalato in agricoltura, secondo le stime del Rapporto Cgil, costa allo Stato un’evasione contributiva non inferiore ai 600 milioni di euro annui. Sono almeno 400 mila, l’80% dei quali stranieri, i potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato. Mentre sono sicuramente 100 mila quelli che vivono una grave condizione di sfruttamento lavorativo, oltre al grave disagio abitativo e igienicosanitario. Chi si affida a un caporale non solo viene sfruttato nei campi: da Nord a Sud, il dossier sfata il falso mito secondo cui il para-schiavismo si concentrerebbe solo nel Meridione. Il Piemonte ad esempio è molto colpito, come anche la Lombardia, il Veneto e l’Emilia, spesso nelle coop della logistica o nelle aziende di confezionamento. Ma poi viene spesso «accolto» in luoghi fatiscenti e sporchi, senza acqua potabile e servizi igienici, e lì deve vivere: magari non perché forzato, ma anche solo per il semplice fatto che all’alba il caporale viene lì, e non altrove, a prenderti. Dati da brivido: il 62% dei lavoratori impegnati nelle raccolte non ha accesso ai servizi igienici; il 64% non ha accesso all’acqua corrente; il 72% di quelli che si sono sottoposti a visita medica, ha sviluppato malattie legate al lavoro. 26 E come vengono retribuiti? Naturalmente in nero, con ampi margini di risparmio per le imprese rispetto al lavoro regolare: tra i 25 e i 30 euro al giorno, per una media di 10–12 ore di lavoro. Ma mica possono tenerseli tutti. C’è la «tassa» per i caporali, spesso vicina al 50% del già magro salario: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino, 1,5 euro per la bottiglietta d’acqua. «I caporali forniscono due cose fondamentali per i lavoratori – dice Enrico Pugliese, sociologo del Lavoro – La prima è il trasporto, o ad esempio l’acqua: a peso d’oro, tanti campi non hanno neanche una fontanella. La seconda è l’informazione: solo io so dove c’è lavoro oggi, altrimenti resti a casa. Se il pubblico fornisse mezzi per andare nei campi, come è stato sperimentato a Cosenza, o un collocamento efficace, questa piaga sarebbe già eliminata senza bisogno di puntare solo su controlli e repressione, che pure ci vogliono». Tra le richieste della Cgil al governo Renzi, infatti, come spiega Roberto Iovino, che per la Flai ha curato il Rapporto su Agromafie e Caporalato, c’è quella di creare «un collocamento trasparente e legale in rete per la domanda e l’offerta». 27 SOCIETA’ del 04/06/14, pag. 18 Vent’anni di Gay Pride Roma sfila e chiede «adesso fuori i diritti» Sabato un corteo attraverserà il centro della Capitale. Tante le iniziative: dal web fino al teatro Delia Vaccarello I GESTI E LE PAROLE. PRIDE È SFILATA, MA NON SOLO. NELLA SETTIMANA IN CORSO CHE CULMINERÀ NEL CORTEO DEL 7 GIUGNO dell'orgoglio omosessuale a Roma, si sottolineano l'importanza delle parole e la forza del teatro, aprendo le iniziative che si svolgeranno nelle altre città. Che senso ha dire «preferenza sessuale » quando si parla di lesbiche o gay? L'orientamento non è una preferenza, un gusto o un appetito, è invece una inclinazione a stringere legami sentimentali, esistenziali, erotici con le persone del proprio genere. Dice preferenza spesso chi vuole accreditare presso l'interlocutore una propria apertura di vedute ma in realtà compie l'operazione opposta, sminuendo di molto il significato dell'essere omosessuali. Ancora, è possibile che il parlante in questioni riveli anche un certo eterocentrismo, che suona come «etnocentrismo » e lo rievoca, significando il dare per scontato che solamente l'orientamento sessuale etero sia quello di default e che quelli gay, lesbico e bisessuale siano una eccezione, una minoranza da tollerare. Anche il termine «comportamento omosessuale» è riduttivo, può indicare una pratica eccezionale o un incontro sporadico e non ha nulla a che vedere con l'orientamento. «Soltanto quando ci innamoriamo», quando siamo presi e coinvolti per una persona del nostro sesso possiamo dire di essere omosessuali, allora cade a fagiolo l'espressione «essere bicurios»”, termine che deriva dalla crasi tra bisessuale e curioso che indica persone in fase di sperimentazione ma anche donne e uomini etero che hanno anche comportamenti omosessuali. Insomma il mondo dei termini che riguardano sesso e sessualità, genere, ruolo, identità, orientamento è vasto e frastagliato. Per conoscerlo l'associazione Gaynet lancia per il Pride 2014 lo «stylebook» disponibile sul sito da oggi e lo presenta venerdì al Pride Park della capitale (alle 17.30 in via Casilina vecchia 42). Se Gaynet dà il il peso che merita a termini e locuzioni, all'Argentina va in scena per tre giornate (4 , 6, 8) l'anteprima «altri amori» della rassegna di Rodolfo Giammarco. Così Pippo Delbono s’accosta per la prima volta a Bernard- Marie Koltès, e prende spunti dal monologo di culto Lanottepocoprimadella foresta, mentre Valter Malosti propone la resa sul palcoscenico dell'anima provocatoria di Violette Leduc dirigendo Isabella Ragonese (in scena con la giovane Roberta Lanave) nell'adattamento teatrale del romanzo ThérèseeIsabelle. Ancora, nella terza serata un parallelo tra l’universo di Jean Genet, di cui viene proiettato il breve film Un chant d’amour, e la omosessualità di Francis Bacon in Caro George di Federico Bellini ad opera di Giovanni Franzoni diretto da Antonio Latella. Iniziative d'autore per il pride romano che compie venti anni. Era il giugno del 1994 quando sfilò a Roma il primo corteo italiano del gay pride. Dopo due decenni e tante attese, nulla o quasi è stato riconosciuto del tantissimo che serve.Edunque lo slogan è «adesso fuori i diritti», una richiesta all'esecutivo e al parlamento perché si varino norme in grado di soddisfare la completa parità e la piena cittadinanza. Il principio cardine è la liberazione da ogni forma di sopruso, autoritarismo e totalitarismo, laddove si proclamano come fondativi della società democratica «i valori costituzionali dell’uguaglianza, della libertà, dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo». Il logo della 28 manifestazione è un cerchio – simbolo di unità, inclusione, condivisione – formato dai sei colori dell’arcobaleno, nessun colore è più importante di un altro, ma tutti si mescolano per creare tonalità uniche. All’interno campeggia la scritta «Roma Pride» . L'invito è «a vedersi fuori»: vivere con libertà e pienezza il proprio modo di essere, rispettare e far rispettare nella scuola come nello sport, al lavoro, come a casa e ovunque, il senso autentico della parola libertà. On line un'applicazione che permette a chi vuole di «metterci la faccia » e colorare il proprio volto con i segni del war painting arcobaleno (http:// www.romapride.it/2014/metticilafaccia/). «Dietro ogni volto – dichiara Andrea Maccarrone, portavoce della manifestazione - c’è la consapevolezza che dopo 20 anni di Pride, la nostra battaglia contro i pregiudizi è più attuale che mai» Il corteo partirà da piazza della Repubblica alle 16.30. E invece a Toronto, in Canada, dal 20 al 29 giugno ci sarà il Pride internazionale. 