tesi dottorato ARSENI

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tesi dottorato ARSENI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
ISTITUTO DI MEDICINA LEGALE
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
MEDICINA LEGALE, TOSSICOLOGIA FORENSE E MALPRACTICE
CICLO XXIV
TITOLO DELLA TESI
LA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE
NELLE PROFESSIONI SANITARIE
TUTOR
Chiar.mo Prof. Mariano Cingolani
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Daniele Rodriguez
ANNO 2013
DOTTORANDO
Dott.ssa Alessia Arseni
INDICE
PRESENTAZIONE ED OBIETTIVI DELLA TESI
Capitolo1. ASPETTI GENERALI
1. Le professioni sanitarie di interesse
2. Il concetto di responsabilità
3. La responsabilità giuridica
4. Responsabilità deontologica
5. Responsabilità etica
Capitolo 2. LA RESPONSABILITÀ E LE NORME
DISCIPLINANTI L’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONALE
1. La responsabilità nei profili professionali
2. Un aspetto particolare del profilo professionale degli infermieri
3. La legge n. 42 del 1999: il superamento dell’ausiliarietà e del
controllo da parte del medico
4. La legge 42 del 1999: il riconoscimento della responsabilità
5. La legge 251 del 2000: l’autonomia come “completamento” della
responsabilità
6. Altre fonti normative in tema di responsabilità
7. Le direttive europee come fattore di confusione
Capitolo 3. RESPONSABILITÀ E CODICI DEONTOLOGICI
1. Codificazione deontologica recente e riconoscimento nella
produzione legislativa coeva
2. Codici deontologici e colpa professionale specifica
3. La responsabilità nei codici deontologici: aspetti generali
4. Quale responsabilità nei codici deontologici?
5. Responsabilità e codice deontologico dell’infermiere
6. Responsabilità e deontologia: innovazioni concettuali nel codice
deontologico dell’infermiere
Capitolo 4. RESPONSABILITÀ E CODICE PENALI
1. Responsabilità penale: sinossi dei delitti possibili nel corso
dell’attività professionale
2. Responsabilità professionale e delitti colposi
2.1. Lesioni personali colpose
2.2. Omicidio colposo
2.3. La condotta
2.4. Il nesso di causalità materiale
3. Responsabilità professionale e delitti dolosi
3.1. Le qualifiche giuridiche del professionista sanitario
3.2. Omissione di soccorso
3.3. Rifiuto di atti di ufficio; omissione
3.4. Abusivo esercizio di professione
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Capitolo 5. GIURISPRUDENZA IN TEMA DI
RESPONSABILITÀ DEGLI ESERCENTI ALCUNE
PROFESSIONI SANITARIE
5.1. L’interesse del tema
5.2. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’infermiere
5.2.1 Fonti normative specifiche per esercizio della professione
5.2.2 Lesioni personali colpose, omicidio colposo e interruzione
colposa della gravidanza in relazione a carenze nella presa in
carico nell’ambito dell’assistenza infermieristica
5.2.3 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione
a smarrimento di corpi estranei in corso di intervento chirurgico
5.2.4 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione
a incidenti vari
5.2.5 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione
a errata somministrazione di farmaci
5.2.6 Esercizio abusivo della professione
5.2.7 Omissione rifiuto di atti d’ufficio
5.3 Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’ostetrica
5.3.1 Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione
5.3.2. Lesioni personali colpose, omicidio colposo in relazione
alla omissione nella presa in carico
5.3.3. Omicidio colposo a carico del nascituro in relazione a
carenze nella presa in carico
5.3.4 Lesioni personali colpose e danno biologico in relazione a
omissioni nella presa in carico
5.3.5 Omicidio colposo in relazione a errori nella
somministrazione di farmaci
5.4 Giurisprudenza in tema di responsabilità del fisioterapista
5.4.1 Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione
5.4.2 Lesioni personali colpose, in relazione a errori nell’ambito
della professione
5.4.3 Esercizio della professione di fisioterapista
5.4.4 Esercizio abusivo di professione
Capitolo 6. RESPONSABILITA’ E GESTINE DEL RISCHIO
CLINICO
1. Riferimenti normativi italiani
2. Il rischio clinico e l’errore
3. Le fasi della gestione del rischio clinico: metodi e strumenti per
l’identificazione e l’analisi di rischio
3.1 Strumenti di identificazione del rischio
3.2 Strumenti di analisi del rischio
3.2.1 FMEA ( Fairlure Mode and Effect Analysis) e FMECA
3.2.2. Root Cause Analysis (RCA)
3.2.3 AUDIT
3.3 Il trattamento e il monitoraggio dei rischi
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4. Il ruolo del personale sanitario non medico nella prevenzione del
rischio
4.1 Il ruolo del coordinatore in un programma di miglioramento
della qualità
4.2 Le azioni di “governance” del coordinatore e le sue
responsabilità
4.2.1 La gestione degli eventi critici e l’adozione di strategie
di correzione
4.2.2 L’implementazione delle linee guida
4.2.3. La gestione dell’attività formativa
4.2.4 Gestione e sviluppo delle competenze degli operatori
5. La gestione del rischio clinico è un sistema di deresponsabilizzazione?
CONCLUSIONI
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PRESENTAZIONE ED OBIETTIVI DELLA TESI
Negli ultimi 20 anni si è assistito ad un forte cambiamento normativo che ha
interessato l’esercizio delle professioni sanitarie iniziato con il riordino della
disciplina nel 1992 (DLG 502/92) e che ha condotto a cambiamenti sia nella
formazione universitaria che nell’attività professionale, dando vita ad un nuovo
sistema di professionisti sanitari infermieri, tecnici e della riabilitazione.
La nuova formazione e la ridefinizione delle competenze e della autonomia,
formulate secondo la logica dei profili e non più per compiti esecutivi, hanno
tracciato questo nuovo sistema di professioni sanitarie disciplinate dal D.Lgs.
502 e norme collegate che formano l’oggetto della presente tesi. Il lavoro è
finalizzato a valutare se sia nata una responsabilità che prima non esisteva e se
ora vi sia una diversa connotazione della responsabilità rispetto al sistema
precedente.
Si è assistito, in questi anni, ad un processo di evoluzione e crescita delle
professioni sanitarie con acquisizioni specifiche delle competenze e con esso si
definisce anche l’abito di responsabilità con un duplice significato: da un lato,
quello di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità per una
condotta professionale riprovevole, dall’altro lato, quello di impegno per
mantenere un comportamento congruo e corretto, in cui i presupposti
scientifici, i valori etici, le regole deontologiche e le norme ne fondano le basi.
Fare chiarezza sul significato, sulle regole di funzionamento, sui contenuti e
sugli obiettivi nella diversa applicazione pratica di etica, deontologia e diritto è
fondamentale per impostare una discussione rigorosa, non inquinata da fattori
di confusione per la contaminazione con contenuti provenienti, insieme ed in
modo indifferenziato, da fonti diverse, pertanto, nei capitoli che seguono sono
presentate le norme specificamente attinenti l’esercizio delle professioni
sanitarie, con particolare riferimento a quelle che più recentemente hanno
introdotto il concetto di responsabilità; le norme di carattere generale,
contenute nel codice penale, che delineano una parte del sistema di tutela
1
sociale del cittadino a fronte di condotte incongrue da parte del professionista;
verrà quindi esaminata la casistica giurisprudenziale disponibile, da intendere
come pratica attuazione degli strumenti di tutela sociale a fronte di condotte
incongrue, con particolare riguardo ad alcuni professionisti maggiormente
coinvolti, infermiere, ostetrica e fisioterapista. Infine, come evoluzione
culturale, dell’imparare dall’errore, in una logica di miglioramento della qualità
e delle prestazioni erogate a tutela del cittadino, saranno illustrati i principi
ispiratori del sistema del clinical risk management con le eventuali
ripercussioni sulle competenze dei professionisti sanitari e le ricadute nelle
specifiche responsabilità.
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CAPITOLO 1
ASPETTI GENERALI
1. Le professioni sanitarie di interesse
Con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 era approvato il Testo unico delle leggi
sanitarie. Il titolo II, dedicato all’ «Esercizio delle professioni e delle arti
sanitarie e di attività soggette a vigilanza sanitaria», formalizzava rigidamente
un sistema gerarchico degli operatori sanitari, che si è mantenuto, in parte
ingarbugliato, in parte lacunoso, in parte contraddittorio, fino all’ultima decade
del ventesimo secolo.
Questo sistema è stato investito da un processo di cambiamento, il cui punto
focale può essere considerato il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della
disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n.
421”. Infatti, il comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 502 introduceva una nuova
disciplina globale, dettando indicazioni per la formazione universitaria del
«personale sanitario infermieristico, tecnico e della riabilitazione» e precisando
in particolare che «il Ministro della sanità individua con proprio decreto le
figure professionali da formare ed i relativi profili».
È questo nuovo sistema di professioni sanitarie infermieristiche, tecniche e
della riabilitazione novellamente disciplinate dal D.Lgs. 502 e norme collegate
che forma oggetto della presente tesi, proprio perché con le nuove modalità di
formazione – non più basata esclusivamente sulle risorse del servizio sanitario
nazionale ma riferita anche alla esperienza universitaria – e con la ridefinizione
o, secondo le professioni, la definizione delle competenze secondo la logica dei
profili, per aree funzionali e non per compiti esecutivi, occorre valutare se sia
nata una responsabilità che prima non esisteva o se ora vi sia una diversa
connotazione della responsabilità rispetto al sistema precedente.
L’uso della locuzione professioni sanitarie è, pertanto, adottato nella tesi per
caratterizzare le professioni sanitarie cui si riferisce il comma 3° dell’art. 6 del
D.Lgs. 502, specificamente caratterizzate da un elemento unificatore di
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carattere normativo che è dato dal fatto che il loro esercizio è disciplinato da un
profilo approvato con apposito decreto ministeriale. In tabella 1.1 è riportato
uno schema riassuntivo, che tiene conto di alcune norme sopravvenute al
D.Lgs. 502 e delle quali si darà conto successivamente, in particolare nel
capitolo 2.
Tabella 1.1 – Le professioni sanitarie di cui comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 30
dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma
dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, raggruppate per aree, secondo le
indicazioni della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie
infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della
professione ostetrica”
Area
Professione
infermieristicoostetrica
infermiere
ostetrica/o
infermiere pediatrico
Decreto ministeriale di
approvazione del profilo
professionale
D.M. 14 settembre 1994, n. 739
D.M. 14 settembre 1994, n. 740
D.M. 17 gennaio 1997, n. 70
educatore professionale
fisioterapista
logopedista
ortottista-assistente di
oftalmologia
podologo
terapista della neuro e
psicomotricità dell’età evolutiva
terapista occupazionale
tecnico
della
riabilitazione
psichiatrica
D.M. 8 ottobre 1998, n. 520
D.M. 14 settembre 1994, n. 741
D.M. 14 settembre 1994, n. 742
D.M. 14 settembre 1994, n. 743
tecnico audiometrista
tecnico di neurofisiopatologia
tecnico sanitario di laboratorio
biomedico
tecnico sanitario di radiologia
medica
D.M. 14 settembre 1994, n. 667
D.M. 15 marzo 1995, n. 183
D.M. 14 settembre 1994, n. 745
tecnico –
assistenziale
dietista
igienista dentale
tecnico audioprotesista
tecnico ortopedico
tecnico della fisiopatologia
cardiocircolatoria e perfusione
cardiovascolare
D.M. 14 settembre 1994, n. 744
D.M. 15 marzo 1999, n. 137
D.M. 14 settembre 1994, n. 668
D.M. 14 settembre 1994, n. 665
D.M. 27 luglio 1998, n. 316
tecnica della
prevenzione
assistente sanitario
tecnico della prevenzione
nell’ambiente e nei luoghi di
lavoro
D.M. 17 gennaio 1997, n. 69
D.M. 17 gennaio 1997, n. 58
riabilitazione
tecnicodiagnostica
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D.M. 14 settembre 1994, n. 666
D.M. 17 gennaio 1997, n. 56
D.M. 17 gennaio 1997, n. 136
D.M. 29 marzo 2001, n. 182
D.M. 14 settembre 1994, n. 746
Dei profili professionali, si discuterà ancora nel capitolo 2. Qui conviene
aggiungere
qualche
ulteriore
puntualizzazione
circa
la
formazione
universitaria.
Il processo di cambiamento relativo alle professioni sanitarie era già iniziato
con la legge 19 novembre 1990, n. 341 “Riforma degli ordinamenti didattici
universitari”. L’art. 1 descrive i titoli che le università rilasciano: diploma
universitario; diploma di laurea; diploma di specializzazione; dottorato di
ricerca. L’art. 7 prevede, in prospettiva, la soppressione delle scuole dirette a
fini speciali e/o la loro la trasformazione in corsi di diploma universitario.
Il primo ordinamento di corso di diploma universitario è quello in Scienze
infermieristiche, riportato nella tabella XXXIX ter, di cui al D.M. 2 dicembre
1991. Coesistono tuttavia le tradizionali scuole per infermieri professionali, che
operano in ambito regionale, rilasciando diplomi che conservano integro il loro
valore abilitante ai fini dell’esercizio professionale. Le scuole regionali sono una
sorta di canale formativo parallelo al corso di diploma universitario. Gli
ordinamenti delle altre professioni sanitarie sono riportati nel decreto del
ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica [MURST] 24
luglio 1996.
Il D.Lgs. n. 502/1992 e successive modificazioni sancisce il passaggio
esclusivamente alla formazione universitaria. Tra il 1994 e il 1998 le Regioni
stipulano i protocolli d’intesa con le Università, che diventano così l’unico
canale di accesso per la formazione delle professioni sanitarie ausiliarie.
Il decreto MURST 3 novembre 1999, n. 509 “Regolamento recante norme
concernenti l’autonomia didattica degli atenei” determina, fra l’altro, la
tipologia dei titoli di studio rilasciati dalle università, ai sensi dell’articolo 17,
comma 95°, della legge 15 maggio 1997, n. 127 e successive modificazioni e
integrazioni. In base all’art. 3 del D.M. n. 509/1999 le università rilasciano, al
termine dei rispettivi corsi, titoli di primo e di secondo livello: laurea e laurea
specialistica. Il corso di laurea ha l’obiettivo di fornire adeguata padronanza di
metodi e contenuti scientifici generali, nonché acquisizione di specifiche
5
conoscenze professionali. Il corso di laurea specialistica punta ad una
formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione
in ambiti specifici. Nascono così le lauree, cosiddette triennali, delle professioni
sanitarie.
Il percorso della laurea specialistica prosegue con il decreto MURST del 2
aprile 2001, che definisce le competenze dei laureati specialisti, i quali
possiedono «una formazione professionale avanzata per intervenire con elevate
competenze nei processi assistenziali, gestionali, formativi e di ricerca» e «sono
in grado di esprimere competenze avanzate di tipo assistenziale, organizzativo,
gestionale, di ricerca in risposta ai problemi prioritari di salute della
popolazione e ai problemi di qualità dei servizi». Queste competenze sono il
riconoscimento dell’evoluzione del processo di crescita del ruolo e delle
funzioni delle professioni sanitarie maturato negli anni.
Nel 2003 Consiglio universitario nazionale elabora uno schema di ordinamento
didattico per le singole classi specialistiche anche delle professioni sanitarie per
garantire uniformità nella formazione specialistica sul territorio nazionale.
Nel 2004 il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca [MIUR]
con decreto del 9 luglio 2004 fissa le modalità e i contenuti delle prove di
ammissione alle lauree specialistiche delle professioni sanitarie e con i decreti
del 27 luglio 2004 e del 1° ottobre 2004 stabilisce i posti disponibili per le
immatricolazioni.
Nell’anno accademico 2004/05, sono attivati i primi corsi di laurea specialistica
delle scienze delle professioni sanitarie in varie università italiane.
Il decreto MIUR 22 ottobre 2004, n. 270, art. 3, modifica la denominazione da
corso di laurea specialistica in «corso di laurea magistrale» (comma 1°) e
introduce una indicazione profondamente innovativa rispetto al decreto
MURST del 2 aprile 2001, cioè che «il corso di laurea magistrale ha l'obiettivo
di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l'esercizio di
attività di elevata qualificazione in ambiti specifici» (comma 6°).
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2. Il concetto di responsabilità
Il sostantivo responsabilità ha – sia in termini generali sia con riferimento
all’esercizio di una professione sanitaria – un duplice significato: da un lato,
quello di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità per una
condotta professionale riprovevole, dall’altro lato, quello di impegno per
mantenere un comportamento congruo e corretto. Il primo di questi due aspetti
della responsabilità corrisponde ad un concetto che può essere collocato in
un’ottica “negativa”, perché si è chiamati a rispondere, quando ormai l’errore o
l’omissione è stato commesso, in contrapposizione all’ottica “positiva” del
secondo aspetto, quello dell’essere responsabili, dell’assumersi cioè le
responsabilità che l’esercizio professionale comporta. In tabella 1.2 è riportato
uno schema riassuntivo.
Tabella 1.2 - L'ambivalenza del termine responsabilità
Ottica negativa
Ottica positiva
rendere conto del proprio operato davanti ad autorità
giudicante; colpevolezza
coscienza dell’impegno che comporta lo svolgimento
di un incarico
valutazione da parte di un giudicante ex post
impegno dell'operatore sanitario ex ante
Questi due aspetti della responsabilità non sono un’ alternativa semantica fine a
se stessa o di mero rilievo retorico; costituiscono piuttosto i principi basilari di
due stili di agire professionale, schematizzabili come in tabella 1.3.
La colonna di sinistra riporta i principi del professionista sanitario che ispira la
propria condotta alla coscienza della propria responsabilità; quella di destra i
principi corrispondentemente alternativi ai quali finisce per attenersi il
professionista che opera facendosi guidare dal timore di poter essere chiamato a
render conto delle proprie azioni davanti ad un giudice.
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Tabella 1.3 - Ottiche della responsabilità e rispettivi principi ispiratori della condotta
professionale
Ottica negativa
Connessi principi ispiratori della
condotta professionale
Ottica positiva
Connessi principi ispiratori della
condotta professionale
obiettivo: prevenzione di sanzioni per il
professionista
obiettivo: tutela della salute della persona
centralità del professionista
centralità della persona
sentenze della magistratura come guida per
l’esercizio professionale ed appiattimento della
cultura scientifica
prove di efficacia e conoscenze scientifiche
aggiornate come guida per l’esercizio professionale
professione espletata in chiave difensiva e
conseguenti possibili danni alla persona da omesso
intervento qualificato
professione ispirata alla solidarietà con la
persona
esasperazione degli aspetti formali
valorizzazione degli aspetti sostanziali
In tema di responsabilità nell’esercizio professionale, dal punto di vista
generale, è stato osservato che il termine professione, stando all’etimologia, ha
un significato sostanzialmente identico a quello di responsabilità.
Infatti:
- professione deriva dal latino professio che a sua volta origina dal verbo profiteor
che significa confessare ad alta voce o pubblicamente, proclamare, promettere;
- responsabilità è riconducibile al verbo rispondere proveniente dal latino
spondeo, che ha come primo significato l’assumere un impegno solenne a
carattere religioso. Professione e responsabilità sono dunque componenti
strutturali dell’identità dell’operatore e sono da interpretare come ineludibile
dichiarazione di assunzione di impegno nei confronti della persona.
Considerato il peculiare significato che, in relazione all’esercizio della
professione, assume il termine responsabilità inteso in senso positivo, è da
indicare quali siano i principi ai quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo
dell’essere responsabili nella condotta professionale.
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In genere, la condotta professionalmente responsabile discende dal rispetto di
quanto indicato nei quattro punti seguenti:
1) presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della professione;
2) valori etici condivisi ed indicazioni che derivano dalla coscienza personale;
3) regole della codificazione deontologica;
4) norme di legge che disciplinano la professione.
In merito ad 1), è sufficiente ricordare che è da tutti condiviso e raccomandato
il principio di erogare interventi basati sulle prove di efficacia e sulla ricerca
scientifica.
I punti 2), 3) e 4) sono presentati nei paragrafi seguenti ed ampliati nei capitoli
successivi. È fondamentale intendersi sugli aspetti della responsabilità, che si
strutturano in modo diversificato rispetto alle fonti di cui ai tre punti appena
citati, fonti che corrispondono, in strema sintesi, ai tre termini etica,
deontologia e diritto, ciascuno dei quali esprime concetti complessi e si
caratterizza per presupposti e contenuti rispettivamente diversi.
La definizione e la precisazione di ciascuno di questi termini ha rilievo, posto
che sono di uso corrente proprio per individuare gli ambiti di riferimento entro
i quali prendere in considerazione la congruità delle condotte professionali, con
gli obiettivi alternativi sia di individuare i principi cui riferirsi nell’eventualità
di scelte difficili in situazioni problematiche, sia di giudicare l’operato
professionale in caso di errore od omissione.
Etica, deontologia e diritto hanno contenuti in parte propri, ed in parte
compresi in un’area condivisa; può trattarsi di aspetti di carattere generale,
relativi alla tutela della vita, della salute, della libertà, dell’autonomia, della
giustizia, o di questioni particolari inerenti ad ambiti specifici, quali, per
esempio,
fecondazione
assistita,
aborto,
sperimentazione,
informazione
all’assistito, autodeterminazione, direttive anticipate, riservatezza, eutanasia.
Nessuna delle tre, dunque, si può differenziare, rispetto alle altre, per la tipicità
dei contenuti. Etica, deontologia e diritto si caratterizzano piuttosto, sotto il
profilo scientifico, per la peculiarità non solo della ricerca ma anche, nella
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pratica clinica, della metodologia di approccio alla casistica, sia in relazione ai
processi logici applicati sia per gli obiettivi.
Fare chiarezza sul significato, sulle regole di funzionamento, sui contenuti e
sugli obiettivi nella diversa applicazione pratica di etica, deontologia e diritto è
fondamentale per impostare una discussione rigorosa, non inquinata da fattori
di confusione per la contaminazione con contenuti provenienti, insieme ed in
modo indifferenziato, da fonti diverse. Questa stessa chiarezza può contribuire
anche a porre in risalto aspetti sovrapponibili nei diversi ambiti, ancorché
espressi con linguaggio dissimile e scaturenti da presupposti diversi.
La medicina legale quando interviene in queste situazioni si caratterizza per il
fatto di trovarsi ad operare ponendo spesso a confronto fra i principi etici, le
indicazioni delle codificazioni deontologiche e le norme di legge.
3. La responsabilità giuridica
Come osservato nel paragrafo 1.3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere
l’obiettivo dell’essere responsabili nella condotta professionale vanno incluse le
pertinenti norme di legge.
Nell’ambito del diritto è compreso il complesso di norme, raccolte in un sistema
organico, dettate e imposte ai cittadini, per regolarne le condotte. Il diritto è
volto a garantire l’ordine sociale, disciplinando i rapporti tra i membri di una
collettività in un determinato momento storico.
Il campo delle norme di legge di possibile riferimento è in verità vastissimo.
L’ordinamento legale riguarda aspetti generali e assume caratteri peculiari in
relazione all’esercizio delle professioni sanitarie.
Il professionista sanitario è vincolato sia agli aspetti generali della legge, in
quanto prima che professionista egli è cittadino, sia a quelli speciali che, proprio
per la tutela che il professionista è chiamato a garantire ad altre persone,
comportano incombenze specifiche, che tendono ad incrementare quelle
generali. Le norme generali sono uguali per tutti, mentre quelle particolari,
disciplinanti nello specifico l’esercizio professionale, focalizzano una condotta
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più pregnante e qualificata da parte del professionista, nel rispetto dei principi
generali di riferimento.
L’esistenza di norme di legge specifiche per i professionisti sanitari non
significa che essi siano esentati dal rispettare anche le norme che li riguardano
come cittadini.
Certo non tutte le parti del diritto hanno interesse per la discussione della
responsabilità dei professionisti sanitari in quanto tali, ma solo quelle che
concernono l’esercizio della professione ed il sistema di tutela sanitaria e sociale
del cittadino, cui il professionista è chiamato a collaborare.
Queste valutazioni hanno suggerito di sviluppare la trattazione della
responsabilità giuridica secondo la seguente impostazione. Nel capitolo 2 sono
presentate le norme specificamente attinenti l’esercizio delle professioni
sanitarie, con particolare riferimento a quelle che più recentemente hanno
introdotto il concetto di responsabilità; nel capitolo 4 sono considerate le
norme di carattere generale, contenute nel codice penale, che delineano una
parte del sistema di tutela sociale del cittadino a fronte di condotte incongrue
da parte del professionista; nel capitolo 5, è commentata la casistica
giurisprudenziale disponibile, da intendere come pratica attuazione degli
strumenti di tutela sociale a fronte di condotte incongrue. Va da sé che una
siffatta impostazione non può essere ritenuta di adeguata tutela del cittadino,
sicché nel conclusivo capitolo 6 sono illustrati i principi ispiratori del sistema
del clinical risk management.
4. Responsabilità deontologica
Come osservato nel paragrafo 1.3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere
l’obiettivo della condotta professionale responsabile, vanno incluse anche le
regole della codificazione deontologica.
Da tempo è radicata la concezione dell’esistenza di una deontologia
caratterizzante ogni singola professione o attività umana, pur se è innegabile
che i principi fondanti e le regole essenziali di qualsiasi codificazione
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deontologica non possano non essere sovrapponibili ed assimilabili a quelli che
incombono a qualsiasi cittadino.
Si può dunque, in prima istanza, indicare la deontologia come il complesso dei
doveri che informano la condotta del cittadino in genere, nonché, con
riferimento al campo di interesse della presente tesi, la condotta di chi esercita
una professione ed una professione sanitaria in particolare. In relazione alle
professioni sanitarie, la deontologia può essere definita come il complesso dei
doveri ai quali ispirare la propria attività professionale (ma anche la propria vita
extraprofessionale) nella generalità dei casi e in alcune specifiche circostanze,
nei rapporti con le persone assistite, con i cittadini in genere, con colleghi della
propria o di altre professioni sanitarie, con il collegio o l’associazione
professionale di riferimento, con le strutture sanitarie in cui si opera, con la
società in genere.
Il termine “deontologia” fu inventato da Jeremy Bentham, giurista e filosofo,
nato a Londra nel 1748 ed ivi deceduto nel 1832. Il neologismo – nella
corrispondente versione inglese – compare nel titolo del saggio pubblicato in
due volumi dopo la sua morte da John Bowring nel 1834: Deontology or the
Science of Morality.
Bentham spiega in questo testo di usare il termine deontologia “per la sola
ragione che non esiste, nella parte originaria della lingua inglese, una singola
parola con la quale si possa esprimere lo stesso significato”. Egli indica in
particolare che: “Per ‘deontologia’ intesa nel senso più ampio, si intende quel
settore dell’arte e scienza che ha per suo oggetto il fare in ogni occasione ciò
che è giusto e conveniente fare”. Precisa inoltre: “Il compito della deontologia
consiste principalmente nella distribuzione degli obblighi: nel segnare sul
campo dell’azione i luoghi nei quali si può ritenere convenientemente che sorga
un obbligo; e, in caso di conflitto fra obblighi derivanti da fonti diverse, nello
stabilire quale debba ottenere la preferenza e quale debba rinunciarvi. Gli
12
uomini hanno bisogno di venire informati degli obblighi che gravano su di
loro”.
È dunque possibile puntualizzare che il termine “deontologia”:
1. è stato coniato a tavolino e quindi, come tale, è privo di radici storiche; è
elemento costitutivo del pensiero di un filosofo e pertanto rappresenta un
paradigma, un’idea di riferimento, piuttosto che la presa d’atto di una tradizione
o l’espressione di una cultura;
2. deriva dal greco e per la precisione da δέον [dèon], che significa “dovere”, e
λόγος [lògos], che vuol dire “discorso”;
3. non è considerato dal filosofo in relazione all’esercizio di una qualsiasi delle
professioni sanitarie all’epoca esistenti (il sostantivo “deontologia” fu
comunque, col tempo, recepito per definire l’insieme delle regole doverose per il
corretto esercizio di una data professione ed introdotto anche in Italia, in
ambito medico prima e delle altre professioni sanitarie poi, per essere inserito
nel titolo delle proprie codificazioni scritte delle norme comportamentali
disciplinanti l’attività professionale.);
3. si è rapidamente diffuso, nelle varie traduzioni, tutte rispettose della
terminologia greca da cui è stato fatto nascere.
Fra tali doveri individuati dalla deontologia possono essere compresi sia quelli
legali, sia quelli di carattere etico, sia, soprattutto per quanto riguarda i
professionisti,
quelli
previsti
da
un’apposita
codificazione
curata
dall’associazione di appartenenza dei professionisti stessi.
Secondo questa impostazione onnicomprensiva, varie sono dunque le fonti della
deontologia per il professionista: in altre parole, sempre secondo questa
impostazione, le norme della deontologia in parte scaturiscono dalla filosofia
morale e in parte dal diritto; la deontologia può essere, inoltre, autonomamente
codificata dall’organo professionale, il quale, comunque, si ispira ai principi
morali, e tiene conto delle norme di legge (discostandosene solo in qualche
circostanza particolare, in nome di un principio etico ritenuto superiore al bene
13
tutelato dalla legge), senza comunque doversi necessariamente appiattire su di
essa.
Chi usa il termine deontologia in ambito professionale non lo riferisce al
complesso dei doveri scaturenti dall’insieme delle tre fonti di cui si è detto,
avendo piuttosto l’idea che la fonte sia unica, una sola delle tre fonti citate, cioè
la apposita codificazione scritta elaborata in ambito professionale.
Ricapitolando e semplificando, il termine deontologia può essere usato in modo
più o meno estensivo, globalmente comprendente tutte le regole comportanti
doveri qualunque ne sia la fonte o, più specificamente, riferito alle norme
stabilite, di volta in volta, dal codice deontologico della professione di interesse.
In sintesi, si fronteggiano due concezioni di deontologia in relazione alle fonti:
I.
quella costituita dall’insieme delle norme etiche, giuridiche nonché, ove
codificate, deontologiche;
II.
quella rappresentata solo e soltanto alla deontologia codificata in ambito
professionale.
La prima accezione del termine crea commistione concettuale fra etica,
deontologia e diritto; si impone pertanto la necessità di chiarire il valore delle
norme rispettivamente etiche, giuridiche e del codice deontologico.
La seconda accezione evita qualunque confusione fra etica, diritto e
deontologia, ma può essere considerata eccessivamente limitativa, postulando
come non attinenti alla deontologia norme che è doveroso rispettare, ma che
non provengono dal codice di deontologia.
È innegabile che sussista un complesso di doveri di carattere etico, così come
sussiste analogo complesso di doveri desumibile dalle norme di legge o da
quelle di un codice deontologico: vi sono cioè varie fonti della deontologia.
Stante l’evidenza di questa osservazione, la questione non è affermare la
prevalenza dell’una o dell’altra fonte, ma stabilire, semplicemente, quella che si
intende prendere in considerazione. Posto che i doveri etici e quelli giuridici,
vengono considerati nel contesto dell’etica e del diritto, pare inutile ridiscuterli
in un ulteriore ambito, creando oltretutto confusione, talché conviene limitare il
14
concetto di deontologia, con riferimento a una data professione, al complesso
delle norme elaborate da pertinente organismo professionale. È dunque vero
che la deontologia non è solo codificazione deontologica, ma ragioni di
praticità, volte soprattutto a evitare confusione, inducono a usare il termine di
deontologia come sinonimo di deontologia codificata, secondo le professioni,
dall’ordine o dal collegio o da associazione professionale rappresentativa.
La codificazione deontologica, anche se necessariamente risente del diritto e
dell’etica, assume caratteristiche ben precise, che, considerate nel loro insieme,
fanno sì che essa sia ben distinguibile dal precetto giuridico e dalla norma etica.
È da chiarire che cosa intimamente significhi il dovere di cui i professionisti si
fanno carico con la codificazione, appunto, deontologica: se cioè, con la stessa,
essi si impongano una serie di regole alle quali obbedire a prescindere da una
convinta adesione ai principi che le sottendono o se dichiarino espressamente di
assumersi un impegno in cui intimamente credono. Nel primo caso, la
codificazione deontologica è una sorta di regolamentazione che ha quale
obiettivo l’applicazione ai problemi concreti dei principi etici e di quelli
giuridici. Nell’altra ipotesi, che cioè deontologia corrisponda a impegno, allora
la
codificazione
deontologica
è
sostanzialmente
espressione
dell’etica
professionale. A ben considerare, però, rispetto all’etica professionale la
codificazione deontologica si assume l’ulteriore impegno di compenetrare i
principi dell’etica con le istanze del diritto che attengono all’esercizio della
professione e alla tutela del cittadino. Questo si realizza per valutare se le
indicazioni di legge debbano essere accolte nel codice deontologico o se nella
codificazione
deontologica
esistano
spazi
di
espressione
autonoma
concretizzanti un impegno verso la persona assistita più consistente di quanto
le leggi stesse chiedano al professionista sanitario.
L’attenta riflessione critica non può non evidenziare l’aspetto di unilateralità
della codificazione deontologica statuita in ambito professionale, e può essere di
conseguenza insinuato il sospetto che essa sia promossa a tutela della
professione od a protezione del rapporto con i clienti. In realtà, oggi, la
15
codificazione deontologica non può essere considerata un mezzo di difesa della
categoria, ma è uno strumento di garanzia offerto alla persona per conoscere le
condotte doverose dei professionisti.
I vari codici deontologici delle professioni sanitarie non sono redatti secondo
uno schema unitario né con uno stile omogeneo, né trattano gli stessi
argomenti. L’organizzazione in titoli, capi o sezioni non è rispettivamente
corrispondente. Il livello di dettaglio varia: alcuni testi sono piuttosto analitici,
altri estremamente sintetici.
E’ pertanto difficile presentarne il contenuto in una visione d’insieme rispettosa
delle peculiarità; può essere fatto riferimento ai seguenti parametri generali:
1) indicazioni circa le caratteristiche generali e l’esercizio della specifica
professione con le connesse attività doverose (talora rapportabili a
corrispondenti norme di legge);
2) indicazioni di comportamento in situazioni specifiche (pure rapportabili a
norme di legge);
3) valutazione di aspetti prettamente etici;
4) richiamo alle conseguenze disciplinari.
Si tratta di una schematizzazione artificiosa ed opinabile e non sempre è facile
distribuire i temi secondo le suddivisioni, potendo essere talora sfumati i confini
fra 1) e 2) e 3).
