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scheda tecnica
titolo originale: BINJIP
durata: 95 minuti
nazionalità: COREA DEL SUD
anno: 2004
regia: KIM KI-DUK
soggetto: KIM KI-DUK
sceneggiatura: KIM KI-DUK
produzione: KIM KI-DUK FILM, CINECLICK ASIA
distribuzione: MIKADO
fotografia: JANG SEONG-BACK
montaggio: KIM KI-DUK
scenografia: ART CHUNGSOL
costumi: KOO JEA-HEON
musiche: SLVIAN
interpreti:
SEOUNG-YEON LEE
HEE JAE
HYUK-HO KWON
JIN-MO JOO
JEONG-HO CHOI
JOO-SUK LEE
MI-SOOK LEE
SUNG-HYUK MOON
JEE-AH PARK
JAE-YONG JANG
DAH-HAE LEE
HAN KIM
SE-JIN PARK
DONG-JIN PARK
JONG SUB LEE
UI-SOO LEE
SUN-HWA
TAE-SUK
MYN-KYU
DETECTIVE CHO
GUARDIA CARCERARIA
FIGLIO DELL' ANZIANO SIGNORE
NUORA DELL' ANZIANO SIGNORE
SUNG-HYUK
JEE-AH
HYUN-SOO
JI-EUN
UOMO NELLO STUDIO
DONNA NELLO STUDIO
DETECTIVE LEE
UOMO TORNATO DA VIAGGIO IN FAMIGLIA
DONNA TORNATA DAL VIAGGIO IN FAMIGLIA
KIM KI-DUK
Nato nella provincia del Kyonsang del nord nel 1960, ha studiato belle arti a Parigi fra il
1990 e il 1992. Nel 1993 ha vinto con A Painter and A Criminal Condemned to Death il
premio per la migliore sceneggiatura dell'Educational Institute of Screenwriting. Dopo altri
due premi assegnati a sue sceneggiature, ha debuttato nella regia nel 1996 con il film A
Crocodile, cui sono seguiti Wild Animals, Birdcage Inn, The Isle (presentato alla Mostra del
Cinema di Venezia nel 2000) e lo sperimentale Real Fiction, girato tutto nell'arco di 200
minuti. Address unknown è stato selezionato dal fondo di Promozione per lo sviluppo del
Pusan Film Festival, che nel 2001 ha presentato Bad Guy. Successivamrente realizza The
Coast Guard, film di apertura al Settimo Pusan Film Festival, Spring, Summer, Fall,
Winter... and Spring, presentato in concorso a Locarno e Samaritan Girl, orso d'argento
per la migliore regia a Berlino. Recentemente è stato annunciato il suo nuovo progetto, 3Iron, coproduzione fra Corea del Sud e Giappone le cui riprese inizieranno a giugno, storia
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della relazione tra un vagabondo e una donna da lui salvata da un rapimento.
Premi e riconoscimenti
Samaritan Girl (2004)
54th Berlin International Film Festival, Official Competition, Best Director Award
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56th Locarno International Film Festival, Official Competition, C.I.C.A.E. Award, Don Quizote
Award, Netpac Award, Youth Jury Award
5th International Film Festival of Las Palmas de Gran Canaria, Golden Lady Harimaguada Award
51st San Sebastian International Film Festival, Audience Award
4th Tokyo FILMeX, Opening Film
28th Toronto International Film Festival, Selction Contemporary World Cinema
2004 Sundance Film Festival, World Cinema Selection
8th Pusan International Film Festival, Korean Panorama Selection
16th Helsinki International Film Festival, New Asia Section Selection
The Coast Guard (2002)
38th Karlovy Vary International Film Festival, City of Karlovy Vary Award
7th Pusan International Film Festival, Opening Film
16th Helsinki International Film Festival, New Asia Section Selection
Bad Guy (2001)
52nd Berlin International Film Festival, Official Competition
15th Helsinki International Film Festival, Modern Masters of Asia Selection
4th Far East Film Festival Udine, Korean Selection
8th Verona International Film Festival, Panorama Section
Address Unknown (2001)
58 Mostra del cinema di Venezia, in concorso
2001 Tokyo FILMeX, Competition
26th Toronto International Film Festival, Contemporary World Cinema Selection
15th Helsinki International Film Festival, Modern Masters of Asia Selection
2001 Sitges International Film Festival of Catalonia, Great Angle Selection
12th Stockholm International Film Festival
6th Pusan International Film Festival, Korean Panorama Selection
25th Sao Paulo International Film Festival, International Perspective Selection
Filmfest Hamburg 2001, Red Lines Up Selection
Real Fiction (2000)
26th Moscow International Film Festival, Competition Selection
4th Puchon International Fantastic Film Festival, Made in Korea
The Isle (1999)
57 Mostra del Cinema di Venezia, in concorso, Netpac Award
21st Sundance Film Festival, World Cinema Award
25th Moscow International Film Festival, Special Jury Prize
21st Fantasporto: Oporto International Film Festival, Special Jury Award, Best Actress Award
19th Brussels Fantastic International Film Festival, Grand Prix
30th Rotterdam International Film Festival, Selection
25th Toronto International Film Festival, Contemporary World Cinema Selection
4th Puchon International Fantastic Film Festival, Made in Korea Selection
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Birdcage Inn (1998)
1st Noosa International Film Festival, World Cinema Award
49th Berlin International Film Festival, Panorama Selection (Opening Film)
23rd Moscow International Film Festival, Special Panorama Selection
23rd Montreal World Film Festival, Word Cinema Selection
34th Karlovy Vary International Film Festival, Another View Selection
13th AFI Los Angeles International Film Festival, Competition
Wild Animals (1997)
17th Vancouver International Film Festival Selection
Crocodile (1996)
2nd Pusan International Film Festival, Korean Panorama Selection
12th Umea International Film Festival Selection
Il genio imprevedibile di KIM KI-DUK
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Kim Ki-Duk
E' settembre, il vento della sera è pungente al Lido di Venezia, la gente, tuttavia, cammina
ostentando ancora l'abbronzatura sulle braccia scoperte, esposte al freddo pre-autunnale.