29 BENI COMUNI/AMBIENTE del 04/06/14, pag. 5 Maxi blitz contro il movimento per la casa. Arresti e 111 indagati Mauro Ravarino Torino. Contestati 39 reati che sarebbero stati commessi durante la campagna anti-sfratti. Colpiti da misure cautelari anche tre dei militanti No Tav già in carcere con l’accusa di terrorismo Blitz extra-large nei confronti del movimento torinese per il diritto alla casa. Centoundici indagati, 29 misure cautelari, di cui 11 in carcere, 6 arresti domiciliari, 4 divieti di dimora a Torino, 4 obblighi di dimora nei comuni di residenza e 4 obblighi di firma. Nel mirino degli inquirenti ci sono 39 episodi di reati contestati, commessi dal settembre 2012 al gennaio 2014, durante la campagna anti-sfratti (picchetti e blocchi, soprattutto). E tra i militanti colpiti dalle misure cautelari ci sono anche tre dei quattro attivisti No Tav già in carcere con l’accusa di terrorismo: Niccolò Blasi e Claudio Alberto sono stati raggiunti da una misura di custodia cautelare in carcere; per Chiara Zenobi il provvedimento notificato è di arresti domiciliari. Non sono pochi quelli che, fuori e dentro il movimento, sottolineano una recrudescenza giudiziaria fuori misura. L’inchiesta è condotta dai pm Antonio Rinaudo (impegnato nelle principali indagini sui No Tav) ed Emanuela Pedrotta, le cui richieste sono state accettate dal gip Cristiano Trevisan, contestando «gravi indizi di reato» e la «pericolosità sociale». I reati contestati vanno dal danneggiamento alla resistenza e violenza aggravata a pubblico ufficiale, dalla violenza privata all’invasione di edifici, a un capo ben più grave come il sequestro di persona. Secondo le indagini, le persone colpite dai provvedimenti avrebbero commesso ripetutamente reati per impedire gli sfratti, creando situazioni di conflitto con le forze dell’ordine, con ricadute sul piano della sicurezza pubblica come minacce, blocchi stradali e assalti a caserme. Contestati, inoltre, gli assalti alle sedi del Pd torinese. Il blitz principale è scattato all’alba all’Asilo di via Alessandria, storica occupazione di area anarchica. All’arrivo della Digos alcuni militanti sono saliti sul tetto dell’edificio. Gli arresti, eseguiti anche dai carabinieri, sono scattati alle 4 oltre che a Torino ad Alessandria, Cesenatico, Roma, Ferrara, Milano, Trento, Cuneo, Cosenza e Modena. A Torino il problema casa è una vera emergenza. Mentre perdeva posti nella classifica della produttività, il capoluogo piemontese scalava quella degli sfratti, diventando — negli ultimi anni — la capitale italiana degli sfratti per morosità incolpevole, dovuti a disoccupazione o cassa integrazione. Una media di 4mila ogni anno. L’11 luglio Torino ospiterà, in un vertice sull’occupazione giovanile, i primi ministri dell’Ue, Renzi compreso. E il sito Infoaut si chiede: «Sarà un caso che questa operazione viene a cadere tre giorni dopo un’assemblea nazionale dei movimenti contro l’austerity, riunitisi qui a Torino per preparare una mobilitazione di massa per l’11 luglio?». Torino vive giorni difficili. Nella notte tra sabato e domenica, Andrea, un ragazzo di 27 anni è stato accoltellato sulla metropolitana da un gruppo di giovanissimi neofascisti, perché «vestiva da zecca». Tranne qualche voce isolata (tra gli altri, Prc e i consiglieri di Sel Michele Curto e Marco Grimaldi e del Pd Luca Cassiani) dalle istituzioni, compreso il sindaco Fassino, si è levato un silenzio assordante. Ieri, Alberto Gelmi, il ventenne arrestato per l’accoltellamento, non ha risposto al gip Anna Ricci. Il pm gli contesta il reato di tentato omicidio di cui è accusato anche un 17enne detenuto nel carcere minorile. 30 del 04/06/14, pag. 14 L’appello Le parole non si processano, si liberano. Il 5 giugno si terrà a Torino l’udienza preliminare del processo che vede Erri De Luca imputato per il reato di istigazione a delinquere per aver pubblicamente manifestato la propria contrarietà ad un’opera ritenuta inutile e la solidarietà alla lotta NO TAV. Raggiunge così il suo apice il processo di criminalizzazione di un movimento avviato dalla Procura di Torino che arriva ormai a colpire anche coloro che, esercitando un diritto costituzionalmente garantito, esprimono solidarietà e vicinanza alla popolazione valsusina che da anni resiste, nell’interesse collettivo, contro l’avanzamento di una grande opera inutile e insensata. Si arriva al punto di evocare il reato di opinione, di fascista memoria, mettendo alla sbarra le opinioni di uno dei migliori poeti italiani e calpestando il diritto di manifestazione del pensiero, sancito dall’articolo 21 della Costituzione. Tramite la minaccia dell’azione penale si vuole impedire il diritto alla libera espressione del dissenso e della disobbedienza civile. Crediamo che il diritto di libertà e la tutela dell’ambiente costituzionalmente garantiti valgano per tutti, e che tutti debbano essere tutelati. Le idee e le parole, anche se disobbedienti, non possono essere processate. Liberiamo le parole. In occasione dell’inizio del processo leggiamo tutti insieme le parole di Erri: davanti al Tribunale di Torino, nelle piazze italiane, nelle librerie, dovunque ci troviamo. Primi firmatari: Ascanio Celestini (artista); Fiorella Mannoia (cantautrice); Wu Ming (collettivo di scrittori); Fabio Geda (scrittore); Ugo Zamburru (psichiatra); Luca Rastello (giornalista); Andrea Doi (giornalista); Fabrizio Gatti (giornalista); Loredana Lipperini (giornalista); Haidi Gaggio Giuliani; Fulvio Vassallo Paleologo (docente universitario); Maria Attanasio (scrittrice); Antonella Cilento (scrittrice); Peppe Lanzetta (scrittore); Alex Zanotelli; Isa Danieli (attrice); Titti Marrone (giornalista); Francesco Durante (giornalista); Luciano D’Alessandro (fotografo); Ugo Mattei (docente); Pino Petruzzelli (scrittore, attore e regista); Luca Mercalli (metereologo); Raffaele K. Salinari (terre des hommes); Patrizio Gonnella (antigone); Tommaso Di Francesco (il manifesto). 31 INFORMAZIONE del 04/06/14, pag. 4 Rai, il mistero buffo dello sciopero Cavallo pazzo. La commissione di garanzia dice no allo sciopero del servizio pubblico l'11 giugno. Cgil e Uil insistono ma Bonanni si dissocia e l'Usigrai ci pensa di Micaela Bongi I 150 milioni si allontanano dalle casse di viale Mazzini con il sì delle commissione bilancio e finanze di palazzo Madama all'articolo 21 del decreto Irpef. Ma nel frattempo nella vicenda del prelievo deciso dal governo sul canone Rai del 2014 sono già precipitate tensioni e polemiche che poco hanno a che fare con la spending review imposta dal governo all'azienda. E anche il futuro della tv pubblica diventa campo di battaglia nella guerra che Matteo Renzi ha dichiarato ai sindacati. Mentre l'Usigrai, il sindacato dei giornalisti, continua a tirare il freno a mano rispetto allo sciopero dei dipendenti proclamato per l'11 giugno, la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso non arretra: «Noi insistiamo, le vertenze si fanno così. È grave sostenere che lo sciopero è umiliante. Qualunque controparte dovrebbe sapere che è una cosa normale. Se cambiano le cose, siamo pronti a discutere, ma si deve dire che il decreto non si fa così e si apre un confronto». E Camusso elenca quello che non va nel dl: la vendita di Raiway, che «mette a rischio il sistema paese»; il mancato riconoscimento alla Rai di una quota del canone, che è una tassa di scopo; la questione delle sedi regionali, «patrimonio da difendere». L'emendamento dei relatori approvato ieri prevede che in ogni regione ci siano una sede giornalistica e strutture produttive, lasciando comunque all'azienda libertà organizzativa. La tv pubblica è esclusa dai tagli previsti in generale per le società partecipate, ma si prevede la cessione di quote di Raiway. Il taglio dei 150 milioni resta appunto confermato e anche il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, in conferenza stampa ieri mattina tuonava: «Il governo chiede una tangente alla Rai». Ma nello scontro entra a gamba tesa la commissione di garanzia sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali: quello dell'11 giugno sarebbe «illegittimo», sentenzia, perché l'Usb aveva già comunicato per il 19 un'astensione dal lavoro nello stesso settore, e dunque non verrebbe rispettata la regola che prevede un intervallo di 10 giorni tra iniziative analoghe. Sciopero confermato, ripetono però le sigle sindacali che hanno indetto quello contro i tagli alla Rai, perché, scrivono al garante, «non risulta che l'Usb abbia una consistenza rappresentativa tale integrare la violazione» della normativa. Ma i sindacati non sono più compatti. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, da giorni cercava di evitare lo scontro frontale e dunque ieri non ha partecipato alla conferenza stampa delle altre sigle, per poi chiedere un ripensamento dopo l'altolà del garante. Motivo: «Non trasformare questa vertenza in un inutile braccio di ferro dal sapore politico con il governo». E infine a sera la Cisl si sfila definitivamente dallo sciopero. Anche l'Usigrai continua a «riflettere» sulla protesta, salutando con favore le aperture del governo che in realtà va avanti su un suo binario. Perché a parte le rassicurazioni sulle sedi regionali quanto richiesto dai giornalisti (l'anticipo di due anni della concessione di servizio pubblico, la riforma del canone e l'avvio di una discussione su una riforma di sistema) era già previsto. E il sottosegretario Giacomelli l'altro giorno avvertiva: discussione sì, ma «non ci faremo dettare l'agenda dai sindacati». L'Usigrai aprirà una nuova consultazione sullo sciopero confermando allo stesso tempo contrarietà al taglio di 150 milioni, rispetto al quale è stato presentato il parere di incostituzionalità del professor Alessandro Pace. 32 Nel dibattito sciopero sì sciopero no, dopo aver lanciato l'allarme sul rischio di tagli all'offerta e ai dipendenti, il dg della Rai, Luigi Gubitosi ora si dice contrario perché anche l'azienda deve «partecipare al cambiamento», «bisogna ringiovanirla» e insomma, «faremo il sacrificio». Mentre per il presidente della commissione di vigilanza, il 5 Stelle Roberto Fico, lo sciopero «è giusto» perché Renzi «tenta di svendere i ponti Rai», ma «andava fatto prima per contrastare l'ingerenza della politica». In questa vicenda piena di contraddizioni, i 5 Stelle sono in difficoltà: avendo accettato al grido di 'fuori i partiti dalla Rai' la presidenza della commissione deputata a lottizzare, Renzi ha gioco facile nello scippare ai grillini anche questa battaglia. E così Fico sale sul carro della riforma: «Va assolutamente fatta». Oggi la vigilanza Rai ascolterà che che hanno da dire la presidente di viale Mazzini, Anna Maria Tarantola, e il cda. del 04/06/14, pag. 8 Rai, sindacati spaccati la Cisl non sciopera più Lo stop del Garante Cgil e Uil avanti: “Il governo così chiede il pizzo” Il Senato salva le sedi regionali, i tagli però restano ROMA . Lo sciopero Rai dell’11 giugno è “illegittimo” a detta dell’Autorità di garanzia per gli scioperi. Ma Cgil e Uil confermano lo sciopero, contestano le ragioni date dall’Authority (l’11 sarebbe una data troppo vicina all’astensione del 19 giugno dalla Usb). Il fronte della protesta però si spacca: la Cisl non ci sta, l’Usigrai traballa. In mattinata, al Teatro delle Vittorie, i leader di Cgil e Uil tuonano contro Renzi. «Grave che si definisca umiliante uno sciopero» attacca Susanna Camusso, convinta che il decreto Irpef «metta a rischio la Rai nella dimensione di Servizio pubblico e di grande impresa del Paese». Per Luigi Angeletti «Renzi si comporta come un pessimo ad dell’azienda pubblica, ha preso una cantonata». Di più: «Il prelievo di 150 milioni sono il “pizzo”, la tangente chiesta alla Rai». Un tono esagerato per Ernesto Magorno (Pd) che vuole le «scuse» da Angeletti: il linguaggio sarebbe «offensivo per le vittime della mafia e della malavita». Raffaele Bonanni, segretario Cisl, prende le distanze, coglie al volo la decisione del Garante per evitare di «bloccare la Rai con uno sciopero». Sulla polemica interna ai sindacati si infila Roberto Fico (M5s), presidente della Vigilanza: «Difendo lo sciopero della Rai, nella parte in cui si vuole difendere l’infrastruttura pubblica di Raiway». Ma riconosce che l’azienda «va riformata, trasformata: deve cambiare il numero delle testate giornalistiche perché sono troppe, bisogna rivedere la forma di governance, si devono ridurre gli appali esterni che ammontano a 1,3-1,4 miliardi l’anno». Mentre in Italia si discute di un taglio di 150 milioni in Inghilterra la Bbc si appresta a licenziare 600 persone (su 8mila dipendenti) tra giornalisti e tecnici. Sarà anche per questo che ieri il sindacato dei giornalisti Rai (Usigrai), pur mantenendo la «contrarietà» in merito ai tagli che incombono sull’azienda, ha evidenziato che nell’azione di governo ci sono fatti positivi come «l’anticipo di 2 anni della Concessione del servizio pubblico, la riforma del canone per recuperare l’evasione, la conferma di redazioni Rai in ogni regione». Passaggi che servono ad aprire un utile confronto. Anche se in Commissione Bilancio, al Senato, il “deprecato” taglio di 150 milioni viene confermato, con la possibilità di cedere quote di Raiway e di dismettere Rai World. 33 Oggi il presidente Rai, Anna Maria Tarantola e i consiglieri Rai, saranno ascoltati in Vigilanza sulla spending review Rai. ( le. pa.) del 04/06/14, pag. 1 Rai, chi spara sulla croce rossa Norma Rangeri Ci vuole coraggio, mentre l’Istat sforna l’ennesimo bollettino di guerra sui numeri choc della disoccupazione italiana, a convocare uno sciopero della Rai contro Renzi, anzi, contro Matteo. Per capirlo basta accendere un telegiornale o un talk-show a caso. Senza bisogno di alcuna riforma, siamo al Telegiornale Unico del Pd. Già durante la campagna elettorale, e ancor di più dopo i clamorosi risultati delle elezioni europee, è esplosa l’entusiasta adesione del servizio pubblico verso il “partito della nazione”, fino ai toni di vibrante commozione con cui i tg commentavano il “bagno di folla” del capo del governo nella giornata del 2 Giugno. Un conformismo asfissiante che, fossimo nei panni del popolare presidente del consiglio, cercheremmo di contenere consigliando al fan-club di Saxa Rubra di placare questa onda berlusconiana di ritorno. E infatti dopo la proclamazione della protesta sindacale, nel volgere di qualche ora, sono comparsi i distinguo, i dubbi, le dissociazioni, l’apertura a un supplemento di riflessione da parte dello stesso sindacato dei giornalisti, che ora deve fare i conti con il divieto pronunciato ieri dalla commissione di garanzia sugli scioperi che dice no alla data dell’11 giugno. Le ragioni dello sciopero sono note: la richiesta di Palazzo Chigi di fare cassa per 150 milioni, approvata ieri dalle commissioni Bilancio e Finanze del senato, insieme all’esplicita richiesta di cessione di quote importanti di RayWay (i trasmettitori di frequenza). Soldi subito per coprire le necessità del decreto Irpef e dismissione di una parte dell’asse strategico RayWay (da custodire invece gelosamente in mano pubblica, materia prima per tutti i nuovi servizi della banda ultralarga). Ciascun attore ha fatto la sua parte in commedia. Il governo ha sparato sulla crocerossa, proseguendo nella linea vincente di prosciugare l’acqua al mulino grillino, profittando del discredito che colpisce un’azienda sfinita dalla lottizzazione, omologata alla tv commerciale, affidata al lavoro di migliaia di precari. Il direttore generale ha minacciato “lacrime e sangue” anziché controbattere con un piano a medio termine di risparmi, doverosi in un’azienda dove i generali sono più dei soldati semplici, e tra consulenze, appalti, collaborazioni esterne siamo più vicini a una catena feudale che al modello della più grande azienda culturale del paese. Il presidente-cittadino della Vigilanza anziché applaudire ai tagli contro l’odiata casta, come Grillo comanda, promette di unirsi alla protesta. Infine il sindacato che non ha mai scioperato quando un solo padrone governava la Rai in simbiosi con le sue televisioni private, mettendo a rischio, non solo il servizio pubblico, ma la democrazia del paese. Salvo minacciare di incrociare le braccia di fronte a una spending dura ma sostenibile, d’accordo tutte le sette sigle sindacali e tutte le categorie, dalle sgretarie ai dirigenti, ai giornalisti. Questa commedia conferma la funzione di sismografo della Rai nei passaggi cruciali della politica nazionale, quando il cavallo deve acconciarsi a portare il peso del nuovo cavaliere. Ma tutto sarà stato utile se sarà servito ad aprire una discussione pubblica su una radicale riforma dell’azienda e del prodotto. 