Per quanto concerne la professione medica, che è stata la prima, nel nostro
Paese, ad aver recepito il concetto di “deontologia”, si osserva, in relazione ai
tre punti precedenti, che l’adozione del termine “deontologia” per la
codificazione dell’esercizio professionale (punto 3) si inserisce in un contesto
culturale della professione medica, i cui principi fondamentali risalivano a un
lontano passato (punto 1) e non si basavano sulla nozione del “dovere” (punto
2).
Questa situazione può essere letta in vari modi. Un punto di vista è che la
parola deontologia ebbe favorevole accoglienza in ambito medico solo quando
16
la cultura medica della relazione con il paziente iniziò ad andare incontro ai
primissimi cambiamenti, talché, per il medico, riferirsi al principio del “dovere”
meglio rispondeva a una relazione rinnovata, basata sui diritti del paziente e, di
converso, sui doveri del medico, rispetto alle precedenti concezioni basate su
modelli di carattere filantropico a impronta paternalistica ai quali il medico si
era fino ad allora ispirato. A prescindere dalla individuazione delle ragioni per
le quali il termine ha avuto successo, almeno in Italia, anche nella comunità dei
medici prima e di tutte le altre professioni sanitarie poi, è fondamentale
rendersi conto che il sostantivo è stato accolto proprio nel suo intrinseco
significato “etimologico” che fa del “dovere” l’elemento significante. Il mondo
medico fu il primo a recepire il termine, talché esso ha finito per condizionarne
il significato, inglobandolo nella propria tradizione culturale sulla correttezza
della condotta professionale, senza tuttavia limitarsi a collegare questa nuova
concezione alla tradizione, ma finendo con il percepire la tradizione nella logica
e nella prospettiva della deontologia.
In altri termini, anche se il sostantivo “deontologia” è stato coniato solo
nell’Ottocento, si è arrivati a parlare, e a scrivere, di storia della deontologia
medica, facendola decorrere da periodi nei quali la deontologia, come parola, se
non come concetto, ancora non esisteva. Si è tracciata questa storia facendola
risalire all’antica medicina babilonese o greca, mentre è pacifico che la storia
della deontologia non può che essere successiva al 1834, data di pubblicazione
del testo di Bentham sulla “Deontologia”. Sono comunque da segnalare idee
precorritrici e principi antesignani della moderna deontologia, perché il
concetto di “dovere” del medico era già comparso in documenti ai quali il
medico in passato si è ispirato per l’esercizio professionale. Proprio il nostro
Paese ha dato i natali al creatore di una deontologia ante litteram. Si tratta di
Leonardo Botallo, nato ad Asti nel 1530 e deceduto forse a Parigi nel 1587,
autore di un Tractatus de medici et aegri munere – Trattato dei doveri del medico
e del malato – pubblicato a Lione nel 1565.
17
5. Responsabilità etica
Come osservato nel paragrafo 3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere
l’obiettivo dell’essere responsabili nella condotta professionale vanno inclusi i
valori etici condivisi e le indicazioni che derivano dalla coscienza personale.
L’etica è la parte della filosofia che studia il comportamento umano e le norme
cui esso si ispira, analizzando le condotte della persona e le relative
motivazioni, interrogandosi sulle caratteristiche e sul significato del bene e su
come agire al fine di garantire il bene. L’etica è espressione di una riflessione in
continuo divenire, che mal si presta a essere fissata in norme immutabili: essa è
dunque affidata al pensiero filosofico e non a codificazioni scritte.
Per quanto riguarda la responsabilità professionale, è sufficiente citare
l’esistenza di due campi di riflessione, che possono essere considerati
corrispondere a due delle moltissime branche applicative dell’etica o comunque
a due dei moltissimi ambiti di studio e di ricerca a essa correlati; si tratta della
bioetica e dell’etica professionale in sanità.
L’etica professionale in sanità è stata prevalentemente considerata con
riferimento alle singole professioni sanitarie tradizionali (ad esempio: medico,
farmacista, ostetrica, infermiere), abitualmente intendendo con questa
espressione il campo di applicazione dei principi etici generali all’esercizio di
una data professione: sulla base comune dell’etica e dei suoi valori, sono
considerati gli aspetti particolari legati alla quotidianità della professione, al
fine di procedere a identificazione, analisi e valutazione delle possibilità di
soluzione dei problemi connessi al prendersi cura di una persona in relazione
alla dignità e autonomia dell’individuo, alla correttezza delle procedure e alla
congruità degli obiettivi. Si tratta di una parte dell’etica elaborata
prevalentemente all’interno di ogni singola professione sanitaria, con scarsa
integrazione fra le varie professioni, talora con apporti esterni (cioè da parte di
cultori della disciplina non appartenenti alla professione) che hanno contribuito
a evitare derive e suggestioni dettate da spinte corporative.
18
Quanto alla bioetica, conviene ricordare alcune definizioni storiche. Nella prima
edizione dell’Encyclopedia of Bioethics del 1978 figura questa definizione: “lo
studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della
cura della salute, in quanto detta condotta è esaminata alla luce di valori e
principi morali”; questa definizione è completata dalla precisazione che nel testo
citato è immediatamente successiva: “la bioetica è un’area di studi
interdisciplinari …”. Nella successiva edizione riveduta della stessa Encyclopedia
edita nel 1995 compare un’altra definizione: “lo studio sistematico delle
dimensioni morali – ivi incluse visione morale, decisioni, condotta e procedure
– delle scienze della vita e della cura della salute, con l’adozione di una varietà
di metodologie etiche in un contesto interdisciplinare”.
La caratteristica di interdisciplinarietà della bioetica potrebbe indurre
perplessità circa il suo significato, qualora si intendesse la stessa come insieme
di contributi che varie scienze, quali ad esempio filosofia, biologia, medicina,
diritto, sociologia, antropologia, ingegneria, possono fornire all’analisi ed alla
valutazione delle problematiche pertinenti. Questo errato presupposto
creerebbe confusione, ad esempio, fra diritto e bioetica, in quanto il primo
potrebbe essere considerato compreso nella bioetica, almeno per la parte in cui
le due discipline affrontano tematiche sovrapponibili. In realtà, la bioetica è
interdisciplinare perché è il luogo dell’incontro, del confronto e dell’interazione
di diverse competenze scientifiche, senza alcuna pretesa da parte della bioetica
di far proprie e di caratterizzarsi per queste competenze integrate. Perciò, la
bioetica è disciplina del tutto autonoma, rispetto a deontologia e diritto, pur
avvalendosi anche del contributo delle due citate discipline: è autonoma proprio
perché non recepisce automaticamente alcun contenuto preconfezionato di
dette discipline, ma realizza, di volta in volta, una procedura di analisi integrata
che può avvalersi del loro contributo.
Dalla seconda delle precedenti definizioni discende la precisazione che
all’attività di studio si affianca anche una componente di carattere praticoapplicativo in senso clinico. La bioetica è infatti uno strumento metodologico
19
che, adottato nella pratica clinica quotidiana, permette di procedere a un’analisi
dei casi problematici, con particolare riferimento a quelli che comportino
conflitto di valori e che impongano (o sembrino imporre) scelte fra di essi, e a
offrire prospettive di soluzione, anche al fine di prevenire o di facilitare l’analisi
di futuri problemi consimili.
In definitiva, i valori di riferimento cui ispirarsi nell’etica professionale non si
differenziano da quegli stessi che sono di riferimento per il professionista, in
ambito etico, quale persona. Anche la deontologia professionale detta norme
che qualificano, nell’attività professionale, in specifico riferimento a una serie di
situazioni concrete, i doveri che qualunque essere umano ha nei confronti degli
altri.
In nessuno dei tre ambiti, persiste, esiste una disciplina speciale che sia, rispetto
a quella di carattere generale, diversificata in modo da essere, in qualche modo,
di privilegio per il professionista sanitario. Anzi, la disciplina speciale
determina per il professionista incombenze più gravose a tutela della salute
dell’assistito di quanto, di solito, la norma generale preveda per il cittadino a
favore di un altro cittadino.
20
CAPITOLO 2
LA RESPONSABILITÀ E LE NORME DISCIPLINANTI
L’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE
1. La responsabilità nei profili professionali
L’esercizio delle varie professioni sanitarie è disciplinato da specifici decreti
ministeriali approvati a partire dal settembre 1994, secondo la previsione del
comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della
disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre
1992, n. 421”. Il dettaglio delle fonti normative è contenuto nella prima
colonna della tabella 2.1, che riporta i passi pertinenti dei profili delle attuali
22 professioni sanitarie.
I profili professionali hanno una struttura simile, ma adottano una
terminologia in parte disomogenea.
La similarità della struttura consiste nel fatto che il comma 1° dell’art. 1 di
ogni profilo riporta indicazioni di carattere generale circa le funzioni del
professionista; lo stesso comma 1°o, talora, il comma 2° richiama in genere
l’eventuale rapporto fra l’attività professionale o, più spesso, parte
dell’attività professionale e la prescrizione medica. I restanti commi dell’art.
1 descrivono i campi di azione e gli obiettivi delle prestazioni del
professionista pertinente, senza puntualizzazioni particolareggiate delle
singole attività. Gli articoli 2 e 3 di ogni profilo professionale indicano che il
diploma universitario (ora divenuta laurea universitaria) abilita all’esercizio
della professione e specificano quali sono i titoli di studio precedentemente
conseguiti da considerare, di volta in volta, equipollenti al diploma
universitario.
Nella terza colonna della tabella 2.1 è riportato il comma 1° e talora una
parte pertinente del comma 2° dell’art. 1 di ogni profilo professionale.
21
La disomogeneità della terminologia, riguarda soprattutto l’uso del
sostantivo responsabilità o dell’aggettivo responsabile, come evidenziato
nella quarta colonna della tabella 2.1.
Dalla tabella 2.1 si evince che pochi sono i profili che citano la responsabilità
del professionista. Si tratta di 6 profili su 22; sono compresi tutti e tre i
profili dell’area infermieristico-ostetrica, tre profili dell’area tecnica, nessun
profilo dell’area della riabilitazione.
Indicazioni di interesse figurano nel D. M. Sanità 14 settembre 1994, n. 739
“Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo
professionale dell'infermiere”; l'art. 1 di questo D.M. recita “l'infermiere è
l'operatore sanitario ... responsabile dell'assistenza generale infermieristica”.
Identica è la previsione dell’art. 1 del D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 70
“Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo
professionale dell'infermiere pediatrico”.
Per questi due professionisti, la responsabilità concerne globalmente tutto il
piano assistenziale.
Anche il D.M. Sanità 26 settembre 1994, n. 745 “Regolamento concernente
l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del tecnico
sanitario di laboratorio biomedico” reca indicazioni analoghe per quanto
concerne la responsabilità di questo professionista, che investe globalmente
tutte le prestazioni di pertinenza. L’art. 1 del D.M. ora citato indica il
professionista come “responsabile degli atti di sua competenza”, che sono
subito dopo precisati: “attività di laboratorio di analisi e di ricerca relative ad
analisi biomediche e biotecnologiche ed in particolare di biochimica, di
microbiologia e virologia, di farmacotossicologia, di immunologia, di
patologia clinica, di ematologia, di citologia e di istopatologia”.
La stessa impostazione compare nel D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 58
“Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo
professionale del tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di
lavoro”. Anche qui la responsabilità riguarda la globalità dell’intervento
22
professionale; l’art. 1 recita, infatti: “è responsabile, nell’ambito delle proprie
competenze, di tutte le attività di prevenzione, verifica e controllo in materia
di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di lavoro, di igiene degli
alimenti e delle bevande, di igiene di sanità pubblica e veterinaria”.
Non dissimile, ma caratterizzata da particolare enfasi, è la struttura del D.M.
Sanità 14 settembre 1994, n. 667 “Regolamento concernente la
individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico
audiometrista” e del D.M Sanità 14 settembre 1994, n. 668 “Regolamento
concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del
tecnico audioprotesista.” In questi D.M., l’art. 1 indica, rispettivamente al
comma 3° lettera a) ed al comma 2°, che il professionista “opera, su
prescrizione del medico, mediante atti professionali che implicano la piena
responsabilità e la conseguente autonomia”. È ovvio che la responsabilità
investa globalmente tutti gli atti; è curioso il fatto che sia stato inserito
l’aggettivo “piena”, che non può certo descrivere un più elevato grado di
responsabilità di questi due professionisti (oltretutto: rispetto a che cosa o a
chi?), ma che può essere interpretato come volontà dell’estensore della
norma di enfatizzare il valore di questa responsabilità.
Un discorso diverso concerne il D.M. 14 settembre 1994, n. 740
“Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo
professionale dell’ostetrica/o”. L’art. 1. Di questo D.M. indica dapprima che
l’ostetrica/o “assiste e consiglia la donna nel periodo della gravidanza,
durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con
propria responsabilità” e continua poi precisando che “presta assistenza al
neonato”. La costruzione del periodo appare ambigua perché sembra
escludere la responsabilità con riferimento all’assistenza al neonato,
limitandone la sussistenza alle prestazioni precedentemente elencate.
Anche tenendo conto delle, pur poche, differenze testuali, tutti e sei i profili
che citano la responsabilità del professionista attribuiscono al concetto di
23
“responsabilità” il significato positivo dell’assumere una condotta congrua
rispetto alla necessaria competenza professionale volta alla tutela della
salute della persona. In altri termini, è responsabile il professionista che,
nell’esercizio delle attività contemplate dal profilo, sa realizzare un
comportamento consono sia all’impegno tecnico-scientifico e relazionale
caratterizzante la singola professione, sia a dare risposta adeguata ai bisogni
della persona.
Tabella 2.1 - La responsabilità nei profili dei singoli professionisti sanitari
Professione
infermiere
Decreto
ministeriale di
approvazione del
profilo
professionale
d.m. 14 settembre
1994, n. 739
ostetrica/o
d.m. 14 settembre
1994, n. 740
fisioterapista
d.m. 14 settembre
1994, n. 741
logopedista
d.m. 14 settembre
1994, n. 742
Art. 1, comma 1°, ed eventuali
passi di interesse
Indicazione esplicita
della responsabilità
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’infermiere con il
seguente profilo: l’infermiere è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante e dell’iscrizione all’albo
professionale è responsabile
dell’assistenza generale
infermieristica. …
3 - L’infermiere: … d) garantisce la
corretta applicazione delle
prescrizioni diagnostico terapeutiche; …
art. 1. È individuata la figura
dell’ostetrica/o con il seguente
profilo: l’ostetrica/o è l’operatore
sanitario che, in possesso del
diploma universitario abilitante e
dell’iscrizione all’albo professionale,
assiste e consiglia la donna nel
periodo della gravidanza, durante il
parto e nel puerperio, conduce e
porta a termine parti eutocici con
propria responsabilità e presta
assistenza al neonato.
art. 1. 1. È individuata la figura del
fisioterapista con il seguente
profilo: il fisioterapista è l’operatore
sanitario, in possesso del diploma
universitario abilitante, che svolge
in via autonoma, o in
collaborazione con altre figure
sanitarie, gli interventi di
prevenzione, cura e riabilitazione
nelle aree della motricità, delle
funzioni corticali superiori, e di
quelle viscerali conseguenti a
eventi patologici, a varia eziologia,
congenita od acquisita.
art. 1. 1. È individuata la figura del
logopedista con il seguente profilo:
il logopedista è l’operatore sanitario
che, in possesso del diploma
universitario abilitante, svolge la
propria attività nella prevenzione e
sì:
“è responsabile ...”
24
sì:
“con propria
responsabilità…”
no
no
ortottistaassistente di
oftalmologia
d.m. 14 settembre
1994, n. 743
dietista
d.m. 14 settembre
1994, n. 744
tecnico sanitario di
laboratorio
biomedico
d.m. 14 settembre
1994, n. 745
tecnico sanitario di
radiologia medica
d.m. 14 settembre
1994, n. 746
tecnico ortopedico
d.m. 14 settembre
1994, n. 665
nel trattamento riabilitativo delle
patologie del linguaggio e della
comunicazione in età evolutiva,
adulta e geriatrica. …
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’ortottistaassistente di oftalmologia con il
seguente profilo: l’ortottistaassistente di oftalmologia è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante e su prescrizione del
medico, tratta i disturbi motori e
sensoriali della visione ed effettua
le tecniche di semeiologia
strumentale-oftalmologica.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del dietista con il
seguente profilo: il dietista è
l’operatore sanitario, in possesso
del diploma universitario abilitante,
competente per tutte le attività
finalizzate alla corretta applicazione
dell’alimentazione e della
nutrizione ivi compresi gli aspetti
educativi e di collaborazione
all’attuazione delle politiche
alimentari, nel rispetto della
normativa vigente.
art. 1. 1. È individuata la figura del
tecnico sanitario di laboratorio
biomedico con il seguente profilo: il
tecnico sanitario di laboratorio
biomedico è l’operatore sanitario, in
possesso del diploma universitario
abilitante, responsabile degli atti di
sua competenza, che svolge attività
di laboratorio di analisi e di ricerca
relative ad analisi biomediche e
biotecnologiche ed in particolare di
biochimica, di microbiologia e
virologia, di farmacotossicologia, di
immunologia, di patologia clinica,
di ematologia, di citologia e di
istopatologia.
art. 1. 1. È individuata la figura del
tecnico sanitario di radiologia
medica con il seguente profilo: il
tecnico sanitario di radiologia è
l’operatore sanitario che in possesso
del diploma universitario abilitante
e dell’iscrizione all’albo
professionale, è responsabile degli
atti di sua competenza ed è
autorizzato ad espletare indagini e
prestazioni radiologiche.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del tecnico ortopedico
con il seguente profilo: il tecnico
ortopedico è l’operatore sanitario
che, in possesso del diploma
universitario abilitante, su
prescrizione medica e successivo
collaudo, opera la costruzione e/o
adattamento, applicazione e
fornitura di protesi, ortesi e di ausili
sostitutivi, correttivi e di sostegno
dell’apparato locomotore, di natura
funzionale ed estetica, di tipo
meccanico o che utilizzano l’energia
25
no
no
sì:
“è … responsabile …”
sì:
“… è responsabile degli
atti …”
no
podologo
d.m. 14 settembre
1994, n. 666
tecnico
audiometrista
d.m. 14 settembre
1994, n. 667
tecnico
audioprotesista
d.m. 14 settembre
1994, n. 668
tecnico di
neurofisiopatologia
d.m. 15 marzo
1995, n. 183
terapista della neuro e
psicomotricità dell’età
evolutiva
d.m. 17 gennaio
1997, n. 56.
esterna o energia mista corporea ed
esterna, mediante rilevamento
diretto sul paziente di misure e
modelli.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del podologo con il
seguente profilo: il podologo è
l’operatore sanitario che in possesso
del diploma universitario abilitante,
tratta direttamente, nel rispetto
della normativa vigente, dopo
esame obiettivo del piede, con
metodi incruenti, ortesici ed
idromassoterapici, le callosità, le
unghie ipertrofiche, deformi e
incarnite, nonché il piede doloroso.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del tecnico
audiometrista con il seguente
profilo: il tecnico audiometrista è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante, svolge la propria attività
nella prevenzione, valutazione e
riabilitazione delle patologie del
sistema uditivo e vestibolare, nel
rispetto delle attribuzioni e delle
competenze diagnosticoterapeutiche del medico. …
3. Il tecnico audiometrista:
a) opera, su prescrizione del
medico, mediante atti professionali
che implicano la piena
responsabilità e la conseguente
autonomia;
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del tecnico
audioprotesista con il seguente
profilo: il tecnico audioprotesista è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante svolge la propria attività
nella fornitura, adattamento e
controllo dei presidi protesici per la
prevenzione e correzione dei deficit
uditivi.
2. Il tecnico audioprotesista opera
su prescrizione del medico
mediante atti professionali che
implicano la piena responsabilità e
la conseguente autonomia.
art. 1. 1. È individuata la figura del
tecnico di neurofisiopatologia con il
seguente profilo: il tecnico di
neurofisiopatologia è l’operatore
sanitario che, in possesso del
diploma universitario abilitante,
svolge la propria attività
nell’ambito della diagnosi delle
patologie del sistema nervoso,
applicando direttamente, su
prescrizione medica, le metodiche
diagnostiche specifiche in campo
neurologico e neurochirurgico
(elettroencefalografia,
elettroneuromiografia poligrafia,
potenziali evocati, ultrasuoni).
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del terapista della
neuro e psicomotricità dell’età
evolutiva, con il seguente profilo: il
26
no
sì: “la piena
responsabilità …”
sì: “la piena
responsabilità …”
no
no
tecnico della
riabilitazione
psichiatrica
d.m. 29 marzo
2001, n. 182
tecnico della
prevenzione
nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro
d.m. 17 gennaio
1997, n. 58
assistente sanitario
d.m. 17 gennaio
1997, n. 69
infermiere
pediatrico
d.m. 17 gennaio
1997, n. 70
Terapista
occupazionale
d.m. 17 gennaio
1997, n. 136
terapista della neuro e
psicomotricità dell’età evolutiva è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante, svolge, in collaborazione
con l’equipe multiprofessionale di
neuropsichiatria infantile e in
collaborazione con le altre
discipline dell’area pediatrica, gli
interventi di prevenzione, terapia e
riabilitazione delle malattie
neuropsichiatriche infantili, nelle
aree della neuro-psicomotricità,
della neuropsicologia e della
psicopatologia dello sviluppo.
art. 2. 1. È individuata la figura
professionale del tecnico della
riabilitazione psichiatrica con il
seguente profilo: il tecnico della
riabilitazione psichiatrica è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante, svolge, nell’ambito di un
progetto terapeutico elaborato da
un’equipe multidisciplinare,
interventi riabilitativi ed educativi
sui soggetti con disabilità psichica.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del tecnico della
prevenzione nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro, con il seguente
profilo: il tecnico della prevenzione
nell’ambiente e nei luoghi di lavoro
è l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante, è responsabile,
nell’ambito delle proprie
competenze, di tutte le attività di
prevenzione, verifica e controllo in
materia di igiene e sicurezza
ambientale nei luoghi di vita e di
lavoro, di igiene degli alimenti e
delle bevande, di igiene di sanità
pubblica e veterinaria.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’assistente
sanitario con il seguente profilo:
l’assistente sanitario è l’operatore
sanitario che, in possesso del
diploma universitario abilitante e
dell’iscrizione all’albo professionale,
è addetto alla prevenzione, alla
promozione ed alla educazione per
la salute.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’infermiere
pediatrico con il seguente profilo:
l’infermiere pediatrico è l’operatore
sanitario che, in possesso del
diploma universitario abilitante e
dell’iscrizione all’albo professionale,
è responsabile dell’assistenza
infermieristica pediatrica. …
3. L’infermiere pediatrico: …
e) garantisce la corretta
applicazione delle prescrizioni
diagnostico-terapeutiche;
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale del terapista
occupazionale, con il seguente
profilo: il terapista occupazionale è
27
no
sì:
“è responsabile …”
no
sì:
“è responsabile …”
no
Tecnico della
fisiopatologia
cardiocircolatoria e
perfusione
cardiovascolare
d.m. 27 luglio 1998,
n. 316
Educatore
professionale
d.m. 8 ottobre 1998,
n. 520
Igienista dentale
d.m. 15 marzo
1999, n. 137
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma universitario
abilitante, opera nell’ambito della
prevenzione, cura e riabilitazione
dei soggetti affetti da malattie e
disordini fisici, psichici sia con
disabilità temporanee che
permanenti, utilizzando attività
espressive, manuali rappresentative, ludiche, della vita
quotidiana.
art. 1. 1. È individuata la figura del
tecnico della fisiopatologia
cardiocircolatoria e perfusione
cardiovascolare con il seguente
profilo: il tecnico di fisiopatologia
cardiocircolatoria e perfusione
cardiovascolare è l’operatore
sanitario che, in possesso del
diploma universitario abilitante e
dell’iscrizione all’albo professionale,
provvede alla conduzione e alla
manutenzione delle apparecchiature
relative alle tecniche di circolazione
extracorporea ed alle tecniche di
emodinamica.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’educatore
professionale, con il seguente
profilo: l’educatore professionale è
l’operatore sociale e sanitario che,
in possesso del diploma
universitario abilitante, attua
specifici progetti educativi e
riabilitativi, nell’ambito di un
progetto terapeutico elaborato da
un’èquipe multidisciplinare, volti a
uno sviluppo equilibrato della
personalità con obiettivi
educativo/relazionali in un
contesto di partecipazione e
recupero alla vita quotidiana; cura il
positivo inserimento o
reinserimento psico-sociale dei
soggetti in difficoltà.
art. 1. 1. È individuata la figura
professionale dell’igienista dentale
con il seguente profilo: l’igienista
dentale è l’operatore sanitario che,
in possesso del diploma
universitario abilitante, svolge
compiti relativi alla prevenzione
delle affezioni orodentali su
indicazione degli odontoiatri e dei
medici chirurghi legittimati
all’esercizio della odontoiatria.
no
no
No
Conviene ricordare che nel sistema dei mansionari, già disciplinante le
attività di infermiere, ostetrica e tecnico sanitario di radiologia medica, il
concetto di responsabilità figurava nei contesti citati in tabella 2.2.
28
Tabella 2.2 - Mansionari e responsabilità
Mansionario
D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225
“Modifiche al regio decreto 2 maggio
1940, n. 1310, sulle mansioni degli
infermieri professionali e infermieri
generici”
D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163
“Aggiornamento del regio decreto 26
maggio 1940, n. 1364, concernente il
regolamento per l'esercizio professionale
delle ostetriche”
D.P.R. 6 marzo 1968, n. 680
“Regolamento per l'esecuzione della
legge 4 agosto 1965, n. 1103,
concernente regolamentazione giuridica
dell'esercizio dell'arte ausiliaria sanitaria
di tecnico di radiologia medica”
Adozione dei termini “responsabile” e
“responsabilità”
art. 2. Le attribuzioni assistenziali dirette ed indirette
degli infermieri professionali sono le seguenti: … E'
consentita agli infermieri professionali la pratica delle
iniezioni endovenose. Tale attività potrà essere svolta
dagli infermieri professionali soltanto nell'ambito di
organizzazioni ospedaliere o cliniche universitarie e
sotto indicazione specifica del medico responsabile del
reparto.
art. 3. La vigilatrice d'infanzia oltre alle mansioni
previste per gli infermieri professionali, limitatamente
all'infanzia,
è
autorizzata
a
procedere
alla
somministrazione con sonda gastrica degli alimenti ai
neonati; ed ha la responsabilità della preparazione,
conservazione e somministrazione degli alimenti per i
neonati, per i minori ad essa affidati, il tutto su
prescrizione medica.
mai
art. 24. Il tecnico di radiologia su disposizione e sotto la
responsabilità del medico radiologo, fermo restando il
disposto degli articoli 9 e 97 del decreto del Presidente
della Repubblica 13 febbraio 1964, n. 185 [gli articoli
riguardano l’esercizio professionale del medico
radiologo], può curare direttamente l'esecuzione di
esami radiografici semplici (torace, ossa, schermografia)
anche senza la presenza del medico radiologo.
È evidente che la responsabilità è citata, nei diversi riferimenti normativi, in
relazione all’attività professionale del medico, che ricomprendeva quindi
anche la sorveglianza sull’attività dell’operatore non medico di volta in volta
considerato.
Eccezione assolutamente straordinaria concerne la vigilatrice d’infanzia, per
la quale, solo e soltanto, è testualmente contemplata “la responsabilità della
preparazione, conservazione e somministrazione degli alimenti per i neonati,
per i minori ad essa affidati, il tutto su prescrizione medica”.
29
2. Un aspetto particolare del profilo professionale degli infermieri
Merita specifica menzione un passo contenuto sia nel D. M. Sanità 14
settembre 1994, n. 739 sia nel D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 70 recanti i
regolamenti concernenti l'individuazione della figura e del relativo profilo
professionale dell’infermiere e dell'infermiere pediatrico.
Il comma 3 dell’art. 1 di ciascuno dei due D.M. prevede, rispettivamente alla
lettera d) ed alla lettera e) che, sempre rispettivamente, l’infermiere e
l’infermiere pediatico “… garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni
diagnostico-terapeutiche”.
Il disposto è profondamente innovativo rispetto a quanto contemplato, in
materia, nel d.P.R. 225 del 1974 che recava l’ultima versione del mansionario
dell’infermiere.
Art. 2. Le attribuzioni assistenziali dirette ed indirette degli infermieri professionali sono le seguenti:
… 2) somministrazione dei medicinali prescritti ed esecuzione dei trattamenti speciali curativi ordinati dal
medico;
12) somministrazione dei medicinali prescritti ed esecuzione dei seguenti trattamenti diagnostici e curativi
ordinati dal medico: …
La formulazione dei punti 2 e 12 sembra non lasciare alcuna discrezionalità
all’infermiere, di fronte, per esempio, ad una variazione delle condizioni cliniche
dell’assistito. Il testo adotta una terminologia piuttosto rigida: al concetto di
prescrizione (“prescritti”) si affianca quello di ordine (“ordinati”).
Il fatto che ora, dal profilo professionale, sia posto in capo all’infermiere il dovere
di garantire la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche
sta a indicare il riconoscimento della dimensione intellettuale della professione
e quindi del dovere dell’infermiere di attivarsi per valutare la coerenza o la
persistente coerenza delle prescrizioni mediche rispetto, per esempio, ad un
eventuale cambiamento di condizioni cliniche.
È innegabile, in sintesi, che il profilo professionale attribuisca all’infermiere
il ruolo di garante attivo a tutela della salute della persona rispetto alle
prescrizioni mediche.
È pertinente osservare che la dottrina giuridica ha sviluppato la teoria della
posizione di garanzia, per cui coloro che, avendo una relazione diretta e
30
particolare con il bene giuridico, hanno l’obbligo giuridico di intervenire,
poiché per costoro sussiste la corrispondenza normativa tra il non impedire
e il cagionare l’evento di cui al comma 2° dell’art. 40 del codice penale.
La posizione di garanzia si traduce nell’obbligo di attivarsi che incombe su
chiunque intraprenda un’attività pericolosa per evitare i danni ad essa
connessi. Il professionista sanitario in particolare assume una posizione di
garanzia tipica nei confronti della persona affidata, posizione che consiste
nell’obbligo di farsi attivamente carico di tutte le prevedibili implicazioni
rischiose del suo intervento.
Non di qualsiasi ipotetico, teorico, possibile rischio il professionista che
assiste il paziente deve farsi carico, ma di solo quei rischi (tutti comunque)
che sono prevedibili, valutabili e prevenibili (cioè evitabili) in base alla sua
competenza.
Pare di riconoscere una piena coincidenza, concettuale e terminologica, fra la
teoria giuridica della posizione di garanzia e la testuale indicazione di
attivarsi che incombe all’infermiere a garanzia della corretta applicazione
delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche.
3. La legge n. 42 del 1999: il superamento dell’ausiliarietà e del
controllo da parte del medico
Il differente approccio al tema della responsabilità concretizzatosi nei
disomogenei testi dei 22 profili professionali non può più essere oggi
oggetto di discussione, posto che il sistema è stato ordinato da una legge
sopravvenuta, che va intesa come chiave di lettura, in punto di responsabilità
dei professionisti sanitari, dei singoli decreti ministeriali recanti i profili
professionali.
La legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni
sanitarie” contiene indicazioni profondamente innovative circa l’esercizio
delle professioni sanitarie citate nel comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. n.
31
502/1992
che
riguardano
soprattutto
la
responsabilità
di
questi
professionisti.
art. 1. Definizione delle professioni sanitarie. 1. La denominazione professione sanitaria ausiliaria nel testo
unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni
nonché in ogni altra disposizione di legge, è sostituita dalla denominazione professione sanitaria.
2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono abrogati il regolamento approvato con D.P.R.
14 marzo 1974, n. 225, ad eccezione delle disposizioni previste dal titolo V, il D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163 e
l’articolo 24 del regolamento approvato con D.P.R. 6 marzo 1968, n. 680 e successive modificazioni. …
(omissis) …
In primo luogo, l’art. 1 della legge n. 42 annulla la gerarchia fra due gruppi
di professioni sanitarie; essa elimina l’attributo ausiliario dalla locuzione
professioni sanitarie, sia nel testo unico delle leggi sanitarie, approvato con
r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni, sia in ogni altra
disposizione di legge, in cui esso figuri. Il comma 1° dell’art. 1 stabilisce che
la denominazione professione sanitaria ausiliaria è sostituita da professione
sanitaria: da tale sostituzione discende la negazione del concetto di
ausiliarietà professionale.
Il comma 2° dello stesso articolo prevede l’abrogazione del mansionario di
tutte le professioni – infermiere, ostetrica e tecnico sanitario di radiologia
medica – la cui attività era disciplinata con tale strumento regolamentare.
Tale abrogazione non vuol dire che le attività contemplate nei mansionari
non siano più di pertinenza di quel professionista, ma significa che per il
professionista non esiste più il vincolo del mansionario, inteso soprattutto
come strumento d’imposizione di limite alle sue funzioni e come espressione
di una filosofia di attività professionale articolata per compiti, di carattere
prevalentemente esecutivo.
La negazione del concetto di ausiliarietà professionale e l’abrogazione, ove
esistenti, dei regolamenti recanti un mansionario porta alla abolizione di
qualsiasi rapporto di subordinazione fra professioni sanitarie ed in
particolare rispetto alla professione medica.
Implicitamente cade il tacito principio della vigilanza della professione
medica nei confronti delle altre professioni sanitarie, una sorta di liberazione
da un vincolo di subordinazione e controllo – sintetizzato nel concetto di
32
ausiliarietà e di limiti imposti dai mansionari – che permette il passaggio
successivo dell’affermazione della responsabilità.
4. La legge n. 42 del 1999: il riconoscimento della responsabilità
La legge n. 42 del 1999 integra i predetti provvedimenti di tipo abrogativo
con indicazioni di carattere prescrittivo-positivo, che riguardano la
definizione del campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni
sanitarie delle tre aree – infermieristica, tecnica o della riabilitazione –
menzionate nel comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. n. 502/1992.
art. 1. Definizione delle professioni sanitarie. … (omissis) … 2. … (omissis) … Il campo proprio di attività e
di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali
istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma
universitario e di formazione post-base nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze
previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è
richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali.
