Curatela ed eleganza. Intervista a Francesco

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Curatela ed eleganza. Intervista a Francesco
Curatela ed eleganza. Intervista a Francesco Garutti
By Ginevra Bria - 14 gennaio 2017
Passando attraverso Bruno Latour, Helke Bayrle, Thomas Schütte, il curatore delinea forme e
premesse di un linguaggio che sottenderà la prima mostra istituzionale italiana del duo belga Jos
de Gruyter e Harald Thys: “Elegantia”.
Jos de Gruyter & Harald Thys, The Miracle of Life. Photo Andrea Fichtel. Image courtesy of the artists and Isabella Bortolozzi
Galerie
Il Palazzo dell’Arte de La Triennale di Milano sta per inaugurare la prima mostra
istituzionale del duo belga Jos de Gruyter (1965) e Harald Thys (1966), Elegantia un
esperimento sull’idea stessa del disporre nello spazio e sul suo fallimento: modello possibile
di una mostra senza autore, bidimensionale e deformata come lo spazio della nostra mente.
Lungo il percorso, sculture bianche che abiteranno il primo piano non saranno solo corpi in
marmo dalle forme auree, ma pesanti
gure metalliche bidimensionali (White Elements,
2012-2016) dai volti perturbanti. In mostra i ritratti di Les Enigmes de Saarlouis (2013);
alcune sculture in terra cruda provenienti da un disumano e inquietante laboratorio di
ceramica (Der Schlamm von Braanst, 2008); piccoli esperimenti sulla forma umana (White
Elements, prototipos, 2016) e una lunga serie di acquarelli dai soggetti ambigui (Fine Arts,
2015). In ne un’alta fontana da interni, dalle sembianze androidi, dal titolo De Drie
Wijsneuzen (2013) concluderà il percorso attraverso una mostra enigmaticamente classica.
Abbiamo parlato del progetto con il curatore, Francesco Garutti.
Qual è stata la mostra che ha modi cato il tuo punto di vista sull’arte contemporanea e
perché?
Ne cito rapidamente alcune per me decisive: Von Hier Aus, a cura di Kasper König, con la
radicale e so sticata architettura di Hermann Czech (Düsseldorf, 1984) – la mostra
immaginata come una città, lo studio dell’artista come modello di spazio espositivo; Post
Human di Je rey Deitch (1992) per il rivoluzionario visual essay sul catalogo disegnato da
Dan Friedman – l’arte traguarda ed esplora presente e futuro del mondo; Chambres d’Amis
di Jan Hoet (Gent, 1984) – la mostra come un “prudente e lucido
irt” tra città e museo,
angoli privati e spazio pubblico –, e poi Quali cose siamo di Mendini alla Triennale di Milano
(2010) e il suo sguardo antropologico sulle opere, gli oggetti, le immagini.
A quale, però, sei legato in maniera particolare?
Forse la più importante per me credo sia stata Making Things Public – Atmosphere of
Democracy (ZKM, 2005) a cura di un
losofo eclettico come Bruno Latour. Ho aspettato tre
lunghi giorni a Karlsruhe prima che aprisse per vederla. Né arte né architettura. Tutte le
discipline allestite su grandi tavoli nel cuore del museo per cercare di esplorare e rivelare ciò
che spesso non appare subito come visibile nel mondo delle cose e delle immagini tra le quali
viviamo: la Politica. L’arte come strumento – sullo stesso piano della
sica e della
microbiologia – per rendere manifesta una complessità invisibile. Grandi fotogra e di lupi
per investigare il rapporto tra ecologia, storia naturale e politiche agricole, le immagini dei
celebri ponti “razzisti” di Long Island, i dettagli zoomati e sgranati della nebbia tra gli
a reschi del Lorenzetti e così via. Tutto era opera, niente era un’opera. Ha cambiato il modo
in cui guardo ogni cosa.
Pavilion Suite, exhibition view, opere di Daniel Gustav Cramer. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016
Qual è l’artista che ha in uenzato di più il tuo approccio alla pratica curatoriale e perché?