34 del 04/08/14, pag. 14 Il punto Rai Vincenzo Vita Attorno alla questione Rai – neanche troppo oscuro oggetto del desiderio — si sta giocando una partita che supera di gran lunga i confini dell’azienda. Una prova di forza, ad alto contenuto simbolico, decisa dal governo. Del resto, ora il presidente del consiglio è sospinto dai venti degli dei e il dibattito (non certo solo sulla Rai) sta assumendo le sembianze del pensiero unico. Attenzione, però, a non strafare. I promotori dello sciopero, vale a dire le organizzazioni sindacali e non solo la componente giornalistica Usigrai, saranno pure «brutti, sporchi e cattivi», come un certo neoconformismo vuole dipingerli, ma pongono problemi seri. Pesa la decisione della Commissione di vigilanza sugli scioperi, certo. Da capire. Ma la grande parte dei lavoratori della Rai guadagna cifre assai modeste. I privilegiati, dunque, sono una minoranza, peraltro ascrivibile alle logiche del divismo, dell’ossessiva ricerca dell’ascolto, al connubio tra programmi e pubblicità. Ciò non toglie che la quaresima è indispensabile, dopo anni di sprechi e di spese assurdi, di assurdi appalti dispendiosi: altra faccia di quel «duopolio» Rai-Mediaset, che per anni è stato l’approdo e l’isola felice del sistema politico-clientelare italiano. All’origine dei mali della Rai sta proprio quel tempo, in cui la concorrenza (apparente più che reale) faceva lievitare i costi, creando un indotto graditissimo a pezzi di partito, a lobby fameliche, ai salotti della «grande bellezza». E chi era contro era, per ciò stesso, un eretico marginale. Complice il conflitto di interessi sempre determinante, ogni tentativo di cambiamento è stato affossato. Il rosario delle leggi affossate è lungo. Ben venga, allora, un vento innovatore. Con qualche punto fermo. Innanzitutto, il diritto di sciopero è sacrosanto e suscita un retrogusto amaro assistere alla gara di queste ore a mostrarsi fedelissimi al «buon governo». L’eccesso di zelo è sempre sospetto. Inoltre, va ricordato – non rimosso — il punto da cui origina la vertenza. Con un atto di dubbia costituzionalità, come ben sottolineato dalla memoria preparata al riguardo da Alessandro Pace, il taglio delle risorse è stato inserito in un decreto legge, il n.66 sull’Irpef. Sui principi non si transige. Anche un esecutivo guidato da Lenin e composto da Mao, Ho Chi Minh e Rosa Luxemburg non l’avrebbe scampata. Se, poi, l’avesse fatto Berlusconi, che avrebbero detto e scritto tanti commentatori? Perché non è stato proposto un disegno di legge centrato su tre punti: indipendenza della Rai dai partiti e dai poteri esterni, regolazione del conflitto di interessi, abrogazione della legge Gasparri che santificò il duopolio? Il governo gode di un enorme favore popolare e di una altrettanto estesa simpatia mediatica. Davvero sarebbe augurabile che l’incidente si chiudesse, ma con l’individuazione di un impegnativo tavolo di confronto tra governo, sindacati e azienda. Il sottosegretario Giacomelli ha fatto finalmente un’apertura su uno dei nodi qualificanti della vertenza: la conferma anticipata del rinnovo della «Convenzione Stato — Rai». Solo così, tra l’altro, si può immaginare una strategia, ivi compresa la questione di Rai-Way, che oggi – in assenza di un piano globale — rischia di essere una mera e suicida operazione di cassa. Altro ci vuole, però. Una visione. Negli anni Sessanta in Gran Bretagna fu istituita una commissione presieduta da Harry Pilkington per riformare la Bbc. Non si può fare lo stesso in Italia? O è in corso una prova muscolare preventiva? 35 ECONOMIA E LAVORO del 04/06/14, pag. 2 Mai così tanti senza lavoro tra i giovani si sale al 46% giù anche i contratti precari Sono tre milioni e mezzo nei primi tre mesi, il 13,6 per cento Confindustria: strisciamo sul fondo. Europa a rischio deflazione LUISA GRION ROMA . Tre milioni e mezzo d’italiani a spasso, in cerca di un lavoro che non trovano, e un tasso di disoccupazione da record che vola al 13,6 per cento e che fra i giovani raggiunge l’imbarazzante vetta del 46. Ecco gli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro nei primi tre mesi dell’anno: una sequenza di numeri mai così negativi da trentasette anni a questa parte (l’istituto di statistica fa partire le serie storiche dal 1977) che segnala una sempre più netta spaccatura nel Paese. Fra Nord e Sud, infatti, il divario continua ad allargarsi: guardando ai dati grezzi (quindi non ancora depurati dai giorni di mancato lavoro) l’Istat fa notare che nel primo trimestre dell’anno la disoccupazione giovanile — i 739 mila ragazzi fra i 15 e 24 anni che non hanno un lavoro pur cercandolo — è arrivata al 46 per cento (stabile rispetto al precedente trimestre), ma quel dato — pur se da «ripulire» — nel Mezzogiorno vola al 60,9 per cento (se invece si considerano le cifre destagionalizzate riferite ad aprile, abbiamo una disoccupazione generale del 12,6 e una giovanile del 43,3). Cifre allarmanti, lo dicono tutti. Dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi — che parla di un livello «veramente preoccupante» e assicura che «stiamo strisciando sul fondo» — ai sindacati, che fanno notare l’aumento delle diseguaglianze (Cgil), invitano a rilanciare gli investimenti piuttosto che a modificare le norme sul lavoro (Cisl) e concludono che il 2014 non sarà l’anno della svolta (Uil). Né migliora il quadro il fatto che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan abbia precisato che «la crescita è molto debole». Dietro ai tassi record c’è l’aumento degli scoraggiati, che sfiorano i 2 milioni e dei neet (i giovani under 30 che non studiano, non lavorano, non fanno formazione): ormai 2 milioni e 442 mila, in crescita del 4,8 per cento rispetto allo scorso anno. Il Paese, dunque, è fermo e sarà importante capire, dalle prossime rilevazioni, se il decreto del lavoro firmato dal ministro Poletti avrà smosso qualcosa. Dai dati disponibili va detto che risultano in calo sia i contratti a tempo indeterminato (fra il primo trimestre 2014 e lo stesso periodo del 2013 sono 169 mila in meno, in calo dell’1,4 per cento) che quelli a termine (66 mila in meno, in calo del 3,1), cui va ad aggiungersi la contrazione delle collaborazioni (meno 21 mila, in calo del 5,5 per cento). In questo quadro, il rimbalzo della produzione industriale segnalato dal Centro studi Confindustria — a maggio data all’1,2 per cento in crescita rispetto allo stesso mese del 2013 — non può bastare a risollevare gli animi. Né è positivo il rischio deflazione che continua a volteggiare sull’Eurozona: secondo le prime stime Eurostat sul mese di maggio il costo della vita, nei 18 paesi dell’area, continua a diminuire (0,5 su base annua rispetto allo 0,7 di aprile). L’andamento dei prezzi — complice il debito pubblico e privato di molti Paesi, i consumi fermi e il credito bancario ancora intasato — viaggia così da mesi a meno della metà dell’obiettivo vicino al 2 per cento fissato dallo statuto della Banca centrale europea. 