Per le citate professioni sanitarie, la legge n. 42 supera la concezione del
ruolo ausiliario – appena abrogato – di tali professioni, nonché – laddove
prima esistente – del mansionario; il comma 2° dell’art. 1 della legge indica,
infatti, che il campo proprio di attività e di responsabilità è determinato dai
contenuti:
- dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali;
- degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di laurea (triennale)
universitaria e dei rispettivi corsi di formazione post-base;
- degli specifici codici deontologici.
È dunque responsabilità dei professionisti sanitari garantire competenza
nello svolgimento di quanto contemplato nelle norme ora elencate,
attivandosi per raggiungere tale obiettivo, senza alcun vincolo di
subordinazione rispetto ad altri professionisti ed in particolare rispetto al
medico.
La responsabilità, nella legge n. 42, corrisponde al concetto pregnante e
significativo dell’assumere una condotta congrua rispetto ai bisogni
33
dell’assistito, rispettando in particolare i contenuti del proprio profilo
professionale, degli ordinamenti didattici del corso universitario e dei corsi
di formazione post-base, nonché del proprio codice deontologico. La legge n.
42 opera dunque una esplicita citazione delle peculiari fonti normative della
responsabilità.
Una riflessione merita il fatto che l’elenco dei riferimenti ispiratori della
responsabilità del professionista desumibili dalla legge n. 42 è, per certi
versi, analoga a quella proposta nel paragrafo 1.2 per descrivere le basi della
responsabilità in genere, ma non è sovrapponibile. Le differenze fra le due
indicazioni stanno nel fatto che la legge n. 42 seleziona (e specifica) le norme
che delineano il campo proprio della responsabilità di un determinato tipo di
professionista, non quello generale inizialmente proposta in questa tesi nel
paragrafo 1.2. In altre parole, il fatto che la legge n. 42 citi “soltanto” profili
professionali, ordinamenti didattici e codici deontologici indica che tale
legge entra nello specifico dettaglio, non già che intende escludere
riferimenti di carattere generale, quali i presupposti scientifici delle attività e
delle funzioni, i valori etici condivisi e le norme giuridiche (ancora una volta
di carattere generale) non espressamente nominate.
Il richiamo della legge n. n. 42 ai codici deontologici ha fatto nascere la
questione se sia fatto riferimento a tutti i codici deontologici o solo quelli
delle tre professioni con un collegio. Invero la legge n. 42 non opera alcuna
distinzione, menzionando solo i codici deontologici, con ciò lasciando
intendere che tali sono quelli così denominati a prescindere che provengano
da un collegio o da una associazione di categoria professionale riconosciuta.
34
5. La legge n. 251 del 2000: l’autonomia come “completamento” della
responsabilità
Il principio dell’autonomia di talune professioni sanitarie professionale era
affermato nella raccomandazione n. 6 della “Conferenza europea sul
nursing”, tenuta dall’OMS a Vienna nel 1988: “Gli infermieri e le ostetriche,
managers dell’assistenza infermieristica ed ostetrica, debbono godere di
autonomia professionale”.
In Italia, la legge n. 42 del 1999, con la duplice abrogazione dell’aggettivo
“ausiliario” e la dichiarazione della responsabilità delle professioni sanitarie,
aveva affermato, sia pure implicitamente, il principio dell’autonomia delle
professioni. Infatti, affermare che nessuna professione sanitaria è ausiliaria
ad un’altra professione, significa che ogni professione sanitaria è autonoma;
affermare la responsabilità vuol dire che ogni professione deve garantire
competenza in base a regole di condotta appropriate.
Gli articoli 1, 2, 3, 4 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle
professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della
prevenzione nonché della professione ostetrica” dichiarano esplicitamente il
principio dell’autonomia delle professioni sanitarie citate nell’art. 6, comma
3°, del D.Lgs. n. 502/1992. Nei predetti quattro articoli sono
rispettivamente considerate le diverse classe di professioni; le tre classi
contemplate nel D.Lgs. n. 502/1992 divengono quattro nella legge n.
251/2000: 1) professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria
ostetrica; 2) professioni sanitarie riabilitative; 3) professioni tecnico-sanitarie
(nelle due aree tecnico-diagnostica e tecnico-assistenziale); 4) professioni
tecniche della prevenzione. Per le professioni comprese in ciascuna classe si
rinvia alla tabella 1.1.
Il contenuto dei vari articoli non è del tutto sovrapponibile. Si riporta per
brevità il testo del solo comma 1° di ciascun articolo.
Art. 1. Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica.
35
1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione
sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e
salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive
dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di
pianificazione per obiettivi dell’assistenza. … (omissis) …
Art. 2. Professioni sanitarie riabilitative.
1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area della riabilitazione svolgono con titolarità e autonomia
professionale, nei confronti dei singoli individui e della collettività, attività dirette alla prevenzione, alla
cura, alla riabilitazione e a procedure di valutazione funzionale, al fine di espletare le competenze proprie
previste dai relativi profili professionali. … (omissis) …
Art. 3. Professioni tecnico-sanitarie.
1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area tecnico-diagnostica e dell’area tecnico-assistenziale
svolgono, con autonomia professionale, le procedure tecniche necessarie alla esecuzione di metodiche
diagnostiche su materiali biologici o sulla persona, ovvero attività tecnico-assistenziale, in attuazione di
quanto previsto nei regolamenti concernenti l’individuazione delle figure e dei relativi profili professionali
definiti con decreto del Ministro della sanità. … (omissis) …
Art. 4. Professioni tecniche della prevenzione.
1. Gli operatori delle professioni tecniche della prevenzione svolgono con autonomia tecnico-professionale
attività di prevenzione, verifica e controllo in materia di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di
lavoro, di igiene degli alimenti e delle bevande, di igiene e sanità pubblica e veterinaria. Tali attività devono
comunque svolgersi nell’ambito della responsabilità derivante dai profili professionali. … (omissis) …
Come riferito, il contenuto dei vari articoli non è del tutto sovrapponibile.
Conviene soffermarsi dapprima sull’art. 1.
Sono abbastanza evidenti analogie con il disposto della seconda parte del
comma 2° dell’art. 1 della legge n. 42, come risulta dallo schema riportato in
tabella 2.3 ove i simboli uguali nelle due colonne esprimono il contenuto
analogo delle due norme circa la corrispondenza dei riferimenti ai profili
professionali ed ai codici deontologici ed i simboli che figurano solo nell’una
o nell’altra indicano due aspetti: uno incidentale ed uno di rilievo ai fini della
discussione.
Il simbolo † nella colonna della legge n. 42 evidenzia il mancato richiamo
agli ordinamenti didattici nel contesto del disposto della legge n. 251,
richiamo da ritenere del tutto pacifico e quindi sottinteso.
Il simbolo ≠ nella colonna della legge n. 251 caratterizza il contenuto
innovativo della legge stessa, laddove finisce per l’identificare la autonomia
professionale con l’unico elemento che di fatto differenzia i presupposti della
responsabilità rispetto a quelli dell’autonomia, vale a dire le metodologie (“di
pianificazione per obiettivi dell’assistenza”). Non interessa qui di quali
36
metodologie si tratti, ma rileva che il concetto di autonomia sia riconducibile
a quello di metodologia, o per essere un po’ più precisi, a quello di metodo.
Il che è del tutto coerente con il significato sia di autonomia, sia di metodo. A
riprova, occorre considerare quanto segue.
Da un lato, autonomia, derivando dal greco antico αυτός νόμος, equivale a
competenza nell’operare secondo le regole proprie della professione.
Dall’altro, del metodo può essere ricordato l’approccio cartesiano. Nel suo
Regulae ad directionem ingenii, Renè Descartes così si esprime: “Per metodo
… intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente non si
darà mai per vero ciò che è falso, e, senza consumare inutilmente alcuno
sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, si
perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui si sarà capaci.”
L’elemento unificante è rappresentato dalle regole, in quanto costitutive
dell’autonomia e del metodo. È dunque coerente che la legge n. 251, nel suo
art. 1, identifichi l’autonomia professionale con un metodo professionale.
In definitiva, la formulazione dell’art. 1 della legge n. 251 è di grande pregio,
perché identifica una definizione di autonomia, di carattere positivo, centrata
sulle caratteristiche proprie della professione, a prescindere dall’enfatizzare
l’assenza di vincoli di subordinazione rispetto ad altre professioni, posto che
le regole professionali non sono certo in contrasto con metodi di lavoro
basati su partecipazione, condivisione e integrazione fra professionisti. È
impensabile un concetto di autonomia basato sulla negazione proprio della
interdipendenza professionale, interdipendenza che caratterizza oggi
l’organizzazione sanitaria nella cura della persona. Autonomia corrisponde
piuttosto al concetto di competenza nella realizzazione delle specifiche
funzioni nell’integrazione con altri professionisti.
37
Tabella 2.3 – Confronto fra legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia
di professioni sanitarie” e legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni
sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché
della professione ostetrica”
Legge 26 febbraio 1999, n. 42
Legge 10 agosto 2000, n. 251
art. 1. … 2. … Il campo proprio di
attività e di responsabilità delle
professioni sanitarie di cui … è
determinato dai contenuti dei decreti
ministeriali istitutivi dei ► relativi
profili professionali e degli
† ordinamenti didattici dei rispettivi
corsi di diploma universitario e di
formazione post-base nonché degli
specifici ► codici deontologici, …
art. 1. Gli operatori delle professioni
sanitarie dell’area … svolgono con
autonomia professionale … espletando
le funzioni individuate dalle norme
istitutive dei ►relativi profili
professionali nonché dagli
► specifici codici deontologici ed
utilizzando ≠ metodologie di
pianificazione per obiettivi
dell’assistenza.
Tuttavia, come anticipato, il contenuto dei successivi articoli 2, 3, 4 non è
reciprocamente del tutto sovrapponibile. Le previsioni testuali in punto di
autonomia delle professioni delle rimanenti tre aree non riprendono il
concetto di metodo. Si parla, infatti, rispettivamente, per i professionisti
dell’area della riabilitazione (art. 2), di autonomia, relativamente alle
“competenze proprie previste dai relativi profili professionali”; per i
professionisti dell’area tecnico-diagnostica e dell’area tecnico-assistenziale
(art. 3) di “procedure tecniche necessarie alla esecuzione di metodiche
diagnostiche su materiali biologici o sulla persona, ovvero attività tecnicoassistenziale, in attuazione di quanto previsto nei regolamenti concernenti
l’individuazione delle figure e dei relativi profili professionali definiti con
decreto del Ministro della sanità”; per i professionisti dell’area tecnica della
prevenzione (art. 4) di “attività … nell’ambito della responsabilità derivante
dai profili professionali”.
In nessun articolo, comunque, il tema dell’autonomia professionale è
tratteggiato con la medesima impostazione adottata per l’art. 1. Tuttavia, la
ovvia necessità di leggere la norma complessiva con una chiave di lettura
unitaria e la citazione, negli altri articoli, di alcuni termini quali
“competenze”, “metodiche”, “responsabilità” induce a ritenere applicabile
38
anche ad altre aree di professionisti sanitari le considerazioni sviluppate in
relazione all’art. 1.
Questa
interpretazione
complessiva
della
dichiarazione
formale
dell’autonomia delle professioni sanitarie effettuato dalla legge n. 251 porta,
per tutte le professioni, ad una definizione di valore positivo, basata sul
metodo proprio (nonché su specifici contenuti e obiettivi) della professione,
formulata senza richiamare la mancanza di vincoli rispetto ad altre
professioni.
Nelle relazioni con la professione medica, in particolare, si può avere –
secondo le professioni – un’autonomia su prescrizione medica e/o
un’autonomia su iniziativa personale; come indicato, questa duplice
possibilità non è di tutte le professioni: in particolare, il profilo di alcune
professioni fa dipendere la maggior parte delle rispettive attività da una
prescrizione (o da una indicazione o da una valutazione) del medico-chirurgo
(o di altro professionista sanitario: per esempio, odontoiatra), mentre il
profilo di altre professioni, come nel caso dell’ostetrica/o e del tecnico della
prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, non cita mai la preventiva
prescrizione medica.
In ogni caso, il concetto di autonomia va inteso in sintonia con l’obiettivo
fondamentale dell’esercizio professionale che è quello della tutela della
persona sotto il profilo sanitario e sociale, obiettivo realizzabile solo con
l’intervento coordinato ed integrato di svariate figure professionali.
L’interpretazione unitaria basata sul riconoscimento del metodo proprio
chiarisce inoltre un aspetto dei profili professionali approvati con decreti
ministeriali. La produzione normativa ministeriale dei predetti profili
professionali, infatti, nella descrizione delle funzioni professionali faceva (e
fa) solo qualche sporadico riferimento, e solo nei profili di alcuni
professionisti, all’autonomia del professionista. La legge n. 251 chiarisce che
le funzioni enunciate nei decreti ministeriali recanti i profili professionali
39
sono tutte da intendere svolte in autonomia, anche se nel profilo stesso il
termine non compare. Si rinvia alla tabella 2.4 per una visione di insieme,
che permetta di considerare i contenuti dei vari profili professionali in
relazione alla autonomia riconosciuta dalla legge n. 251.
Tabella 2.4 – L’autonomia nei profili dei singoli professionisti sanitari
Professione
Decreto ministeriale
di approvazione del
profilo professionale
Infermiere
d.m. 14 settembre
1994, n. 739
Ostetrica/o
d.m. 14 settembre
1994, n. 740
Fisioterapista
d.m. 14 settembre
1994, n. 741
Logopedista
d.m. 14 settembre
1994, n. 742
Passi che citano
l’autonomia o indicano i
rapporti con la
prescrizione medica
Art. 1. – 1. È individuata la
figura professionale
dell’infermiere con il
seguente profilo:
l’infermiere è l’operatore
sanitario che, in possesso
del diploma universitario
abilitante e dell’iscrizione
all’albo professionale è
responsabile dell’assistenza
generale infermieristica. …
3 - L’infermiere: … d)
garantisce la corretta
applicazione delle
prescrizioni diagnostico terapeutiche; …
Art. 1. 5. L'ostetrica/o è in
grado di individuare
situazioni potenzialmente
patologiche che richiedono
intervento medico e di
praticare, ove occorra, le
relative misure di
particolare emergenza.
Art. 1. – 1. È individuata la
figura del fisioterapista con
il seguente profilo: il
fisioterapista è l’operatore
sanitario, in possesso del
diploma universitario
abilitante, che svolge in via
autonoma, o in
collaborazione con altre
figure sanitarie, gli
interventi di prevenzione,
cura e riabilitazione nelle
aree della motricità, delle
funzioni corticali superiori,
e di quelle viscerali
conseguenti a eventi
patologici, a varia
eziologia, congenita od
acquisita.
2. In riferimento alla
diagnosi ed alle
prescrizioni del medico,
nell’ambito delle proprie
competenze, il
fisioterapista: …
Art. 1. – 3. In riferimento
alla diagnosi ed alla
prescrizione del medico,
40
Indicazione
esplicita della
autonomia
Indicazione
esplicita della
prescrizione
No
Sì: “garantisce la
corretta
applicazione delle
prescrizioni
diagnostico –
terapeutiche…”
No
Sì: “… situazioni
potenzialmente
patologiche che
richiedono
intervento
medico …”
Sì:
“in via
autonoma, o in
collaborazione
…”
Sì:
“In riferimento
alla diagnosi ed
alle prescrizioni
del medico”
Sì: “pratica
autonomament
e …”
Sì:
“In riferimento
alla diagnosi ed
Ortottistaassistente di
oftalmologia
d.m. 14 settembre
1994, n. 743
Dietista
d.m. 14 settembre
1994, n. 744
Tecnico sanitario
di laboratorio
biomedico
d.m. 14 settembre
1994, n. 745
Tecnico sanitario
di radiologia
medica
d.m. 14 settembre
1994, n. 746
nell'ambito delle proprie
competenze, il logopedista:
…
b) pratica autonomamente
attività terapeutica per la
rieducazione funzionale
delle disabilità
comunicative e cognitive,
utilizzando terapie
logopediche di
abilitazione e riabilitazione
della comunicazione e del
linguaggio, verbali e
non verbali; …
Art. 1. – 1. È individuata la
figura professionale
dell’ortottista-assistente di
oftalmologia con il
seguente profilo:
l’ortottista-assistente di
oftalmologia è l’operatore
sanitario che, in possesso
del diploma universitario
abilitante e su prescrizione
del medico, tratta i disturbi
motori e sensoriali della
visione ed effettua le
tecniche di semeiologia
strumentale-oftalmologica.
Art. 1. – 2. Gli specifici atti
di competenza del dietista
sono: … c) elabora,
formula ed attua le diete
prescritte dal medico e ne
controlla l’accettabilità da
parte del paziente;
Art. 1. – 2. Il tecnico
sanitario di laboratorio
biomedico:
a) svolge con autonomia
tecnico professionale la
propria prestazione
lavorativa in diretta
collaborazione con il
personale laureato di
laboratorio preposto alle
diverse responsabilità
operative di appartenenza;
…
Art. 1. – 2. Il tecnico
sanitario di radiologia
medica è l’operatore
sanitario abilitato a
svolgere, in conformità a
quanto disposto dalla
legge 31 gennaio 1983, n.
25, in via autonoma, o in
collaborazione con altre
figure sanitarie, su
prescrizione medica tutti
gli interventi che
richiedono l’uso di
sorgenti di radiazioni
ionizzanti, sia artificiali che
naturali, di energie
termiche, ultrasoniche, di
risonanza magnetica
nucleare nonché gli
interventi per la
protezionistica fisica o
dosimetrica. …
41
alle prescrizioni
del medico …”
No
Sì: “su
prescrizione del
medico …”
No
Sì: “diete
prescritte dal
medico …”
Sì:
“autonomia
tecnico
professionale
…”
Sì: “in diretta
collaborazione
con il personale
laureato di
laboratorio …”
Sì: “in via
autonoma, o in
collaborazione
con altre figure
sanitarie…”
Sì:
“su prescrizione
medica …”
Tecnico
ortopedico
d.m. 14 settembre
1994, n. 665
Podologo
d.m. 14 settembre
1994, n. 666
Tecnico
audiometrista
d.m. 14 settembre
1994, n. 667
Tecnico
audioprotesista
d.m. 14 settembre
1994, n. 668
Tecnico di
neurofisiopatologia
d.m. 15 marzo
1995, n. 183
Terapista della neuro
e psicomotricità
dell’età evolutiva
d.m. 17 gennaio
1997, n. 56.
Tecnico della
d.m. 29 marzo
Art. 1. – 1. È individuata la
figura professionale del
tecnico ortopedico con il
seguente profilo: il tecnico
ortopedico è l’operatore
sanitario che, in possesso
del diploma universitario
abilitante, su prescrizione
medica e successivo
collaudo, opera la
costruzione e/o
adattamento, applicazione
e fornitura di protesi,
ortesi e di ausili sostitutivi,
…
Art. 1. – 2. Il podologo, su
prescrizione medica,
previene e svolge la
medicazione delle
ulcerazioni delle verruche
del piede e comunque
assiste, anche ai fini
dell’educazione sanitaria, i
soggetti portatori di
malattie a rischio.
Art. 1. – 3. Il tecnico
audiometrista:
a) opera, su prescrizione
del medico, mediante atti
professionali che implicano
la piena responsabilità e la
conseguente autonomia;
Art. 1. –
2. Il tecnico
audioprotesista opera su
prescrizione del medico
mediante atti professionali
che implicano la piena
responsabilità e la
conseguente autonomia.
Art. 1. – 1. È individuata la
figura del tecnico di
neurofisiopatologia con il
seguente profilo: il tecnico
di neurofisiopatologia è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma
universitario abilitante,
svolge la propria attività
nell’ambito della diagnosi
delle patologie del sistema
nervoso, applicando
direttamente, su
prescrizione medica, le
metodiche diagnostiche
specifiche in campo
neurologico e
neurochirurgico
(elettroencefalografia,
elettroneuromiografia
poligrafia, potenziali
evocati, ultrasuoni).
Art. 1. – 2. Il terapista della
neuro e psicomotricità dell’età
evolutiva, in riferimento alle
diagnosi e alle prescrizioni
mediche, nell’ambito delle
specifiche competenze: …
No
Sì: “su
prescrizione
medica”
No
Sì: “su
prescrizione
medica …”
Sì: “la
conseguente
autonomia …”
Sì:
“su prescrizione
del medico ..”
Sì: “la
conseguente
autonomia …”
Sì:
“su prescrizione
del medico ..”
No
Sì: “su
prescrizione
medica”
No
Sì:
“In riferimento
alle diagnosi ed
alle prescrizioni
mediche …”
Art. 2. – 1. È individuata la
No
No : “nell’ambito
42
riabilitazione
psichiatrica
2001, n. 182
Tecnico della
prevenzione
nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro
d.m. 17 gennaio
1997, n. 58
Assistente
sanitario
d.m. 17 gennaio
1997, n. 69
Infermiere
pediatrico
d.m. 17 gennaio
1997, n. 70
Terapista
occupazionale
d.m. 17 gennaio
1997, n. 136
Tecnico della
fisiopatologia
cardiocircolatori
a e perfusione
cardiovascolare
d.m. 27 luglio
1998, n. 316
figura professionale del
tecnico della riabilitazione
psichiatrica con il seguente
profilo: il tecnico della
riabilitazione psichiatrica è
l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma
universitario abilitante,
svolge, nell’ambito di un
progetto terapeutico
elaborato da un’equipe
multidisciplinare,
interventi riabilitativi ed
educativi sui soggetti con
disabilità psichica.
Art. 1. – 4. Il tecnico della
prevenzione nell'ambiente
e nei luoghi di lavoro
svolge con autonomia
tecnico professionale le
proprie attività e collabora
con altre figure
professionali all'attività di
programmazione e di
organizzazione del lavoro
della struttura in cui opera.
Art. 1. – . 3. L'assistente
sanitario: … f) attua
interventi specifici di
sostegno alla famiglia,
attiva risorse di rete anche
in collaborazione con i
medici di medicina
generale ed altri operatori
sul territorio e partecipa ai
programmi di terapia per
la famiglia; …
p) svolge le proprie
funzioni con autonomia
professionale anche
mediante l'uso di
tecniche e strumenti
specifici; …
Art. 1. – 3. L’infermiere
pediatrico: …
e) garantisce la corretta
applicazione delle
prescrizioni diagnosticoterapeutiche;
Art. 1. – 2. Il terapista
occupazionale, in
riferimento alla diagnosi
ed alle prescrizioni del
medico, nell’ambito delle
proprie competenze ed in
collaborazione con altre
figure socio-sanitarie: …
Art. 1. –
2. Le mansioni del tecnico
della fisiopatologia
cardiocircolatoria e
perfusione cardiovascolare
sono esclusivamente di
natura tecnica; egli
coadiuva il personale
medico negli ambienti
idonei fornendo indicazioni
essenziali o conducendo,
sempre sotto indicazione
medica, apparecchiature
43
di un progetto
terapeutico
elaborato da
un’equipe
multidisciplinare”
Sì:
“autonomia
tecnico
professionale
…”
No
Sì: autonomia
professionale
Sì: collaborazione
con i medici di
medicina
generale
No
Sì:
“garantisce la
corretta
applicazione delle
prescrizioni
diagnosticoterapeutiche”
Sì: “in riferimento
alla diagnosi ed
alle prescrizioni
del medico …”
No
No
Sì: “sempre sotto
indicazione
medica …”
Educatore
professionale
d.m. 8 ottobre
1998, n. 520
Igienista dentale
d.m. 15 marzo
1999, n. 137
finalizzate alla diagnostica
emodinamica o vicariati le
funzioni cardiocircolatorie.
Art. 1. – 1. È individuata la
figura professionale
dell’educatore
professionale, con il
seguente profilo:
l’educatore professionale è
l’operatore sociale e
sanitario che, in possesso
del diploma universitario
abilitante, attua specifici
progetti educativi e
riabilitativi, nell’ambito di
un progetto terapeutico
elaborato da un’èquipe
multidisciplinare, volti a
uno sviluppo equilibrato
della personalità con
obiettivi
educativo/relazionali in un
contesto di partecipazione
e recupero alla vita
quotidiana; cura il positivo
inserimento o
reinserimento psico-sociale
dei soggetti in difficoltà.
Art. 1. – 1. È individuata la
figura professionale
dell’igienista dentale con il
seguente profilo: l’igienista
dentale è l’operatore
sanitario che, in possesso
del diploma universitario
abilitante, svolge compiti
relativi alla prevenzione
delle affezioni orodentali
su indicazione degli
odontoiatri e dei medici
chirurghi legittimati
all’esercizio della
odontoiatria.
3. L'igienista dentale
svolge la sua attività
professionale in
strutture sanitarie,
pubbliche o private, in
regime di dipendenza o
liberoprofessionale, su
indicazione degli
odontoiatri e dei medici
chirurghi legittimati
all'esercizio della
odontoiatria.
44
No
No: “nell’ambito
di un progetto
terapeutico
elaborato da
un’èquipe
multidisciplinare
…”
No
Sì - due volte: “su
indicazione degli
odontoiatri e dei
medici chirurghi
legittimati
all’esercizio della
odontoiatria…”
6. Altre fonti normative in tema di responsabilità
Si è precedentemente enfatizzato il valore della legge n. 42 del 1999 in punto
di affermazione della responsabilità dei professionisti sanitari.
Questo richiamo alla responsabilità operato dalla legge 42 non può
considerarsi
come
un’indicazione
normativa
affatto
nuova
per
il
professionista sanitario in genere e per l’infermiere in particolare.
Il concetto di responsabilità, con riferimento al solo all’infermiere, era infatti
già comparso in un paio di norme dello Stato.
Il concetto di responsabilità figurava nel D.P.R. 7 settembre 1984, n. 821
“Attribuzioni del personale non medico addetto ai presidi, servizi e uffici
delle unità sanitarie locali”. Il capo VIII di tale D.P.R., relativo al “Personale
infermieristico: operatore professionale di I categoria” riportava nell’art. 20
che “l’operatore professionale coordinatore … ha la responsabilità
professionale dei propri compiti limitatamente alle prestazioni e alle funzioni
che per la normativa vigente è tenuto ad attuare”; nell’art. 21 che
“l’operatore professionale collaboratore … ha la responsabilità professionale
dei propri compiti limitatamente alle prestazioni e alle funzioni che per la
normativa vigente è tenuto ad attuare”; nell’art. 22 che “l’operatore
professionale di II categoria … ha la responsabilità professionale dei propri
compiti limitatamente alle prestazioni o funzioni che per la normativa
vigente è tenuto ad attuare.”
La seconda fonte normativa pertinente è il D.P.R. 13 marzo 1992 “Atto di
indirizzo e di coordinamento alle Regioni ... in materia di emergenza
sanitaria”, che, all'art. 4 (“Competenze e responsabilità nelle centrali
operative”), secondo comma, prevede che “la responsabilità operativa è
affidata a personale infermieristico professionale.” Pur se limitata alla
dimensione operativa, compare esplicitamente la parola “responsabilità” in
rapporto alla professione infermieristica.
45
7. Le direttive europee come fattore di confusione
Il sistema organico delle responsabilità dei professionisti sanitari fin ora
tratteggiato ha un aspetto problematico di carattere normativo che riguarda
una sola professione.
La questione è la seguente.
La direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7
settembre 2005, concernente il riconoscimento reciproco di diplomi,
certificati ed altri titoli di vari professionisti della salute, è stata recepita nel
nostro ordinamento con D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 206 “Attuazione della
direttiva
2005/36/CE
relativa
al
riconoscimento
delle
qualifiche
professionali …”. Il D.Lgs. 206 considera varie professioni sanitarie senza
provocare alcun problema. La sezione VI del capo IV del titolo III è dedicata
alla “ostetrica”. L’art. 48 è di peculiare interesse
Art. 48. Esercizio delle attività professionali di ostetrica. … (omissis) …
2. Le ostetriche sono autorizzate all’esercizio delle seguenti attività:
a) fornire una buona informazione e dare consigli per quanto concerne i problemi della pianificazione
familiare;
b) accertare la gravidanza e in seguito sorvegliare la gravidanza diagnosticata come normale da un
soggetto abilitato alla professione medica, effettuare gli esami necessari al controllo dell’evoluzione della
gravidanza normale;
c) prescrivere gli esami necessari per la diagnosi quanto più precoce di gravidanze a rischio;
d) predisporre programmi di preparazione dei futuri genitori ai loro compiti, assicurare la preparazione
completa al parto e fornire consigli in materia di igiene e di alimentazione;
e) assistere la partoriente durante il travaglio e sorvegliare lo stato del feto nell’utero con i mezzi clinici e
tecnici appropriati;
f) praticare il parto normale, quando si tratti di presentazione del vertex, compresa, se necessario,
l’episiotomia e, in caso di urgenza, praticare il parto nel caso di una presentazione podalica;
g) individuare nella madre o nel bambino i segni di anomalie che richiedono l’intervento di un medico e
assistere quest’ultimo in caso d’intervento; prenderei provvedimenti d’urgenza che si impongono in assenza
del medico e, in particolare, l’estrazione manuale della placenta seguita eventualmente dalla revisione
uterina manuale;
h) esaminare il neonato e averne cura; prendere ogni iniziativa che s’imponga in caso di necessità e,
eventualmente, praticare la rianimazione immediata;
i) assistere la partoriente, sorvegliare il puerperio e dare alla madre tutti i consigliutili affinché possa
allevare il neonato nel modo migliore;
l) praticare le cure prescritte da un medico;
m) redigere i necessari rapporti scritti.
Meritano attenzione i punti b) e g), per i seguenti motivi.
In base alla lettera b), la funzione di sorvegliare la gravidanza è subordinata
all’accertamento di normalità della stessa da parte di un medico; tale
prescrizione non è in sintonia con alcun disposto del D.M. n. 740 ed altera il
46
profilo di responsabilità che scaturisce dalla legge 26 febbraio 1999, n. 42,
“Disposizioni in materia di professioni sanitarie”.
In base alla lettera g), l’ostetrica sembra perdere la competenza di valutare
situazioni potenzialmente patologiche che il D.M. n. 740 le attribuisce, per
ridursi ad individuare generiche anomalie; inoltre è tenuta a prestare
assistenza al medico stesso in caso di intervento: l’espressione “assistere il
medico” è equivoca e può suggerire una attività ausiliaria negata legge 26
febbraio 1999, n. 42.
Offrono invece chiavi di interpretazione che ampliano le abituali funzioni
dell’ostetrica (e la corrente interpretazione del D.M. n. 740) le seguenti
lettere dell’art. 48:
- c) perché contempla la prescrizione da parte dell’ostetrica degli esami
necessari per la diagnosi quanto più precoce di gravidanze a rischio;
- e) perché prevede la sorveglianza da parte dell’ostetrica dello
stato del feto nell’utero con i mezzi, sia clinici sia tecnici,
appropriati;
- f) perché dà la facoltà all’ostetrica di eseguire, se necessario, l’episiotomia
senza citare alcuna prescrizione medica.
47
CAPITOLO 3
RESPONSABILITÀ E CODICI DEONTOLOGICI
1. Codificazione deontologica recente e riconoscimento nella produzione
legislativa coeva
Negli ultimi anni del secolo scorso è iniziato nel nostro Paese un processo
diffuso, per cui, per alcune professioni sanitarie, sono stati creati e, per alcune
altre, sono stati riformulati codici di deontologia. Il dettaglio è desumibile dalla
tabella 3.1.
Questo processo innovativo è espressione della volontà, maturata nell'ambito
delle professioni sanitarie, di disciplinare specificamente ciascuna attività
professionale. In questa rinnovata produzione deontologica in ambito sanitario,
è dato rilievo alla responsabilità del professionista, cui è attribuito un
significato corrispondente non tanto all'indicazione di ottemperare ad una serie
di doveri ed alla minaccia di sanzioni in caso di mancato rispetto degli stessi,
quanto piuttosto al senso di solidarietà del professionista verso la persona
assistita e alla volontà del medesimo di realizzare come impegno personale la
condotta consona.
Il professionista sanitario aderisce dunque ai precetti del proprio codice
deontologico non per dovere, ma per scelta, perché guidato dal suo senso di
responsabilità.
I rapporti fra leggi dello Stato e produzione deontologica professionale sono
stati e sono oggetto di riflessione. In Italia le leggi hanno tradizionalmente
ignorato la codificazione deontologica.
È dunque di particolare interesse il fatto che, sempre negli ultimi anni del
secolo scorso, le leggi italiane hanno iniziato a considerare i codici deontologici
delle professioni sanitarie. Quando la legge riconosce il valore del codice
deontologico professionale, individua il fondamentale motivo che giustifica,
anzi che rende necessaria, l’esistenza di tale codice, pur in presenza di leggi
dello Stato che disciplinano l’esercizio della professione. Questo motivo può
essere così sinteticamente espresso: non sempre la legge riesce a identificare nel
48
dettaglio e con la necessaria tempestività le situazioni problematiche
dell’esercizio professionale, prevedendole in tutti gli aspetti diversificati in cui
si possono presentare in pratica, riferendoli alle varie funzioni e alle varie
attività, nonché a disciplinarli in modo da consentire soluzioni realizzabili, con
competenza professionale e nel rispetto della persona.
Vi sono tuttavia aspetti problematici: da un lato, vi è la possibilità che la
deontologia, dato che il suo ruolo è individuato proprio dalla legge, si
appiattisca sulle norme di legge, ripetendone i principi e applicandoli alle
specifiche contingenze, finendo così col perdere la capacità di analizzare i
problemi dal peculiare punto di vista connesso alla valutazione critica
dell’esercizio professionale e all’analisi dei bisogni della persona che si assiste;
dall’altro lato, può accadere che, la codificazione deontologia, forte della propria
autonomia in materia di regole professionali, finisca con il produrre una
disciplina che si discosta, per alcuni aspetti, dalle norme di legge generando i
presupposti di conflitti di ardua soluzione.
Dati questi problemi, occorre convenire sul seguente principio: da un lato, le
peculiari regole professionali vanno governate alla luce delle norme di legge,
senza che la deontologia professionale codificata divenga una sorta di
regolamento di applicazione della norma di legge; dall’altro lato, è opportuno
che la deontologia si ispiri a principi che impongono al professionista sanitario
un comportamento nei confronti dell’assistito particolarmente solidale, più di
quanto cioè prevedano le stesse leggi dello Stato.
I codici deontologici sono menzionati per la prima volta dagli articoli 22 e 31
della legge 31 dicembre 1996, n. 675 sulla tutela delle persone rispetto al
trattamento dei dati personali, nonché dall’art. 17 del d.lgs. 11 maggio 1999, n.