In lontananza si scorge un uomo, non molto alto, dai tratti orientali. Potrebbe essere un
giapponese qualsiasi, uno di quei turisti che invadono la laguna rubando immagini da
portare con sé nel ritorno a casa. L'inconfondibile cappellino con la visiera, sempre lo
stesso, ci dice che non è uno qualunque. E' il regista coreano Kim Ki-Duk, uno dei
maggiori esponenti di quello che potremmo definire il cinema della violenza poetica .
Verità e leggerezza, quadri di immagini feroci, scontri di sguardi angosciati e rabbiosi,
innocenza e amore. E' la sottile magia di un uomo nato a Bonghwa, sulle montagne, che
ha frequentato le scuole fino a un'età acerba, per poi lavorare in fabbrica. Dopo cinque
anni nella marina militare coreana, e la temporanea vocazione a diventare prete, il futuro
regista aveva un desiderio, acquistare un biglietto aereo per la Francia. Desiderava avere
la possibilità di esprimere le sue qualità artistiche. L'espressione d'arte più vicina al suo
pensiero è stata, da sempre, la pittura, e a Parigi, mentre seguiva i corsi delle accademie,
sopravviveva vendendo i propri quadri per strada.
Fino ad allora nessuna ombra di cinema.
Quando nel 1993, al suo ritorno in Corea, gli si è presentata l'opportunità di scrivere delle
sceneggiature, la Settima Arte faceva capolino nella vita di Kim Ki-Duk. Da questo
momento in poi, privo di ogni esperienza filmica, sia teorica che pratica, il genio koreano
ha iniziato la sua breve ma intensa carriera cinematografica. La cultura della forma, degli
equilibri e delle geometrie degli spazi, si fonderanno con la durezza della realtà della sua
gioventù. Nasce qui uno dei più geniali e imprevedibili cineasti degli ultimi anni.
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i lungometraggi narrano con durezza e rabbia, storie di persone ai limiti della società.
Uomini e donne che popolano i quartieri più malfamati e invivibili delle città coreane.
Non c'è dubbio che una caratteristica che contraddistingue il cineasta asiatico è la
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fra gli uomini.
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a Venezia nel 1999, ulteriore manifestazione delle contraddizioni che regnano nella sua
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mente. I suoi personaggi non rappresentano il Bene o il Male, ma li vivono entrambi,
varcando i confini della seduzione dello spettatore, disorientato dagli eventi.
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lirismo e rude violenza, le vite apparentemente distanti di un giovane big daddy e di una
ragazza divenuta prostituta. L'attrazione fra i due si gioca sul filo dell'odio, centrifugando
ancora una volta i chiaroscuri dell'esistenza.
A dimostrazione di quanto la vita militare abbia lasciato il segno su Kim Ki-Duk,“
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spinato (metaforico e non) infilato nella carne di un paese dilaniato dall'odio.
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della vita. Tutto è perfetto.Forse troppo. Il film raccoglie un buon riscontro di pubblico
anche in Italia e fa conoscere il nome del regista coreano.
Lo stesso approccio formale, Kim Ki-Duk,l
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prostituzione assurge a una lettura estrema e definitiva. E' la via crucis intrapresa da una
giovane per espiare la tragica morte dell'amica
Quest'anno, ha presentato aVenez
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la definitiva conferma della maestria di un artista dell'immagine in movimento.
Kim ki-duk: un ritratto
di Kim So-hee*
"E' come un gemito da un abisso.
La terra ferita urla
e la sua voce si fa pian piano più forte.
La voce giunge
dalle profondità
come da una feniditura di un abisso,
un abisso ruggente"
Antonin Artaud
I film di Kim Ki-Duk hanno la caratteristica di mettere a disagio. Chi non si sentirebbe a
disagio di fronte a film che testimoniano una realtà estranea e sono fatti di immagini non
facilmente identificabili? E oltretutto, la critica cinematografica femminista lo fa oggetto di
attacchi isterici, definendolo a volte uno "psicotico", a volte un "buono a nulla".
Kim Ki-Duk cerca di spiegare questi attacchi come "un'ansia che la gente mainstream
prova nei confronti di coloro che non appartengono a quel mondo", e si contrappone a
cineasti come Hong Sang-Soo e Lee Chang-Dong e alle loro "attitudini intellettuali",
definendosi non-mainstream proprio in antitesi alla loro posizione mainstream: un tentativo
di distinguere la sua ideologia e la sua estetica da quella di altri, certo, ma soprattutto una
reminiscenza della sua infanzia. Kim Ki-Duk dopo aver terminato la scuola dell'obbligo ha
lavorato in fabbrica dall'età di 17 anni. Nel 1990, dopo aver messo insieme abbastanza
soldi per un biglietto aereo, si è trasferito in Francia per "studiare all'estero" e si è
mantenuto per due anni vendendo i suoi quadri. Non ha goduto di nessun genere di
"normale" istruzione istituzionalmente intesa. Perciò è inevitabile che qualsiasi tipo di
sensibilità o di forma del discorso mainstream sia inadatta a chi, come lui, è vissuto ai
margini.
Fino al suo primo film, Crocodile del 1996, Kim Ki-Duk non aveva avuto nessun tipo di
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formazione legata al mondo del cinema: ha imparato girando, sperimentando sul campo le
potenzialità del mezzo. Questa è forse la ragione per la quale i suoi film prestano il fianco
a critiche legate allo scarso rispetto della sintassi cinematografica o alla cura
dell'immagine. Kim Ki-Duk risponde che "forse per questi critici è un aiuto il fatto che io
mantenga una certa goffaggine".