36 In attesa di conoscere le decisioni in proposito della Bce, le associazioni dei consumatori Adusbef e Federconsumatori chiedono un «piano straordinario per il lavoro», per contrastare livelli «spaventosi». Confindustria, con il presidente Squinzi rilancia: anche per lui «serve un piano straordinario, come nel dopoguerra». del 04/06/14, pag. 2 Precari choc, mai così tanti Roberto Ciccarelli Istat. Record storico della disoccupazione: nel primo trimestre 2014 tra i giovani è al 46%, quella generale ha raggiunto quota 13,6% Disoccupati come nel 1977 quando i senza lavoro erano il 7% e l’Istat ha iniziato a redarre le serie storiche trimestrali. Per l’Istituto Nazionale di statistica oggi i senza lavoro sono il 13,6%. Tra i giovani italiani tra i 15 e i 24 anni la quota dei senza lavoro sul totale di quelli occupati, o in cerca di un’attività remunerata, è aumentata al 46% ad aprile, 0,4 punti percentuali in più rispetto a marzo, +3,8% in un anno. Non va meglio l’analisi dei dati destagionalizzati e più aggiornati, forniti ieri dall’Istat: il tasso di disoccupazione tra i giovani under 25 ad aprile era al 43,3% I senza lavoro hanno toccato l’apice da 37 anni a questa parte nelle regioni meridionali. Su un campione di 685 mila persone, nel primo trimestre 2014 è stata superata la soglia choc del 60,9%. Per l’Istat sono 347mila i ragazzi in cerca di lavoro nel Sud, pari al 14,5% della popolazione nella stessa fascia d’età. Per capire la rilevanza, traumatica, di questo aumento incontrollato della disoccupazione da 11 trimestri consecutivi basta fare un confronto con i dati continentali. Secondo Eurostat il tasso dei giovani senza lavoro in Europa si è attestato al 23,5% in calo rispetto al 23,9% del 2013. Nell’Unione europea a 28 è al 22,5% contro il 23,6% dell’aprile precedente. La Grecia con il 56,9%, la Spagna con il 53,5% e la Croazia con il 49% precedono l’Italia. Li raggiungerà presto visto che la progressione dell’ultimo anno è stata imponente. Sono questi gli effetti di un’economia in stagnazione che nel primo trimestre 2014 ha prodotto una crescita negativa dello 0,1% e nei prossimi anni non produrrà occupazione stabile. Il nuovo record che ha cancellato il timido segnale positivo emerso a marzo, dev’essere letto come un epifenomeno della jobless recovery, cioè della ripresa senza occupazione. Le vittime di questo processo sono i più giovani, e i meno protetti sul mercato del lavoro. La loro condizione non dev’essere misurata soltanto in base alle statistiche che calcolano il numero delle forze di lavoro, ma anche su due indicatori usati a livello europeo: i poveri al lavoro (in-work poors) e i lavoratori poveri (working poors). Oltre ai disoccupati, ci sono anche i giovani che svolgono lavori precari o informali, non hanno un reddito, e rientrano nella categoria dei «lavoratori potenziali». Per l’Istat nel 2013 il totale degli «inattivi» più vicini al mercato del lavoro è arrivato a 3.205 milioni con un incremento di 417 mila unità. Dagli ultimi dati si deduce che questa zona grigia tra il precariato, la povertà e l’inoccupazione sta dilagando. Questo andamento è stato riscontrato dall’Istat anche nella disoccupazione generale. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 216 mila, è calato dello 0,4% rispetto a marzo (-14 mila) ma è schizzato del 4,5% su base annua (+138 mila). Il tasso di disoccupazione resta al 12,6%, invariato rispetto al mese precedente e in aumento di 0,6 punti percentuali nei dodici mesi. Parliamo del 13,6% sulla popolazione attiva. Nel primo trimestre del 2014 il numero dei senza lavoro ha raggiunto la quota 3 milioni 487mila (in aumento di 212mila su base annua) Secondo l’Eurostat l’Italia mantiene stabilmente il terzo posto in classifica in 37 Europa dopo la Grecia con il 26,5% e la Spagna con il 25,1%. Austria (4,9%) e Germania (5,2%) confermano che il continente è diviso a metà e che le politiche di austerità hanno colpito a senso unico la cintura meridionale degli stati membri dell’Unione europea. «Le indicazioni di aprile sono in linea con i dati di un’economia sostanzialmente stagnante da metà 2013 — conferma Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma — Le indicazioni trimestrali confermano alcuni segnali di sofferenza emersi nell’ultima recessione, in particolare la caduta occupazionale nel segmento del tempo pieno e indeterminato, dove si concentra la categoria dei breadwinner e il 59% dei disoccupati, di coloro che sono senza lavoro da oltre un anno». Plastico il commento del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: «Stiamo strisciando sul fondo». E la pandemia peggiorerà quando il governo seguirà le «raccomandazioni» della Commissione Ue che lunedì ha «suggerito» di fare una manovra correttiva per rispettare i parametri del patto di stabilità. E se non sarà una manovra, nella legge di stabilità a fine anno arriveranno i tagli alla spesa sociale pari allo 0,2% del Pil. Qualcuno li ha calcolati in 9 miliardi di euro. All’orizzonte della legge delega, seconda parte del «Jobs Act» ora in parlamento, non c’è un reddito di base per tutelare precari e senza lavoro. C’è solo la «Nuova Aspi» che coinvolgerà tra anni poco più di 1,2 milioni di cassa integrati e cocopro. Come svuotare l’oceano con un cucchiaio. Per il ministro del lavoro Giuliano Poletti i dati sono «figli di una crisi che abbiamo alle spalle ma che ha ancora una coda velenosa». Parole pronunciate da chi ha già escluso un impatto significativo sull’occupazione di una riforma che porta il suo nome, ideata per precarizzare i contratti a termine. Quella di Poletti è una seduta di auto-ipnosi, la crisi c’è, la crescita sarà più bassa dello 0,8% indicato dal governo nel Def e non produrrà nuova occupazione. del 04/06/14, pag. 1/31 Il miraggio delle garanzie TITO BOERI NEL primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione fra chi ha meno di venticinque anni è balzato in Italia al 46 per cento. Peggio di noi in Europa ormai fanno solo la Croazia, la Grecia e la Spagna, dove comunque la disoccupazione giovanile è in calo. SAPEVAMO già che le vere vittime della Grande Recessione e della successiva crisi dell’Euro sono i più giovani. Ce lo hanno ricordato con il voto alle elezioni europee. Sono loro che nei paesi della crisi del debito, Italia compresa, hanno dato massicciamente il voto ai movimenti populisti. Tsipras, Front National, Movimento 5 Stelle e Podemos sono stati spesso il partito di maggioranza relativa e, in alcune giurisdizioni, addirittura di maggioranza assoluta fra gli under 30. L’Europa non può permettersi di ignorare questo disagio profondo. È frutto, in gran parte, degli squilibri fra i diversi paesi europei. Nel 2007, alla vigilia della Grande Recessione, gran parte delle differenze fra i tassi di disoccupazione giovanile fra le regioni europee si spiegava con le differenze nelle condizioni del mercato del lavoro all’interno dei singoli paesi. Ad esempio, le regioni settentrionali italiane avevano più o meno gli stessi tassi di disoccupazione della Baviera o del Noord-Holland, vicine alla piena occupazione. Oggi ciò che demarca alta e bassa disoccupazione giovanile sono i confini nazionali e molto meno quelli regionali. Non solo nel Mezzogiorno, ma anche in Piemonte e in Liguria la disoccupazione giovanile è sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania è saldamente al di sotto delle due cifre. Sono, dunque, i paesi della crisi del debito nel loro 38 complesso ad essere afflitti da questa malattia, grave perché rischia di consegnarci intere generazioni di persone destinate ad avere a lungo un rapporto molto difficile con il mercato del lavoro. Non può certo essere la cosiddetta Garanzia Giovani la risposta dell’Europa a questo disagio che mina alle basi l’unione dell’Europa. È un programma che vale troppo poco (6 miliardi in due anni per l’Ue nel suo complesso) e soprattutto studiato in modo tale da far sì che questi soldi vadano a tutti tranne che ai giovani e ai loro datori di lavoro. Le regole per la concessione delle risorse della Youth Guarantee sono in gran parte le stesse utilizzate per i fondi strutturali, quelle che portano a non spendere i fondi oppure a disperderli in una miriade di piccoli progetti, che hanno costi amministrativi superiori al valore dei servizi e dei trasferimenti monetari erogati. Bisogna prendere atto del fatto che le politiche di coesione oggi non possono che avere una dimensione nazionale. Bene allora permettere ai governi nazionali di utilizzare i fondi della Youth Guarantee e gli stessi fondi strutturali per ridurre subito le tasse sul lavoro nei paesi della crisi dell’Eurozona. Ad esempio, permettendo il pagamento immediato ( frontloading ) di almeno la metà delle risorse stanziate dal bilancio comunitario per i fondi strutturali e