135, che reca disposizioni integrative della predetta legge n. 675, ora sostituiti
dall’art. 12 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 con cui è stato approvato il codice
in materia di protezione dei dati personali. I predetti articoli contemplano per il
Garante il compito di promuovere, nell’ambito delle categorie interessate, la
49
sottoscrizione di codici di deontologia, puntualizzando che fra queste categorie
vi sono le professioni sanitarie e che questi codici riguardano, tra l’altro,
modalità e caratteristiche del trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale della persona.
Sempre promulgate nell’ultimo scorcio del secolo scorso, sono altre due leggi
che considerano i codici di deontologia delle professioni sanitarie; si tratta della
legge 26 febbraio 1999, n. 42, che riporta disposizioni in materia di professioni
sanitarie, infermieristiche, tecniche e della riabilitazione, e la legge 10 agosto
2000, n. 251, che reca una ulteriore disciplina delle medesime professioni
sanitarie.
In particolare, l’art. 1 della legge 42 del 1999 prescrive che «il campo proprio di
attività e di responsabilità» delle predette professioni sanitarie è determinato da
varie fonti, fra le quali vi sono gli specifici codici deontologici. È di grande
rilievo il fatto che, pur stante il carattere vincolante delle regole di tali codici
deontologici, la legge 42 non dia alcuna disposizione circa le procedure di
elaborazione, l’ambito di riferimento e i contenuti degli stessi. Da questo
silenzio della legge discende che ciascuna professione è libera di stendere ed
approvare il proprio codice deontologico secondo le regole che informano
l’esercizio della professione stessa. Non è neppure previsto l’ente chiamato ad
emanare il codice deontologico di una determinata professione. Ciò rileva
perché non tutte le professioni sanitarie dispongono di un proprio collegio, in
attesa che abbia attuazione la ormai datatissima delega che la legge 1° febbraio
2006, n. 43 ha conferito al Governo per l’istituzione di ordini professionali per
le «professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnicosanitarie e della prevenzione». La legge 42 si riferisce pertanto a tutti i codici
deontologici delle professioni sanitarie, siano approvati da collegi professionali
o, in loro mancanza, da associazioni o società professionali. Il panorama italiano
dei codici deontologici delle professioni sanitarie e dell’ente che li ha emanati è
desumibile dalla Tabella 3.1. Si ricorda che se le professioni sanitarie di
50
interesse sono 22, vi è un codice unico per due professioni sanitarie, quella di
infermiere e quella di infermiere pediatrico.
Tabella 3.1 – Codici deontologici delle professioni sanitarie
Codice e professione
Collegio / Associazione
Codice deontologico -- codice etico
dell’’assistente sanitario
Consiglio Direttivo
Nazionale AsNAS,
Associazione Nazionale
Assistenti Sanitari
Assemblea nazionale soci
ANDID, Associazione
Nazionale Dietisti
Consiglio direttivo nazionale
ANEP, Associazione
Nazionale Educatori
Professionali
Direttivo nazionale AITR,
ora AIFI, Associazione
Italiana Fisioterapisti
AIDI, Associazione Igienisti
Dentali Italiani
Federazione Nazionale dei
Collegi IPASVI
Codice deontologico del dietista
Codice deontologico degli
educatori professionali
Codice deontologico dei
fisioterapisti
Codice deontologico degli igienisti
dentali
Codice deontologico
dell’infermiere
Codice deontologico del
logopedista
Codice deontologico degli
ortottisti - assistenti in
oftalmologia
Codice deontologico
dell’ostetrica/o
Codice deontologico ed etico dei
podologi
Codice deontologico
dell’audiometrista [tecnico
audiometrista]
Codice deontologico del tecnico
audioprotesista
Codice deontologico del tecnico di
fisiopatologia cardiocircolatoria e
perfusione cardiovascolare
Codice deontologico del tecnico di
neurofisiopatologia
Codice deontologico dei
tecnici per la prevenzione
nell’ambiente e nei luoghi
di lavoro
Codice deontologico del tecnico
Anno di
promulgazione
o di modifica
della versione
vigente
2003
Precedenti
versioni
2012
1995
2003
2009
2002
2011
2004
2009
FLI, Federazione
Logopedisti Italiani
Assemblea nazionale soci
AIOrAO, Associazione
Italiana Ortottisti Assistenti
di Oftalmologia
Federazione nazionale
collegi ostetriche
Associazione Italiana
Podologi
1999
AITA, Associazione Italiana
Tecnici Audiometristi
2001
ANAP, Associazione
Nazionale Audioprotesisti
Professionali
Consiglio Direttivo ANPEC,
Associazione Nazionale
Perfusionisti in
Cardioangiochirurgia
Assemblea nazionale soci
AITN, Associazione Italiana
Tecnici di
Neurofisiopatologia
UNPISI, Unione Nazionale
Personale Ispettivo
Sanitario d’Italia
2001
Consiglio Direttivo
2004
51
1995
1998
1960
1975
1999
2007
1999
2010
1998
2006
1978
1989
1997
2000
2007
2005
2000
2006
1968
1974
1996
ortopedico
Codice deontologico del tecnico
sanitario di laboratorio biomedico
Codice deontologico del tecnico
sanitario di radiologia medica
Codice deontologico del tecnico
della riabilitazione psichiatrica
Codice deontologico
dei terapisti occupazionali
Codice deontologico dello
psicomotricista [terapistia della
neuropsicomotricità
dell’età evolutiva]
Nazionale ANTOI,
Associazione Albo Nazionale
Tecnici Ortopedici Italiani.
ANTeL, Associazione
Italiana Tecnici Sanitari di
Laboratorio Biomedico
Federazione Nazionale
Collegi Tecnici Sanitari di
Radiologia Medica
Consiglio Direttivo
Nazionale AITeRP,
Associazione Italiana
Tecnici della Riabilitazione
Psichiatrica
Consiglio Nazionale AITO,
Associazione Italiana
Terapisti Occupazionali
ANUPI, Associazione
Nazionale Unitaria Italiana
Psicomotricisti Terapisti
della Neuropsicomotricità
dell’Età Evolutiva
2009
2001
2004
1993
2009
2008
2012
1995
2001
La legge 251 del 2000 conferma il significato dei codici deontologici, ma non li
considera espressamente per tutte le professioni sanitarie delle varie aree. Le
caratteristiche delle attività di ciascuna delle quattro aree professionali sono
descritte nei commi 1, rispettivamente, degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 251.
Il comma 1 è strutturato in forma simile in ciascuno dei quattro articoli citati,
ma non è rispettivamente sovrapponibile. Tutti richiamano, sia pure con un
lessico di volta in volta leggermente differenziato il rispetto di quanto
contemplato nei regolamenti concernenti l’individuazione dei relativi profili
professionali, ma non tutti indicano che anche gli specifici codici deontologici
sono alla base dell’espletamento delle funzioni proprie. Solo il comma 1 dell’art.
1 prevede, infatti, che infermieri ed ostetriche compiano le funzioni come
individuate non solo dai relativi profili professionali, ma anche dagli specifici
codici deontologici. Di conseguenza, i professionisti sanitari di cui agli articoli
2, 3 e 4 (area della riabilitazione, area tecnico-sanitaria e area tecnica della
prevenzione) espleterebbero le loro funzioni a prescindere dai contenuti dei
rispettivi codici deontologici. Una siffatta deduzione non è accettabile:
l’omissione, pur reiterata, della legge 251 non priva di valore il disposto della
52
legge 42, che stabilisce che il campo proprio di attività e di responsabilità delle
professioni sanitarie è determinato anche dagli specifici codici deontologici.
È oscura la ragione per cui un’indicazione circa i codici deontologici analoga a
quella dell’art. 1 non figuri anche negli articoli 2, 3 e 4 della legge 251. Se ciò è
stato fatto perché ritenuta superflua, allora avrebbe dovuto essere omessa anche
nell’art. 1. Se ciò è stato fatto perché, delle professioni disciplinate dalla legge
251, solo infermieri e ostetriche dispongono di un codice deontologico
approvato dalle federazioni nazionali dei rispettivi collegi professionali, allora si
tratta di un presupposto errato, perché anche i tecnici sanitari di radiologia
medica – considerati nel contesto dell’art. 3 –hanno un codice deontologico
elaborato dal loro collegio professionale.
2. Codici deontologici e colpa professionale specifica
Nonostante le ambiguità – più formali che sostanziali –, il riconoscimento dei
codici deontologici operato dalle leggi dello Stato, conferisce ai codici stessi un
valore anche giuridico. Si tratta di un riconoscimento profondamente
innovativo, che costituisce una sorta di fase di passaggio nel rapporto fra diritto
positivo e codificazione deontologica dei collegi e delle associazioni
professionali.
È tuttavia da tenere presente che, prima delle commentate tre leggi approvate a
partire dal 1996, i codici deontologici erano comunque implicitamente già
considerati, dal nostro ordinamento giuridico, un riferimento obbligato, in
relazione al disposto dell’art. 43 del codice penale, in tema di individuazione
della responsabilità per colpa in genere e quindi anche di quella del
professionista sanitario, nel caso in cui la sua condotta determini un evento di
danno a carico dell’assistito.
Art. 43. Elemento psicologico del reato. – Il delitto:
–
è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione;
–
è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento
dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;
53
–
è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente
e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica
altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale
distinzione un qualsiasi effetto giuridico.
In base all’art. 43 del codice penale, il delitto colposo si configura quando
l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si determina o a causa
di negligenza o imprudenza o imperizia (la colpa generica individuata dalla
dottrina) ovvero – e questa è la parte d’interesse – per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).
È facile notare che l’inosservanza della norma deontologica integra la
previsione della colpa specifica; di conseguenza, è possibile indicare che il
nostro ordinamento ha di fatto considerato, sia pur non esplicitamente, sia pure
con riferimento ad un ambito ben delimitato, il valore giuridico dei disposti dei
codici deontologici ancor prima delle citate leggi approvate nel periodo 19962000. Infatti la violazione di una norma del codice deontologico può essere
valutata come inosservanza di regolamento o disciplina. Se tale violazione è
intesa come inosservanza di regolamento, occorre ampliare il senso del
sostantivo “regolamento”, estendendolo fino a comprendere anche il
regolamento interno; il codice di deontologia può essere considerato tale,
perché emanato dal collegio professionale nei confronti degli iscritti all’Albo. Se
la violazione del codice deontologico è intesa come inosservanza di disciplina, il
ragionamento è ancor più semplice, perché la codificazione deontologica ha la
natura di regola specificamente dettata per disciplinare una determinata attività
professionale in base a valori etici, a tutela del cittadino e a garanzia del
corretto esercizio di quella attività. Tale codificazione è dunque da considerare
quale
disciplina
formalmente
standardizzata,
elaborata
da
organismo
competente e la sua violazione integra inosservanza di disciplina, requisito della
colpa specifica, indicato dall’art. 43 del codice penale.
È da ribadire che l’inosservanza della disciplina dettata dal codice deontologico
assume rilievo, in ambito giuridico ai sensi dell’art. 43 del codice penale, solo a
condizione che abbia prodotto le conseguenze indispensabili ai fini della
54
configurazione di un qualche delitto: che cioè la condotta del soggetto agente in
violazione del codice deontologico abbia causato un evento, quale la morte o
l’insorgenza o la maggior durata di una malattia, la cui verificazione
corrisponde ai delitti di omicidio colposo o, rispettivamente, di lesione
personale colposa.
3. La responsabilità nei codici deontologici: aspetti generali
I vari codici deontologici delle professioni sanitarie prendono in considerazione
il tema della responsabilità in modo estremamente diversificato, talché una
analisi dei contenuti è particolarmente complessa. La diversità fondamentale è
data dal fatto che un medesimo concetto può essere trattato con l’indicazione
dell’attività doverosa oppure premettendo espressamente alla indicazione della
attività il principio per cui il professionista è “responsabile” di quella attività.
Altri codici intitolano intere sezioni al concetto di responsabilità, riferendolo ad
ambiti diversificati, e collocando le varie attività all’interno di queste sezioni,
attribuendo così l’attività alla responsabilità. In tal senso i codici sono
difficilmente confrontabili.
Ferme restando queste difficoltà, e fermo restando che è comunque
responsabilità del professionista l’attività di sua pertinenza, si è voluto
comunque analizzare quale rilievo è dato alla responsabilità, intesa come
termine esplicitamente considerato, nei vari codici deontologici.
In tabella 3.2 sono riportati i passi dei 21 codici deontologici esistenti che
riportano
espressamente
il
sostantivo
“responsabilità”
o
l’aggettivo
“responsabile” o l’avverbio “responsabilmente” da esso derivati, i passi cioè in
cui è chiaramente dichiarata la responsabilità del professionista nelle attività
che è chiamato a svolgere.
55
Tabella 3.2 – Codici deontologici delle professioni sanitarie e responsabilità
Codice
deontologico
[eventuali note]
Assistente
sanitario
Articoli e testo in materia di responsabilità
Art.1.OGGETTO E CAMPO DI APPLICAZIONE 1. Il presente Codice DeontologicoCodice Etico (di seguito C.D.-C.E.) individua impegni, doveri e responsabilità nell’esercizio
della pratica professionale dell’Assistente Sanitario (di seguito A.S.), allo scopo di assicurare il
corretto esercizio della professione, il decoro ed il prestigio della professione.
Art.5.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE
Art.6. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA PERSONA
Art.8. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA COLLETTIVITÀ
Art.9. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELL’ORGANIZZAZIONE DI
APPARTENENZA
Dietista
Premessa …
Le regole del presente codice sono vincolanti per tutti i dietisti. La mancata conoscenza delle
norme del presente codice non esime dalla responsabilità
disciplinare.
CAPO I. Responsabilità professionale
CAPO II. Responsabilità verso la società
CAPO III. Responsabilità verso l’utente/cliente
CAPO IV. Responsabilità verso gli altri operatori
CAPO V. Responsabilità verso i colleghi
Capo VI. Responsabilità disciplinare e sanzioni
1. La responsabilità disciplinare dei soci discende dall’inosservanza degli impegni assunti nei
confronti dell’Associazione e dei principi del Codice Etico, con volontarietà della condotta,
anche se omissiva.
Educatore
[I] 1. Nel presente Codice Deontologico (di seguito C.D.), partendo da principi etici e valori
professionale
che sono implicati nella relazione educativa, s'individuano responsabilità, doveri e impegni,
applicabili nell'esercizio della professione d'Educatore Professionale (di seguito E.P.),
[Il codice
indipendentemente dalla situazione di lavoro, dall'utenza di riferimento, dall'organizzazione
deontologico è
dei servizi in cui si opera.
suddiviso in otto
[II] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE
sezioni non
L'Educatore Professionale, … 4. deve essere consapevole della portata della propria funzione
numerate; all’interno così come del potere di cui è investito e deve saperli assumere con piena responsabilità.
di esso le varie frasi
[III] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELL'UTENTE
sono talora precedute · l’educatore professionale … s'impegna affinché le informazioni, i dati, le cartelle o altro in suo
da numeri arabi.
possesso che riguardano l'utente o terzi sia mantenuto riservato. A tal fine, provvede alla
Per facilitare la
conservazione dei dati personali del cui trattamento abbia la responsabilità mediante l’adozione
comprensione, in
delle preventive misure di sicurezza individuate, e periodicamente aggiornate, dalla vigente
tabella abbiamo
normativa, in modo da ridurre al minimo i rischi di distruzione o perdita degli stessi, di accesso
attribuito un numero non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
romano progressivo [IVI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLE FAMIGLIE
alle otto sezioni]
[VI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELL'EQUIPE
[IVI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO
[IVII] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLA SOCIETÀ
Fisioterapista
Art. 1.Definizioni e campo di applicazione. Il Codice Deontologico del Fisioterapista è
l’insieme, condiviso, delle regole, dei principi e dei valori insiti nella relazione di cura ed una
guida che orienta la responsabilità professionale intesa non solo nel suo significato giuridico
ma, anche, nel suo più autentico e profondo significato etico.
Il Fisioterapista, all’atto della sua iscrizione all’AIFI, si riconosce nelle indicazioni
deontologiche e si impegna, attivamente e responsabilmente, a rispettarle ed a promuoverle
nella relazione di cura, nei rapporti intra ed inter-professionali e in quelli con le istituzioni.
Art. 2.Responsabilità disciplinare. La violazione delle regole di condotta contenute nel
presente Codice Deontologico è fonte di responsabilità disciplinare che integra le eventuali
ulteriori sanzioni previste dalle norme giuridiche e dai contratti di lavoro.
Art. 3.Rispetto e promozione dei diritti fondamentali della persona umana. Il Fisioterapista
rispetta e promuove, attivamente e responsabilmente, i diritti fondamentali della persona
56
Igienista dentale
Infermiere
Logopedista
Ortottista
umana sanciti dalla Carta Costituzionale e dalle fonti normative internazionali e sovranazionali
fra cui la Convenzione di Oviedo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la
Convenzione O.N.U. sui diritti delle persone con disabilità, la Carta di Ottawa per la
promozione della salute, la Carta Europea dei Diritti del Malato, nonché dalle dichiarazioni di
principio e di presa di posizione della World Confederation for Physical Therapy WCPT,
senza distinzioni e/o discriminazioni legate all’ età, al sesso, all’orientamento sessuale, alle
condizioni sociali, all’etnia, alla nazionalità, alla cultura, alla professione di fede e
all’orientamento politico.
Art. 6 Doveri del fisioterapista. Il Fisioterapista esercita la professione con titolarità, in piena
autonomia e responsabilità, coerentemente a quanto previsto dalle leggi vigenti.
Art. 9. Formazione e ricerca. … Il Fisioterapista si impegna attivamente nella ricerca,
attenendosi agli standard di buona pratica clinica e cura responsabilmente la diffusione dei
risultati indipendentemente dall’esito della ricerca stessa. …
Art. 12.Qualità e appropriatezza delle cure. Il Fisioterapista ha la responsabilità diretta delle
procedure diagnostiche e terapeutiche adottate. Egli si impegna a ricercare la migliore
efficacia, appropriatezza e qualità dei percorsi di cura e riabilitazione, promuovendo l’uso
appropriato delle risorse e la sostenibilità delle cure.
Art. 33.Clausola di coscienza. Fermo restando i principi dell’appropriatezza e dell’efficacia posti
alla base della relazione di cura, il Fisioterapista può rifiutarsi di erogare prestazioni che siano
in contrasto con la propria morale, preservando comunque la salute della persona; il
professionista sarà responsabile legalmente e disciplinarmente delle proprie scelte.
Art. 34.Problematiche di fine vita. … Nell’ambito delle cure palliative, anche pediatriche,
prende in cura la persona assistita e si impegna ad esercitare la professione con competenza e
responsabilità, garantendo gli interventi necessari ad alleviare la sofferenza e a migliorare la
qualità della vita. …
Art. 35.Decoro professionale. Il Fisioterapista si impegna a tutelare, attivamente e
responsabilmente, il decoro personale proprio e della professione in ogni ambito e circostanza e
si attiva, costantemente e senza vantaggio personale, a promuoverne il ruolo.
Art. 42.Obblighi in materia di pubblicità. La pubblicità in materia sanitaria non può
prescindere, nelle forme e nei contenuti, da principi di correttezza informativa, responsabilità e
decoro professionale; deve essere obiettiva, veritiera, corredata da dati oggettivi e controllabili.
…
PREMESSA … Il Codice e costituito dai principi e dalle regole che gli igienisti dentali devono
osservare e far osservare nell'esercizio della professione e che orientano le scelte di
comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano.
Titolo II La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della persona utente e cliente
Titolo III Responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della società
Titolo IV La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti di colleghi ed altri professionisti
Titolo V La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti dell'organizzazione di lavoro
Titolo VI La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della professione
50. Nel caso di studi associati è responsabile, sotto il profilo disciplinare, il singolo
professionista a cui si riferiscono i fatti specifici.
Art. 1. L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica.
Art. 3. La responsabilità dell'infermiere consiste nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura
della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo.
Art. 13. L'infermiere assume responsabilità in base al proprio livello di competenza e ricorre, se
necessario, all'intervento o alla consulenza di infermieri esperti o specialisti. Presta consulenza
ponendo le proprie conoscenze ed abilità a disposizione della comunità professionale.
Art. 47. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e
lo sviluppo del sistema sanitario, alfine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo
equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale.
Art. 48. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi
provvede a darne comunicazione ai responsabili professionali della struttura in cui opera o a
cui afferisce il proprio assistito.
Art.7 - Ambiti professionali … 4. - Direzione Il Logopedista può ricoprire posizioni
organizzative che richiedono lo svolgimento di funzioni con assunzione diretta di elevata
responsabilità come, ad esempio, la direzione di servizi, dipartimenti, uffici o unità
organizzative di particolare complessità, caratterizzate da un elevato grado di esperienza e
autonomia gestionale ed organizzativa.
Art.14.- Rapporti con i colleghi … 7. I Logopedisti che hanno maggiore competenza per
anzianità professionale ed esperienza in ambiti logopedici specifici, assumono la responsabilità
della formazione degli allievi Logopedisti e dei Colleghi agli inizi del percorso professionale.
Art. 8. L’Ortottista-Assistente in Oftalmologia ha la responsabilità diretta delle procedure
57
Ostetrica/o
Podologo
Tecnico
audiometrista
Tecnico
audioprotesista
Tecnico di
fisiopatologia
cardiocircolatoria e
perfusione
cardiovascolare
Tecnico di neurofisiopatologia
professionali che svolge.
1.1. L’ostetrica/o è il professionista sanitario abilitato e responsabile dell’assistenza ostetrica,
ginecologica e neonatale; la sua attività si fonda sulla libertà e l’indipendenza della professione.
1.3. L’assistenza garantita dall’ostetrica/o, si integra con le attività degli altri professionisti,
attraverso interventi specifici di natura intellettuale e tecnico-scientifica, in ambito
assistenziale, relazionale, educativo e gestionale, svolti con responsabilità, in autonomia e/o in
collaborazione con altri professionisti sanitari.
1.5. L’ostetrica/o, responsabile della formazione e dell’aggiornamento del proprio profilo
professionale, promuove e realizza in autonomia e in collaborazione la ricerca di settore.
2.7. L’ostetrica/o assume responsabilità sulla base delle competenze professionali acquisite
anche avvalendosi dell’eventuale ed opportuna consulenza di altri professionisti, al fine di
garantire le cure adeguate alla persona in relazione a specifici obiettivi di salute.
Giuramento professionale. Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e
dell’impegno che assumo, giuro:… di perseguire come scopi esclusivi la tutela della salute
fisica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante
impegno ogni mio atto professionale; …
Art. 1. Definizione … Il podologo è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice, la
cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare.
Art. 22. Modalità e forme di espletamento dell’attività professionale … Il podologo,
nell’ambito di ogni forma partecipativa o associativa dell’esercizio della professione: è e resta
responsabile dei propri atti e delle proprie prestazioni; …
Art. 2.- Gli Audiometristi, siano essi liberi professionisti o dipendenti di Enti pubblici o privati,
sono tenuti alla conoscenza e all'osservanza del presente Codice Deontologico, la cui ignoranza
non lo esime dalla responsabilità disciplinare.
Art. 15.- Rapporti con altre istituzioni - … 2. l’ Audiometrista è e resta comunque responsabile
dei propri atti e non deve subire condizionamenti nella sua autonomia professionale; …
Art. 2. … Il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi etici della professione è
condizione essenziale per l’assunzione delle responsabilità inerenti la professione.
Art. 3.L'assunzione di responsabilità e la conseguente autonomia da parte del Tecnico
Audioprotesista si esplicitano nell'effettuare una serie di indagini preliminari, strumentali e
non, miranti alla valutazione della menomazione uditiva e della disabilità conseguente, nello
scegliere fornire ed adattare gli ausili uditivi adeguati, nel verificare i risultati dell'applicazione,
nel seguire l’assistito nel suo adattamento a breve ed a lunga scadenza, nel controllare nel
tempo che il risultato dell’ausilio sia sempre adeguato alle aspettative dell’assistito.
Art. 1.RESPONSABILITÀ PERSONALE
Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare ha la
responsabilità diretta delle procedure pertanto deve rispettare i limiti e le responsabilità del
proprio ambito professionale ed esimersi dall’effettuare i casi per i quali non si ritiene
sufficientemente competente.
Art. 2.CONDOTTA PROFESSIONALE. … Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e
Perfusione Cardiovascolare che partecipa alla promozione e allo sviluppo di materiali, libri o
strumenti relativi alla CEC deve farlo in modo professionale ed obiettivo, senza anteporre il
proprio profitto personale alla responsabilità professionale
Art. 3.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEL PAZIENTE. La responsabilità del
Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare consiste
nell’applicare tecniche e metodiche adeguate al paziente …
Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare non deve far
eseguire tecniche di CEC da studenti o altri senza esercitare su di essi un’appropriata
supervisione e senza assumerne la piena responsabilità
Art. 4.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEI COLLEGHI …
Art. 8. RAPPORTI CON L’UNIVERSITA’ E GLI STUDENTI DEI CORSI DI LAUREA Il
Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare quando ne ha
l’opportunità partecipa attivamente alle attività formative dei rispettivi corsi di laurea. È
responsabile degli insegnamenti teorici, pratici, tecnologici, etici e deontologici della
professione, contribuisce alla formazione degli studenti anche attraverso un’apposita attività
tutoriale , di addestramento pratico ed editoriale.
Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare accoglie gli
studenti con attenzione e si adopera per la trasmissione delle proprie conoscenze, competenze
ed abilità professionali. E ‘ responsabile degli atti compiuti dagli studenti a lui affidati.
Art. 1. Le regole del presente codice deontologico sono vincolanti per tutti i Tecnici di
Neurofisiopatologia (TNFP) iscritti all'Associazione Italiana Tecnici di Neurofisiopatologia
(AITN).
Il TNFP è tenuto alla loro conoscenza, e l'ignoranza delle medesime non esime dalla
58
Tecnico ortopedico
Tecnico della
prevenzione
nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro
Tecnico della
riabilitazione
psichiatrica
[Il codice
deontologico è
suddiviso in itoli ed
in capi; all’interno di
ogni capo la
numerazione degli
articoli parte da 1.
Per facilitare la
comprensione, in
tabella abbiamo
indicato il capo
dell’articolo citato]
Tecnico sanitario di
laboratorio
biomedico
responsabilità disciplinare.
Art. 4. Il TNFP salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche da
utilizzare per la sua attività, ed è perciò responsabile della loro applicazione ed uso, dei
risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che se ne ricavano. …
Art. 8. … Assume atteggiamento ed impegno responsabile nella preparazione umana e
professionale degli allievi, mettendo interamente a loro disposizione il proprio bagaglio di
conoscenza ed esperienza.
Art. 10. Il TNFP ai diversi livelli di responsabilità segnala all'autorità competente gli eventuali
disservizi, le carenze organizzative ed i ritardi nell'applicazione delle leggi, collaborando per la
loro sollecita e puntuale attuazione. …
Art. 1.- Il Codice di deontologia contiene l'insieme dei principi e delle regole cui il Tecnico
Ortopedico deve uniformare l'esercizio della professione. Il Tecnico Ortopedico è tenuto alla
conoscenza dei contenuti del presente Codice, la cui ignoranza non lo esonera da responsabilità
disciplinare. Le prescrizioni del presente Codice Deontologico si applicano a tutti i Tecnici
Ortopedici, indipendentemente dalle modalità di svolgimento dell'attività.
Art. 20. - La pubblicità dell'attività professionale - Il Tecnico Ortopedico che si avvale di mezzi
o veicoli pubblicitari deve improntare le sue iniziative all'elevato senso di responsabilità che la
materia richiede. Egli deve uniformarsi alle disposizioni di legge che regolano la materia, ed in
particolare, ai contenuti del d.lgs. n. 74/1992 ed alle norme ad esso correlate.
Formula del giuramento professionale. Consapevole dell’importanza, della solennità e delle
responsabilità che con questo atto mi assumo di fronte alla Legge ed agli Uomini io,Tecnico
della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, giuro: …
Art. 14. Rapporti con terzi. 1. Gli accordi, di qualsiasi natura, stipulati al fine dello
svolgimento dell’attività professionale, sia essa in forma singola sia in forma associata, devono
essere conformi alle regole della deontologia professionale; agli Ordini è affidata, sia in via
preventiva sia successiva, la vigilanza sul puntuale rispetto di quanto previsto dal comma
precedente. …
3. Il T.d.P., nell’ambito di ogni forma di partecipazione di cui al precedente comma 1:a. è
sempre e comunque responsabile di tutti i propri atti e/o delle proprie omissioni; …
[capo III] Art. 4.Il TeRP ha la responsabilità diretta delle procedure diagnostico-funzionali e
terapeutiche che applica.
[capo III] Art. 5.Il TeRP deve rispettare i limiti e le responsabilità del proprio ambito
professionale, ed astenersi dall’affrontare la soluzione dei casi per i quali non si ritenga
sufficientemente competente.
[capo III] Art. 8. Il TeRP ha il dovere di utilizzare metodologie e tecniche la cui efficacia e
sicurezza siano state scientificamente validate da Società Scientifiche. La scelta di pratiche non
convenzionali deve avvenire nel rispetto del decoro e della dignità della professione ed
esclusivamente sotto diretta ed esclusiva responsabilità personale.
[capo IV] Art. 3.Il TeRP … assume atteggiamento e impegno responsabile nella preparazione
umana e professionale degli allievi, mettendo direttamente a loro disposizione il proprio
bagaglio di conoscenza ed esperienza.
TITOLO III. RESPONSABILITA’ NELL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE
Art. 4 - Il TSLB nello svolgimento delle attività professionali è responsabile degli atti compiuti
aventi finalità di diagnosi e di terapia e dei comportamenti assunti, secondo i principi di
autonomia e collaborazione.
Art. 8 - Le disposizioni del presente Codice sono vincolanti per tutti i TSLB, siano essi liberi
professionisti o dipendenti di enti pubblici e privati. Il TSLB è tenuto alla loro conoscenza e
l’ignoranza delle stesse non esime dalla responsabilità disciplinare.
Art. 16 - Il TSLB, pur consapevole della propria autonomia e responsabilità professionale, ai
fini del miglior servizio al paziente, collabora con le altre figure professionali, ne riconosce le
specifiche competenze e si attiene ai principi di lealtà e di rispetto reciproco.
Art. 17 - Il TSLB ha la responsabilità diretta delle procedure operative che applica,
salvaguarda la propria autonomia collaborando nella scelta dei materiali e delle tecniche ed è
responsabile del risultato analitico
Art. 25 - Il TSLB, quale soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e
sanitaria, assume un atteggiamento responsabile nell’attuazione del diritto alla salute. …
Art. 30 - Il TSLB che partecipa alle attività formative dei rispettivi Corsi di Laurea è
responsabile della formazione degli studenti attraverso attività tutoriale, addestramenti pratici
ed insegnamenti tecnologici, tecnici, storici, sociali, etici e deontologici della Professione.
59
Tecnico sanitario
di radiologia
medica
Terapista neuro e
psicomotricità età
evolutiva
Art. 31 - Il TSLB, riconoscendo negli studenti il futuro della Professione, si adopera per
conferire le proprie conoscenze, competenze ed abilità professionali ed è responsabile degli atti
compiuti dagli studenti a lui affidati.
1.- Disposizioni generali
1.1.Il Tecnico Sanitario di Radiologia Medica (di seguito indicato con TSRM) è il
professionista sanitario che, all’interno del percorso assistenziale, è responsabile nei confronti
della persona degli atti tecnici e sanitari degli interventi radiologici aventi finalità di
prevenzione, diagnosi e terapia.
2.- Principi etici del Tecnico Sanitario di Radiologia Medica …
2.4.Il TSRM, ritenendosi soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e
sanitaria assume un atteggiamento responsabile nell'attuazione del diritto alla salute.
2.5.Il TSRM afferma l’impossibilità di scindere i concetti di responsabilità e autonomia,
decisionale ed operativa. Pertanto, il TSRM è responsabile delle decisioni assunte
autonomamente e degli atti compiuti in autonomia.
3.- Rapporti con la persona … 3.9. Il TSRM è responsabile della documentazione iconografica
prodotta o consegnatagli dalla persona. Sulla documentazione iconografica prodotta la sua
responsabilità si estende a tutte le fasi del processo: acquisizione, elaborazione, stampa ed
archiviazione. Al fine di rendere individuabili con facilità e sicurezza gli autori delle prestazioni
radiologiche, il TSRM utilizza i più sicuri sistemi di identificazione.
5.- Rapporti con i colleghi TSRM e le altre professioni, sanitarie e non …
5.2.Il TSRM, pur nella sua autonoma responsabilità tecnico professionale, ritiene essenziale ai
fini del proprio servizio la collaborazione con le altre professioni sanitarie delle quali riconosce
e rispetta le specifiche competenze. Con esse collabora al raggiungimento degli obiettivi di
salute della persona.
5.3.In caso di richiesta di prestazioni che, sulla base della sua conoscenza tecnico professionale
e dopo approfondita valutazione, tema possano risultare dannose per la salute della persona, il
TSRM è tenuto a manifestare il proprio orientamento al medico radiologo. Nei casi di palese
richiesta incongrua egli ha diritto di astenersi, assumendosene diretta responsabilità.
8. - Rapporti con gli studenti dei Corsi di Laurea. 8.1.Il TSRM partecipa direttamente alle
attività formative dei rispettivi Corsi di Laurea. E’ responsabile degli insegnamenti tecnologici
e tecnici nonché degli aspetti storici, sociali, etici e deontologici della professione. Il TSRM
contribuisce alla formazione degli studenti anche attraverso un apposita attività tutoriale, di
addestramento pratico ed editoriale.
8.2.Per il TSRM gli studenti rappresentano il futuro della professione. Li accoglie e ad essi
dedica tempo ed attenzione garantendogli la trasmissione di conoscenze, competenze ed abilità
professionali. Il TSRM è responsabile degli atti compiuti dagli studenti a lui affidati.
Art. 1.… La non conoscenza delle norme non li preserva dalla responsabilità che
l’inosservanza comporta; ogni atto professionale o personale, anche se compiuto al di fuori
dell'ambito lavorativo, che sia in contrasto con i principi qui di seguito indicati, verrà
perseguito attraverso le procedure e le sanzioni previste dal Regolamento Disciplinare.