Quindi, per rispondere alle varie controversie che che riguardano il cinema di Kim Ki-Duk,
sarà meglio fare un passo indietro ed esaminare il rapporto fra la realtà della vita di Kim e
il suo cinema.
Se definiamo i personaggi dei film di Kim Ki-Duk come dei "marginali" o dei "disadattati",
sarà bene ricordare che Kim stesso ha vissuto la loro stessa vita: già la sua infanzia è
segnata da episodi dolorosi e singolari.
Kim Ki-Duk nasce a Bonghwa, nel nord della provincia di Kyungsang: cresciuto in un
villaggio fra i monti, è un ragazzino dispettoso, cui di tanto in tanto capita di rompere un
braccio a un coetaneo o di mostrare con orgoglio strani congegni elettronici di sua
produzione. All'età di nove anni si trasferisce con la famiglia a Seul, dove frequenta una
scuola di avviamento professionale nel settore agricolo, che è costretto ad abbandonare
quando suo fratello maggiore viene cacciato da scuola. Dopo aver lavorato negli anni della
sua adolescenza in diverse fabbriche, all'età di vent'anni si arruola nei corpi speciali
dell'esercito.
Kim si adatta bene alla vita militare, trascorrendo cinque anni nell'esercito come
sottufficiale: un'esperienza di cui farà tesoro quando si troverà a raccontare l'amicizia virile
nei suoi film. Il rapporto fra Hong-San e Chung-Hae in Wild Animals e quello fra Changgook e Ji-hum in Address Unknow ne sono soltanto due esempi. Un'esperienza che gli
servirà anche come modello per quella sorta di sorellanza che mette in scena in Birdcage
Inn.
Dopo aver lasciato l'esercito, Kim trascorre due anni in una chiesa per i menomati della
vista con l'intenzione di diventare predicatore e nel frattempo prosegue nell'attività di
pittore che aveva iniziato a coltivare da bambino. Nel 1990, con il solo bene di un biglietto
aereo, si trasferisce a Parigi. Qui riesce a guadagnarsi da vivere organizzando mostre e
vendendo i suoi quadri. Al suo arrivo a Parigi, Kim considera "il frutto del lavoro manuale
l'unica cosa che abbia valore, e la cultura un lusso", ma la sua esperienza nella capitale
francese gli suggerirà nuovi punti di vista.
Kim tratteggia a sua immagine il Ji-hum di Address Unknown e il Crocodile del film
omonimo. Anche senza ulteriori spiegazioni, possiamo facilmente riconoscere il cineasta
dietro questi personaggi per il fatto che si tratta di due pittori. Ed entrambi portano un
segno di speanza: forme di vita vulnerabili come un uccello, un pesce rosso o una
tartaruga.
Ritornato dalla Francia, Kim si dedica alla stesura di una sceneggiatura per i sei mesi
successivi, e presto riceve la buona notizia che due dei suoi lavori sono stati selezionati.
Avendo poca dimesticheza con la scrittura, per non parlare dell'ortografia, lavora
diligentemente alle sue sceneggiature sforzandosi di concentrarsi su questioni di interesse
immediato, e non su un futuro distante che non sembra a portata di mano.
Per queste ragioni biografiche è evidente come la carriera cinematografica di Kim abbia
inizio in modo del tutto diverso da quello di altri cineasti: privo di qualsiasi formazione
cinematografica, non ha mai fatto gavetta né è mai stato cinefilo. Ma proprio per questo
riesce a dimostrare una straordinaria libertà: i suoi film possono essere considerati degli
scritti autobiografici fatti con la macchina da presa. Ed è per questa ragione che Kim tende
a considerare ogni suo film come una "sequenza" all'interno della sua intera produzione.
Dunque il suo primo film, Crocodile, rappresenta la sua vita e le sue esperienze, e attesta
l'inizio di una serie di opere che possono essere considerate parte di unico progetto
cinematografico. La crudeltà che è diventata il suo marchio di fabbrica è impregnata della
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dura realtà dei suoi primi trent'anni.
In Crocodile, Kim tenta di ribaltare la metafora della prosperità della Corea neo-capitalista
rappresentata dal fiume Han rivelando un mondo "anormale" dietro lo sviluppo e l'ordine, e
lo fa svelando ì come siano in pericolo le vite dei "coccodrilli" impigliati in un pericoloso
meccanismo di sfruttamento. Originariamente intitolato The Two Crocodiles, Wild Animals
presenta la città più aperta e accogliente d'Europa, Parigi, come un luogo ben lontano
dall'essere una sicura "riserva" per animali selvaggi come il soldato nord Coreano Hongsan (Red Mountain) e il pittore senza talento Chung-hae (Blue sea).
La rabbiosa energia che trabocca dalle sue due prime opere si stempera in una
aspirazione alla coesistenza e alla riconciliazione in Birdcage Inn. In questo film, Kim tenta
di affrontare il sesso come "una componente della vita" e di raccontarlo come "un mezzo
di reciproco avvicinamento".
Il suo quarto film, The Isle, rappresenta un'importante svolta. Ancora una volta il film divide
pubblico e critica, ma la sua collocazione in concorso a Venezia e i proventi della vendita
all'estero diventano l'opportunità per Kim per essere classificato come "un regista che
magari non si riesce a capire fino in fondo, ma di sicuro talento". Il film è sconvolgente,
porta alla superfice immagini e idee apparse occasionalmente nei primi film e vale a Kim
l'appellativo di "regista capace di contemplare attraverso le immagini", un'espressione
usata solo per il cinema di Yoo Hyun-mok, maestro del cinema coreano nei gloriosi anni
'60.