Ho sempre amato le opere giovanili di ogni autore, i momenti di rottura e trasformazione di
una pratica, l’attimo di silenzio prima della rivoluzione. Come se nei primi pezzi in forma
grezza e incompiuta – ma fresca e vibrante – fosse già contenuto tutto. Ricordo in questo
senso una bellissima mostra a Vaduz al Kunstmuseum Thomas Schütte. Early Works (20072008). Lavori inediti riscoperti dallo stesso Schütte nei suoi archivi. Opere, sample e prove
risalenti agli Anni Settanta, quando l’artista tedesco ancora giovanissimo era studente dei
corsi di pittura di Fritz Schwegler e Gerhard Richter. Campioni di colore che già rivelavano e
contenevano il lavoro di Schütte sulla scultura e l’architettura. La mostra era un’opera in sé.
L’allestimento di una trasformazione biologica, umana. Da bidimensione a volume, da
campitura a corpo.
Perché, a tuo modo di vedere, l’architettura necessita di un dialogo storico, non solo
iconogra co, con l’arte contemporanea?
Non so davvero se l’architettura sia alla ricerca di un dialogo storico con l’arte. Mi spaventa
terribilmente senz’altro la possibilità che l’architettura si avvicini all’arte sedotta solo da
assonanze formali. Questioni iconogra che, come dici tu. E purtroppo accade molto spesso.
Il travaso tra le discipline deve ovviamente accadere sui contenuti. In questo senso, insieme
a Bruna Roccasalva, Vincenzo de Bellis e Anna Daneri nel 2012 abbiamo portato a Milano da
Peep-Hole un progetto del quale vado molto
ero: l’archivio video di Helke Bayrle, Portikus
Under Construction. Decine e decine di video girati durante gli allestimenti di tutte le mostre
costruite a Portikus in 30 anni. Materiale prezioso che Helke mi diceva sarà presto free
online per tutti. Una Kunsthalle temporanea che si trasforma e diventa cucina per Tiravanija,
macchina motore per Simon Starling, e poi ancora palestra, laboratorio, conference room e
così via. I video sono ritratti privati dei dietro le quinte. Elmgreen & Dragset che martellano
chiodi nei muri, Matthew Barney che guarda i suoi disegni. Gli artisti indecisi, che sbagliano,
che cambiano. La mostra nel suo farsi. Un caso studio d’arte, architettura e storia della
forma del museo.
All’interno delle diverse residenze per curatori alle quali hai partecipato, quale fra i corsi, o
le lezioni ti ha maggiormente insegnato a lavorare per il pubblico, di qualsiasi genere esso
sia?
Senz’altro il programma Emerging Curator del CCA di Montreal. Invitato tra il 2013 e il 2014
a proporre un progetto espositivo per il museo, ho deciso di esplorare uno strano caso di
politica, urbanistica e
loso a delle tecnica dibattuto tra l’Europa e gli Stati Uniti tra gli
Anni Ottanta e Novanta: la storia controversa degli inquietanti ponti commissionati da
Robert Moses durante le prime tre decadi del ‘900. Lo strumento più adatto a investigare il
caso e proporlo al pubblico non era la mostra, ma il
lm. Così insieme al museo – in questo
caso in veste di producer – e al regista iraniano Shahab Mihandoust abbiamo prodotto un
mediometraggio che – immaginando una struttura curatoriale a domino– ha poi generato
una tavola rotonda aperta, e poi un e-pub edita dal CCA, Can Design Be Devious? (2016). Il
progetto esplorava temi complessi – aveva a che fare con l’architettura, gli studi sociali della
tecnologia e l’arte, lambendo questioni quasi vicine all’animismo: la struttura curatoriale del
lavoro si è trasformata: da mostra a
lm a dialogo, proprio per coinvolgere al meglio il
pubblico nel dibattito controverso che il progetto cercava di esplorare.
Pavilion Suite, exhibition view, opere di Ian Law e Zayne Armstrong. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016
E per quanto riguarda THEVIEW Studio?