Art. 2. … Il TNPEE provvede alla conservazione dei dati personali del cui trattamento abbia
la responsabilità mediante l’adozione delle preventive misure di sicurezza individuate e
periodicamente aggiornate dalla vigente normativa in modo da ridurre al minimo i rischi di
distruzione o perdita degli stessi di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o
non conforme alle finalità della raccolta.
Terapista
occupazionale
Premessa … Il Codice Deontologico è la guida del Terapista Occupazionale per lo sviluppo
dell’identità professionale e per l’assunzione di comportamenti professionali eticamente
responsabili. È uno strumento che informa il cittadino sui comportamenti che può attendersi
dal Terapista Occupazionale.
… Il Terapista Occupazionale è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice, la cui
ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare.
A. RAPPORTI CON GLI UTENTI … A.2. Il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei
principi etici della professione sono condizioni essenziali per l’assunzione della responsabilità
dei processi riabilitativi di competenza del Terapista Occupazionale.
B. Responsabilità verso il paziente. …
F. Obblighi deontologici del Terapista Occupazionale a rapporto di lavoro dipendente o libero
professionale
F.5.Il Terapista Occupazionale assume responsabilità in base al livello di competenza
raggiunto e ricorre, se necessario, all’intervento e alla consulenza di esperti. Riconosce che
l’approccio multidisciplinare è la migliore possibilità per far fronte ai problemi dell’assistito;
riconosce altresì l’importanza di prestare consulenza, ponendo le proprie conoscenze, ed
abilità, a disposizione della comunità professionale.
60
F.6 Il Terapista Occupazionale riconosce i limiti delle proprie conoscenze e competenze e
declina la responsabilità quando ritenga di non poter agire con sicurezza. Ha il diritto e il
dovere di richiedere formazione e/o supervisione per pratiche nuove o sulle quali non ha
esperienza; si astiene dal ricorrere a sperimentazioni prive di guida che possano costituire
rischio per la persona. F.9. Dalla mancata partecipazione alla formazione continua discendono
responsabilità deontologiche e legali nei confronti dell’associazione e dei pazienti.
I.2.Il Terapista Occupazionale, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o
disservizi, provvede a darne comunicazione e per quanto possibile, a ricreare la situazione più
favorevole.
L. Pubblicità in materia sanitaria e informazione al pubblico
L.1.Il Terapista Occupazionale è responsabile dell'uso che si fa del suo nome, delle sue
qualifiche professionali e delle sue dichiarazioni.
Norme Finali. … Il Terapista Occupazionale è, e resta, responsabile dei propri atti.
Dallo studio della tabella 3.2 discendono svariate considerazioni analitiche.
Sul tema della responsabilità si soffermano tutti i codici deontologici delle
professioni sanitarie.
Si rilevano impostazioni diversificate, come risulta dalle seguenti osservazioni.
■ Vari codici usano il termine responsabilità per caratterizzare titoli o sezioni: è
il caso dell’assistente sanitario, del dietista, dell’educatore professionale,
dell’igienista dentale, del tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e
perfusione cardiovascolare, in parte anche del tecnico della riabilitazione
psichiatrica e del terapista occupazionale.
■ In alcuni casi la parola responsabilità è accompagnata da un aggettivo:
diretta, piena, personale, professionale, disciplinare. Alcuni aggettivi sono
meramente enfatici, alcuni esprimono peculiarità di approccio al tema.
● L’aggettivo “diretta” è adottato nei seguenti codici di deontologia:
fisioterapista
(art.
12),
ortottista
(art.
8),
tecnico
fisiopatologia
cardiocircolatoria (art. 1), tecnico della riabilitazione psichiatrica (capo III art.
4), tecnico sanitario di laboratorio biomedico (art. 17), tecnico sanitario
radiologia medica (art. 5.3). Si tratta di specificazione pleonastica, che, forse, è
stata introdotta per enfatizzare la responsabilità del professionista cui il codice
si riferisce.
● L’attributo “piena” figura nei seguenti codici deontologici: educatore
professionale (II - 4), fisioterapista (art. 6) tecnico di fisiopatologia
61
cardiocircolattoria e perfusione cardiovascolare (art. 3). Anche questa
specificazione è pleonastica; anch’essa, forse, è stata adottata per non porre
limiti alla responsabilità del professionista cui il codice si riferisce.
● L’aggettivo “personale” ricorre nei seguenti codici deontologici: tecnico di
fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare (art. 1); tecnico
della riabilitazione psichiatrica (capo III - art. 8). Si tratta di specificazione
superflua, che sta a sottolineare la responsabilità intrinsecamente in carico al
professionista.
● I seguenti codici deontologici configurano la responsabilità come
“professionale”: fisioterapista (art. 1), tecnico di neurofisiopatologia (art. 2),
tecnico sanitario di laboratorio biomedico (art. 16). Anche questo aggettivo,
ridondante, ha il mero significato di focalizzare e contestualizzare la
responsabilità.
● Alcuni codici deontologici focalizzano la responsabilità “disciplinare” del
professionista: dietista (premessa e capo VI), fisioterapista (art. 2), igienista
dentale (art. 50), podologo (art. 1), tecnico audiometrista (art. 2), tecnico di
neurofisiopatologia (art. 1), tecnico ortopedico (art. 1), tecnico sanitario di
laboratorio biomedico (art. 8), terapista occupazionale (premessa), nonché, con
un richiamo a sanzioni, terapista neuro e psicomotricità età evolutiva (art. 1
particolare)
● Altri codici deontologici citano la dimensione “etica” della responsabilità:
fisioterapista (art. 1), tecnico audioprotesista (art. 2), terapista occupazionale
(premessa).
● Un solo codice deontologico ricorda la responsabilità “giuridica”:
fisioterapista (art. 1); essa è citata per ricordarne il valore parziale, rispetto alle
altre dimensioni della responsabilità.
■ Alcuni codici deontologici considerano la responsabilità nei suoi termini
generali, altri ne considerano alcuni aspetti particolari, la maggior parte dei
codici si sofferma sia sui profili generali sia su alcuni particolari.
62
● Considerano solo gli aspetti generali i seguenti codici deontologici: ortottista,
podologo, tecnico audiometrista, tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro.
● Si esprime esclusivamente su un aspetto specifico il solo codice del
logopedista.
● Richiamano i profili generali ed almeno un aspetto specifico i seguenti codici
deontologici:
assistente
sanitario;
dietista;
educatore
professionale;
fisioterapista; igienista dentale; infermiere; ostetrica/o; tecnico audioprotesista;
tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; tecnico
di neuro-fisiopatologia; tecnico ortopedico; tecnico della riabilitazione
psichiatrica; tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di
radiologia medica; terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva;
terapista occupazionale.
■ Quanto alla scelta concettuale di fondo dei diversi codici deontologici sul
termine responsabilità, risulta che esso è inteso prevalentemente in senso
positivo ed in un minor numero di casi anche (o esclusivamente) in senso
negativo. Sull’argomento si tornerà con maggior dettaglio nel paragrafo
successivo.
● Quasi tutti i codici deontologici evidenziano la responsabilità intesa secondo
l’ottica positiva. Il linguaggio è di volta in volta diverso, ma i concetti sono
sovrapponibili: “responsabilità nell’esercizio della pratica professionale … allo
scopo di assicurare il corretto esercizio della professione” (assistente sanitario,
art. 1), “partendo da principi etici e valori che sono implicati nella relazione
educativa,
s'individuano
nell'esercizio
della
responsabilità,
professione
doveri
(educatore
e
impegni,
professionale,
art.
applicabili
1),
“la
responsabilità professionale intesa non solo nel suo significato giuridico ma,
anche, nel suo più autentico e profondo significato etico” (fisioterapista, art. 1),
“il fisioterapista rispetta e promuove, attivamente e responsabilmente, i diritti
63
fondamentali della persona umana” (fisioterapista, art. 3), “la responsabilità
dell'infermiere consiste nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della
persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità
dell'individuo” (infermiere, art. 3), “l’ostetrica/o assume responsabilità sulla
base delle competenze professionali acquisite … al fine di garantire le cure
adeguate alla persona in relazione a specifici obiettivi di salute” (ostetrica, art.
2.7), “il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi etici della
professione è condizione essenziale per l’assunzione delle responsabilità
inerenti la professione” (tecnico audioprotesista, art. 2), “la responsabilità del
tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare consiste
nell’applicare tecniche e metodiche adeguate al paziente” (tecnico di
fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, art. 3), “il TNFP
salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche da
utilizzare per la sua attività, ed è perciò responsabile della loro applicazione ed
uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che se ne ricavano”
(tecnico di neurofisiopatologia, art. 4), “il TSLB, quale soggetto attivo nella
determinazione
della
politica
professionale
e
sanitaria,
assume
un
atteggiamento responsabile nell’attuazione del diritto alla salute” (tecnico
sanitario di laboratorio biomedico, art. 25), “il TSRM, ritenendosi soggetto
attivo nella determinazione della politica professionale e sanitaria assume un
atteggiamento responsabile nell'attuazione del diritto alla salute” (tecnico
sanitario di radiologia medica, art. 2.4), “il rispetto dei diritti fondamentali
dell’uomo e dei principi etici della professione sono condizioni essenziali per
l’assunzione della responsabilità dei processi riabilitativi di competenza del
terapista occupazionale” (terapista occupazionale, A2). Tutti i già ricordati
codici deontologici che usano il termine responsabilità per caratterizzare titoli
o sezioni, adottano il concetto nella sua accezione positiva: sono da citare, in
quanto appena sopra non menzionati, i codici deontologici del dietista,
dell’igienista dentale, del tecnico della riabilitazione psichiatrica.
64
● Alcuni codici deontologici considerano, oltre all’ottica positiva della
responsabilità, anche quella negativa: si tratta sostanzialmente di quelli, già
citati, che menzionano la responsabilità disciplinare. Solo il codice deontologico
del tecnico ortopedico si esprime in termini di responsabilità solo e soltanto
negativa (disciplinare).
Data la peculiare scelta concettuale della codificazione deontologica dei
professionisti sanitari in relazione al termine responsabilità, che viene inteso
prevalentemente in senso positivo in relazione all’esercizio della professione,
conviene ricordare quanto già detto nel paragrafo 2 del capitolo 1, che cioè una
siffatta responsabilità scaturisce dal rispetto di quanto indicato nei quattro
punti seguenti:
1.
presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della
professione;
2.
valori etici condivisi e indicazioni che derivano dalla coscienza personale;
3.
regole della codificazione deontologica;
4.
norme di legge.
In questa sede, con riferimento ai codici deontologici, è sufficiente soffermarsi
sui primi due punti, poiché gli altri assumono rilievo e sono considerati in altre
parti di questa tesi.
In merito al punto 1, i codici deontologici condividono e raccomandano il
principio di erogare interventi basati sulle prove di efficacia e sulla ricerca
scientifica. Alcuni codici sono invero relativamente criptici. I passi più espliciti
nei vari codici deontologici sono i seguenti: “l’A.S. si impegna a svolgere la
propria professione secondo principi e metodi scientificamente corretti e
validati … (assistente sanitario, art. 5), “il dietista verifica costantemente che il
suo intervento nutrizionale sia fondato su dati scientificamente validati e
aggiornati e/o basati sulle linee guida nazionali ed internazionali (dietista, art.
65
2), “l’esercizio professionale deve essere animato da rigore metodologico e
rispondere alle continue acquisizioni scientifiche inerenti il campo di
competenza. Il fisioterapista ha il dovere di promuovere e utilizzare
metodologie e tecnologie la cui efficacia e sicurezza siano state scientificamente
validate” (fisioterapista, art. 20), “l'infermiere fonda il proprio operato su
conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione
permanente, la riflessione critica sull'esperienza e la ricerca (infermiere, art. 11),
“la condivisione tra colleghi delle esperienze professionali e dei risultati di
ricerca e di validazione terapeutica è obbligo del logopedista e favorisce
l'evoluzione e la promozione della logopedia” (logopedista, art. 14 – 8),
“l’ostetrica/o si attiva per garantire un’assistenza scientificamente validata ed
appropriata ai livelli di necessità...” (ostetrica, 3.3), “il podologo nell’esercizio
della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche della podologia …”
(podologo, art. 4), “l’esercizio professionale deve essere animato da rigore
metodologico e rispondere alle continue acquisizioni scientifiche inerenti il
campo di competenza” (tecnico riabilitazione psichiatrica, titolo II capo III art.
7), “l’audiometrista ha l'obbligo dell'aggiornamento e formazione professionale
permanente al fine di mantenere la propria competenza professionale a livelli
ottimali mediante idoneo aggiornamento nel campo della ricerca scientifica
audiologica ed interdisciplinare, nonché professionale in risposta alle esigenze
sociali
(tecnico
audiometrista,
art.
5),“il
tecnico
di
fisiopatologia
cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare deve mantenere e migliorare le
proprie conoscenze, tenendosi continuamente aggiornato dei progressi tecnici
al fine di garantire l’applicazione di metodologie e tecnologie scientificamente
validate, efficaci e sicure” (tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e
perfusione cardiovascolare, art. 1), “l’esercizio professionale deve essere
animato da rigore metodologico e adeguato alle continue acquisizioni
scientifiche inerenti al campo di propria competenza” …(tecnico sanitario di
laboratorio biomedico, art. 18), “nell’esercizio della professione il TSRM valuta
ed agisce sulla base di evidenze scientifiche” (tecnico sanitario di radiologia
66
medica, 2.10), “il terapista occupazionale nell'esercizio della professione deve
attenersi alle conoscenze scientifiche …” (terapista occupazionale, D.2).
Il professionista sanitario responsabile deve quindi ispirarsi alle più recenti e
migliori indicazioni scientifiche, prodotte dalle revisioni sistematiche della
letteratura accreditata, in materia di efficacia e sicurezza della propria attività.
Tale attività può essere guidata anche da protocolli e linee guida; si tratta di
strumenti di lavoro che non hanno valore assoluto e permanente nel tempo,
sicché le loro indicazioni devono essere integrate con evidenze scientifiche
eventualmente sopravvenute rispetto alla loro stesura.
Quanto al punto 2, i codici deontologici esprimono la consapevolezza che il
professionista sanitario sempre più spesso svolge la propria attività in
situazioni complesse, in rapporto non solo ad ambiti particolarissimi, proposti
dal continuo progresso scientifico, ma anche a specifiche condizioni legate alla
dignità ed alle volontà della persona assistita e che, in queste condizioni, il
professionista si trovi a prendere decisioni per le quali è necessario che egli
abbia chiari i valori etici di riferimento e la loro gerarchia, quando
eventualmente entrino in reciproco conflitto.
I codici deontologici più espliciti in argomento riportano i seguenti passi:
“l’A.S. è tenuto a fornire ai colleghi con cui collabora informazioni sulle
specifiche competenze e sulla metodologia applicata e chiede il rispetto delle
norme etiche e deontologiche sottese alla professione” (assistente sanitario, art.
5.6), “il Dietista, nel caso di situazioni in contrasto con la coscienza personale e
i principi etici che regolano la professione, s’impegna a trovare la soluzione
operativa più idonea nel rispetto dell’autonomia e della dignità della persona”
(dietista, art. 2); “… partendo da principi etici e valori che sono implicati nella
relazione educativa, s'individuano responsabilità, doveri e impegni, …”
(educatore professionale, art. 1), “il fisioterapista valorizza la relazione di cura
riconoscendola quale luogo privilegiato in cui si incontrano forti istanze etiche,
67
umane e civili” (fisioterapista, art. 10), “il rispetto dei diritti fondamentali
dell'uomo e dei principi etici della professione, è condizione essenziale per
l'esercizio
della
professione
infermieristica”
(infermiere,
art.
5),
“il
comportamento dell’ostetrica/o si fonda sul rispetto dei diritti umani
universali, dei principi di etica clinica e dei principi deontologici della
professione” (ostetrica, 2.2), “il podologo nell’esercizio della professione deve …
ispirarsi ai valori etici fondamentali assumendo come principio il rispetto della
salute fisica, della libertà e della dignità della persona: non deve soggiacere a
interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura” (podologo, art. 4),
“anche al di fuori dell’esercizio professionale, il TeRP è tenuto sempre ad
osservare un comportamento che sia moralmente ed eticamente irreprensibile”
(tecnico della riabilitazione psichiatrica, titolo II capo I), “il rispetto dei diritti
fondamentali della persona e dei principi etici della professione è condizione
essenziale per l’assunzione delle responsabilità inerenti la professione” (tecnico
audioprotesista, art. 2), “… si ricorda che la reputazione del il tecnico di
fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare è fondata sulla sua
competenza ed integrità ed è tenuto ad osservare sempre un comportamento
che sia moralmente ed eticamente irreprensibile (tecnico di fisiopatologia
cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, art. 2), “una retta condotta
professionale deve sempre ispirarsi a principi etici ed a doveri sociali che
rappresentano il sicuro patrimonio etico morale di ogni coscienza onesta”
(tecnico ortopedico, premessa), “di fronte ai molteplici e crescenti dilemmi etici
posti da società, scienza e tecnologia, tra le risposte proposte dai possibili
orientamenti
di
riferimento
(etico,
religioso,
scientifico,
normativo,
professionale, culturale ed economico), il TSRM sceglie quella che soddisfa
dignità, libertà e bisogni di salute della persona” (tecnico sanitario di radiologia
medica, 2.13), “anche al di fuori dell’esercizio professionale, il TSLB è tenuto ad
osservare un comportamento moralmente ed eticamente irreprensibile” (tecnico
sanitario di laboratorio biomedico, art. 12), “il terapista occupazionale
nell'esercizio della professione deve … ispirarsi ai valori etici fondamentali,
68
assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica,
della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere a interessi,
imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura” (terapista occupazionale, D.2).
I vari disposti, globalmente considerati, offrono alcuni spunti di riflessione.
Sono svariate le situazioni che, nella pratica professionale, impongono di
considerare questioni etiche di rilievo; ai correlati problemi occorre fornire
risposte razionali, meditate, rispettose del punto di vista della persona assistita.
Tali risposte sono frutto di dialogo e di analisi piuttosto che di prese di
posizione irrazionali ed emotive o basate sulla prassi acritica o su banali luoghi
comuni.
Le decisioni del professionista sanitario devono avere uno sviluppo logico,
orientato in base a valori e principi che ogni professionista deve avere chiari,
ponderati e non legati all’emozione del momento. Tali principi e valori sono da
considerare quali criteri-guida per affrontare ogni singolo caso, e non
costituiscono certo preconcetti rigidi, che portano a effettuare scelte sempre
uguali in ogni situazione in qualche modo simile, operando per schemi
inflessibili, senza tener conto delle peculiarità di ogni singola persona e di ogni
singola vicenda, le quali, invece, vanno valorizzate.
È possibile operare una integrazione di ciò che è indicato in 1 con quanto
riportato in 2. Infatti, i principi lì richiamati possono, almeno in parte,
corrispondere all’adagio del comportarsi secondo scienza e coscienza. Tale
espressione tradizionale, radicata nella cultura medica, è di grande significato,
purché non sia utilizzata come se fosse una formula magica o, peggio, un
principio apodittico al quale non è possibile contrapporre alcuna obiezione,
come spesso fanno taluni professionisti della salute per giustificare i loro
comportamenti discutibili e dei quali non sono in grado di precisare presupposti
etici e/o scientifici. Quando si usa tale formula, occorre chiarire le prove di
efficacia e i principi etici che ne giustificano l’uso nella specifica circostanza;
69
conseguentemente, in altre parole e con taglio critico: quale scienza e quale
coscienza sono evocate da chi adotta questa espressione?
4. Quale responsabilità nei codici deontologici?
Come già indicato nel paragrafo 1 del capitolo 1, la parola “responsabilità” ha,
dal punto di vista generale, una duplice accezione: da un lato, quella di essere
chiamati a rispondere ad una qualche autorità di una condotta riprovevole,
dall’altro lato, quella di impegnarsi per mantenere un comportamento congruo
e corretto. L’aspetto primo indicato della responsabilità rispecchia una
concezione del termine che nasce da un’ottica “negativa”, in contrapposizione a
quella che deriva dal punto di vista “positivo” dell’essere responsabili,
dell’assumersi cioè le responsabilità che l’esercizio professionale comporta. Nel
primo caso, il concetto di responsabilità rientra in un’ottica “negativa”, perché
l’essere chiamati a rispondere, davanti a un’autorità giudicante, avviene quando
ormai l’errore o l’omissione è stato commesso: è una responsabilità che si
concretizza a posteriori senza aver più la possibilità di porre rimedio all’errore
o all’omissione e consiste in una valutazione imposta dall’esterno e operata da
un soggetto diverso dal professionista, cosicché il professionista, passivamente
coinvolto, può non percepire il significato di tale valutazione, che è pertanto
priva di qualsiasi valore pedagogico. Nel secondo caso, il concetto di
responsabilità si colloca in un’ottica “positiva”, perché corrisponde alla
consapevolezza degli obblighi connessi con lo svolgimento di un incarico: è una
responsabilità che si concretizza per il professionista durante la fase di
esecuzione delle proprie funzioni e ancor prima nel corso della progettazione
dell’attività, consiste nell’impegno dello stesso soggetto a operare con
competenza e rigore metodologico ed è volta a non determinare omissioni o
errori.
Ognuno dei due significati ora commentati corrisponde ad uno specifico
obiettivo della codificazione deontologica: pedagogico da un lato e
70
sanzionatorio dall’altro. Ciascuno dei due obiettivi è espressione di un diverso
aspetto dello spirito di qualsivoglia codice deontologico:
1.
di guida, nello svolgimento intrinseco dell’attività professionale;
2.
di repressione, allorché la condotta professionale non sia consona al
dettato del codice deontologico.
Nei vari codici deontologici, ciascuno dei due aspetti è presente in modo
equilibrato; altre volte, nei diversi testi, si constata la prevalenza dell’uno o
dell’altro aspetto.
In linea generale, il secondo aspetto può essere identificato nella locuzione di
“responsabilità disciplinare”. Più difficile è qualificare con una terminologia
consueta e condivisa il primo aspetto, che corrisponde comunque ad una
“responsabilità professionale”, nel senso che è intimamente legata all’esercizio
professionale, ma questa locuzione ha in genere significato più estensivo e l’uso
di responsabilità professionale nell’accezione per cui è ora proposta non sarebbe
quindi inteso in questa stessa circostanziata accezione dall’interlocutore.
Un’espressione come “responsabilità clinica”, pur se di portata limitata rispetto
all’estensione delle funzioni delle professioni sanitarie – funzioni che non sono
applicate solo alla clinica – potrebbe essere più adeguata.
Non tutti i codici deontologici si soffermano sulla responsabilità disciplinare.
Ciò non vuol dire che la responsabilità disciplinare del professionista sia priva
di valore: è attendibile che nella stesura di alcuni codici si sia scelto di evitare di
enfatizzare una terminologia che paradossalmente potrebbe condurre a
condotte non adeguate a garantire il corretto esercizio professionale. Conferire
risalto alla responsabilità nella sua dimensione disciplinare, infatti, può indurre
nel professionista sanitario preoccupazione particolare per questa dimensione,
inducendolo ad ispirare la propria attività all’obiettivo di evitare sanzioni e, di
conseguenza, a svolgere la professione in modo difensivo, al fine di correre
71
rischi personali, portandolo così ad attivarsi il meno possibile ed a porre le
proprie esigenze di tutela prima della salute dell’assistito.
È comunque da considerare che ben diverse sono le conseguenze delle sanzioni
disciplinari che provengano da un collegio rispetto a quelle comminate da una
associazione.
Le uniche quattro professioni sanitarie raccolte in collegio sono: infermieri ed
infermieri pediatrici (entrambi IPASVI), ostetriche e tecnici sanitari di
radiologia medica. Le sanzioni disciplinari comminabili a questi professionisti
sono contemplate dal D.P.R. 5 aprile 1950, n.221 “Approvazione del
regolamento per la esecuzione del decreto legislativo 13 settembre 1946, n.
233, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la
disciplina dell'esercizio delle professioni stesse”. Di specifico interesse è il capo
IV, che tratta “delle sanzioni disciplinari e del relativo procedimento” e
comprende gli articoli da 38 a 52. Di seguito si riportano solo alcuni di questi
articoli.
Art.38. I sanitari che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della professione o, comunque, di
fatti disdicevoli al decoro professionale, sono sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Consiglio
dell'Ordine o Collegio della provincia nel cui Albo sono iscritti. Il procedimento disciplinare é promosso
d'ufficio o su richiesta del prefetto o del procuratore della Repubblica.
Art.40. Le sanzioni disciplinari sono:
1. l'avvertimento, che consiste nel diffidare il colpevole a non ricadere nella mancanza commessa;
2. la censura, che é una dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa;
3. la sospensione dall'esercizio della professione per la durata da uno a sei mesi, salvo quanto é stabilito dal
successivo art. 43;
4. la radiazione dall'Albo.
Art.41. La radiazione é pronunciata contro l'iscritto che con la sua condotta abbia compromesso gravemente la
sua
reputazione e la dignità della classe sanitaria.
Art.42. La condanna per uno dei reati previsti dal Codice penale negli artt. 446 (commercio clandestino o
fraudolento di sostanze stupefacenti), 548 (istigazione all'aborto), 550 (atti abortivi su donna ritenuta incinta) e
per ogni altro delitto non colposo, per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore nel
minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, importa di diritto la radiazione dall'Albo.
Importano parimenti la radiazione di diritto dall'Albo:
a) l'interdizione dai pubblici uffici, perpetua o di durata superiore a tre anni, e la interdizione dalla professione
per una uguale durata;
72
b) il ricovero in un manicomio giudiziario nei casi indicati nell'art. 222, secondo comma, del Codice penale;
c) l'applicazione della misura di sicurezza preventiva preveduta dall'art. 215 del Codice penale, comma secondo,
n. 1 (assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro).
La radiazione nei casi preveduti dal presente articolo, é dichiarata dal Consiglio.
Art.43. Oltre i casi di sospensione dall'esercizio della professione preveduti dalla legge, importano di diritto tale
sospensione:
a) la emissione di un mandato o di un ordine di cattura;
b) l'applicazione provvisoria di una pena accessoria o di una misura di sicurezza ordinata dal giudice, a norma
degli artt. 140 e 206 del Codice penale;
c) la interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a tre anni;
d) l'applicazione di una delle misure di sicurezza detentive prevedute dall'art. 215 del Codice penale, comma
secondo, nn. 2 e 3 (ricovero in una casa di cura e di custodia o ricovero in manicomio giudiziario);
e) l'applicazione di una delle misure di sicurezza non detentive prevedute nel citato art. 215 del Codice penale,
comma terzo, nn. 1, 2, 3 e 4 (libertà vigilata - divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche - espulsione dello straniero dallo Stato).
Non è previsto nel D.P.R. 221 un principio analogo a quello di tipicità (o
tassatività) che ispira il codice penale (art. 1), che prevede, tra l’altro, che siano
specificate le sanzioni corrispondenti ai singoli reati.
Le sanzioni disciplinari contemplate dall’art. 40 del D.P.R. 221 sono
l’avvertimento, la censura, la sospensione (da uno a sei mesi) dall’esercizio della
professione, e la radiazione. Solo circa quest’ultima sanzione sono indicati i
criteri generali da adottare per la sua applicazione. L’art. 41 recita infatti: “la
radiazione è pronunciata contro l’iscritto che con la sua condotta abbia
compromesso gravemente la sua reputazione e la dignità della classe sanitaria”.
Nei codici deontologici delle professioni con collegio, le sole alle quali è
applicabile il D.P.R. 221, il tema della responsabilità disciplinare o è ignorato,
come nel codice deontologico dell’infermiere, o è trattato in modo
assolutamente sintetico, senza comunque esplicitare la normativa di
riferimento, che è evidentemente data per pacifica. È il caso dei codici
dell’ostetrica e del tecnico sanitario di radiologia medica, i passi di interesse dei
quali sono rispettivamente i seguenti:
art. 23. Le norme deontologiche contenute nel presente Codice sono vincolanti;
la loro inosservanza è sanzionata dal Collegio professionale;
73
art. 1.3 L'inosservanza di quanto previsto dal presente Codice deontologico e
ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio
della professione, sono punibili con le sanzioni disciplinari previste dalle norme
vigenti.
Comunque, se è vero che due codici deontologici richiamano, sia pur
implicitamente il D.P.R. 221, è pure vero che in nessun passo di questo D.P.R.
sono menzionati i codici deontologici delle professioni (in genere; quindi anche
delle sanitarie).
In tabella 3.3 sono riportate le diciotto professioni sanitarie prive di collegio e
le indicazioni dei rispettivi codici deontologici con le integrazioni provenienti
dai rispettivi statuti o da altri documenti riconducibili allo statuto o al codice
deontologico.
Si evidenzia un quadro di particolare interesse.
Quasi tutti i 18 codici deontologici – ad eccezione di quelli dell’educatore
professionale e del tecnico di neurofisiopatologia – indicano, per se con diverse
formule, che l'inosservanza dei precetti del codice deontologico è punita con
sanzioni disciplinari.
I 3 seguenti codici deontologici elencano le sanzioni:
▪ dietista: censura verbale, censura scritta, sospensione temporanea dallo status
di socio, espulsione dall’associazione;
▪ logopedista: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza commessa),
censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa), sospensione
temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito da uno a sei
mesi, radiazione dall'albo professionale, in caso di reati previsti dal codice
penale;
▪ tecnico audiometrista: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza
commessa), censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa),
sospensione temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito
da uno a sei mesi [non è contemplata alcuna espulsione – radiazione].
74
Quasi tutti i rimanenti 13 codici deontologici – tranne quello del fisioterapista;
sibillino è quello del tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di
lavoro – rinviano allo statuto dell’associazione o ad altro documento
regolamentare che integra il codice deontologico.
Di questi codici, solo 4 evidenziano la necessità che le sanzioni siano
proporzionate alla gravità della violazione delle norme deontologiche; si tratta
dei seguenti: dietista, tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di
lavoro, tecnico ortopedico, terapista occupazionale.
Quanto ai vari statuti ed alle altre norme regolamentari di rinvio, è possibile
trarre i dati appresso riportati. È da indicare preliminarmente che non è stato
possibile recuperare lo statuto delle associazioni di riferimento di tecnico
ortopedico e tecnico della riabilitazione psichiatrica, nonché l’allegato allo
statuto (che contiene i dati di interesse) dell’associazione dei terapisti
occupazionali. La valutazione che segue riguarda dunque i rimanenti 15 statuti
(18 professioni sanitarie senza collegio meno le 3 predette).
Si procede nell’analisi degli statuti secondo lo stesso schema adottato per i
codici deontologici.
Non sempre nello statuto sono indicate espressamente le sanzioni; in
particolare risultano questi dati espliciti negli statuti delle varie professioni:
▪ assistente sanitario: cessazione (perdita della qualifica di socio a causa di
comportamenti comunque riprovevoli sul piano etico e deontologico) e
sospensione (per un periodo non superiore all’anno);
▪ educatore professionale: ammonizione (richiamo formale all'osservanza dei
doveri e invito a non ripetere quanto commesso), censura (per abusi o
mancanze, compiuti senza dolo, lesivi del decoro e della dignità della
professione), sospensione dall'esercizio di cariche associative al massimo di due
anni (per violazioni del codice deontologico, di grave nocumento per
utenti/clienti o enti, e/o con risonanza negativa per il decoro e la dignità della
professione; a seguito di procedimenti giudiziari pendenti di natura penale),
75
radiazione dall'associazione (di durata non superiore a tre anni, per violazione
del codice deontologico e/o comportamento non conforme al decoro e alla
dignità della professione di gravità tali da rendere incompatibile la permanenza
nel libro dei soci; per l’intero periodo previsto dalla sentenza nel caso di
condanna con sentenza passata in giudicato a pena detentiva per fatti commessi
nell'esercizio della professione);
▪ ortottista-assistente in oftalmologia: richiamo, deplorazione, espulsione;
▪ podologo: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza commessa),
censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa), sospensione
dall’esercizio della professione (per la durata in genere da 1 a 6 mesi a seconda
della gravità del caso), espulsione o radiazione dall’associazione (quando con la
sua condotta l’iscritto abbia gravemente compromesso la sua reputazione e la
dignità dei podologi italiani);
▪ tecnico audiometrista: richiamo scritto, censura, espulsione (analogamente a
quanto già riportato in relazione al codice deontologico);
▪ tecnico audioprotesista: richiamo scritto, censura, espulsione;
▪ tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare:
avvertimento (richiamo al colpevole sulla mancanza commessa invitandolo a
non ricadervi), ammonizione (dichiarazione formale della mancanza commessa
e del biasimo incorso), espulsione (l’esclusione definitiva dall’associazione);
▪ tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro: ammonizione:
(richiamo scritto sull’osservanza dei doveri e diffida a non ripetere il fatto),
censura (dichiarazione di biasimo), sospensione temporanea (durata massima 6
mesi) dall’associazione, radiazione (espulsione definitiva dall’associazione);
▪ tecnico sanitario di laboratorio biomedico: ammonizione verbale, biasimo
scritto, censura, sospensione dallo status di socio fino a un massimo di 12 mesi,
proposta di esclusione al consiglio direttivo (la proposta di esclusione può
accompagnarsi al provvedimento di sospensione);
76
▪ terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva: esclusione (gravi
violazioni delle norme dello statuto o atti incompatibili con i fini
dellʼassociazione).
Ricordato che per 3 professioni sanitarie le sanzioni sono menzionate nel codice
deontologico, risulta in definitiva un quadro estremamente eterogeneo quanto a
denominazione delle sanzioni, comunque facilmente riconducibile a 3-4 gradi di
gravità dei provvedimenti, gradi che tendono a ripetersi simili nei vari statuti o
codici deontologici.
Ciò che conta, nella pratica, è che, comunque, qualsiasi sanzione, anche la più
severa ha conseguenze solo e soltanto nei rapporti fra il professionista e la
propria associazione e non incide sulla sua attività professionale. Ciò ben
diversamente da quanto accade per i professionisti con collegio, sui quali
incombono sanzioni disciplinari che hanno ripercussioni sull’esercizio della
professione.
Risulta comunque che per 3 delle professioni sanitarie senza collegio, né i codici
deontologici né gli statuti delle associazioni di riferimento descrivono i
provvedimenti disciplinari comminabili: fisioterapista, igienista dentale e
tecnico di neuro fisiopatologia. Per le 3 professioni sanitarie, dello statuto delle
quali non si dispone, il codice deontologico nulla riporta circa le tipologie di
sanzioni.