Un giornalista italiano, commentando The Isle, ha notato che "dopo questo film la
distinzione tra l'amare e il non amare qualcuno ha perso di senso": in The Isle Kim ritorna
a trattare la relazione masochistica fra un uomo e una donna, spiegando che il
cambiamento di rotta rispetto a Birdcage Inn "non è pianificato, è come un riflesso
condizionato del sistema nervoso".
Ma in effetti il film prosegue il discorso di Kim: i personaggi di questo film come dei
precedenti tradiscono le aspettative e spiazzano il pubblico, inclassificabili come sono
nelle categorie tradizionali di bene e male, di bellezza e bruttezza. Allo stesso modo,
anziché definirli buoni o cattivi, lo spettatore è portato a dubitare dei limiti di classe e di
genere, a mettere in discussione i concetti di normalità e anormalità, ordine e disordine, di
centro e di periferia. Nell'ultimo film di Kim, Address Unknown è il personaggio di James a
svolgere questo ruolo destabilizzante. Kim commenta la dolorosa situazione dei militari
americani di stanza in Corea affermando che "ogni soldato come individuo, è soltanto un
essere umano solo, che passa la sua giovinezza in un paese straniero".
Nel suo quinto film, Real Fiction, Kim esplora invece il limite fra il conscio e l'inconscio, fra
la realtà e la fantasia. Un altro alter ego di Kim, che in questo film si chiama "I", cade
vittima del suo "id" nel momento in cui assiste ad uno spettacolo teatrale. Ritornando alla
realtà dopo questo lungo viaggio della coscienza, si rende conto che nulla è cambiato a
Seul. "I film non possono cambiare la realtà, ma semmai lo stato di coscienza di un
individuo", commenta Kim.
I film di Kim Ki-duk sono stati talvolta definiti "grotteschi". Questo termine, che di recente è
diventatato di gran moda in Corea, diventa alla luce di quanto detto la parola chiave che
sta ad indicare il crollo della stabilità mentale e delle sue varie espressioni culturali.
La vita di Kim Ki-duk, i suoi film e la loro crudeltà sono elementi strattamente intrecciati
l'uno con l'altro: la realtà crudele che mette in scena potrà impaurire il pubblico e far
storcere il naso a qualche critico, ma se l'energia che permea i suoi film deve essere
riconosciuta come un elemento oscuro, è altrettanto vero che essa non è il solo argomento
dei suoi film. La messa in scena della crudeltà, al contrario, deve essere riconosciuta
come l'aspirazione a trovare un senso alla crudeltà delle nostre vite e del mondo in cui
viviamo. Address Unkonwn, ad esempio, fa risalire la nostra crudeltà di oggi alla storia del
colonialismo e alla guerra di Corea.
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Il cinema di Kim Ki-duk ci porta a questa costatazione, e ci spinge a migliorare. Questo
sforzo è per Kim un punto di partenza per una rivoluzione: come Antonin Artaud, che
all'inizio del XX secolo introdusse l'idea del teatro della crudeltà come un mezzo per
trovare una cura per se stesso e per gli altri, Kim Ki-duk, i cui film sono pieni di distruttività
e di violenza, utilizza l'orrore e il sadismo non come fini a se stessi, ma come un sacrificio
per riportare l'umanità a uno stato precedente a quello della sua contaminazione con una
realtà crudele.
Questa è la ragione per la quale Kim risponde alle aspre critiche dirette contro di lui
dicendo "Avete mai veramente guardato le vite che mostro nei miei film? Avete mai visto
sul serio il grido disperato che c'è nei miei lavori?" E aggiunge che girare per lui è "un
processo per trasformare la propria difficoltà a capire in una possibilità di comprendere".
Film dopo film, Kim ha iniziato a mettere in scena anche quegli elementi di bellezza e di
calore che il mondo può offrire. E spiega che per lui, ogni film è la ripetizione di un
processo: "rapisco la gente mainstream nel mio spazio, mi presento come un essere
umano e chiedo loro di stringermi la mano. Così non hanno più paura delle mie posizioni".
Il critico cinematografico britannico Tony Rayns, che conosce Kim Ki-duk molto bene, lo
descrive come una persona estremamente interessante, anche se la sua sensibilità, la sua
testardaggine e la sua aggressività a volte rendono difficile comunicare con lui. Ma con la
sua espressione dolce e innocente è capace di essere un angelo, a patto che si renda
conto di essere amato e capito.
Kim si affida alla sua sensibilità, alla sua capacità di osservazione, e alla sua esperienza
personale. Ora che finalmente Kim Ki-duk ha ottenuto attenzione a livello nazionale e
internazionale, sembra che sia dibattuto fra "uno sguardo dall'esterno" e la sua "intima
essenza". Per coloro che sono desiderosi di dare consigli a Kim Ki-duk sulla vita e
sull'arte, il punto più importante è non puntare l'attenzione sull'estetica di un'oggetto,
quanto sul foco interiore che può facilmente essere soffocato. E' questa la ragione per la
quale Kim è talvolta paragonato a un altro maestro del cinema coreano come Kim Kiyoung.
Ciò di cui Kim ha davvero bisogno è un tocco che plachi la tempesta del suo mondo
interiore, ma lasci intatto il suo spirito. E altrettanto necessaria è una critica sincera, che
vada di pari passo con un altrettanto sincero incoraggiamento.
Questo enigmatico regista sta incrementando la sua filmografia con grande energia e
stupefacente regolarità: resta da vedere se proseguirà su questa strada che lo ha portato
ad essere indicato come il possibile erede di Kim Ki-young.
LA CASA VUOTA di Kim Ki-duk
Esco dalla mia casa.