Vittorio Dapelo ha deciso con THEVIEW di attraversare il mondo dell’arte in modo obliquo,
di esplorare un modello nuovo lontano da
ere e gallerie e vicino alle opere e agli artisti.
THEVIEW è uno studio di produzione, ma anche il prosieguo naturale dei progetti di Vittorio
che dagli Anni Settanta con le opere site speci c della Villa dei cento camini di Artimino e
con il programma di Locus Solus a Genova si è sempre mosso tra le pieghe del sistema nel
tentativo di proporre modelli inattesi. La possibilità di curare tutto il processo di produzione
di un’opera mi a ascinava moltissimo: THEVIEW propone a un autore l’occasione di fare
reagire – in un tempo lungo – lo strano esotismo ligure con alcuni centri di produzione
quasi dimenticati – Albisola per esempio – di operare in un ecosistema che si muova
parallelo al consueto meccanismo opera, galleria,
era.
Come interagiscono cinema e scultura nelle sale di Palazzo Durazzo?
Pavilion Suite per le stanze vuote di Palazzo Durazzo in Via del Campo a Genova è una
mostra curata insieme a Vittorio Dapelo con Maddalena Quarta – da qualche mese parte del
team di lavoro di THEVIEW – che chiude la sequenza di personali del 2015 del progetto
Sant’Ilario Pavilion. Cinque
lm che raccontano la storia di altrettante opere di Daniel
Gustav Cramer, Haris Epaminonda, Ian Law, Davide Stucchi e Peter Wächtler concepite per il
piccolo spazio di ferro e vetro dell’ex- orista di Sant’Ilario.
Su cosa hanno lavorato gli artisti?
La committenza è nata così: gli artisti sapevano che le loro opere per Sant’Ilario sarebbero
state allestite nel padiglione di fronte al mare il tempo necessario a girare un
lm sulla loro
storia, sulla loro presenza lì. La costruzione e genesi delle opere è stata sin da subito
in uenzata dal modello curatoriale: ogni pezzo sarebbe stato davvero visibile dal grande
pubblico solo in versione cinematogra ca. I
lm in mostra si collocano in quella zona grigia
che esiste oggi forse più che mai tra la pratica della documentazione e quella della
presentazione, tra l’opera e la distribuzione della sua stessa immagine. In mostra le sculture
tra le penombre del Palazzo sono solo frammenti, ri essi o pezzi delle opere concepite per il
Pavilion.
Quali caratteristiche, quali spazi, metaforici o reali, preserva Genova, rispetto a Milano, per
far crescere un dialogo vivo, esemplare tra le discipline? Potresti citare alcuni progetti che
ti hanno maggiormente colpito del capoluogo ligure?
Ilaria Bonacossa a Villa Croce ha fatto un lavoro egregio in questi anni ed io sono felice di
aver spesso collaborato con lei. Ora sto curando DAVANTI AL MARE – Atto I, un progetto
concepito da Dapelo e prodotto proprio dagli Amixi di Villa Croce che ha come protagonista
Diego Perrone. Stiamo lavorando – tra città e museo – sull’ossessione della modellistica
navale, l’autismo mentale che la costruzione di un modello può produrre.
Il progetto, l’opera, il luogo che amo più di Genova è il Tesoro di Albini, nei sotterranei della
Chiesa di San Lorenzo. Per una ragione precisa: il modo in cui Albini è stato in grado di
interpretare la commissione e l’atmosfera del luogo. Solo dopo qualche minuto ci si accorge
che il ferro dei pro li di tutte le teche della cripta è stato interamente martellinato: la
tecnologia del tempo ammorbidita da una sbozzatura. La modernità più secca che diventa
arcaica e primigenia attraverso un gesto quasi invisibile.
Pavilion Suite, exhibition view. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016
Quando hai conosciuto Jos de Gruyter e Harald Thys e come si è svolto il tuo primo studio
visit da loro?