In alcuni statuti è evidenziata la necessità che le sanzioni siano proporzionate
alla gravità della violazione; si tratta dei seguenti: educatori professionale,
podologo (il testo è criptico, il principio riguarda solo la sanzione della
sospensione) tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, tecnico di
fisiopatologia cardiocircolatoria e
perfusione cardiovascolare, tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro (si reitera quanto scritto nel codice deontologico), tecnico
sanitario di laboratorio biomedico, terapista delle neuropsicomotricità (anche
qui il testo è criptico: l’esclusione riguarda gravi violazioni).
77
Due statuti esprimono un dettaglio ulteriore, indicando i criteri ai quali riferirsi
per comminare tipo ed entità della sanzione. Si tratta degli statuti
dell’educatore professionale e del tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro. Essi individuano gli stessi criteri, con una piccola differenza
lessicale (non concettuale) nell’ultima voce:
- intenzionalità del comportamento;
- grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità
dell'evento;
- responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
- grado di danno o di pericolo causato;
- presenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
- concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro;
- recidiva (educatore professionale) - recidiva e/o reiterazione (tecnico per la
prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro).
Risulta che per le seguenti professioni sanitarie senza collegio professionale, né
i codici deontologici né gli statuti delle associazioni di riferimento esprimono il
principio della proporzionalità fra sanzione e gravità della violazione: assistente
sanitario, fisioterapista, igienista dentale, logopedista, ortottista-assistenti in
oftalmologia e tecnico di neuro fisiopatologia. Per le 3 professioni sanitarie,
dello statuto delle quali non si dispone, il codice deontologico nulla dice circa il
principio di proporzionalità.
Tabella 3.3 – Codici deontologici delle professioni sanitarie che non dispongono di
collegio e sanzioni disciplinari
Codice e
professione
Codice deontologico
-- codice etico
dell’’assistente
sanitario
Sanzioni previste dal codice
Statuto ed eventuali regolamenti integrativi
Art.10. Sanzioni disciplinari.
1. L’inosservanza delle
disposizioni del presente C.D.-C.E.
è sanzionata con i provvedimenti
previsti dall’art. 4, lett. c) e d) dello
Statuto.
Statuto.
Art.4. … c) Cessazione. La qualifica di socio si
perde:
a) per dimissioni volontarie;
b) per morosità persistente dopo sollecito;
c) a causa di comportamenti contrari allo spirito e
alle regole dell’Associazione, o comunque
riprovevoli sul piano etico e deontologico.
I provvedimenti comportanti la cessazione,
78
Codice deontologico
del dietista
Codice deontologico
degli educatori
professionali
Capo VI. Responsabilità
disciplinare e sanzioni . 2. … In
caso di accertata violazione degli
impegni assunti dal socio ai sensi
dell’art. 10 dello Statuto, il
Collegio irroga le sanzioni
disciplinari.
3. Le sanzioni sono adeguate e
proporzionate alla violazione delle
norme deontologiche e degli
impegni disciplinati dallo Statuto e
dal Codice etico; devono tenere
conto della reiterazione dei
comportamenti nonché delle
specifiche circostanze, soggettive e
oggettive, che hanno concorso a
determinare l’infrazione.
Sono previste le seguenti sanzioni:
- censura verbale
- censura scritta
- sospensione temporanea dallo
status di socio
- espulsione dall’associazione nei
casi di maggiore gravità
provvisti di motivazione, sono di competenza dei
Consigli Direttivi. …
d) Sospensione. Per le cause sub b) e c) previste
per la cessazione, il socio può, sempre per
decisione del competente Consiglio Direttivo,
essere sospeso per un periodo non superiore
all’anno. Avverso a tale provvedimento il socio ha
le stesse facoltà previste per la cessazione e simili
le procedure.
Statuto.
Art. 19. Collegio dei Probiviri. Il Collegio dei
Probiviri … delibera in seduta segreta sulla
irrogazione delle sanzioni disciplinari. …
Art. 20. Sanzioni disciplinari. In caso di accertata
violazione degli impegni assunti dall’iscritto ai
sensi dell’art. 9 del presente regolamento, il
Collegio dei Probiviri irroga la sanzione della
censura verbale o
scritta.
Nei casi di maggiore gravità può decidere
l’espulsione dall’Associazione.
Avverso tale decisione è ammesso ricorso scritto
all’Assemblea da presentarsi entro trenta giorni al
Segretario che provvederà alla convocazione nei
successivi novanta giorni.
Regolamento Approvato dall’Assemblea
Nazionale dei delegati (Lucca 18 aprile 2009)
Art. 1. Sanzioni. 1. Alla socia ed al socio
dell'associazione che si rende colpevole di abuso o
mancanza nell'esercizio della professione o che
comunque tiene un comportamento non conforme
alle norme del Codice Deontologico, al decoro o
alla dignità della professione viene inflitta, tenuto
conto della gravita del fatto, una delle seguenti
sanzioni:
a) ammonizione;
b) censura;
c) sospensione dall'esercizio di cariche associative
d) radiazione dall'associazione.
2. Il tipo e l'entità di ciascuna sanzione sono
determinati in relazione ai seguenti criteri:
- intenzionalità del comportamento;
- grado di negligenza, imprudenza, imperizia,
tenuto conto della prevedibilità dell'evento;
- responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
- grado di danno o di pericolo causato;
- presenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
[Nessuna indicazione]
79
- concorso fra più professioni e/o operatori in
accordo tra loro;
- recidiva.
Art. 2 – Ammonizione. 1. La sanzione
dell'ammonizione viene inflitta nei casi di abusi o
mancanze di lieve entità, compiuti senza dolo, che
non hanno comportato riflessi negativi sul decoro
e sulla dignità della professione; consiste nel
richiamo formale dell'interessata/o all'osservanza
dei suoi doveri e nell'invito a non ripetere quanto
commesso. …
Art. 3. Censura. 1. La sanzione della censura è
inflitta nei casi di abusi o di mancanze, compiuti
senza dolo, che siano lesivi del decoro e della
dignità della professione. …
3. Tre provvedimenti di censura comportano
d'ufficio la sospensione dall'esercizio dalle cariche
associative per un periodo non inferiore a 90
giorni.
Art. 4 . Sospensione. 1. La sospensione dalle
cariche dell’Associazione avviene anche in caso di
condanna con l’applicazione degli articoli 19 e 35
del Codice Penale. Essa ha durata per tutto il
tempo stabilito dal giudice. Il Consiglio direttivo
nazionale si limita a prenderne atto.
2. La sanzione della sospensione dalle cariche
dell’Associazione è inflitta fino al massimo di due
anni:
a) per violazioni del codice deontologico, che
possano arrecare grave nocumento a
utenti/clienti o enti, e/o una risonanza negativa
per il decoro e la dignità della professione;
b) a seguito di procedimenti giudiziari pendenti di
natura penale.
3. Nei casi di maggiore gravità, la sanzione della
sospensione può essere inflitta in via cautelare
provvisoria al momento dell'apertura del
procedimento disciplinare in specie quando il
procedimento viene iniziato su rapporto della
Procura della Repubblica e comunque dopo aver
sentito la parte interessata.
4. Tre provvedimenti di sospensione comportano
la radiazione dall'Associazione.
Art. 5 – Radiazione. 1. La radiazione
dall'associazione avviene nel caso d’interdizione
dalla professione come previsto e regolato dagli
artt. 19 comma 1 e 2, e art. 30 e 31 del Codice
Penale. Il consiglio direttivo nazionale si limita a
prenderne atto.
2. La sanzione della radiazione dall’associazione
viene inflitta:
a. nei casi di violazione del codice deontologico
e/o di comportamento non conforme al decoro e
alla dignità della professione di gravità tali da
rendere incompatibile la permanenza nel libro dei
80
Codice deontologico
dei fisioterapisti
Art. 2. Responsabilità disciplinare.
La violazione delle regole di
condotta contenute nel presente
Codice Deontologico è fonte di
responsabilità disciplinare che
integra le eventuali ulteriori
sanzioni previste dalle norme
giuridiche e dai contratti di lavoro.
Codice deontologico
degli igienisti
dentali
49. L'inosservanza dei precetti e
degli obblighi fissati dal presente
Codice deontologico e ogni azione
od omissione comunque non
consone al decoro o al corretto
esercizio della professione, sono
punibili con le procedure
disciplinari e relative sanzioni
previste nell'apposito
Regolamento dell’AIDI. Il
procedimento disciplinare è
promosso d'ufficio.
Art.3. Ogni atto professionale o
personale, anche se compiuto al di
fuori dell'ambito lavorativo, che sia
in contrasto con i principi qui di
seguito indicati, verrà perseguito
con le sanzioni disciplinari
previste dalle leggi vigenti.
Art.19. Visto il D.P.R. n.221 del 5
aprile 1950, le sanzioni disciplinari
previste sono:
Codice deontologico
del logopedista
81
soci. La radiazione ha una durata non superiore a
tre anni;
b. nel caso di condanna con sentenza passata in
giudicato a pena detentiva per fatti commessi
nell'esercizio della professione, la radiazione ha
durata per l’intero periodo previsto dalla sentenza
di condanna.
3. La sanzione della radiazione comporta la
contestuale cancellazione dall’elenco dei soci
dell’Associazione, fermo restando l'obbligo per
l'iscritto a corrispondere le quote di iscrizione
dovute per il periodo in cui è stato iscritto. …
Art. 6 – Incompatibilità. 1. Le sanzioni
disciplinari della censura, della sospensione e
della radiazione dall'associazione non sono
deontologicamente compatibili con l'assunzione
e/o il mantenimento delle cariche previste dallo
statuto dell’Associazione stessa, sia a livello
nazionale che regionale. …
[Nessun rinvio del codice deontologico ad altre
fonti associative]
Statuto.
Art. 16. Del collegio dei probiviri e dei
procedimenti relativi alla comminazione dei
provvedimenti disciplinari. … 9. Il Collegio
giudicherà con libertà di forma, previa specifica
contestazione degli addebiti disciplinari ed
emetterà la sua decisione a maggioranza, con
motivazione in fatto e diritto. L’associato
sottoposto a procedimento potrà presentare
scritti difensivi e documenti e chiedere di essere
sentito dal Collegio; egli inoltre potrà farsi
assistere da un suo rappresentante.
Regolamento nazionale (approvato dal Consiglio
Direttivo nella seduta del 16.12.2009)
Art. 12: Attività del Comitato dei Probiviri
… Il Comitato dei Probiviri viene chiamato a
pronunciarsi, con le modalità infra indicate, nei
seguenti casi e circostanze:
… d) espressione di parere consultivo in ipotesi di
apertura di procedimenti disciplinari a carico dei
Soci.
[Nessun rinvio del codice deontologico ad altre
fonti associative]
Statuto
[Nessuna indicazione utile]
Codice deontologico
degli ortottisti assistenti in
oftalmologia
Codice deontologico
ed etico dei podologi
1) l'avvertimento, che comporta
diffida a non ricadere nella
mancanza commessa;
2) la censura, che comporta
dichiarazione di biasimo per la
mancanza commessa;
3) la sospensione temporanea
dall'esercizio della professione per
un tempo definito da uno a sei
mesi;
4) la radiazione dall'Albo
Professionale, in caso di reati
previsti dal Codice Penale.
…
Art. 48. L'Ortottista - Assistente
in Oftalmologia che violasse le
norme del presente Codice
Deontologico è sottoposto a
procedimento disciplinare secondo
le modalità previste dal vigente
Statuto.
Art. 2. Potestà disciplinare –
Sanzioni . L’ inosservanza dei
precetti, degli obblighi e dei divieti
fissati dal presente Codice di
Deontologia e ogni azione od
omissione, comunque disdicevoli al
decoro e al corretto esercizio della
professione, sono punibili dagli
Organi istituzionali
dell’Associazione secondo quanto
previsto dall’Allegato A.
82
Statuto.
Art.24. Misure disciplinari. Il Collegio può
applicare le seguenti misure disciplinari:
richiamo;
deplorazione;
espulsione.
Il Segretario del Collegio trasmetterà copia del
verbale delle misure adottate al Presidente e al
Segretario dell’AIOrAO.
Allegato “A” – Procedimenti disciplinari e
sanzioni relative.
Art. 1. I podologi che si rendono colpevoli di
abusi o mancanze nell’esercizio della professione
o comunque di fatti disdicevoli al decoro
professionale e deontologicamente censurabili,
sono sottoposti a procedimento disciplinare da
parte del Consiglio direttivo dell’Associazione
professionale.
Art. 6. Le sanzioni disciplinari applicabili sono:
l’avvertimento, che consiste nel diffidare il
colpevole a non ricadere nella mancanza
commessa;
la censura, che è una dichiarazione di biasimo per
la mancanza commessa;
la sospensione dall’esercizio della professione per
la durata da … a ... (in genere da 1 a 6 mesi a
seconda della gravità del caso);
l’espulsione o radiazione dall’Associazione quando
con la sua condotta l’iscritto abbia gravemente
compromesso la sua reputazione e la dignità dei
podologi italiani.
Art. 7. La condanna per uno o più reati per i quali
la legge commina la pena della reclusione non
inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a
cinque anni comporta di diritto la espulsione o
radiazione dall’Associazione. Importano
parimenti la radiazione o l’espulsione:
l’interdizione dai pubblici uffici;
il ricovero in un manicomio giudiziario;
l’applicazione della misura di sicurezza
preventiva.
Codice deontologico
dell’audiometrista
Art. 18. Visto il D.P.R. n. 221 del 5
aprile 1950, le sanzioni disciplinari
previste sono:
1. l'avvertimento, che comporta
diffida a non ricadere nella
mancanza commessa;
2. la censura, che comporta
dichiarazione di biasimo per la
mancanza commessa;
3. la sospensione temporanea
dall'esercizio della professione per
un tempo definito da uno a sei
mesi.
Contro di esse può essere
presentato appello nei termini
previsti dalla normativa di legge,
mediante ricorso al Consiglio
Direttivo dell’Associazione.
Codice deontologico
del educatori
professionali
podologi
audiometrista
tecnico
audioprotesista
Art. 18. L'inosservanza dei precetti
e degli obblighi fissati nel presente
Codice, sono punibili con le
sanzioni disciplinari previste dal
vigente Statuto dell’Associazione
Professionale e dalle leggi vigenti.
Codice deontologico
del tecnico di
fisiopatologia
cardiocircolatoria e
perfusione
cardiovascolare
ART. 11. Sanzioni . Il Tecnico di
Fisiopatologia Cardiocircolatoria e
Perfusione Cardiovascolare che
viola il Codice Deontologico verrà
sottoposto a procedimento
disciplinare.
Le sanzioni sono quelle previste
dallo Statuto dell’Associazione
83
Nei casi meno gravi il Consiglio direttivo
dell’Associazione può comminare la sospensiva
cautelativa.
[Nessun rinvio del codice deontologico ad altre
fonti associative]
Statuto.
Art.6. 1. La qualità di socio ordinario, studente o
onorario si perde per esclusione deliberata dal
consiglio direttivo con voto favorevole dei due
terzi dei votanti, a seguito della violazione di
norme deontologiche o di gravi fatti incompatibili
con le finalità dell’associazione.
Contro la decisione del consiglio direttivo, che
verrà comunicata per iscritto, il socio espulso può
ricorrere al Collegio dei Probiviri, con richiesta di
convocazione entro sessanta giorni dal
ricevimento della comunicazione. …
2. Nei procedimenti diretti alla irrogazione delle
sanzioni previste dal codice deontologico o alla
esclusione il Consiglio Direttivo e il Collegio dei
Probiviri nella prima seduta nominano il relatore
e il segretario, fissano la data dell’audizione delle
parti ne danno notizia a costoro almeno trenta
giorni prima segnalando che possono intervenire
personalmente per esporre le proprie ragioni,
produrre scritti e presentare testi direttamente
alla loro audizione. … Secondo la gravità
dell’infrazione commessa, i provvedimenti a
carico dell’inadempiente possono essere:
a) richiamo scritto;
b) censura;
c) espulsione.
Art. 5. Ciascun socio è tenuto a conoscere lo
Statuto dell’Associazione e le regole etiche del
Codice Deontologico che si impegna a rispettare.
La mancata osservanza delle disposizioni del
Codice Deontologico è giudicata dal Collegio dei
Probiviri dell’Associazione; i Probiviri, svolta una
diligente indagine e sentito su richiesta il socio,
trasmettono il proprio parere al Consiglio
Direttivo dell’Associazione per le decisioni finali.
Secondo la gravità dell’infrazione commessa, i
provvedimenti a carico dell’inadempiente possono
essere:
a) richiamo scritto;
b) censura;
c) espulsione.
Statuto.
Art. 12. Norme disciplinari. Nei confronti dei soci
che si pongono in contrasto con le finalità
dell’Associazione arrecando ad essa pregiudizio
morale o materiale, avuto riguardo alla gravità
dei fatti accertati, si applicano le seguenti sanzioni
disciplinari:
• avvertimento, che consiste nel richiamare il
colpevole sulla mancanza commessa invitandolo a
non ricadervi;
Codice deontologico
del tecnico di
neurofisiopatologia
[Nessuna indicazione]
Codice deontologico
dei tecnici per la
prevenzione
nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro
Art. 3. Sanzioni. 1. L’inosservanza
di quanto disposto dal presente
Codice la violazione di Leggi e
Regolamenti, nonché ogni azione,
ovvero ogni omissione, che siano
comunque disdicevoli per il T.d.P.,
sono passibili delle sanzioni
disciplinari previste dal presente
Codice, dai regolamenti
d’attuazione e dalla normativa.
2. Le sanzioni disciplinari devono
essere irrogate tenendo conto della
gravità delle azioni e/o delle
omissioni compiute.
84
• ammonizione, che è una dichiarazione formale
della mancanza commessa e del biasimo incorso;
• espulsione, che è l’esclusione definitiva
dall’Associazione;
Il provvedimento disciplinare è iniziato a cura del
Collegio dei Probiviri e deve essere svolto nel
rispetto del principio del contraddittorio, assunte
tutte le necessarie informazioni.
L’avvertimento e l’ammonizione sono irrogate
con provvedimento motivato dal Collegio dei
Probiviri, il quale ne dà comunicazione al
Consiglio Direttivo ed all’interessato con
raccomandata con ricevuta di ritorno.
L’esclusione è ratificata dal Collegio dei Probiviri
al Consiglio Direttivo con provvedimento
motivato, ed è comunicata all’interessato con
raccomandata con ricevuta di ritorno. …
[Nessun rinvio del codice deontologico ad altre
fonti associative]
Statuto
[Nessuna indicazione utile]
Statuto.
Art. 29 . Codice deontologico. L' UNPISI è dotata
di un Codice Deontologico che prevede sanzioni
graduate in relazione alle violazioni poste in
essere; autonomia dell'organo proposto
all'adozione dei provvedimenti disciplinari e
garanzia del diritto di difesa nel procedimento
disciplinare e reso pubblico attraverso il sito
dell'UNPISI.
Art. 33. Procedimento disciplinare. 1. Gli
associati che contravvengono alle norme riportate
nel Codice Deontologico sono punibili con
sanzioni o provvedimenti disciplinari. … Entro
90 giorni dalla contestazione dell’addebito il
Collegio dei Probiviri delibera il provvedimento
intrapreso comunicandolo all’interessato ed al
Presidente dell’Associazione. Sul caso e sui
provvedimenti potranno altresì essere informati
eventualmente gli uffici e/o amministrazioni
interessate. …
Art. 34. Sanzioni e provvedimenti disciplinari. 1.
La graduazione dei provvedimenti intrapresi sarà
proporzionale alla gravità delle violazioni poste in
essere; nell’adozione dei provvedimenti, quale
criterio oggettivo, viene fatto riferimento, per
tutti i soci alle norme disciplinari previste dalla
nome di contrattazione collettiva e dalle norme
sui procedimenti disciplinari.
2. All’associato che si rende responsabile di abuso
o mancanza nell'esercizio della professione o che
comunque tiene un comportamento non conforme
alle norme del Codice Deontologico, al decoro o
alla dignità della professione, il Collegio dei
Probiviri, tenuto conto della gravità e del fatto,
Codice deontologico
del tecnico
ortopedico
Codice deontologico
del tecnico sanitario
di laboratorio
biomedico
Art. 2 - L'inosservanza dei precetti
stabiliti nel presente codice
deontologico ed ogni azione od
omissione comunque contrarie al
decoro, alla dignità ed al corretto
esercizio della professione sono
punibili con le sanzioni disciplinari
contenute nello statuto
dell'Associazione. …
Le sanzioni devono essere
adeguate alla gravità degli atti.
Art. 35. Il TSLB che violi le norme
del presente Codice Deontologico
è sottoposto a procedimento
disciplinare secondo le modalità
previste dal vigente Statuto
85
commina una delle seguenti sanzioni adeguata e
proporzionata alla violazione del codice
deontologico:
a) ammonizione: richiamo scritto verso
l’interessato sull’osservanza dei propri doveri e
diffida a non ripetere il fatto ascritto
b) censura: dichiarazione di biasimo
c) sospensione: sospensione temporanea (durata
massima 6 mesi) dall’Associazione ;
d) radiazione: espulsione definitiva
dall’Associazione;
3. Il tipo e l’entità di ciascuna sanzione sono
determinati in relazione ai seguenti criteri:
a) intenzionalità del comportamento;
b) grado di negligenza, imprudenza, imperizia,
tenuto conto della prevedibilità dell’evento;
c) responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
d) grado di danno o di pericolo causato;
e) presenza di circostanze aggravanti o
attenuanti;
f) concorso fra più professioni e/o operatori in
accordo tra loro;
g) recidiva e/o reiterazione.
[Lo statuto non risulta pubblicato]
Art. 5Hd) Procedimento disciplinare: Comitato di
Garanzia e decisione
… 2. Il Comitato di Garanzia, previa audizione
dell’interessato eventualmente assistito da un
legale o da altra persona di fiducia, si pronuncia
definitivamente entro 60 (sessanta) giorni dalla
succitata audizione con decisione motivata
depositata al protocollo del Collegio dei Probiviri
nella sede nazionale dell’Associazione. … Il
Comitato di Garanzia definisce i procedimenti con
decisione motivata che preveda il proscioglimento
dagli addebiti, ovvero, in caso di accertata
fondatezza degli stessi, una delle seguenti
sanzioni, in funzione della gravità delle
inadempienze:
a) ammonizione verbale;
b) biasimo scritto;
c) censura;
d) sospensione dallo status di socio fino a un
massimo di 12 mesi;
e) proposta di esclusione al Consiglio Direttivo.
Codice deontologico
del tecnico della
riabilitazione
psichiatrica
Codice deontologico
dei terapisti
occupazionali
Codice deontologico
dello psicomotricista
Titolo VII. Sanzioni e
procedimenti disciplinari. Art.1. Il
TeRP che violasse le norme del
presente Codice Deontologico è
sottoposto a procedimento
disciplinare secondo le modalità
previste dal vigente Statuto.
Premessa. L'inosservanza degli
obblighi e dei divieti fissati dal
presente Codice Deontologico e
ogni azione od omissione,
comunque disdicevoli al decoro o
al corretto esercizio della
professione, sono punibili con le
sanzioni disciplinari previste dalla
legge e dallo Statuto dell’A.I.T.O.
Le sanzioni, adottate nella forma e
con le procedure previste dalla
legge e dallo Statuto dell’A.I.T.O.,
devono essere adeguate alla
gravità degli atti.
Art. 1 … La non conoscenza delle
norme non li preserva dalla
responsabilità che l’inosservanza
comporta; ogni atto professionale
o personale, anche se compiuto al
di fuori dell'ambito lavorativo, che
sia in contrasto con i principi qui
di seguito indicati, verrà
perseguito attraverso le procedure
e le sanzioni previste dal
Regolamento Disciplinare.
3. La proposta di esclusione può accompagnarsi al
provvedimento di sospensione. …
[Non risulta pubblicato]
Statuto.
… Gli allegati: … 3) Procedure e Sanzioni
Disciplinari … fanno parte integrante del
presente Statuto. [non risultano pubblicate]
Statuto.
Art. 5. Provvedimenti disciplinari. 1. La qualità di
Socio viene a cessare per i seguenti motivi:
… c) esclusione: quando l'associato incorra in
gravi violazioni delle norme dello Statuto o
quando compia atti incompatibili con i fini
dellʼAssociazione. Sulla perdita della qualità di
Socio si pronuncia il Comitato Direttivo. Il Socio
escluso può proporre opposizione ai Collegio dei
Probiviri.
5. Responsabilità e codice deontologico dell’infermiere
La normativa dello Stato, anche considerando il D.P.R. 821 del 1984
menzionato nel paragrafo 2.6, non è stata la prima a citare esplicitamente la
responsabilità dell'infermiere o di altro professionista sanitario, essendo
stata preceduta, nel 1977, dalle indicazioni del codice deontologico degli
infermieri, il cui articolo 6 affermava la responsabilità dell'infermiere,
qualificandola come “autonoma”, e correlandola alla collaborazione attiva
con i medici e con gli operatori socio-sanitari in genere.
Storicamente, è pertanto ben documentato lo specifico interesse degli
infermieri, attraverso il loro codice deontologico, proprio al tema della
86
“responsabilità”, fin da quando, di questo termine, in rapporto alle
professioni sanitarie non mediche, non vi era proprio traccia nelle leggi dello
Stato. Per focalizzare l’epoca, siamo nel periodo immediatamente precedente
l’istituzione del servizio sanitario nazionale.
L’interesse degli infermieri al tema della responsabilità è continuato
giungendo alla pubblica proclamazione, da parte della Federazione nazionale
dei collegi IPASVI, del 1999 come anno della responsabilità.
Non è casuale che la penultima versione del codice deontologico degli
infermieri sia di quell’anno ed è da osservare la straordinaria enfasi conferita
appunto al tema della responsabilità in quel codice deontologico. I termini
responsabilità o responsabile ricorrono, complessivamente, per otto volte. Per
il dettaglio degli articoli si rinvia alla prima colonna della tabella 3.4.
Si è parlato di enfasi posta da quel codice deontologico nell’affermare la
responsabilità
dell'infermiere;
è
pacifico
infatti
che
richiami
alla
responsabilità possono ben essere fatti, anche senza che sia testualmente
menzionato il sostantivo responsabilità. È però importante proclamare
apertamente il richiamo alla responsabilità nell’espletamento di funzioni
fondamentali, anche per esplicitare il significato del termine “responsabilità”
secondo il codice deontologico e quindi secondo i professionisti che lo
adottano come punto di riferimento. Ed in quel codice era evidente il
concetto di responsabilità, essendo stato il sostantivo usato sempre nella sua
accezione positiva, quella cioè dell'assumere, anche con le pertinenti
iniziative, una condotta congrua rispetto ai bisogni della persona assistita. La responsabilità, dunque, come risposta competente al bisogno della
persona nel codice deontologico dell’infemiere del 1999 persiste dunque,
espressa con minor enfasi, nell’attuale versione del codice rivolto a
professionisti che, a distanza di tempo, ormai ampiamente condividono il
concetto di responsabilità, che quindi può essere recepito nel codice in forma
semplificata. Il confronto dei contenuti in materia di responsabilità nelle due
ultime versioni del codice deontologico è riportato nella tabella 3.4.
87
Tabella 3.4 – La responsabilità nelle due ultime stesure del codice deontologico
dell’infermiere
Codice deontologico dell’infermiere 1999
Codice deontologico dell’infermiere 2009
1.1. L’infermiere è l’operatore sanitario che, in
possesso del diploma abilitante e dell’iscrizione
all’Albo professionale, è responsabile dell’assistenza
infermieristica.
1.3. La responsabilità dell’infermiere consiste nel
curare e prendersi cura della persona, nel rispetto
della vita, della salute, della libertà e della dignità
dell’individuo.
1.4. Il Codice deontologico guida l’infermiere nello
sviluppo della identità professionale e nell’assunzione
di un comportamento eticamente responsabile. È uno
strumento che informa il cittadino sui comportamenti
che può attendersi dall’infermiere.
2.1. Il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei
principi etici della professione è condizione essenziale
per l’assunzione della responsabilità delle cure
infermieristiche.
3.2. L’infermiere assume responsabilità in base al
livello di competenza raggiunto e ricorre, se
necessario, all’intervento o alla consulenza di esperti.
…
3.3. L’infermiere riconosce i limiti delle proprie
conoscenze e competenze e declina la responsabilità
quando ritenga di non poter agire con sicurezza. Ha il
diritto ed il dovere di richiedere formazione e/o
supervisione per pratiche nuove o sulle quali non ha
esperienza; si astiene dal ricorrere a sperimentazioni
prive di guida che possono costituire rischio per la
persona.
Art. 1. L'infermiere è il professionista sanitario
responsabile dell'assistenza infermieristica.
Art. 3. La responsabilità dell'infermiere consiste
nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della
persona nel rispetto della vita, della salute, della
libertà e della dignità dell'individuo.
Art. 13. L'infermiere assume responsabilità in base al
proprio livello di competenza e ricorre, se necessario,
all'intervento o alla consulenza di infermieri esperti o
specialisti. Presta consulenza ponendo le proprie
conoscenze ed abilità a disposizione della comunità
professionale.
Art. 47. L'infermiere, ai diversi livelli di
responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e
lo sviluppo del sistema sanitario, alfine di garantire il
rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo equo ed
appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo
professionale.
Art. 48. L'infermiere, ai diversi livelli di
responsabilità, di fronte a carenze o disservizi
provvede a darne comunicazione ai responsabili
professionali della struttura in cui opera o a cui
afferisce il proprio assistito.
6. Responsabilità e deontologia: innovazioni concettuali nel codice
deontologico dell’infermiere
Il codice deontologico degli infermieri merita una considerazione specifica,
perché offre spunti di riflessione peculiarissimi, non limitati al risalto maggiore
o minore espressamente conferito al termine responsabilità. L’analisi di questo
codice permette rilievi di carattere sostanzialmente culturale-qualitativo che
ben si integrano con quelli di carattere formale-quantitativo elaborati dalla
analisi comparata di tutti i codici deontologici delle professioni sanitarie.
I concetti esposti in questo codice con formulazioni diversificate, riferiti ora
all’infermiere come professionista, ora all’assistenza infermieristica come
esercizio
della
professione,
ora
88
alla
responsabilità
dell’infermiere,
corrispondono comunque ad altrettante assunzioni di impegno da parte
dell’infermiere. In quest’ottica si colloca l’uso del sostantivo “impegno” negli
articoli 6, 8, 9 e 32 e di termini analoghi, riconducibili ai verbi attivarsi negli
articoli 1, 16, 18, 19, 34 ed adoperarsi negli articoli 23, 30, 31, 34.
L’assunzione di impegno nello svolgimento della professione, anche attivandosi
ed adoperandosi, mostra analogie con il concetto di posizione di garanzia,
elaborato
dalla
dottrina
giuridica
per
delineare
il
fondamento
del
comportamento virtuoso del professionista sanitario. La posizione di garanzia,
come già discusso nel paragrafo 2.2, è l’obbligo di attivarsi – che incombe su
chiunque svolga un’attività che comprenda la gestione di pericoli – per evitare
il verificarsi di tali pericoli e garantire la persona affidata alle sue cure, in base
alle evidenze scientifiche ed alle risorse tecniche disponibili.
Vi è tuttavia una differenza sostanziale fra le due impostazioni, pur se di
contenuto analogo: la concezione deontologica dell’infermiere si basa
sull’impegno, il dettato giuridico insiste sull’obbligo.
L’approccio alla questione del codice deontologico dell’infermiere è definibile
meta-giuridico, perché, pur nella coincidenza concettuale di fondo con il diritto,
valorizza la responsabilità come impegno, e quindi come scelta, piuttosto che
come dovere.
Il codice deontologico dell’infermiere esprime dunque un cambiamento
profondo della concezione stessa della deontologia.
Come riportato nel paragrafo 1.4, il significato etimologico di deontologia è
“discorso dei doveri”, derivando dal greco antico: da δέον [dèon], che significa
“dovere”, e λόγος [lògos], che vuol dire “discorso”. Il termine, nel codice
dell’infermiere, stravolge il proprio significato e diventa espressione di discorso
della responsabilità, laddove “responsabilità” corrisponde al personale impegno
professionale nell’interesse di salute della persona. L’infermiere aderisce ai
precetti del codice deontologico non per imposizione, ma per scelta, perché si
riconosce in essi, guidato dal suo senso di responsabilità.
89
È espressione di questa impostazione culturale della professione infermieristica
l’art. 28 del codice deontologico: “L’infermiere rispetta il segreto professionale
non solo per obbligo giuridico, ma per intima convinzione e come espressione
concreta del rapporto di fiducia con l’assistito”. Questo articolo è il paradigma
della nuova percezione della deontologia: che potrebbe essere definita
deontologia della responsabilità, cioè della scelta del professionista ad impegnarsi
nell’interesse della persona.
Gli aspetti generali della responsabilità sono considerati in due articoli in
particolare.
L’art. 3 fornisce una sorta di definizione di responsabilità dell’infermiere,
proposta secondo l’ottica positiva della tutela della persona e della solidarietà
con l’assistito, nella triplice proiezione dell’assistere, del curare e del prendersi
cura, nel rispetto dei quattro diritti: vita, salute, libertà e dignità .
L’art. 7 aggiunge l’altro concetto fondamentale: quello dell’impegno, da parte
dell’infermiere, ad attivare le risorse dell’assistito, condividendo con lui stesso il
momento di difficoltà in cui versa, in modo solidale e con rispetto della sua
dignità.
L’art. 11 enuncia i concetti sui quali fonda la professione dell’infermiere: le
conoscenze validate, le competenze ed il loro aggiornamento. Le prime sono le
conoscenze scaturenti da prove scientifiche affidabili e sicure. Le competenze
sono qui da intendere come insieme di conoscenze e capacità-abilità applicabili
in ambito assistenziale infermieristico.
L’art. 12 amplia l’ambito di responsabilità, affiancando alla ricerca la
sperimentazione, e specificando la natura clinica ed assistenziale di entrambe: il
“valore” di ricerca e sperimentazione è tale se gestito responsabilmente,
tutelando sia “l’evoluzione delle conoscenze” sia “i benefici sull’assistito”.