Mentre sono fuori, qualcun altro entra nella mia casa vuota e ci vive.
Mangia cibo dal mio frigorifero, dorme nel mio letto, guarda la mia TV.
Forse perché si sente in colpa, aggiusta la mia sveglia rotta, fa il bucato, mette tutto in
ordine e poi scompare.
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Un giorno entro in una casa vuota.
Sembra che non ci sia davvero nessuno, così mi spoglio, mi faccio un bagno, preparo da
mangiare, faccio il bucato, aggiusto una bilancia e mi esercito a golf nel giardino di casa.
Nella casa c'è una donna scoraggiata, spaventata e ferita che non esce mai e piange.
Mostro a lei la mia solitudine. Ci capiamo senza dire una parola, scappiamo via senza dire
una parola.
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Mentre scegliamo in quale casa vivere, ci sentiamo sempre più liberi.
Nel momento in cui sembra che la nostra sete di libertà si sia placata, restiamo intrappolati
all'interno di una casa buia.
L'uno resta in una casa fatta di nostalgia.
L'altro impara a diventare un fantasma per nascondersi nel mondo della nostalgia.
Ora che sono un fantasma non ho più voglia di cercare una casa vuota.
Ora sono libero di andare nella casa in cui vive la mia amata e darle un bacio felice.
Nessuno sa che sono lì.
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In questo giorno del 2004 qualcuno aprirà il lucchetto che blocca la mia porta e mi
renderà libero.
Avrò cieca fiducia in questa persona e la seguirò ovunque, non importa dove o cosa ci
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E' difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà.
Agosto 2004, Kim Ki-duk in una casa vuota
Recensioni
Corriere della Sera - Tullio Kezich
Il regista coreano Kim Ki-Duk, autore dell'indimenticabile Primavera, estate, autunno, inverno...,
introduce in Ferro 3-La casa vuota vincitore di un Leone d'argento a Venezia, due protagonisti
praticamente muti. Lee Seung-yun gira col motorino per attaccare pubblicità sugli usci delle case,
in modo da scoprire attraverso la mancata rimozione del cartiglio le dimore disabitate nelle quali
infilarsi. Da un «nido del cuculo» all'altro, il giovane incontra la modella fotografica Jae Hee, mal
maritata con un tipo manesco. Proseguendo in coppia il surreale itinerario, Lee e Jae finiscono nei
guai quando in una delle case visitate trovano un cadavere. Accusato di omicidio, bastonato dalla
polizia e chiuso in cella, il giovane scopre la dimensione mistica del «non esserci» e avvalendosi di
tale conquista può ricongiungersi all'amata sotto il tetto coniugale in barba al marito che non lo
vede. È una metafora che nel corso di un'ora e mezza si dipana coniugando in una rara sintesi
leggerezza e profondità.
il Giornale Nuovo (3/12/2004) Maurizio Cabona
A volte uno sponsor può permettere di girare un film, ma al prezzo di alterarlo. E il caso di Ferro 3
di Kim Ki-duk, interessante e prolifico regista che ha avuto il premio per la regia all'ultimo Festival
di Berlino con Samaria e ne ha avuto un altro all'ultima Mostra di Venezia proprio con Ferro 3,
giunto come «film sorpresa», che convince meno. Lo sponsor - si direbbe - ha imposto una moto di
lusso nuova, anziché un ciclomotore usato, per il protagonista. Sulla moto lo vediamo dalla prima
inquadratura e così lo scambiamo - in assenza di altre informazioni su di lui -per un giovane ricco.
Invece è uno sqitatter individualista, che s'introduce nelle case altrui, finché il padrone torna e lo
caccia. Il titolo del film allude a una mazza da golf, che diventa qui ciò che la pistola è per i film di
John Woo. Il protagonista (Lee Seung-yun) conosce durante una delle sue incursioni una ragazza
(???) malmenata dal convivente e fugge con lei, dopo aver ferito lui a colpi di palline da golf...
Arrestato, picchiato, ucciso, tornerà in spirito nella casa della ragazza per un ménage a trois come
già in Donna Flor e i suoi due mariti. La cinefilia del Lido s'era entusiasmata. Ora Kim Ki-duk è un
[email protected]
9
autore interessante, ma il pubblico normale, quello che non odia i benestanti in quanto tali, può
farne a meno.
La Stampa (6/12/2004) Lietta Tornabuoni
Solitudini, amori. Nel titolo del bel film coreano «Ferro 3-La casa vuota» di Kim Ki-duk, l'autore di
«Primavera. Estate, autunno, inverno... e ancora primavera», Ferro 3 si riferisce alla gerarchia dei
bastoni da golf e serve al protagonista per colpire un avversario con numerose palline. Le case
vuote sono il simbolo della sua vocazione solitaria. Il ragazzo identifica le case vuote degli altri, vi
si insinua, vi vive brevemente senza portare via nulla; anzi compensa l'involontaria ospitalità
facendo la guardia, tenendo tutto in ordine, aggiustando oggetti rotti, lavando biancheria sporca.