Dopo aver visto il loro
lm presentato alla Biennale di Berlino del 2008 – The Frigate – ho
chiesto subito a Isabella Bortolozzi di poter organizzare un incontro. Ci siamo visti per
un’intervista a Bruxelles in un ca è. Abbiamo parlato per ore del sotterraneo di Ten
Weingaert, un community center della capitale belga concepito in principio come una piccola
utopia sociale e
nito poi per diventare un inquietante luogo – enclave per persone a
itte
da turbe psichiche. Abbiamo discusso di quell’architettura, degli occhi spalancati e immobili
dei personaggi delle loro opere, della possibilità di pensare alle persone come oggetti e agli
oggetti come persone. Non abbiamo mai pubblicato quell’intervista. Da quel giorno siamo
diventati molto amici.
Quali saranno le tematiche della loro prossima mostra in Triennale?
Elegantia – prima personale in un museo italiano di Jos de Gruyter & Harald Thys– è stata
concepita insieme agli artisti come una messa in scena dell’idea stessa di mostra, il ri esso
mentale, il miraggio di un allestimento. Negli spazi del primo piano della Triennale ci
saranno grandi sculture antropiche, una serie di acquerelli dai soggetti ambigui come Fine
Arts (2014), concepiti per Raven Row Londra e MoMA PS1, un gruppo di sculture in terra
cruda provenienti da un inquietante laboratorio di ceramica; piccoli esperimenti sulla forma
umana. Ci saranno sculture di teste pseudo-classiche e persino una grande fontana.
Elegantia dovrebbe apparire – al primo sguardo – quasi come la costruzione di un possibile
stereotipo di mostra sulle “Belle arti” per poi rivelarsi solo dopo qualche attimo come un
catalogo torbido di scene inquiete, in cui gli occhi e gli sguardi delle
gure in mostra sono
vuoti e spaventati, i loro corpi stupidamente bidimensionali e l’architettura dello spazio che
li ospita – essa stessa opera in mostra – è una scena
nta, da un lato quasi caricaturale
dall’altro terribilmente opprimente.
Potresti fare alcuni esempi?
Insieme a Jos e Harald abbiamo spesso guardato in questi mesi ai set
nto-arti ciali delle
ction italiane Anni Novanta e alle scenogra e per il cinema di Brass di Paolo Biagetti, ad
esempio. Indirettamente ispirata all’ipertro ca storia di allestimenti di Triennale, Elegantia
è un’ostentazione ossessiva dell’idea stessa di “display” e si rivela poi come il racconto del
suo stesso fallimento. In tedesco – lingua e cultura dalla quale Harald Thys è sedotto e
ossessionato – la parola “miraggio” contiene la radice di “spiegel”, specchio; come se solo
osservando la realtà attraverso un suo ri esso sia possibile per un attimo riuscire ad
a errarne la natura, capire qualcosa in più. Rendersi conto di ciò che esiste tra innocenza e
depravazione, ironia e paura. Interi gruppi di lavori del duo di Bruxelles sono concepiti come
corpi di opere di un autore “altro”, che abita un mondo parallelo. Prodotti di una mente
disturbata, in cui innocenza e orrore, paura e ironia si confondono tra i silenzi delle cornici e
delle sculture in mostra. Forse con Elegantia cerchiamo di raccontare ciò che è nascosto
dietro la scena di un’apparente normalità.
Potresti esprimere un augurio, un pensiero che accompagni questa tua prossima mostra?
Per Projekte 13 – la loro personale a Kunsthalle Basel nel 2010 – Jos de Gruyter e Harald
Thys avevano modi cato in modo sottile lo spazio delle gallerie e chiesto ai custodi di
serrare le grandi porte bianche della sala d’ingresso subito dopo il passaggio di ogni
visitatore. Il mondo esterno si chiudeva alle spalle di ogni spettatore che iniziava così, passo
dopo passo, ad abitare lo spazio parallelo dei circa cinquecento disegni ricalcati a matita di
De Gruyter & Thys. Sarei felice se in Triennale – come a Basilea – la mostra potesse
diventare luogo. Forma
sica di uno spazio mentale.
Ginevra Bria
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