L’art. 13 analizza il concetto di responsabilità in proiezione pratica, alla luce del
concetto di competenza, di cui all’art. 11. Dall’art. 11, che coniuga formazione
permanente, riflessione critica sull’esperienza e ricerca, deriva un concetto di
competenza assimilabile all’espressione “sapere, saper fare, saper essere”;
90
correlativamente, l’art. 13 esprime anche il concetto di “sapersi fermare”
sempre, quando la propria competenza non è adeguata rispetto alla situazione
da affrontare.
L’art. 14 propone un aspetto della responsabilità, mai evidenziato in alcun
codice deontologico: “le modalità fondamentali per far fronte ai bisogni
dell’assistito” sono costituite da “interazione fra professionisti” e da
“integrazione interprofessionale”. Nell’attuale fase di diffusa crisi relazionale fra
professionisti sanitari e di difficoltà di definire alcune competenze dei rispettivi
campi operativi, l’articolo è un richiamo al senso di responsabilità del
professionista, affinché si confronti con gli altri per la definizione di contenuti
ed obiettivi e la reciproca valorizzazione.
L’art. 15 richiama la responsabilità dell’infermiere di curare la propria
formazione permanente, qualora l’istituzione non accolga le richieste formali di
formazione.
L’art. 16 si sofferma su due precise attività: l’analisi dei dilemmi etici scaturenti
dall’operatività quotidiana ed il ricorso alla consulenza etica. Di fronte ai
dilemmi etici, l’infermiere deve assumere una posizione attiva. Il richiamo
conclusivo all’ “approfondimento della riflessione bioetica” indica che l’analisi
non deve limitarsi ad una riflessione personale, ma può essere condotta con il
contributo di esperti.
L’art. 17 afferma la responsabilità rispetto a condizionamenti da qualunque
parte provengano: è sottinteso che si tratta di condizionamenti corrispondenti
ad interessi in contrasto con i principi generali del codice deontologico. La
risposta dell’infermiere in queste situazioni resta il dialogo ed il confronto con
chi opera la pressione.
L’art. 18 riguarda la responsabilità, duplice, di prestare soccorso e di attivarsi
per garantire l’assistenza, in situazioni di emergenza-urgenza. L’impegno è
rivolto ad una duplicità delle azioni: la prestazione intrinseca di soccorso e
l’attivarsi per garantire l’ulteriore assistenza necessaria.
91
I successivi articoli riguardano la responsabilità dell’infermiere nei suoi aspetti
applicativi specifici nella relazione con la persona. Si considerano ora i più
rilevanti in materia di responsabilità.
In base all’art. 19, l’“educazione”, che l’infermiere ha la responsabilità di
promuovere, non è solo quella individuale, ma anche quella rivolta alla
collettività.
Con l’art. 20 inizia, nel codice deontologico, la trattazione della responsabilità
in tema di informazione e di comunicazione. Una siffatta delimitazione del
tema, per quanto descritta con due sostantivi (informazione e comunicazione), è
tuttavia riduttiva di fronte alla ricchezza lessicale e concettuale che scaturisce
da questo articolo e da quelli immediatamente successivi. Nell’art. 20, il
processo di ascolto, informazione, coinvolgimento e valutazione condivisa ha
valore in sé e per sé e non è necessariamente finalizzato ad eventuali decisioni
dell’assistito.
L’art. 21 traccia un percorso che scaturisce dalle indicazioni espresse
dall’assistito, prevedendo, fra l’altro, il coinvolgimento, nel piano di cura, delle
persone significative per l’assistito stesso, nel rispetto delle sue indicazioni al
riguardo.
L’art. 22 prevede che l’infermiere conosca “il progetto diagnostico-terapeutico”,
e quindi si attivi per essere informato.
L’art. 23 cita il valore dell’informazione integrata multiprofessionale: ciò
significa che l’informazione non è prerogativa di una sola professione, ma che le
diverse professioni devono contribuire, insieme, a realizzare un progetto
informativo in relazione alle patologie ed ai bisogni della persona. Anche questa
disposizione non ha precedenti in alcun altro codice deontologico di professione
sanitaria: l’auspicio è che un analogo articolo sia adottato in tutti i codici
deontologici delle professioni sanitarie. Per ora è responsabilità dell’infermiere
rendere effettivo il dettato dell’art. 23 nella pratica quotidiana.
L’art. 24 valorizza il processo di scelta da parte dell’assistito ed il ruolo
informativo affidato alla responsabilità dell’infermiere.
92
L’art. 25 indica una ulteriore responsabilità, quella del rispetto della volontà,
consapevole ed esplicita, dell’assistito di non essere informato sul suo stato di
salute.
Nell’art. 27 si parla della responsabilità dell’infermiere in relazione al fatto che
egli è chiamato a garantire la continuità assistenziale anche contribuendo alla
realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione
degli
strumenti
informativi.
Quest’ultima
locuzione
si
riferisce
alla
documentazione infermieristica; la rete di rapporti interprofessionali sta ad
indicare che essa è comunque indispensabile a fianco di tale documento per la
comunicazione fra professionisti sanitari.
L’art. 26 si ispira al già citato principio della tutela della riservatezza delle
informazioni relative all’assistito. È enunciato un corollario del principio
generale, della cui originalità si è già fatto cenno: la selezione responsabile dei
dati personali da utilizzare; raccolta, gestione e passaggio sono infatti limitati
solo a “ciò che è attinente all’assistenza”.
L’art. 28 è l’emblema del senso di responsabilità nella percezione deontologica:
una sorta di ponte che collega il codice deontologico attuale con le due versioni
precedenti. Il testo è infatti sovrapponibile a quello dell’art. 3 della stesura del
codice del 1977 e del comma 4.8 della redazione del 1999.
L’art. 29 sottolinea la responsabilità dell’infermiere in ordine alla promozione
delle migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari, allo sviluppo
della cultura dell’imparare dall’errore nonché alle iniziative per la gestione del
rischio clinico.
L’art. 30 richiama le responsabilità in fatto di contenzione. Quest’ultima è
indicata come “evento straordinario” ammissibile esclusivamente nei casi in cui
sia sostenuto non solo da prescrizione medica, ma anche – e si tratta di un
concetto innovativo che investe la responsabilità dell’infermiere – da
“documentate valutazioni assistenziali”.
L’art. 31 afferma che “sia presa in considerazione l’opinione del minore rispetto
alle scelte assistenziali, diagnostico-terapeutiche e sperimentali, tenuto conto
93
dell’età e del suo grado di maturità” ed aggiunge la corrispondente
responsabilità dell’infermiere, che cioè questi
“si adopera” perché questo
obiettivo sia perseguito.
L’art. 32 è un’esemplificazione dell’impegno dell’infermiere, di assumersi
responsabilità anche di carattere non strettamente sanitario, a prescindere dalle
condizioni di salute. Vi è un riferimento implicito al minore, all’anziano ed alla
donna, in quanto persone che più facilmente possono subire limitazioni nel
contesto familiare o sociale nell’espressione di sé. Si tratta, comunque, di
rendere concreto l’impegno alla solidarietà umana, da parte dell’infermiere.
L’art. 33 è, per alcuni aspetti, un completamento dell’articolo precedente;
riguarda maltrattamenti e privazioni a carico dell’assistito; l’atteggiamento
responsabile da parte dell’infermiere è prescritto con grande equilibrio.
L’art. 34 è dedicato all’impegno attivo dell’infermiere volto a prevenire e
contrastare il dolore e ad alleviare la sofferenza.
L’art. 35 indica la prestazione di assistenza come attività in cui l’infermiere si
impegna, qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita
all’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del “conforto
ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”.
L’art. 36, che riguarda un aspetto dell’autodeterminazione dell’assistito, si
conclude con una frase fondamentale: che gli interventi siano “coerenti con la
concezione da lui espressa della qualità di vita”. Se non si rispetta questo
parametro e si giunge ad eccessi, allora nasce il diritto, per la persona assistita,
a porre limiti a siffatti eccessi. È responsabilità dell’infermiere tutelare questo
diritto, nei termini che sono espressi dall’assistito.
L’art. 37 è dedicato alle manifestazioni di volontà anticipate. La responsabilità,
al riguardo, dell’infermiere – quando l’assistito non è in grado di comunicare la
propria volontà – è quella di tener conto di quanto espresso in precedenza
dall’assistito stesso in modo chiaro e documentato, laddove il significato di
“tener conto” è di valutare-considerare, non già di accettare acriticamente, le
precedenti indicazioni della persona stessa.
94
Nell’art. 38 è espresso il fermo rifiuto a partecipare a trattamenti finalizzati a
provocare la morte dell’assistito, ancorché la richiesta provenga da lui stesso.
L’art. 39 afferma il sostegno da fornire ai familiari dell’assistito sempre, e in
particolare in momenti di grande difficoltà, quali quelli legati all’evoluzione
terminale della malattia e alla perdita della persona cara ed all’elaborazione del
lutto.
95
CAPITOLO 4
RESPONSABILITÀ E CODICE PENALE
1. Responsabilità penale: sinossi dei delitti possibili nel corso dell’attività
professionale
Fra le tipologie di responsabilità giuridica che scaturiscono dalla violazione di
una data norma dell'ordinamento vi è la responsabilità penale. L’espressione
figura nell’art. 27 della Costituzione, che stabilisce che “la responsabilità penale
è personale”. Essa è riconducibile alla commissione, personale, di un fatto
configurante reato, laddove per tale si intende un comportamento che si
concretizza in un’azione o omissione lesiva di un bene che l’ordinamento
giuridico tutela e da cui fa discendere l’irrogazione di una pena.
Anche il professionista sanitario può divenire soggetto attivo del reato e quindi
titolare di responsabilità penale, con particolare riferimento a condotte che più
facilmente possono realizzarsi nell’ambito della propria attività professionale e
per le funzioni richieste dalla stessa.
I reati che possono più frequentemente verificarsi in seguito a condotte poste in
essere dal professionista sanitario in relazione all’esercizio professionale sono
riportati in Tabella 4.1.
Tabella 4.1 - Delitti ipotizzabili in relazione ad alcune condotte del professionista
sanitario
Delitti
Testo dell’articolo, per quanto
di interesse
Esemplificazione della
corrispondente condotta del
professionista sanitario e, se
previsto, del connesso evento di
danno
590
chiunque cagiona ad altri per
colpa una lesione personale è
punito …
errore od omissione che abbia
causato o aggravato una
malattia nell’assistito
omicidio colposo
589
chiunque cagiona per colpa la
morte di una persona è punito
…
errore od omissione che abbia
causato
il
decesso
dell’assistito
lesione personale
dolosa
582
chiunque cagiona ad alcuno
una lesione personale, dalla
attività
intrinsecamente
A) DELITTI CHE
SUSSISTONO
AL REALIZZARSI
DI UN E V E N T O
D I DANNO
lesione personale
colposa
Articol
o del
codice
penale
96
professionale
lesiva
quale deriva una malattia nel
corpo o nella mente, è punito
…
chiunque, con violenza o
minaccia, costringe altri a fare,
tollerare, od omettere qualche
cosa è punito …
dell’assistito, ad esito fausto, ma
effettuata senza il consenso
dell’assistito stesso, capace di
prendere decisioni
violenza privata
610
attività professionale realizzata
contro la volontà dell’assistito
B) DELITTI DI
SOLA CONDOTTA
omissione di soccorso
593
… Alla stessa pena soggiace
chi, trovando un corpo umano
che sia o sembri inanimato,
ovvero una persona ferita o
altrimenti in pericolo, omette
di
prestare
l'assistenza
occorrente
o
di
darne
immediato avviso all'autorità.
…
mancata
prestazione
dell’assistenza occorrente nei
confronti di qualsiasi persona
inanimata, ferita o altrimenti in
pericolo, al di fuori di obblighi
istituzionali, nel solo caso che il
professionista
sanitario
si
imbatta nella persona
rifiuto di atti di ufficio;
omissione
328
Il
pubblico
ufficiale
o
l'incaricato di un pubblico
servizio, che indebitamente
rifiuta un atto del suo ufficio
che, per ragioni … di igiene e
sanità, deve essere compiuto
senza ritardo, è punito…
mancata
attività
istituzionalmente doverosa, da
praticare senza ritardo da parte
del professionista sanitario,
quando pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio
rivelazione di
segreto professionale
622
Chiunque, avendo notizia, per
ragione … della propria
professione …, di un segreto,
lo rivela, senza giusta causa,
ovvero lo impiega a proprio o
altrui profitto, è punito…
326
Il pubblico ufficiale o la
persona incaricata di un
pubblico
servizio,
che,
violando i doveri inerenti alle
funzioni o al servizio, o
comunque abusando della sua
qualità, rivela notizie d'ufficio,
le quali debbano rimanere
segrete, o ne agevola in
qualsiasi modo la conoscenza,
è punito…
comunicazione
a
persone
diverse
dall’assistito
di
qualsiasi dato relativo allo
stesso assistito o ai suoi
familiari ed amici appreso a
motivo della professione
rivelazione di
segreto d’ufficio
falsità ideologica in
certificati
481
falsità ideologica in
atti pubblici
479
Chiunque, nell'esercizio di una
professione
sanitaria
…
attesta falsamente, in un
certificato, fatti dei quali l'atto
è destinato a provare la verità,
è punito
Il pubblico ufficiale, che,
ricevendo o formando un atto
nell'esercizio
delle
sue
funzioni, attesta falsamente
che … attesta falsamente fatti
97
comunicazione a terzi di fatti
inerenti la pubblica funzione o il
pubblico servizio rivestiti
falsa
attestazione
nella
documentazione
sanitaria,
quando libero professionista
falsa
attestazione
in
documentazione
sanitaria,
nell’ambito dello svolgimento di
pubbliche funzioni
dei quali l'atto è destinato a
provare la verità, è punito…
omissione di referto
365
Chiunque, avendo nell'esercizio di
una professione sanitaria prestato
la propria assistenza od opera in
casi che possono presentare i
caratteri di un delitto pel quale si
debba procedere d'ufficio, omette
o ritarda di riferirne all'autorità
… è punito …
mancata
tempestiva
segnalazione
di
delitti
perseguibili
d’ufficio
all’autorità giudiziaria, da parte
del professionista sanitario che
presti opera od assistenza
omissione di denuncia
361362
Il pubblico ufficiale [ o
l'incaricato di un pubblico
servizio], il quale omette o
ritarda di denunciare all'autorità
giudiziaria, o ad un'altra autorità
che a quella abbia obbligo di
riferirne, un reato di cui ha avuto
notizia nell'esercizio o a causa
delle
mancata
tempestiva
segnalazione
all’autorità
giudiziaria di reati perseguibili
d’ufficio,
da
parte
del
professionista sanitario, quando
pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio
2. Responsabilità professionale e delitti colposi
In ambito penale, l’espressione “responsabilità professionale”, nel linguaggio
corrente, fa riferimento, a due ipotesi delittuose riconducibili a condotte
colpose: l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose.
2.1. Lesioni personali colpose
Il delitto di lesioni personale colpose è contemplato dall’art. 590 del codice
penale.
Art. 590. Lesioni personali colpose. - Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la
reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309.
Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è
gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione
stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione
da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della
reclusione da uno a tre anni. Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è
commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze
stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le
lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni
commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.
98
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso,
limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o
relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
Il delitto di lesione personale si configura quando una persona causa ad altri una
malattia nel corpo o nella mente. La malattia è definibile come alterazione dello
stato anteriore caratterizzata da evolutività. Si tratta in genere di una malattia
prima non esistente, interamente originata dalla azione della persona. Per
quanto riguarda l’attività professionale, il delitto si concretizza anche se un
trattamento non corretto produce l’aggravamento di una malattia preesistente,
purché la malattia venga ad assumere caratteristiche diverse e più gravi
rispetto a quelle che avrebbe avuto in caso di condotta corretta. I rispettivi
esempi sono:
- malattia prima non esistente: lo shock anafilattico per erronea somministrazione
di un farmaco, diverso da quello prescritto dal medico ed al quale l’assistito è
allergico;
- persistenza di malattia preesistente con caratteristiche autonome: l’aggravamento di
una cistite conseguente alla erronea somministrazione di un farmaco, diverso
da quello corretto prescritto dal medico, essendo il farmaco sbagliato comunque
inefficace e non specificamente produttivo di alcun danno nell’assistito.
La lesione personale ha
connotazioni di gravità progressiva
(con
corrispondente progressivo inasprimento delle pene) in relazione a vari fattori,
dei quali alcuni sono di rilievo sanitario e possono avere carattere temporaneo o
permanente. In relazione ai fattori biologici, dal dettato dell’art. 583 del codice
penale discende che la lesione personale:
- è semplice, quando la malattia sia di durata non superiore a quaranta giorni;
- è grave, quando la malattia e/o la incapacità ad attendere alle ordinarie
occupazioni sia di durata superiore a quaranta giorni o/e quando consegua o il
pericolo per la vita della persona offesa o l’indebolimento permanente di un
organo;
99
- è gravissima, quando derivi una malattia certamente o probabilmente
insanabile o/e quando conseguano varie tipologie di postumi permanenti di
notevole entità (permanente e grave difficoltà della favella; deformazione o
sfregio permanente del viso), o da perdite di funzioni (perdita di un senso;
perdita di un arto, o mutilazione che renda l’arto inservibile, o perdita dell’uso
di un organo o della capacità di procreare).
2.2. Omicidio colposo
L’omicidio colposo è contemplato dall’art. 589 del codice penale.
Art. 589. Omicidio colposo. - Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da
sei mesi a cinque anni.
Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
… (omissis) …
Il professionista sanitario può essere responsabile del reato, quando realizzi
una condotta colposa che causi o una malattia prima non esistente o
l’aggravamento di una malattia preesistente, in ogni caso di gravità tale da
determinare la morte.
4.2.3. Interruzione della gravidanza colposa
L’interruzione della gravidanza è illegale, quando sussiste una delle circostanze criminose di
cui alla legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
Gli articoli di interesse sono i seguenti.
Art. 17. - {I}.Chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni.
{II}. Chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal comma precedente, diminuita fino
alla metà.
{III}. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è
aumentata.
Art. 18. - {I}. Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto
anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno.
{II}. La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.
{III}. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l’acceleramento del parto.
{IV}. Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne
deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è
diminuita.
{V}. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto.
Art. 19. - {I}.Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è
punito con la reclusione sino a tre anni.
{II}. La donna è punita con la multa fino a euro 51.
100
{III}. Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6
o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
{IV}. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.
{V}. Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza
l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi
precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.
{VI}. Se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una
lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita.
{VII}. Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto
comma.
Art. 20. - {I}. Le pene previste dagli articoli 18 e 19 per chi procura l’interruzione della gravidanza sono aumentate quando il reato è
commesso da chi ha sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’articolo 9.
Gli articoli 18 e 19 prospettano casi di interruzione di gravidanza conseguenti a
comportamenti volontari: il primo contempla ipotesi delittuose nelle quali
manca il consenso della donna, il
secondo sanziona casi, nei quali sussiste tale consenso, ma l’interruzione di
gravidanza si realizza senza rispettare le condizioni previste dalla legge n. 194
del 1978.
L’art. 17 considera gli eventi conseguenti a condotta colposa.
Fermi restando i principi generali del concetto di colpa, le circostanze in cui
tale condotta più spesso si realizza riguardano incidenti stradali, malattie
professionali, infortuni sul lavoro nonché errori od omissioni da parte di
professionisti sanitari nelle attività di rispettiva pertinenza negli accertamenti o
nei trattamenti relativi alla gestante. I delitti che risultano da questo articolo
sono
i seguenti:
I) aborto cagionato per colpa (art. 17, primo comma): si verifica quando il
responsabile pone in essere una condotta colposa (provoca ad esempio un
sinistro stradale per imprudenza, investendo
con un’autovettura una donna gravida che procede a piedi), che causa
l’interruzione di gravidanza con morte del prodotto del concepimento;
II) parto prematuro cagionato per colpa (art. 17, secondo comma): la condotta
del responsabile corrisponde a quella del caso precedente, ma interessa una
donna in stato di gravidanza avanzato,
101
con feto che ha raggiunto la maturità, talché la conseguenza dell’interruzione di
gravidanza (la quale, in questo caso, deve derivare proprio dalle lesioni) è un
parto prematuro con
sopravvivenza del feto;
2.3. La condotta
I delitti citati nei paragrafi precedenti possono essere determinati da condotte
errate od omissive da parte del professionista sanitario; perché tali condotte
assumano rilevanza giuridica è necessario:
- che la condotta sia caratterizzata da colpa (art. 43 del codice penale);
- che si verifichi un evento di danno alla persona: rispettivamente la morte o la
malattia (articoli 589 e 590 del codice penale);
- che esista nesso di causalità materiale fra condotta del professionista sanitario
e morte o malattia (art. 40 del codice penale).
La condotta – che può consistere in un’azione od in un’omissione – del
professionista sanitario deve essere caratterizzata da colpa. La colpa
corrisponde, alternativamente o cumulativamente, ad uno dei requisiti
contemplati dall’art. 43 del codice penale; in caso di negligenza o di imprudenza
o di imperizia, si parla di colpa generica; nell’eventualità di inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline, la colpa è specifica.
Per negligenza si intende una riduzione di attenzione, accuratezza, premura o
sollecitudine opportune in relazione al caso; per imprudenza, una carente
ponderazione o cautela; per imperizia, una inadeguata conoscenza o
preparazione
scientifica
(di
base
o
connessa
all’aggiornamento)
o
un’insufficiente abilità tecnica o competenza.
Circa l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, le norme di
fondamentale riferimento sono il proprio profilo professionale, la legge n. 42 del
1999, nonché il codice deontologico del professionista sanitario (si tratta di
regolamento ed è espressamente indicato dalla legge 42 come fonte di
102
responsabilità); ad essi vanno aggiunti i pertinenti disposti della legge 10 agosto
2000, n. 251.
Anche documenti quali linee guida, protocolli e procedure possono essere
considerate aventi carattere di regolamento, ordine o disciplina, talché il loro
mancato rispetto può configurare il requisito dell’inosservanza contemplato
dall’art. 43 del codice penale.
In presenza di protocolli o procedure non aggiornate, si pone talora la
questione se seguire le indicazioni proposte da quei documenti o lasciarsi
guidare dai principi della perizia, che impone interventi basati sulle prove di
efficacia. Il possibile contrasto va risolto dal professionista sanitario, ispirandosi
alle più recenti e migliori indicazioni scientifiche, prodotte dalle revisioni
sistematiche della letteratura accreditata (ed eventualmente sistematizzate in
linee guida). L’attività professionale è efficacemente guidata anche da protocolli
e procedure; resta però fermo che si tratta di strumenti di lavoro che non hanno
valore assoluto e permanente nel tempo, pertanto le loro indicazioni devono
essere integrate con evidenze scientifiche eventualmente sopravvenute rispetto
alla loro stesura.
2.4. Il nesso di causalità materiale
Fra condotta colposa e evento di danno a carico della persona deve sussistere
nesso di causalità materiale.
Peculiare rilievo assume la problematica della causalità per omissione: si tratta
di quella causalità riferibile ad una condotta consistente nella mancata
attuazione di un comportamento, che si ha l’obbligo di realizzare. Nel reato
commissivo, la relazione causale è apprezzabile con relativa facilità; è, invece,
più complesso valutare se l’evento sia riferibile all’omissione di una condotta
positiva che il soggetto avrebbe avuto l’obbligo giuridico di realizzare. In questi
casi, occorre giudicare se la condotta positiva avrebbe impedito l’evento. In
termini di realtà, il problema è insolubile, perché nessuno è in grado di
103
affermare che una certa condotta positiva, se fosse stata tenuta, avrebbe
certamente impedito l’evento realizzatosi.
In campo sanitario-biologico, non è possibile affermare che, se fosse stata
somministrata una determinata terapia, certamente il paziente sarebbe
sopravvissuto oppure non sarebbero intervenute le alterazioni patologiche, che
si sono invece manifestate. La variabile biologica individuale e le complicanze
sempre possibili sono ostacoli, insormontabili, alla conoscenza dell’evoluzione
che avrebbe avuto la vicenda clinica se fosse stato applicato il trattamento
corretto.
L’impasse è superabile solo con la logica. Ferma restando la preliminare
ricostruzione della serie causale che ha concretamente determinato l’evento,
occorre procedere anche ad una ricostruzione ipotetica, con la quale si
immagina realizzata la condotta positiva, cui il professionista sanitario era
obbligato e che invece, nella realtà del caso, ha omesso. Questa ricostruzione
ipotizza che l’agente sia intervenuto compiendo l’azione cui sarebbe stato
tenuto; si considera poi l’incidenza causale di tale azione ipotetica, valutandone
l’efficacia impeditiva dell’evento; si tratta di un giudizio controfattuale,
mediante la formulazione di una prognosi postuma negativa dell’evento. Questo
ragionamento, basato su ipotesi, si avvale necessariamente di criteri statisticoprobabilistici per stabilire se l’azione, qualora compiuta, sarebbe stata in grado
di impedire l’evento, in quella specifica persona e date quelle concrete oggettive
condizioni di operatività.
In sintesi: il giudizio prognostico ex post si basa su una valutazione
probabilistica, al fine di giudicare se l’omissione umana (per esempio, del
professionista sanitario) abbia diminuito in misura apprezzabile le possibilità
della persona di guarire o di evitare una maggior gravità della malattia e/o i
suoi postumi invalidanti. In altre parole: in questi casi, il nesso di causalità
materiale è il legame logico – ma non ontologico – che collega, in un vincolo di
ipotetica (valutata probabilisticamente) consequenzialità, un determinato
evento ad una data omissione umana, di cui l’evento diventa il prodotto. Per
104
creare questo legame logico, l’incidenza che la condotta omessa, se realizzata,
deve avere sulla possibilità di evitare l’evento, non può essere trascurabile e
neppure minima, ma deve essere apprezzabile. Il problema è valutare tale
apprezzabilità e comprendere se essa sia in qualche modo quantificabile.
In giurisprudenza ed in dottrina giuridica, con riferimento alla responsabilità del
medico – l’unica organicamente analizzata fra quelle dei vari professionisti
sanitari –, la valutazione di questa apprezzabilità non è stato univocamente
affrontata.
Il dibattito ha condotto ad un contrasto giurisprudenziale anche in seno alla
Corte di Cassazione. All'indirizzo maggioritario, che aveva ritenuto sufficienti
“serie ed apprezzabili probabilità di successo” (arrivando tuttavia a quantificarle
nella misura del 30%, che pare a chi scrive né seria né apprezzabile) per
l'impedimento dell'evento, si è contrapposto un successivo orientamento,
secondo il quale è richiesta la prova che un diverso comportamento dell'agente
avrebbe impedito l'evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla
certezza” e cioè, in termini percentuali vicino a cento.
La questione è stata oggetto di esame delle Sezioni Unite della Cassazione
(Cass. Pen., S.U. 11 Settembre 2002 n. 30328), che hanno risolto il contrasto
avvicinandosi alla seconda delle tesi appena indicate. Il seguente passo
conclusivo
appare
sinteticamente
chiarificatore:
“L'insufficienza,
la
contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del
nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla
reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri
fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la
neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del
giudizio.”
3 Responsabilità professionale e delitti dolosi
In questo paragrafo sono sinteticamente presentati alcuni delitti, di natura
dolosa, che possono essere commessi dal professionista sanitario nell’esercizio
105
professionale. L’esposizione è limitata ai delitti che compaiono nella rassegna di
giurisprudenza nel capitolo 5. Sono opportune alcune premesse sulle qualifiche
giuridiche del professionista sanitario, perché a condotte penalmente rilevanti
analoghe, tenute nell’esercizio professionale, possono corrispondere per il
professionista sanitario fattispecie delittuose diverse in funzione della qualifica
giuridica di volta in volta rivestita.
3.1 Le qualifiche giuridiche del professionista sanitario
Il professionista sanitario svolge la sua professione in strutture sanitarie
pubbliche o private, nel territorio e nell'assistenza domiciliare, in regime di
dipendenza o libero-professionale.
In relazione a queste differenti modalità di esercizio professionale, ai soli effetti
della legge penale, in particolare quando chiamato a rispondere di alcuni reati,
il professionista sanitario assume le seguenti, alternative, qualifiche giuridiche:
- pubblico ufficiale (art. 357 del codice penale);
- incaricato di un pubblico servizio (art. 358 del codice penale);
- esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 del codice penale).
I riferimenti normativi sono i seguenti.
Art. 357. Nozione del pubblico ufficiale. - Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i
quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da
atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
Art. 358. Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio. - Agli effetti della legge penale, sono
incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.
Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello
svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.
Art. 359. Persone esercenti un servizio di pubblica necessità. - Agli effetti della legge penale, sono persone
che esercitano un servizio di pubblica necessità:
1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per
legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per
legge obbligato a valersi;
2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono
un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione.
106
Il professionista sanitario è persona esercente un servizio di pubblica necessità
quando svolge la libera professione: in questa evenienza è infatti soggetto
privato che esercita una professione sanitaria per l’esercizio della quale è
necessaria la specifica abilitazione dello Stato (art. 359, punto 1).
Circa il professionista sanitario che operi alle dipendenze del Servizio sanitario
nazionale o in una struttura convenzionata, consta un numero limitato di
sentenze che forniscano indicazioni sufficienti per definire con certezza la sua
qualifica giuridica. Il predetto professionista sanitario è tuttavia da considerare
alternativamente o pubblico ufficiale o persona incaricata di pubblico servizio, a
seconda delle caratteristiche dell’attività specificamente svolta.
In altre parole, il professionista sanitario dipendente del Servizio sanitario
nazionale, per il tramite del quale è garantito ad ogni cittadino il diritto
costituzionale alla tutela della salute, svolge comunque un pubblico servizio
(art. 358) o, talora, una pubblica funzione (art. 357) amministrativa, proprio
perché agisce in nome e per conto del Servizio sanitario stesso. Per distinguere
i casi in cui si trova a rivestire l’una o l’altra di queste qualifiche, conviene
considerare le definizioni proposte negli stessi articoli citati:
- la pubblica funzione amministrativa è quella disciplinata da norme di diritto
pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla
manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi
per mezzo di poteri autoritativi o certificativi;
- il pubblico servizio consiste in un'attività disciplinata nelle stesse forme della
pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di
quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine
e della prestazione di opera meramente materiale.
La differenza fra pubblica funzione e pubblico servizio sta dunque nella natura e
nella finalità dell’attività esercitata.
È comunque poco utile distinguere le circostanze in cui il professionista
sanitario pubblico dipendente sia pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio. Infatti, di norma, sono contemplate analoghe fattispecie delittuose per
107
condotte che il professionista sanitario può porre in essere, nello svolgimento
tanto della funzione di pubblico ufficiale tanto dell’attività di incaricato di
pubblico servizio.
La tabella 4.2, relativa ai delitti ipotizzabili a carico del professionista sanitario
pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio può essere di ausilio per
chiarire il concetto.
Tabella 4.2 - Delitti ipotizzabili per il professionista sanitario in qualità di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio
Delitto
Articolo del codice
penale relativo al
pubblico ufficiale
Articolo del codice penale
relativo all’incaricato di
pubblico servizio
Rifiuto di atti di ufficio; omissione
328
328
Rivelazione di segreto d'ufficio
326
326
Falsità ideologica in atti pubblici
479
493
Omissione di denuncia
361
362
A condotte penalmente rilevanti analoghe, tenute nell’esercizio professionale,
possono corrispondere per il professionista sanitario pubblico dipendente
fattispecie delittuose diverse o aggiuntive rispetto a quelle previste per il
professionista sanitario non pubblico dipendente, a volte – in base alle indicazioni
testuali del pertinente articolo del codice penale – in quanto esercente un
servizio di pubblica necessità, a volte in quanto professionista sanitario, a volte
in quanto cittadino. Lo schema è riportato in tabella 4.3.
Tabella 4.3 - Condotte penalmente rilevanti (sinteticamente indicate) e delitti
rispettivamente ipotizzabili per il professionista sanitario in qualità, da un lato, di
cittadino o di esercente una professione sanitaria e, dall’altro lato, di pubblico ufficiale
o di incaricato di pubblico servizio
Condotta
Cittadino
mancata prestazione di assistenza
falsa attestazione nella
documentazione professionisti sanitari
art. 593 c.p.
Esercente
professione
sanitaria
art. 481 c.p.
108
Pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico
servizio
art. 328 c.p.
art. 479 c.p.
art. 493 c.p.
rivelazione di segreto
omessa comunicazione all’autorità
giudiziaria di delitti perseguibili
d’ufficio
art. 622 c.p.
art. 365 c.p.
art. 326 c.p.
art. 361 c.p.
art. 362 c.p.
3.2. Omissione di soccorso
Il delitto è contemplato dall’art. 593 del codice penale. È di peculiare interesse
il secondo comma.
Art. 593. Omissione di soccorso. - Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore
degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di
corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la
reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 2.500 euro.
Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una
persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne
immediato avviso all’Autorità.
Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la
morte, la pena è raddoppiata.
L’art. 593 del codice penale impone una regola di carattere generale, valida per
chiunque, anche non esercente una professione sanitaria, trovi un corpo umano
che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo.
Esso contempla l’alternativa fra la prestazione personale dell’assistenza
occorrente e l’immediato avviso all’autorità, limitando l’obbligo di porre in
essere l’una o l’altro a quelle situazioni in cui il professionista sanitario “trovi”
la persona, ne percepisca cioè la presenza, perché sia entrato in contatto fisico
diretto (sensoriale) con la persona stessa, avendola vista o avendone udito le
invocazioni di aiuto. Nella nozione di “trovare” è compreso, non solo il
rinvenimento casuale, per esempio sulla pubblica via, della persona da
soccorrere, ma anche qualsiasi contatto fra professionista sanitario ed assistito.
In altre parole, il professionista sanitario trova una persona in pericolo, sia
recandosi al suo domicilio per svolgere una data funzione assistenziale
programmata, sia (eventualità invero meno frequente) accogliendo la persona
che i congiunti hanno trasportato da lui, quando la stessa sia inanimata o
presenti una ferita o una situazione clinica comportante pericolo, come per
esempio una precordialgia con irradiazione dolorosa all’arto superiore sinistro e
collasso cardiocircolatorio.