Poi se ne va: vuol avere una casa ma non portarne la responsabilità e il peso, vuole abitare solo,
vuol salvaguardare la propria anonimità tenendosi fuori dalla società, vuol avere ambienti di ordine
perfetto. E' un fantasma che si nasconde nell'ignoto e nel mondo della nostalgia. Un giorno entra
nella casa fatale, che pare vuota, di una bella donna infelice nel matrimonio: sarà la sua compagna
nelle visite alle case vuote, condivideranno il semi-mutismo delle loro vite. In una casa però
trovano un cadavere, e il fatto di averlo ben rassettato e sepolto nel giardino diventa colpa nei
sospetti della polizia. Arrestato, il protagonista acquista poteri paranormali che gli consentono di
muoversi liberamente, di stare accanto alla donna amata che è la sola a vederlo e a constatare la
sua presenza. Nonostante tante traversìe, il loro amore non verrà sconfitto. Quest'ultima parte del
film è forse quella meno facile da seguire e capire per lo spettatore occidentale, ma anche la prima
parte non è semplice: nelle ricerche, nelle esperienze di solitudine del protagonista, nulla si
avvicina alla concretezza degli squatters. Risulta incantevole la leggerezza, la spiritualità, la
profondità, l'eleganza visionaria di un autore bravissimo, affascinante, riconosciuto con il gran
premio speciale della regìa all'ultima Mostra di Venezia.
l'Unità (3/12/2004) Alberto Crespi
Avete mai avuto la sensazione che qualcuno sia entrato nella vostra casa a vostra insaputa? Un
oggetto spostato, un libro aperto, un segno infinitesimale, il sospetto di una presenza misteriosa?
Ferro 3 del coreano Kim Ki-Duk, premiato a Venezia, lavora su questa paura... che poi è, semmai,
un'inquietudine con aspetti stimolanti (in fondo, le «presenze» possono rivelarsi piacevoli, come
l'ombra di Peter Pan, o come gli angeli custodi). Un ragazzo un po' strano gira in moto per la città,
appendendo volantini pubblicitari alle maniglie delle porte. Il giorno dopo ripassa dalle stesse case,
e controlla: se un volantino è ancora al suo posto, significa che l'appartamento è
momentaneamente vuoto; il ragazzo entra e, letteralmente, fa come se fosse a casa propria.
Mangia, fa il bucato (è un igienista!), ripara qualche elettrodomestico (è un bricoleur!), dorme e se i
legittimi proprietari fanno improvvisamente ritorno, scompare come un fantasma. Ben presto
scopriamo (ma non sapremo mai se è un caso) che le case sono legate dalla presenza di alcune
foto: tutte raffigurano una giovane modella, nuda, che abita in uno degli appartamenti assieme al
marito ricco e manesco. È lei l'obiettivo del giovane? L'enigmatico titolo Ferro 3 allude a un tipo di
mazza da golf: in casa del riccastro, che ama e mena la fanciulla, il ragazzo trova infatti delle
mazze con le quali comincia ad esercitarsi, raggiungendo quasi subito una perizia che gli consente
di sparare palline da golf come fossero proiettili. È una delle tante stranezze di un film lunare,
insolito, affascinante. Se ci sono precedenti allo stile di Kim Ki-Duk, risalgono ai tempi di Buster
Keaton e di Jacques Tati, artisti con un approccio Zen alla comicità. Kim è un grande eclettico: ha
44 anni, e dal 1996 a oggi ha girato ben dieci film tutti diversissimi l'uno dall'altro. Ferro 3 è una
riflessione sulla solitudine che inizia come una comica surreale, prosegue come un dramma
kafkiano e finisce come una love-story: tre film in uno, nell'arco di 90 minuti, per la più singolare
esperienza visiva e psicologica che possiate fare al cinema in questo Natale 2004.
Film TV (7/12/2004) Pier Maria Bocchi
FERRO-3 è un film di morte e di fantasmi. È un film d'amore e di trasfigurazione necessarie al
vivere. Ferro-3 è il lavoro finora più astratto di kim Ki-Duk. Se l'altra opera di Kim di pura
[email protected]
10
astrazione, The Coast Guard, affondava mani e piedi in una terra di sangue e incubi come la
guerra, qui la metafisica diventa stile assoluto, nel senso di unico e possibile strumento in grado di
raccontare ,-ormai- una storia e, di riflesso, l'esistenza. Kim Ki-duk non ha mai fatto a meno del
simbolo e non si è m a i vergognato di usare la metafora al fine di evidenziare un'idea di mondo.
Laddove in precedenza simboli e metafore costruivano insieme una struttura che si fondava su
un'elementarità di significati essenziale a dire e far capire le cose, sul limite della retorica, in Ferro3 essi spariscono come il protagonista, ma il risultato è ancora più simbolico, ancora più
metaforico. La trasparenza non è soltanto condizione umana, in Ferro-3, ma anche forma di
messinscena. Il ragazzo che entra nelle case, non ruba niente, aggiusta ciò che è rotto, magari fa
un bagno, rappresenta una convinzione di realtà. Come si possono tastare, oggi, l'amore, l'intimità,
la pace protettiva, se non attraverso un'intrusione senza essere visti? Naturale, allora, che un'altra
figura non vista, la moglie insoddisfatta con il marito prepotente, si senta attratta da un ectoplasma
così simile a lei. E naturale, anche, che la loro storia di passione non possa essere vissuta, se non
per mezzo di trasfigurazioni, appunto, che li riguardano in prima persona. Lui, arrestato perché
scoperto, si volatilizza e torna da lei, che mette in pratica la propria dedizione amorosa verso colui
che sta dietro/accanto/davanti al coniuge, l'amato che non c'è, che è aria, o forse c'è davvero,
chissà. Come sempre, pessimismo e solitudine regnano incontrastati, nel cinema del regista
coreano, che in Ferro-3 raggiunge un equilibrio perfetto, facendoci vedere e sentire il dolore senza
sottrarsi al sentimento e all'emozione (la sequenza di lei sul divano altrui, da sola: da lacrime).
Cinema importantissimo. Il titolo si riferisce a un tipo di mazza da golf: e il colpo che infierisce allo
stomaco dello spettatore è letale e rivitalizzante insieme.