destinate al nostro paese nell’esercizio 2014-2020, si avrebbero 30 miliardi per tagliare subito le tasse sul lavoro. Perché queste misure abbiano effetto immediato, meglio la strada degli incentivi automatici, piuttosto che i trasferimenti discrezionali. Fondamentale, inoltre, incentivare la creazione piuttosto che la ricerca di lavoro. Non è tanto un problema di spingere i giovani a mettersi in coda per trovare un lavoro, come previsto da molti piani della Youth Guarantee. C’è ben poco da cercare quando il lavoro non c’è. Le tasse vanno ridotte per tutti, non solo per i giovani. Saranno comunque i primi a beneficiare di una domanda di lavoro che riparte, così come sono stati i primi a pagare per la sua caduta. I giovani saranno anche i primi a beneficiare di politiche che alleggeriscano la stretta creditizia alle imprese, soprattutto quelle di più piccole dimensioni. Draghi ha fatto spesso riferimento ai problemi dei giovani nei suoi discorsi istituzionali in questi anni. Speriamo che le decisioni che verranno prese domani a Francoforte siano conseguenti con questa sua attenzione. Non possiamo più permetterci rinvii nel sostenere in modo diretto la domanda di lavoro delle imprese. Il fatto che il problema dei giovani chiami in causa l’Europa non alleggerisce le responsabilità dei governi nazionali. Ha fatto bene lunedì la Commissione Europea a ricordare al Governo Renzi che non ha ancora attuato una riforma del lavoro. Ci ha anche fatto capire che, qualora si facesse una vera riforma, le autorità sovranazionali e intergovernative europee saranno disposte a concederci tempi più lunghi nel rientro del debito. Bene utilizzare al più presto il potere contrattuale che il voto europeo ci ha conferito in questa direzione. Anche perché non c’è tempo da perdere se non vogliamo che la disoccupazione giovanile superi la soglia, psicologicamente devastante, del 50 per cento. del 04/06/14, pag. 5 Catasto e semplificazione entro il 20 giugno ● Lungo incontro tra Renzi e Padoan, prime azioni concrete della delega fiscale ● Il Bonus Irpef sarà esteso anche alle famiglie numerose ● Il problema del debito si risolve con la crescita 39 L'Italia è «di fronte a un bivio: vivacchiare e crescere soltanto un po', oppure accelerare la crescita. La differenza la fa la politica economica, è nelle mani dei policy maker decidere dove andare». La reazione del ministro Pier Carlo Padoan al verdetto di Bruxelles sui conti italiani non lascia spazio a dubbi. Inutile attaccarsi allo zero virgola, bisogna puntare sulla crescita. Come dire: non accettiamo più giudizi ragionieristici sui decimali di deficit. Quello che preoccupa il ministro non è tanto l’indebitamento e quel ritmo di avvicinamento al pareggio, quanto l’enorme mole di debito pubblico. Se il Pil non recupera, il «rosso» accumulato sarà ingestibile. E sarà troppo oneroso tener fede all’impegno di riduzione fissato dal Fiscal compact. Per questo Padoan ripropone il piano privatizzazioni, confermando operazioni pari allo 0,7% del Pil nei prossimi anni. «Ci sono già Poste e Enav, presto arriveranno altre cessioni di qui a fine anno», dichiara il ministro parlando alla stampa estera. Ma non saranno le vendite di Stato a risolvere il problema di fondo. Ancora una volta (come ha già fatto più volte) il titolare dell’Economia parla del «pacchetto riforme » come passaggio ineludibile per rilanciare la crescita. IL COLLOQUIO Al primo posto nel ruolino di marcia c’è la delega fiscale da attuare al più presto, come richiesto anche da Bruxelles. Il testo prevede diverse misure sulla lotta all’evasione, e altre molto incisive sul catasto, che rendono più equo il prelievo sugli immobili. La delega è stata al centro di un colloquio di tre ore ieri sera a Palazzo Chigi tra Padoan e il premier Matteo Renzi. Si è deciso di varare i primi decreti attuativi su semplificazione e catasto entro il 20 giugno. Entro fine luglio si vareranno i decreti sulla certezza del diritto, mentre entro settembre si affronterà il tema dell’agenda telematica. la tabella di marcia è stringente: si ha a disposizione un anno per attuare la delega. Intanto in Senato procede l’esame in commissione del decreto Irpef, quello sugli 80 euro in busta paga. Ieri è stato votato un emendamento dei 5Stelle che riprende una vecchia proposta sugli affitti d’oro, bocciata nel decreto salva- Roma. Si prevede che le amministrazioni pubbliche e gli organi costituzionali, nell'ambito della propria autonomia, possano comunicare entro il 31 luglio 2014 il preavviso di recesso dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore del decreto. Il recesso potrà essere perfezionato dopo 180 giorni dal preavviso. Confermato dalle commissioni anche il taglio di 150 milioni al bilancio Rai, mentre slitta di due anni l’obbligo di pubblicare solo online (e non sulla carta) i bandi per le gare d’appalto. Tra le altre novità approvate oggi, l'emendamento di Mauro Maria Marino, del Pd, che riapre la possibilità di rateizzazione dei pagamenti delle cartelle di Equitalia. «Aver ricreato le condizioni per riammettere al beneficio della rateizzazione quegli italiani che vogliono mantenere il loro patto con lo Stato ma, avendo condizioni economiche così difficili che glielo avevano impedito, è un segnale di speranza - dichiara Marino - Questa misura oltretutto servirà anche allo Stato perché permetterà di fare cassa». Infine c’è l'esclusione per il 2014 delle tassazione della quota incentivo per l'energia rinnovabile di tipo agricolo. Ma a tenere banco ieri è stata la proposta Ncd (ancora non votata) di estendere il bonus Irpef alle famiglie monoreddito con figli a carico. Ad annunciarlo il relatore al provvedimento Antonio D’Alì. «Si sta ragionando su un plafond di risorse di 6070 milioni di euro - ha spiegato D’Alì - L'intervento, consentirà di realizzare l'80% di quanto proposto da Ncd». La richiesta di Ncd prevedeva l'ampliamento del beneficio alle famiglie monoreddito con due e con tre figli a carico, e le risorse necessarie si aggiravano intorno ai 100 milioni. «l’estensione ci sarà» ha ribadito più volte D’Alì. Ma allo stato si è ancora al lavoro per reperire le coperture necessarie. Il tema del potenziamento dell' Irap, altra richiesta di Ncd, non sarà affrontato nell'ambito dell'esame del dl Irpef, ma rimandato in sede di delega fiscale. Tra gli emendamenti accantonati c’è quello sulla fatturazione elettronica e quello che sterilizza l'aumento al 26% della tassazione sulle rendite finanziarie aumentando all'11,5% la tassazione sui fondi pensione. 40 del 04/06/14, pag. 1/15 Lo Sblocca Lobby non serve all’Italia Paolo Berdini Dopo il provvedimento sul lavoro fondato sulla precarietà si apre il capitolo dello «Sblocca Italia», l’efficace slogan coniato da Matteo Renzi al festival dell’economia di Trento. Il premier annuncia di aver inviato una email a tutti i comuni italiani per conoscere quali siano i progetti bloccati. Sulla base delle risposte promette di costruire, entro luglio, un provvedimento legislativo fondato sulla «diminuzione delle autorizzazioni e sulle limitazione dei ricorsi al Tar». Per un primo ministro sarebbe stato più corretto sotto il profilo istituzionale aprire un confronto con tutte le istituzioni che hanno competenze sul territorio e non solo con i comuni. In questo modo — e per di più in un momento di grave crisi economica — si addita all’opinione pubblica il capro espiatorio: le soprintendenze ai beni ambientali e archeologici, ree di applicare la Costituzione, e la magistratura amministrativa. Si rischia così di disarticolare ulteriormente la struttura dello stato messa a dura prova da vent’anni di tagli e umiliazioni. Nessuna novità. Quando era sindaco, Renzi aveva tuonato contro il soprintendente che si era opposto all’affitto di Ponte Vecchio per una festa della Ferrari: un bene straordinario, patrimonio di tutta la popolazione italiana, utilizzato a fini privati. La