Offscreen.it –Stefano Finesi
Il cinema di Kim Ki-Duk sembra seguire il destino del protagonista di Ferro 3: si affina, si
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singola inquadratura, di ogni singola parola, tanto più intenso in quanto ulteriormente alleggerito
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a-misticheggiante del film precedente. Ferro 3 appare in fondo la storia di un
fantasma, o meglio di un apprendista fantasma, che si sforza di divenire tale nella paradossale
necessità di estendere la propria presenza nel mondo ed esercitare i propri desideri: non è un
fantasma ad infestare le case borghesi di sconosciuti in viaggio, uno spirito apparentemente
gentile che vuole raggiungere e penetrare la realtà fin nella sua dimensione più intima? Tae-suk è
uno sradicato, che ama vivere in una condizione di assoluta, silenziosa precarietà, eppure al
tempo stesso avverte il bisogno di lasciare un segno, di rimarcare la propria presenza di intruso
nelle case occupate: magari riparando un impianto stereo o una pistola ad aria compressa (che
lascerà i segni a sua volta alla madre del proprietario), magari arrivando a seppellire con tutti gli
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Anche la passione per il golf, in un sistema di segni insieme lineare e di affascinante originalità, va
legata a tale esigenza di proiettarsi nel mondo che vuole al contempo evitare la propria messa in
gioco, in un lancio anonimo, a distanza. Ma il golf porta con sé anche il peccato originale della
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esplodeva nella forma sadica e grondante del melò, a cui semmai una certa freddezza dello
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controllato esorcismo di quella violenza, un percorso di redenzione e purificazione che coinvolge i
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Il golf risulta insomma una sistema di comunicazione primitivo da cui progressivamente affrancarsi,
la cui sostanziale vigliaccheria si converte nel nuovo approccio che il protagonista apprende nei
giorni del carcere: essere presente e assente al tempo stesso, visibile e invisibi
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iniziale ai due, nel reciproco lancio della pallina tra le stanze della casa di lei, ma, nella scena che
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caparbietà i tiri consueti di allenamento.
Il processo di maturazione e affinamento si completa quindi in prigione, da dove il protagonista
esce tramutato realmente in un fantasma: il suo ritorno nelle case abitate in precedenza per
regolare i conti in sospeso è girato per lo più in una fluida soggettiva che lo esclude
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divertire. In un momento di cinema giocato sul filo del grottesco, che pochissimi cineasti avrebbero
saputo rendere credibile, assistiamo alle vere e proprie avventure di un uomo invisibile, la cui
identificazione dello sguardo con quello della mdp non fa che ribadire quanto abbiamo sostenuto
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percorso di crescita, imparando a essere partecipe e distante al tempo stesso, visibile e invisibile
(in un apparato formale estremamente rigoroso ma mai invasivo), imparando a raccontare una
storia la cui trasparenza cristallina è proporzionale solo alla sua seducente ricchezza di senso.
Gli spietati.it –Luca Pacilio
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debole o troppo scarna, mi pare alla fine reggere per tutta la sua durata non cedendo il passo BINJIP a nessun calo di tensione, anzi riuscendo coerentemente a variare il tono in coda e a chiudersi
con bello slancio. Non riesco a condannare un cineasta solo perché ha messo da parte il suo
pessimismo più esplicito (cosa vera fino a un certo punto: si pensi alla spietata pallina da golf che,
rompendo il parabrezza, ferisce involontariamente una donna e al conseguente sgomento del
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leggerezza senza tradirsi.
Una curiosità: il film doveva essere musicato da Michael Nyman (suo il cd - Live del 1994 - che il
protagonista inserisce nel lettore dello stereo in casa del fotografo) ma per motivi ignoti la
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turbine delle vacue parole prodotte da una crisi di coppia oppone il rumore del silenzio,
semplicemente. La comprensione tra amanti viene affidata ad un rapporto di complicità restituito
attraverso particolari e docili minuzie, in un crescendo filmico presto emozionante; il timido sfiorarsi
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questo conatus verso il sentimento, da parte di uno spettro forse sfinito dalla solitudine, il regista
solo apparentemente rinuncia alle suggestioni predilette; la sua cosmologia della violenza è
sotterranea ma egualmente presente, rarefatta ma chiaramente ineludibile. Esplode un cinema
tremendo, che esaltando appieno la scelta silenziosa del protagonista ammazza ogni possibile
commento: la pallina da golf sulla testa della donna per scalfire la materia cerebrale, il teorema di
violenza domestica suggerito e quindi doppiamente doloroso. Di progressiva perfezione
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primaria che tradisce netta circolarità. Kim Ki-duksot
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suo capolavoro: infine appoggia delicatamente sul piatto la contrapposizione ultima e devastante. Il
pugno e la carezza, come sempre, in profonda antitesi: Lui non è più neanche un personaggio ma
pura pantomima, silenzio ma dialogo dei sensi, un bacio fantasma che appiana i lividi del vivere.
Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà.
Gli spietati.it –Stefano Selleri
Una rete: al di là, una statua muliebre di gusto neoclassico. Una violenza invisibile increspa la rete
senza scalfire la calma della si
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al meglio il più recente incanto di Kim Ki-duk, uno dei film più densi e commoventi affacciatisi sui
nostri schermi negli ultimi tempi. Lungi dal limitarsi a un raffinatissimo esercizio di stile (regole del
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connessi sul piano testuale e, soprattutto, magnificamente risolti dal punto di vista cinematografico.
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coronato dal trionfo sulla violenza inflitta e subita. Il girotondo espiatorio di PRIMAVERA… r
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il proprio fascino in un susseguirsi di scene ellittiche in cui il dramma si tinge di commedia e flirta
con il thriller, dimostrando una levità lontana da ogni stonata leggerezza, aprendosi al sorriso
senza dimenticare le raggelanti tinte del sangue. A un secondo livello, FERRO 3 è una riflessione
sul cinema come arte della messinscena: i protagonisti entrano in case estranee, ne modificano gli
equilibri, si servono di ogni set per fissare un ricordo fotografico del loro passaggio, propongono
nuove disposizioni degli oggetti trovati (indumenti sporchi, cibo, pistole, cadaveri), aprono nuovi
sviluppi possibili per le esistenze altrui, e per le proprie. Questo secondo livello si unisce al primo
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fatto puro occhio per captarle) potrebbero essere proiezioni mentali (il golf fantasma dei carcerati),
riflessi in uno specchio opaco, balsami fantastici del dolore quotidiano. Forse, soggetto
desiderante e oggetto desiderato non sono che ombre sfocate, corpi senza peso non perché infine
liberi da ogni vincolo esterno ma in quanto privi di esistenza al di fuori di un effimero sogno (in)
comune.
Fra tanti abissali dubbi, una luminosa certezza, quella del talento vivace e rigoroso di un regista
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delle cornici e delle superfici trasparenti, gli imprevisti e depistanti movimenti di macchina),
lontanissime da ogni bamboleggiante poeticismo e proprio per questo realmente poetiche, di una
poesia fatta di carne e di lacrime quanto di soffio etereo, capace di stregare in eguale misura il
cuore e il cervello (per tacere dello stomaco). Attendendo SAMARIA (Berlino 2004) e gli altri
inediti, non mi servono altre prove per attribuire a FERRO 3 il massimo dei voti.
Gli spietati.it –Matteo Catoni
Quel che conta non sono le parole, ma ciò che accomuna. La stessa percezione della realtà, lo
stesso desiderio di sconfiggere la solitudine instaurando un rapporto elementare e magnifico che
non ha bisogno di niente, perché ogni necessità è appagata dalla naturalezza, che sovente è
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Insieme, per scelta e non per caso, vivranno la loro passione che giorno dopo giorno maturerà fino
a diventare un frutto pronto ad essere colto. Vivrebbero così in eterno, ma la società che li
circonda non può (non vuole?) comprenderli. Bisogna diventare invisibili per riuscire ad amare in
questo mondo, diventare fantasmi per stare vicino alla persona desiderata senza che nessun
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superflue, inutili, fastidiose. Ferro 3, ci riporta sulla via del minimalismo, alle nostre origini, al
principio di tutto. Due persone, la loro storia, la volontà che rende possibile tutto perché sospinta
dal più grande dei sentimenti. Un cinema capace di far sorridere, riflettere, commuovere, con una
semplicità e naturalezza che il cinema occidentale sembra aver smarrito per strada. Una piccola
lezione di cinema.
Gli spietati.it –Luca Baroncini
Dopo i fasti veneziani, e grazie al premio alla regia conquistato, arriva nelle sale l'ultimo film di Kim
Ki-duk, autore coreano molto amato nei festival internazionali (suo anche l'Orso d'Argento a
Berlino per "Samaritan Girl") e solo negli ultimi tempi distribuito in Italia. La violenza, spesso
gratuita, degli esordi ("L'isola", "Address unknown") si e' evoluta in uno stile piu' morbido, ma resta
elemento centrale della sua visione e percorre trasversalmente anche l'ultima opera, insieme a un
pessimismo ingentilito da una tenera storia d'amore. L'aspetto piu' irritante di "Ferro 3", gia'
presente anche in "Primavera, Estate, Autunno, Inverno ... e ancora primavera" e' la forte
connotazione morale del racconto, con il bene e il male chiaramente distinti e riconoscibili,
nonostante qualche macchia (l'omicidio involontario con l'inseparabile mazza da golf) che pero'
non lascia traccia. I due protagonisti, infatti, vengono subito connotati come vittime di una societa'
malata e incapace di comunicare e il loro mutismo, affascinante ma forzato, appare come un
disperato tentativo di tornare all'essenza delle cose abbandonando la vacuita' delle sovrastrutture,
un ultimo baluardo per fronteggiare la grettezza del mondo. Ma l'approccio giudicante del regista
banalizza i personaggi e sfora nella retorica; ad esempio nel rifiuto parziale della tecnologia (la
lavatrice) per ritornare ai "bei tempi" in cui si lavava a mano. Il punto di vista di Kim Ki-duk, drastico
e non per forza condivisibile, non disdegna virate surreali (imbarazzanti le incursioni della guardia
nella cella e le discutibili capacita' mimetiche del protagonista) e passa attraverso siparietti
didascalici non cosi' illuminanti, in cui i personaggi vengono piegati al messaggio da veicolare. Si
incontrano cosi' famiglie litigiose in cui i bambini giocano con pistole, fotografi marpioni e mariti
caricaturali di rara cattiveria. Il tutto mentre si consuma un amore puro e, ovviamente, incompreso,
che cerca la poesia ma inciampa in eccessivi schematismi. La discontinuita' di certe soluzioni
narrative e', pero', sostenuta da un apprezzabile andamento stilistico e da alcune belle idee: il
vuoto di case temporaneamente disabitate riempito da un silenzio garbato, la semplicita' di gesti e
sguardi empatici a dare voce al linguaggio del cuore, la scorrevolezza con cui il racconto si lascia
seguire, il superamento degli argini di qualsiasi "genere" e una intensa sequenza conclusiva. La
necessita' di una didascalia finale ("non e' dato sapere se il mondo in cui viviamo e' sogno o
realta'"), per spiegare la possibile coesistenza di diversi livelli narrativi, non depone a favore della
tesi sposata dal film: e' infatti la parola (scritta, ma pur sempre parola) a dover chiarire cio' che le
immagini, evidentemente, non sostanziano a sufficienza. Perfetto suggello di un film decisamente
sopravvalutato in cui idee interessanti, ingenuita' e un piglio arrogante travestito da pacatezza
convivono in equilibrio precario.
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