festa si era svolta nonostante il parere contrario del soprintendente. Ma vediamo nel merito le opere che dovrebbero sbloccare l’Italia. Da dieci anni esiste una potentissima lobby che piange quotidianamente sulle sventure dell’Italia bloccata dai veti e ha fatto della guerra al Nimby il proprio motivo di vita. Corriere della Sera , Repubblica e il Sole24ore hanno colto al volo le dichiarazioni di Renzi ed hanno subito rilanciato le statistiche del Nimby forum. Afferma l’ultimo rapporto che delle 354 opere ferme (in media una ogni 27 comuni, una cifra ridicola) il 63% riguardano contestazioni sul comparto elettrico (centrali di produzione, impianti a biomasse e parchi eolici); il 28% il settore dei rifiuti e solo il 7,6% il settore delle infrastrutture. Il Nimby Forum è sostenuto dai colossi Enel, Edison e Terna che hanno interessi giganteschi nello sbloccare le opere, e da altri attori come il Consorzio Venezia Nuova (quello del Mose) che di recente ha dato elevatissima prova di rispetto della legalità finendo in massa in galera. Questa lobby ha in mente dunque di riempire l’Italia di impianti a biomasse e termovalorizzatori. Mentre l’Europa privilegia la formazione dei giovani e finanzia nuovi lavori basati su tecnologie avanzate, nella riqualificazione e messa in sicurezza dell’ambiente e delle città, noi marciamo spediti con la testa rivolta al passato. Da venti anni saccheggiamo il territorio e l’ambiente ed è lo stesso Nimby Forum ad ammetterlo affermando che «i numerosi no alle rinnovabili colpiscono… anche e soprattutto i piccoli impianti i quali si sono moltiplicati anche in virtù del percorso autorizzativo semplificato» e la soluzione proposta è quella di allentare ulteriormente la legalità. Anche qui nessuna meraviglia: l’ultimo rapporto Nimby Forum 2012 era stato presentato anche da Corrado Clini che di legalità si intendeva magistralmente, almeno stando alle accuse che lo hanno colpito. Matteo Renzi con il suo provvedimento tenta di completare lo scellerato disegno del ventennio liberista: non attacca più (per ora almeno) la Magistratura — anche perché tra prescrizioni brevi e cancellazione del reato di falso in bilancio ha ben pochi strumenti per perseguire il malaffare — ma un altro fondamentale potere dello stato, quello delle soprintendenze cancellandone ogni ruolo in totale spregio della Costituzione. 41 La guerra alla burocrazia non c’entra nulla: lo «Sblocca Italia» è la continuazione della scempio del territorio che trionfa incontrastato da venti anni. Nei prossimi mesi si aprirà dunque uno scontro decisivo per il futuro del paese. Da un lato le lobby che hanno contribuito alla rapina negli anni del liberismo e vogliono continuare a far festa saccheggiando il territorio. Dall’altra tantissimi giovani e i comitati spesso senza rappresentanza politica che tentano di costruire un futuro legato alla qualità del territorio e anche alla semplificazione delle regole, ma nel rispetto dei poteri dello stato. Del 04/06/2014, pag. 3 Contratti da 13 mesi e part time obbligato Ecco la generazione dei «mille euro» Dal 2008 a oggi 1,4 milioni di occupati in meno nella fascia di età 25-34 L’hanno definita la «Generazione mille euro», ci hanno fatto film e libri. Ma in Italia sono tantissimi i giovani che magari avessero mille euro al mese. Devono invece accontentarsi di paghe inferiori, spesso in nero. Quando va bene ottengono un contratto regolare, ma a termine, sei mesi, un anno, sperando che dopo qualche rinnovo arrivi l’assunzione. Un percorso lento, incerto, che rende più complicato metter su casa e famiglia. Basti pensare che il 90% dei giovani fino a 24 anni vive ancora con i genitori, mentre riesce a rendersi indipendente dalla famiglia d’origine non più del 38% di quelli tra 25 e 29 anni. Percorsi tortuosi, fatti di anni e anni di redditi bassi e intermittenti che avranno un domani conseguenze negative sulle pensioni calcolate col metodo contributivo. Si prenda, per fare un esempio, il caso dei collaboratori a progetto iscritti alla gestione separata Inps: quasi 650mila, che nel 2012 hanno avuto un reddito medio di 9.953 euro lordi, meno di 830 euro al mese. Per capire che cosa è successo negli ultimi sei anni, da quando è cominciata la crisi mondiale, partiamo da alcuni dati Istat che illustrano come il lavoro sia diventato scarso. Nel 2008 gli occupati nella fascia 15-34 anni erano 7,1 milioni. Nel primo trimestre del 2014 sono scesi a 5 milioni. In altre parole ci sono più di 2 milioni di giovani in meno a lavorare rispetto a sei anni fa, di cui solo 900 mila si giustificano col calo della popolazione in questa fascia d’età (13,2 milioni nel 2013). Il dato diventa forse ancora più drammatico restringendo l’osservazione alla fascia 25-34 anni, escludendo cioè tutti coloro che in teoria potrebbero essere impegnati nello studio. Nel 2008 gli occupati in questa fascia erano 5,6 milioni, nel primo trimestre di quest’anno sono scesi a 4,2 milioni: 1,4 milioni in meno in sei anni. Come dice il Rapporto annuale dell’istituto di statistica, «sono i giovani i più colpiti dalla crisi». «Nel periodo 2008-2013 il tasso di occupazione tra i 15 e i 34 anni cala in Italia di 10,2 punti percentuali attestandosi al 40,2%». Cioè mentre prima della crisi avevano un lavoro più di 50 giovani su 100 adesso sono solo 40 su 100. Con forti differenze tra il Nord, dove ha un’occupazione un giovane su due, e il Sud dove lavora solo uno su quattro. Si difendono meglio i laureati, dice l’Istat, ma spesso devono «accettare lavori meno qualificati rispetto al proprio titolo di studio». Anzi, talvolta nascondono il possesso della laurea per ottenere il posto. Il lavoro scarseggia e, quando lo si trova, è quasi sempre a tempo determinato. «Nel 2013 l’incidenza di forme non standard tra i nuovi occupati è pari al 68,8%: su 100 nuovi occupati nel primo trimestre 2013, circa 50 trovano un impiego atipico, 19 un lavoro parzialmente standard (per esempio, part time, ndr. ) e soltanto 31 un’occupazione standard». La parte del leone la fanno i contratti a termine, in genere di breve durata: 13 mesi in media nel 2013, con poco più della metà dei rapporti di lavoro che dura meno di un anno. Inoltre, «sono 527 mila gli 42 atipici che svolgono lo stesso lavoro da almeno cinque anni» intrappolati in una successione di contratti brevi. Nel periodo 2012-2013 il 56,4% degli atipici, passato un anno, non aveva trovato ancora un lavoro stabile. A stabilizzarsi è riuscito solo il 16,5% mentre era il 24% nel periodo 2007-2008. E il 21,8% è finito addirittura nella disoccupazione contro il 16,1% nel periodo pre-crisi. Va molto forte anche il part time che coinvolge un milione 131 mila giovani fino a 34 anni, ma nei tre quarti dei casi l’orario ridotto non è una scelta, bensì l’unica possibilità di lavorare. Accade spesso nei call center. Che oggi scioperano. Nel settore lavorano circa 80 mila addetti, molti dei quali giovani. Oggi in migliaia manifesteranno a Roma. Ci sarà anche il segretario della Cgil, Susanna Camusso. «Si tratta di una generazione — dice Michele Azzola, segretario nazionale Slc-Cgil — che quando è entrata, circa 10 anni fa, era appena laureata. Adesso hanno 35-40 anni, spesso sono sposati e con famiglia e quello che doveva essere un lavoretto è diventato con gli anni spesso l’unica fonte di sostentamento». I sindacati chiedono un miglioramento delle condizioni di lavoro e dei salari, danneggiati da una concorrenza sleale di grandi imprese che lavorano all’estero, dall’Albania all’India, dove il costo del lavoro è bassissimo. Da noi invece il settore è polverizzato in 2.270 aziende. Diecimila lavoratori, dicono Cgil, Cisl e Uil, rischiano il posto, se il governo non metterà fine alle gare d’appalto al massimo ribasso e non frenerà la delocalizzazione. È solo l’ultima puntata di una telenovela che attende un finale migliore. Il governo Renzi ha risposto all’emergenza giovani con la liberalizzazione dei contratti a termine (che fa infuriare la Cgil) convinto che se si consente alle aziende di assumere liberamente per tre anni l’occupazione aumenterà. Ci sarebbe poi una grande opportunità: il programma europeo Garanzia Giovani, finanziato con 1,5 miliardi per dare ai giovani un’opportunità di formazione o di lavoro entro tre mesi dalla conclusione del ciclo di studi o dalla perdita di un precedente lavoro. Anche a causa del cambio di governo l’Italia è partita in ritardo e con l’handicap di un difficile coordinamento tra ministero del Lavoro e Regioni che hanno la responsabilità di attuare il piano. Ma sarebbe imperdonabile sprecare anche questa occasione. Del 04/06/2014, pag. 5 Rinvio sul bonus alle famiglie numerose Comuni ritardatari, così la Tasi a ottobre Andrea Ducci Slitta il pagamento della Tasi. Ieri in tarda serata il governo ha presentato un emendamento al decreto Irpef per rinviare il versamento dell’imposta comunale sui servizi indivisibili. Il rinvio è fissato a ottobre (la data esatta sarà stabilita oggi). Sul fronte dell’allargamento dei beneficiari del bonus da 80 euro resta, invece, irrisolta la sfibrante trattativa per garantire il beneficio fiscale anche alle famiglie monoreddito con più figli. L’estensione della platea dei destinatari del credito di imposta previsto dal decreto Irpef continua a infrangersi sui dubbi del governo. A dispetto dell’impuntatura da parte del Nuovo centrodestra, che rivendica il bonus per le famiglie, la riunione in tarda serata al Senato tra i relatori del decreto, la maggioranza e il governo non ha sciolto il problema delle coperture. Inizialmente l’introduzione del «fattore famiglia», perorata dal partito di Angelino Alfano, era stimata in circa 90 milioni di euro. Ma ieri il relatore, Antono D’Alì (Ncd), annunciando l’estensione del beneficio fiscale ha aggiunto «stiamo ragionando su un plafond di 60-70 milioni». La modifica riguarderebbe in particolare i nuclei familiari con 43 più figli e un reddito netto fino a 2.600 euro al mese. Ma, stante l’impasse delle ultime ore, per i dettagli sull’esatta platea dei destinatari occorrerà attendere la valutazione attesa per questa mattina da parte delle commissioni Bilancio e Finanze del Senato. Con l’eventualità, sempre più probabile che, se il governo non dovesse cedere alle istanze dell’Ncd, potrebbe tutto slittare alla prossima legge di Stabilità. Sul versante delle modifiche al decreto non è invece previsto alcun emendamento per ritoccare verso l’alto il taglio all’Irap destinato alle imprese, che resterà perciò al 10%. Una sforbiciata dell’Imposta regionale sulle attività produttive potrebbe, secondo D’Alì, essere discusso nell’ambito della delega fiscale. La discussione sull’estensione del bonus ha catalizzato a lungo i lavori delle commissioni Bilancio e Finanze del Senato, che intanto ieri hanno approvato alcuni emendamenti. La proposta depositata da Salvatore Tomaselli (Pd), ha stabilito il rinvio al 15 settembre del termine per il versamento dei canoni per le concessioni balneari. Una proposta emendativa dei relatori D’Alì e Cecilia Guerra (Pd) ha stabilito maggiore elasticità nei tagli imposti alle società partecipate dallo Stato. In pratica, le riduzioni dei costi operativi del 2,5% nel 2014 e del 4% nel corso del 2015 avverranno con modalità diverse e meno stringenti rispetto a quanto stabilito finora nel decreto. L’unica certezza è che gli obiettivi di risparmio dovranno restare invariati. Un altro emendamento depositato dal Pd consente ai contribuenti decaduti dal beneficio della rateizzazione fiscale di Equitalia di essere riammessi ai pagamenti dilazionati. In dettaglio, è previsto che i contribuenti che non hanno rispettato le scadenze delle cartelle esattoriali potranno di nuovo beneficiare della rateizzazione, a patto che la violazione sia precedente al 22 giugno del 2013. In questo caso, una volta ripresentata la domanda di pagamento a rate sarà possibile saldare il debito con il fisco al massimo entro 72 mesi. Ieri intanto mentre proseguiva l’esame del provvedimento al Senato da parte delle commissioni, in vista dell’arrivo in aula slittato a questa mattina, il premier, Matteo Renzi, ha avuto un lungo incontro con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. L’incontro è servito a rivedere in dettaglio la delega fiscale arrivata dalle Camere, che in base ai piani di Renzi dovrebbe vedere i primi decreti applicativi entro il mese di giugno. Nel provvedimento ci sono, per esempio, misure come l’annunciato modello 730 precompilato e l’accorpamento delle scadenze fiscali. L’obiettivo è la semplificazione. del 04/06/14, pag. 6 L’Ue: “Alitalia resti europea” Governo e azienda rassicurano “Malpensa sarà rafforzata” Nord mobilitato contro l’ipotesi di lasciare i soli voli merci Lupi: con l’Expo raddoppio destinazioni. Esuberi a 2.500 LUCIO CILLIS ROMA . Bruxelles chiede ufficialmente chiarimenti sulla governance di Alitalia. La nuova compagnia pronta a cadere tra le braccia di Etihad, per la Ue «deve restare in mani europee». Non solo. Nello stesso giorno un nuovo caso Malpensa torna ad agitare le acque dell’accordo: è bastato un accenno fatto da una fonte anonima alla possibile “vocazione cargo di Malpensa”, che secondo indiscrezioni sarebbe nei piani del vettore 44 arabo, a riaccendere le polemiche sull’hub soprattutto in vista dell’Expo. Il Nord si è subito mosso compatto a difesa dell’aeroporto e degli 11 voli intercontinentali a marchio Alitalia che partono ogni settimana. Ma in serata è stata la stessa azienda a smentire le indiscrezioni. Non solo le voci sono infondate ma, a detta del vertice del vettore romano, Malpensa sarà rafforzata sia per passeggeri che per merci e soprattutto o in vista dell’evento del 2015 con nuovi voli su Shanghai e Abu Dhabi: «Alitalia smentisce categoricamente la notizia di una qualsivoglia volontà di chiudere o ridurre le sue attività all’aeroporto di Milano Malpensa — ha spiegato l’azienda — e ribadisce invece l’intenzione, nell’ambito delle trattative per l’ingresso di Etihad in Alitalia, di rafforzare la presenza della compagnia nell’aeroporto di Malpensa attraverso una crescita dell’attività cargo e un incremento dei voli intercontinentali anche in occasione del prossimo Expo». In campo, a difesa dell’accordo e del rilancio di Malpensa, è sceso pure il ministro Maurizio Lupi: «Sono stupito dai commenti sul piano industriale per Alitalia da parte di molti che dimostrano di non averlo letto e inseguono voci che sembrano dettate da chi non vuole che l’accordo con Etihad vada in porto. Faccio solo una domanda a tutti: passare da 11 frequenze settimanali a 25, più che raddoppiando i voli, vuol dire ridimensionare Malpensa o rilanciare? Malpensa e Fiumicino sono i due grandi hub su cui punta il piano industriale di Alitalia/Etihad. Da questo accordo può solo venire sviluppo per tutto il sistema aeroportuale italiano». Di allarme sociale invece parlano i sindacati in risposta alle dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha parlato di circa «2.500 esuberi» in Alitalia. I sindacati, compatti non ci stanno e in attesa del piano industriale, lanciano messaggi durissimi e minacciano di passare all’azione nei prossimi giorni. E proprio per affrontare questo passaggio al meglio e mettere a punto col governo alcuni aggiustamenti richiesti nella lettera giunta domenica sera a Fiumicino da Abu Dhabi, il vertice di Alitalia è andato ieri al ministero dell’Economia. Sarà però decisiva la partita che si dovrà giocare in Europa, il primo di una certa rilevanza che coinvolga una linea aera di rango dell’Ue e un compratore in espansione come quello di Abu Dhabi. Ieri il portavoce del commissario ai Trasporti Siim Kallas ha detto con estrema chiarezza che «la compagnia aerea deve non solo avere una proprietà europea di maggioranza, ma il suo controllo deve restare in mani europee». 45