109
3.3. Rifiuto di atti di ufficio; omissione
Il delitto è contemplato dall’art. 328 del codice penale. Esso ha interesse nel
caso del professionista sanitario dipendente pubblico, che, come premesso,
riveste quanto meno la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
Art. 328. Rifiuto di atti di ufficio. Omissione. - Il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio,
che indebitamente rifiuta un atto dell'ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di
ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da
sei mesi a due anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che
entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non
risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa
fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni
decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
Il disposto dell’articolo riguarda il professionista sanitario dipendente pubblico
che rifiuti od indebitamente ritardi un atto professionale rientrante nelle sue
funzioni assistenziali istituzionali e che “deve essere compiuto senza ritardo”
per ragioni di igiene e sanità. I contenuti del pertinente profilo professionale
corrispondono alle varie articolazioni dell’ “atto dell’ufficio” del professionista
sanitario pubblico dipendente. Il professionista sanitario, che rifiuti o ritardi, in
tutto o in parte, senza ragionevole motivo, quanto contemplato dal proprio
profilo, è dunque chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 328 del codice
penale, a prescindere da qualsivoglia evento dannoso a carico dell’assistito.
3.4. Abusivo esercizio di professione
Il delitto di abusivo esercizio di una professione è contemplato dall’art. 348 del
codice penale.
Art. 348. Abusivo esercizio di una professione. - {I}. Chiunque abusivamente esercita una professione, per la
quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da
lire duecentomila a un milione.
110
Concretizza il delitto l’esecuzione di atti che sono dalla legge riconosciuti di
pertinenza esclusiva di una professione, il cui esercizio è sottoposto a
particolare disciplina. L’interesse tutelato non attiene alle categorie
professionali, ma è quello della società contro il pericolo derivante dall’esercizio
professionale da parte di chi, sprovvisto di titoli adeguati, non offra garanzia di
competenza.
Per configurare il delitto, non è necessario che dalla condotta derivi un danno
alla persona. La proposizione “esercita una professione” sembrerebbe implicare
una continuità dello svolgimento dell’attività; le pronunce giurisprudenziali
comprendono nel concetto di esercitare la professione anche l’atto (professionale)
unico ed isolato.
Il professionista sanitario può commettere il reato quando svolga attività
professionali che non siano comprese fra quelle contemplate dalle norme che ne
disciplinano l’attività, vale a dire in particolare il T.U. delle leggi sanitarie del
1934, il D.M. recante il proprio profilo professionale, la legge n. 42 del 1999, la
legge n. 251 del 2000.
111
CAPITOLO 5
GIURISPRUDENZA IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEGLI
ESERCENTI ALCUNE PROFESSIONI SANITARIE
5.1. L’interesse del tema
In
questo
capitolo
giurisprudenziale,
si
per
procederà
analizzare
con
il
l’analisi
di
recepimento
una
della
casistica
normativa
disciplinante l’esercizio professionale discussa nei precedenti capitoli e la sua
applicazione nel concreto.
Verranno esaminate sentenze che hanno coinvolto alcuni professionisti
infermiere,
ostetrica
e
fisioterapista
scelti
come
maggiormente
rappresentativi della professione sanitaria. È da precisare che in
giurisprudenza si possono trovare sentenze in cui sono state coinvolte altre
figure professionali, ma che si è scelto di non discutere poiché isolate (per
quella professione) e quindi difficilmente valutabili..
Le sentenze sono riportate raggruppate per professione, indi per tipologia di
addebito e di condotta, ulteriormente suddivise per ordine cronologico.
Apposite tabelle riassumono nei diversi paragrafi le normative di riferimento
con particolare riguardo al profilo professionale ed ai pertinenti articoli della
legge 251/2000.
5.2. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’infermiere
5.2.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione
Sono riportate nel box 5.1 due fonti normative indispensabili per la
comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo.
Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle norme di carattere generale
citate in giurisprudenza, si rinvia alla trattazione sviluppata nel capitolo 2.
Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con
riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate
112
correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della
condotta professionale censurata.
Box 5.1 – Il profilo professionale dell’infermiere e ambito di autonomia secondo l’art. 1
della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie
infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della
professione ostetrica”
D. M. 14 settembre 1994, n. 739 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del
relativo profilo professionale dell'infermiere”.
Art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell'infermiere con il seguente profilo: l'infermiere è
l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo
professionale è responsabile dell'assistenza generale infermieristica.
2. L'assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale,
educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di
tutte le età e l'educazione sanitaria.
3. L'infermiere:
a) partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di
assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;
c) pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico;
d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche;
e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; f) per
l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto;
g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e
nell'assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale.
4. L'infermiere contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente
all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca. 5. La formazione infermieristica
post-base per la pratica specialistica è intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale delle conoscenze
cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni infermieristiche nelle
seguenti aree: a) sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica;
b) pediatria: infermiere pediatrico;
c) salute mentale-psichiatria: infermiere psichiatrico;
d) geriatria: infermiere geriatrico;
e) area critica: infermiere di area critica.
6. In relazione a motivate esigenze emergenti dal Servizio sanitario nazionale, potranno essere individuate,
con decreto del Ministero della sanità, ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica.
7. Il percorso formativo è definito con decreto del Ministero della sanità e si conclude con il rilascio di un
attestato di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l'esercizio delle funzioni
specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative. La natura preferenziale del
titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in presenza di mutate
condizioni di fatto.
Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione nonchè della professione ostetrica”.
Art. 1. (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica) 1. Gli operatori delle professioni
sanitarie dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con
autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e
collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché
dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza.
…
113
5.2.2. Lesioni personali colpose, omicidio colposo ed interruzione colposa della
gravidanza in relazione a carenze nella presa in carico nell’ambito dell’assistenza
infermieristica
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 9638, 13 settembre 2000.
Un marinaio di leva, D.D., ebbe un incidente alla stazione centrale di Bari il
2 settembre 1992 alle ore 5,15, dove cadde violentemente sbattendo la testa
sul marciapiede; fu trasportato in stato di semi-incoscienza al pronto
soccorso del Policlinico di Bari. L’infermiere C., presolo in consegna, pensò,
stante la presenza di tracce di vomito, si trattasse di un ubriaco. L’uomo
venne condotto nella sala di chirurgia dove si trovavano l’infermiere D. e
l’infermiera R., assieme al dottor T.: quest’ultimo, impegnato con un’altra
paziente, si limitò a disporre che fosse chiamato un internista (che stava al
piano di sopra); in attesa, il marinaio fu trasferito nella sala d’aspetto del
pronto soccorso. Nessuno degli infermieri, tuttavia, chiamò il medico,
neanche P., giunto alle sei per il cambio e informato dei fatti. Il paziente
rimase privo di assistenza fino alle 8,15, quando una assistente di polizia di
servizio al pronto soccorso si accorse che era inanimato. Una TAC evidenziò
un esteso ematoma extracerebrale, che, nonostante due interventi successivi,
causò il decesso dell’uomo dopo quattro giorni.
Il Pretore di Bari, in data 10 aprile 1996, ha ritenuto colpevoli di omicidio
colposo e il medico T. e gli infermieri R., D. e C.. La Corte di Appello di
Bari, in data 2 novembre 1998, conferma la sentenza. I condannati sono
ricorsi in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza.
La Suprema Corte accoglie il ricorso del dottor T., dato che egli, impegnato
al momento in cui il marinaio D. è stato portato alla sua attenzione, ha
disposto che venisse chiamato un internista ad occuparsi del paziente; e se in
effetti gli internisti fossero stati chiamati, le cose sarebbero andate in modo
diverso. Il medico ben poteva fare affidamento sulla esecuzione di quanto
disposto, visti il destinatario (infermieri operanti in pronto soccorso) e la
114
natura dell’ordine (sarebbe bastato contattare uno degli internisti attraverso
il citofono).
La condotta degli infermieri è stata dalla Corte censurata: dal momento in
cui è stato loro impartita una disposizione, dalla cui esecuzione sarebbe
dipeso l’intervento di un medico a favore di un paziente, essi hanno accolto
la responsabilità delle conseguenze che avrebbero potuto scaturire dalla non
(o non tempestiva) esecuzione dell’ordine. Gli infermieri hanno assunto una
posizione di protezione, di garanzia, che non poteva essere trasferita ai
colleghi del turno successivo, dato che il compito affidato non richiedeva che
pochi secondi (rimanendo così all’interno del loro turno).
La Corte di Cassazione, per arrivare ad affermare la titolarità di una
posizione di garanzia in capo a medici ed infermieri, ha fatto riferimento agli
artt. 2 e 32 della Costituzione: il primo, nel riconoscere i diritti inviolabili
dell’uomo, esige l’adempimento dei doveri di solidarietà anche sociale; il
secondo articolo tutela il diritto alla tutela della salute dei cittadini. Ai
professionisti sanitari è di conseguenza attribuita una posizione di
protezione dell’integrità fisica delle persone che vengono affidate alle loro
cure, una posizione che rappresenta - come scrive la Corte – un’”espressione
di solidarietà”.
È necessaria un’ultima precisazione lessicale, posto che la Corte utilizza
l’espressione, ormai desueta, “paramedici” che, poco rispettosa della dignità
alla figura degli infermieri, stride con l’impostazione culturale proposta dalla
stessa Cassazione.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 9739, 1 marzo 2005.
Un uomo riportò ustioni sul 50% del corpo, tra l’ottobre ed il novembre
1995 e fu sottoposto a due interventi chirurgici a distanza di un mese l’uno
dall’altro. Dopo il secondo intervento chirurgico, andato a buon fine e
terminato in serata, il paziente fu portato in reparto, dove fu sostanzialmente
abbandonato a se stesso fino alle sette del mattino del giorno seguente,
115
quando fu trasportato in rianimazione dalle infermiere del nuovo turno: morì
alle otto per arresto cardiocircolatorio irreversibile da shock infettivo e
ipovolemico. Durante la notte la moglie del D. e un’amica infermiera
avevano reiteratamente richiamato l’attenzione delle infermiere in servizio
(C. e P.), ma non fu mai chiamato il medico di guardia interdivisionale (il
dottor G.); i controlli, gli esami e le terapie prescritte dal dottor D. che
aveva operato il paziente, non furono eseguiti in modo completo.
Tutti gli imputati sono stati assolti in primo grado in considerazione della
mancanza di prova della sussistenza dell’indispensabile nesso causale. In
appello la decisione è ribaltata, sulla base di una nuova perizia medico-legale
disposta dalla Corte e sulla conseguente acquisizione ad opera dei periti del
“diario infermieristico” della notte del decesso. I medici e le due infermiere
sono dunque condannati in via definitiva per omicidio colposo ai danni di S.. I dottori D. e G. sono stati condannati perché avrebbero dovuto comunque
seguire il paziente nel post-operatorio, essendo stato sottoposto ad un
intervento di alta chirurgia molto delicato, cui avrebbe dovuto seguire
un’attenta osservazione dell’uomo: i medici avrebbero dovuto recarsi di
tanto in tanto a controllarlo, invece di lasciarlo solo di notte con il personale
infermieristico, o almeno eleggere qualcuno che potesse prendere il loro
posto.
Le infermiere, dal canto loro, non si sono accorte che il loro assistito si stava
completamente dissanguando e disidratando; eppure la moglie le chiamò
ripetutamente avvertendo che il marito accusava brividi, vomito e scarsità di
urine,
senza
però
ottenere
nulla
se
non
rassicurazioni.
Hanno
completamente abbandonato il paziente, venendo meno, come ha
sottolineato la Corte, a quella posizione di garanzia che sorge in capo agli
operatori sanitari rispetto a chi è loro affidato. Le due professioniste
sanitarie ben avrebbero potuto richiamare l’attenzione del medico di guardia,
che tra l’altro era presente al suo posto, e non limitarsi a proferire parole
tranquillizzanti e fornire otto coperte.
116
La Suprema Corte ha affermato in modo preciso che le doverose attività che
scaturiscono dall’esistenza di una posizione di garanzia, gravano anche sugli
infermieri.
■ Corte di Appello di Milano, II sezione,16 dicembre 2005.
In questo caso, insolitamente, l’unica imputata è un’infermiera.
Nel gennaio 2000 una donna alla 36a settimana di gravidanza è ricoverata in
ospedale nel reparto di ostetricia; è affetta da pre-eclampsia. Il consulente del
PM indica che la patologia comporta una più alta probabilità che si verifichi
un distacco intempestivo della placenta: unico rimedio in tal caso è il taglio
cesareo, che risulterà tanto più efficace per salvare il feto ormai maturo,
quanto più sarà effettuato tempestivamente rispetto al manifestarsi dei primi
sintomi (il completo distacco dovrebbe avvenire gradualmente nell’arco di
ore; anche se in alcuni casi il distacco è talmente repentino da non lasciare
spazio ad alcun intervento).
La
donna
fu
costantemente
monitorata
fino
all’ultimo
tracciato
tococardiografico delle 23,20, durante il quale il feto risultava ancora vivo e
vitale. Verso la mezzanotte iniziarono i primi disturbi addominali, ma la
paziente non trovò nel reparto personale infermieristico, fino all’incontro
con l’infermiera del vicino reparto di neonatologia verso le ore 1,30.
L’infermiera la rassicurò e disse che sarebbe andata a chiamare un medico; il
medico arrivò che poco prima delle 3, quando ormai le condizioni della
degente si erano fatte preoccupanti e i dolori molto forti: il tracciato
effettuato subito dopo il sopraggiungere del medico non mostrava segni
vitali; il feto fu estratto morto.
La sentenza di primo grado condannava l’infermiera per il reato di cui all’art.
17 della legge n. 194/1978 – interruzione colposa della gravidanza –, perché
ella non avrebbe avvisato subito il medico (bensì soltanto sulle 2,50),
causando così la sua omissione la morte del feto, che un taglio cesareo
tempestivo (cioè in un tempo vicino all’incontro con la paziente) avrebbe
117
evitato con alto grado di probabilità logica e razionale. La decisione della
Corte di Appello è di segno contrario, e si pronuncia per l’assoluzione; le
risultanze istruttorie non hanno fornito secondo il collegio giudicante la
certezza del nesso eziologico tra l’azione dell’appellante e l’evento dannoso:
l’accusa non è riuscita a provare che una tempestiva segnalazione delle
condizioni della paziente da parte dell’imputata al medico di turno, avrebbe
evitato la morte del feto al di là di ogni ragionevole dubbio, poiché non vi è
alcuna certezza sul dato temporale inerente l’esordio della sintomatologia
addominale (è solo un’ipotesi che sia collocabile intorno alle ore 24) né
sull’esatto orario della morte.
È pienamente provata la condotta colposa omissiva da parte dell’imputata.
L’infermiera avrebbe in effetti incontrato la paziente intorno alle ore 1,30 in
base al racconto di quest’ultima, comparato a quello dell’imputata e ai
riscontri oggettivi. Il ritardo nell’avvisare il medico costituisce condotta
molto grave, avendo la paziente reso noto che le sue condizioni di salute
stavano peggiorando ed essendo risaputo che il reparto di ginecologia era
caratterizzato da disservizi e carenze organizzative.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 20584, 12 febbraio 2010.
Due medici e due infermiere sono imputati del delitto di omicidio colposo ai
danni di un diciannovenne, sottoposto ad un intervento di chirurgia maxillofacciale. Poco dopo il termine dell’operazione si era verificata un’emorragia,
arrestata con la somministrazione di un farmaco antiemorragico. Il giovane
aveva lamentato da subito difficoltà respiratorie secondo quanto riferito dai
genitori, i quali avevano notato anche un rigonfiamento del viso e del collo a
partire da qualche ora dopo l’intervento. Si era poi accertato un
aggravamento delle condizioni del paziente, per un’insufficienza respiratoria
acuta, che determinò il decesso: da una lesione vascolare era originato un
infarcimento emorragico della lingua e del pavimento della bocca con
progressivo aumento del loro volume, che era andato a chiudere lo spazio
118
aereo orale ed orofaringeo. Le due infermiere erano entrate in servizio
quando le condizioni del giovane si erano fatte più serie, ma avevano omesso
di avvisare il medico reperibile.
In primo grado, il Tribunale di Lecce ha dichiarato gli imputati colpevoli del
reato di cui all’art. 589 c.p.; la Corte di Appello ha confermato.
Nel ricorso, il capo dell’équipe operatoria ha sostenuto che la sua posizione
di garanzia sarebbe stata trasferita sull’altro medico coimputato e sulle due
infermiere, e che queste ultime fossero le sole responsabili di quanto
avvenuto, essendo in grado di prestare l’assistenza postoperatoria necessaria
ad un paziente sottoposto ad un intervento come quello praticato e quindi di
avvisare il medico reperibile in caso di peggioramento delle condizioni.
Le due infermiere hanno denunciato la contraddittorietà della sentenza
impugnata: basando la responsabilità delle stesse sul fatto che non avrebbero
dato adeguata importanza al gonfiore del viso e del collo del paziente, i
giudici avrebbero loro attribuito una competenza diagnostica, in realtà
attribuibile ai soli medici.
La Corte ha preso in considerazione la posizione del medico capo équipe,
sottolineando la prevedibilità della rottura del vaso sanguigno e l’immediato
manifestarsi di circostanze indicanti complicanze: una lieve emorragia e
difficoltà respiratorie. Inoltre ha affermato che il capo équipe, nel trasferire a
terzi la sua posizione di garanzia, non aveva curato di fornire le necessarie
indicazioni terapeutiche al paziente, lasciato al personale definito
“paramedico”, rivelatosi negligente ed assente. Precisa la Corte che gli
obblighi di garanzia connessi all’esercizio della professione sanitaria possono
ben essere delegati con esclusione della responsabilità del titolare originario,
ma il delegato deve essere persona capace e competente nel settore ed il
delegante deve comunque tener conto della gravità dello stato di salute del
paziente. Essendo per questi motivi già in colpa, il medico non può invocare
a propria scusante la condotta colposa altrui.
119
Quanto alle due infermiere, la Cassazione ritiene che il comportamento loro
richiesto rientrasse perfettamente nella specifica competenza infermieristica:
le due professioniste sanitarie avrebbero dovuto prestare attenzione alle
reiterate richieste d’intervento dei familiari del paziente, allarmati in
particolare dalle crescenti difficoltà respiratorie; essendo in possesso di
sufficienti cognizioni tecniche, avrebbero anche dovuto percepire l’anomalia
del gonfiore di viso e collo ed informare il medico reperibile.
Confermata la responsabilità degli imputati – anche del medico reperibile
che avrebbe comunque dovuto farsi maggior carico della gravità delle
condizioni – i ricorsi sono stati respinti.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 24573, 20 giugno 2011.
La sentenza scaturisce dal ricorso presentato avverso una sentenza di non
luogo a procedere del GUP nel Tribunale di Trani, nei confronti di tre
medici e due infermieri per il reato di omicidio colposo.
Nel settembre 2005 un uomo coinvolto in un sinistro stradale era stato
portato al pronto soccorso dell’ospedale civile di Canosa di Puglia alle sei del
mattino. Il referto riportava frattura della tibia sinistra, contusioni escoriate
multiple, ferita lacero-contusa al gomito sinistro ed alla regione mentoniera.
Una radiografia del cranio non evidenziava alterazioni.
Era eseguito intervento di ricomposizione della frattura all’arto inferiore
destro. Nel corso della fase post operatoria, a partire dalle ore 16 circa,
invano la moglie tentava di richiamare l’attenzione dei professionisti sanitari
sulle condizioni in peggioramento del marito, che accusava stimolo al
vomito, intensa sudorazione e sanguinamento. La gravità della situazione
era rilevata da un medico del pronto soccorso soltanto alle 21,40: sottoposto
a TAC, il paziente era trasferito in stato di coma ed insufficienza
cardiocircolatoria terminale a causa di un trauma canico; il decesso avvenne,
alcuni
giorni
dopo,
nonostante
una
dell’ematoma.
120
craniotomia
per
evacuazione
Il GUP escluse nel caso di specie la colpa professionale per tutti i medici che
ebbero in cura il paziente: il medico che per primo l’aveva visitato in pronto
soccorso (che non aveva disposto immediatamente la TAC e non aveva
diagnosticato il trauma cranico commotivo), l’ortopedico che l’aveva operato
alla tibia e quello di turno nel reparto d’ortopedia durante la fase postoperatoria (cui era stato contestato di aver esaminato superficialmente la
cartella clinica del paziente, sottoponendolo ad un intervento in anestesia
generale – sconsigliata –, senza poi svolgere alcun monitoraggio o
valutazione neurologica). Il giudice, travisando completamente la natura
dell’udienza preliminare1, si era basato unicamente sulle conclusioni del
consulente della difesa (in modo apodittico, senza compararle con gli esiti
delle altre consulenze tecniche), in sostanza affermando illogicamente
l’inutilità del dibattimento, nel corso del quale – come ha specificato la
Cassazione – ben potrebbero essere sottoposti al vaglio i diversi elementi
contraddittori emersi (dissenso tra le versioni dei parenti e dei sanitari, e tra
le conclusioni dell’una o dell’altra tesi scientifica).
Circa
il
personale
infermieristico
–
ancora
una
volta
definito
anacronisticamente paramedico –, il GUP ritiene che essi non rivestano
alcuna posizione di garanzia, non avendo l’obbligo di avvertire il medico del
reparto di qualsiasi lamentela, o di valutare e percepire le sintomatologie dei
pazienti; inoltre, cancellando gli ultimi dieci anni di giurisprudenza e di
rivoluzioni in ambito normativo, attribuisce loro una mera funzione
ausiliaria del personale medico, senza alcuna autonomia valutativa sul
“… l’udienza preliminare ha natura prevalentemente processuale, avendo, pur anche a seguito dell’intervenuto
ampliamento dei poteri officiosi in tema di prova, lo specifico scopo di evitare dibattimenti inutili, piuttosto che
quello di accertare l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato”. Corte di Cassazione, IV sezione penale,
sentenza n. 24573/11.
1
In base all’art. 425, comma 3, cod.proc.pen, il non luogo a procedere andrebbe pronunciato soltanto qualora
manchino ragionevolmente le condizioni su cui fondare una prognosi favorevole all’accusa (risulti insomma
impossibile sostenere con successo la tesi accusatoria in dibattimento), anche quando gli elementi acquisiti
risultano insufficienti o contraddittori (insufficienza e contraddittorietà potenzialmente superabili in
dibattimento).
121
quadro clinico del paziente in relazione alle cure ed interventi cui è stato
sottoposto.
Nell’annullare la sentenza impugnata, la Corte stigmatizza come
“improponibile giuridicamente” tale assunto del GUP, che mortifica le
competenze professionali dell’infermiere fraintendendo i principi di base
applicabili in merito: “… rientra nel proprium dell’infermiere quello di
controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto,
sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento
del medico”.
In questo, come in altri casi, il decesso è avvenuto anche perché gli
infermieri non hanno prestato attenzione alle continue sollecitazioni dei
familiari
che,
accorgendosi
di
una
evoluzione
peggiorativa
della
sintomatologia, richiedono la presenza di un medico: non qualunque
lamentela deve essere comunque presa in considerazione, ma sicuramente
quelle che appaiano “idonee a fondare un ragionevole dubbio sulle condizioni
di salute del degente”.
■ Valutazioni riassuntive
In queste sentenze è enfatizzato il fatto che gli infermieri, come tutti gli altri
professionisti sanitari, sono ex lege portatori di una posizione di garanzia nei
confronti dei pazienti affidati alle loro cure: si tratta di una posizione di
protezione consistente nella tutela di un bene giuridico, contro un pericolo
che ne minacci l’integrità, un obbligo di attivarsi per evitare eventuali danni.
Emerge in definitiva che è proprio dell’infermiere l’obbligo di effettuare
appropriate
valutazioni
assistenziali,
in
particolare
in
relazione
all’evoluzione del quadro clinico post-operatorio, e di coinvolgere altri
professionisti qualora emergano complicanze o fatti tali da richiedere
ulteriori competenze.
La dottrina della posizione di garanzia nasce dall’art. 40, comma 2, del
codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di
122
impedire, equivale a cagionarlo”; è dunque punito chi ha un preciso obbligo
giuridico di impedire un evento, e solo per essi si ha una corrispondenza
normativa tra il non impedire ed il cagionare l’evento. Quest’obbligo
giuridico, che sorge in capo a chi ricopra una certa posizione, deve essere di
conseguenza individuato, non essendo esplicitato dall’ordinamento. Si tratta
di una sorta di speciale vincolo di tutela tra un soggetto garante ed un bene
giuridico, ovviamente determinato dall’incapacità del titolare a proteggerlo
autonomamente.
La genesi della titolarità della posizione di garanzia è diversa a seconda che
sia attribuita a soggetti che svolgono un’attività sanitaria rispetto alla
generale applicabilità del principio. Nel primo caso la posizione di garanzia
scaturisce dalla peculiarità della professione sanitaria, avente come scopo la
salvaguardia della vita e della salute del paziente: risulta perciò sufficiente
l’effettivo esercizio dell’attività svolta (di medico o infermiere) per far sì che
sorgano gli obblighi connessi a tale funzione di fatto esercitata. La Corte,
per fondare la posizione di garanzia dei professionisti sanitari, è ricorsa
all’art. 2 della Costituzione, ma il dovere di solidarietà in esso sancito è
generale e non un obbligo specifico: per taluno si tratta di un’eccessiva
dilatazione degli obblighi specifici propri dei professionisti sanitari.
Per ulteriori considerazioni specificamente attinenti la professione di
infermiere ed il relativo profilo, si rinvia alle osservazioni sviluppate nel
paragrafo 2 del capitolo 2.
5.2.3. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a smarrimento di
corpi estranei in corso di intervento chirurgico
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 18568, 18 maggio 2005.
Tre chirurghi e due strumentisti sono accusati del reato di lesioni colpose
gravi, ex art. 583 c.p., per aver causato un laparocele, con indebolimento
permanente della funzione contenitiva della parete addominale, in danno del
loro paziente D.A., nel cui corpo era stata abbandonata una pinza nel corso
123
di un intervento chirurgico per un’occlusione intestinale, eseguito in équipe.
In primo grado tutti gli imputati sono condannati; in appello è assolta per
non aver commesso il fatto una delle infermiere, mentre è confermata la
condanna per la strumentista B.R.. Quest’ultima non ha proposto ricorso in
Cassazione, contrariamente a quanto hanno fatto i medici; i loro ricorsi sono
respinti.
In questa sentenza la figura dello strumentista è trattata solo
marginalmente, non avendo nessuna delle due proceduto con ricorso in
Cassazione, eppure la motivazione è molto interessante proprio in
riferimento al loro ruolo, posto a confronto con quello dei chirurghi in sala
operatoria.
La Corte ha ribadito il convincimento dei giudici di primo e di secondo
grado, in base al quale non sarebbe possibile qui applicare il cosiddetto
principio dell’affidamento: tutti gli imputati avrebbero omesso per loro
negligenza il doveroso reciproco controllo sull’uso delle pinze chirurgiche e
chi è già di per sé in colpa non può far affidamento su altri.
Il passo della motivazione di maggior rilievo è quello in cui la Corte
riprende l’obiezione delle difese dei medici circa la mancata considerazione
dell’errore nella conta dei ferri da parte della strumentista; da una tale presa
in considerazione dovrebbe derivare, secondo la difesa dei chirurghi,
un’esclusione della loro colpevolezza, da farsi ricadere unicamente su chi
aveva il compito del conteggio degli strumenti chirurgici. La Corte –
ribadendo quanto già argomentato dai giudici di secondo grado – ha
affermato che i medici comunque conservano sugli ausiliari ai quali affidano
l’esecuzione di un compito, un dovere di vigilanza. Tale dovere nel caso
specifico non sarebbe stato osservato, e ciò ha contribuito a far sorgere la
responsabilità in capo ai chirurghi.
124
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 38360, 22 febbraio 2006.
Un infermiere è definitivamente condannato per lesioni colpose gravi
causate da una garza lasciata nell’addome della paziente.
Risulta che durante un intervento di appendicectomia era dimenticata una
garza all’interno della cavità addominale del paziente, all’epoca tredicenne;
che nei mesi successivi si erano resi necessari due ulteriori operazioni per la
rimozione del corpo estraneo e per effettuare la resezione di un’ansa
intestinale per una lunghezza di 32 cm: tutto ciò aveva cagionato un
indebolimento
permanente
della
funzione
digestiva.
Accusati
di
cooperazione nel delitto di lesioni colpose, due chirurghi (già separatamente
condannati con sentenza divenuta irrevocabile) e l’infermiere, facente parte
dell’équipe chirurgica.
L’infermiere è stato condannato sia in primo che in secondo grado. La Corte
di Cassazione, rigettando il ricorso, ha precisato che l’infermiere non aveva
adeguatamente controllato che le garze introdotte nell’addome venissero
tutte rimosse alla conclusione dell’intervento.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 15282, 11 aprile 2008.
I tre imputati – chirurgo, strumentista, infermiere di sala – sono stati
condannati in ogni grado di giudizio fino alla conferma in Cassazione per
omicidio colposo, ex art. 589 c.p.. Nell’agosto del 2000, A.L., affetta da
cancro, è stata sottoposta ad intervento di asportazione e ricostruzione della
vescica: operazione eseguita in massima parte dal chirurgo V. (imputato), cui
è subentrato il dottor P., insieme con la infermiera strumentista G. e
l’assistente di sala L.. La donna ha poi effettuato la chemioterapia, fino a
novembre, quando si è reso necessario un nuovo intervento urgente per
eliminare un trombo; le analisi di quello stesso giorno evidenziavano anemia
e filamenti metallici nell’addome. Pertanto, il giorno dopo, ad A.L.,
sottoposta a nuovo intervento chirurgico, è stata riscontrata una
perforazione intestinale e la presenza di una pezza laparotomica in addome
125
riferibile all’intervento eseguito in agosto. Da quel momento la situazione è
peggiorata fino alla peritonite e all’infarto intestinale, che ha provocato la
morte della donna il 27 novembre. Le tesi difensive hanno insistito sulla
insussistenza del nesso causale tra l’abbandono della pezza e l’infarto
intestinale, ma sono state così confutate: sulla base dei rilievi autoptici,
“l’esistenza di una relazione topografica fra le sedi della necrosi intestinale
ischemica costituente l’infarto ed il coinvolgimento aderenziale connesso al
corpo estraneo addominale; si sarebbe instaurato del magma aderenziale in
addome, cagionato dal telo relitto, che avrebbe poi compromesso a diversi
livelli la vascolarizzazione delle anse intestinali” (di lì quindi l’infarto). Il
perito ha escluso l’esistenza di cause diverse, “posto che con ogni
verosimiglianza, in condizioni di vascolarizzazione omogenea della massa
intestinale, la sofferenza ischemica avrebbe necessariamente interessato in
modo uniforme l’intestino e non in modo segmentato, come nel caso in
questione”.
La strumentista ha cercato di negare la propria responsabilità, attribuendola
piuttosto all’infermiera di sala (non sterile ed avente una funzione di
supporto), che si era occupata di ritirare le garza sporche, contandole e
registrandone i quantitativi nell’apposita scheda. La strumentista è stata
impegnata per ben 7 ore (tanto è durato l’intervento) a fornire ai chirurghi
gli strumenti necessari, il che richiede una costante e totale attenzione, tanto
da non permetterle di tenere a mente il numero delle bende utilizzate, né
tanto meno di leggere la scheda redatta dall’assistente di sala. Quest’ultima
si è difesa attribuendo il compito del conteggio esclusivamente alla
strumentista e al chirurgo, e indicando che nella documentazione aveva
riportato solo quanto le era stato comunicato da altri.
La Corte di Cassazione osserva che la giurisprudenza di legittimità è
indirizzata nel senso di considerare responsabile l’intera équipe medica nel
caso di abbandono di un corpo estraneo nell’addome del paziente. Oltretutto
nel presidio ospedaliero è risultato vigente un protocollo sulla modalità di
126
esecuzione dei conteggi delle garze e dei ferri chirurgici, che prevede che vi
provvedano in primo luogo l’infermiere strumentista e l’infermiere di sala,
con verifica finale del medico chirurgo. Nel caso in esame, questo controllo
finale non è stato effettuato dal dottor V. quando ha finito la sua parte di
intervento, perciò è stato condannato.
Anche l’assistente di sala avrebbe potuto riscontrare l’esistenza della
discordanza nei conteggi delle garze, dato che era nella sua disponibilità la
relativa documentazione.
La strumentista aveva compiti specifici in merito: pertanto avrebbe dovuto
controllare che non vi fossero incongruenze con la scheda compilata
dall’infermiera di sala; i pertinenti controlli non sono stati espletati,
essendosi limitata a chiedere la conta all’assistente L..
Tutti i diversi controlli sono affidati all’intera équipe, “proprio per evitare
che la pluralità dei difficili compiti a ciascuno demandati, le imprevedibili
contingenze
di
un’attività
intrinsecamente
complessa
come
quella
chirurgica, la stanchezza o la trascuratezza dei singoli, o altre circostanze
possano comunque condurre ad un errore che ha conseguenze sempre
gravi”.
■ Tribunale di Roma, XIII sezione civile, 10 marzo 2004.
Una donna nel corpo della quale erano state lasciate due garze durante un
parto cesareo, rimosse dopo due anni, è parte attrice nel processo. È
convenuto il medico che aveva eseguito l’intervento.
Il medico a sua volta chiama in causa, formulando domanda di regresso ex
art. 1299 c.c. nel caso fosse stata riconosciuta la sua responsabilità,
l’assistente e lo strumentista dell’équipe che aveva condotto a termine il
cesareo.
Il giudice, dopo aver accolto la domanda nei confronti del convenuto così
come formulata, ha accolto anche le domande di regresso sia nei confronti
dell’altro medico assistente che dell’infermiera strumentista.
127
Gli eventi si erano svolti pochi mesi prima dell’entrata in vigore del profilo
professionale del 1994; il Tribunale ha fatto appello all’obbligo, imposto da
una comune regola di prudenza, di predisporre e contare garze e ferri
chirurgici passati al chirurgo, prima e dopo l’intervento.
Sussistendo tale obbligo, l’infermiera non avrebbe potuto semplicemente fare
affidamento sulla corretta esecuzione dell’intervento da parte del chirurgo:
secondo la “teoria dell’affidamento” richiamata dall’organo giudicante non
qualsiasi obbligo di controllo e vigilanza verrebbe meno.
Il Tribunale ha perciò affermato come l’omissione della ferrista integrasse
gli estremi della colpa, che poi determinato, quanto all’accertamento della
quota di responsabilità addebitabile a ciascuno dei coobbligati, nella misura
del 20%.
■ Valutazioni riassuntive.
L’orientamento giurisprudenziale si è costantemente indirizzato nel senso di
estendere l’attribuzione di responsabilità a tutti i componenti dell’équipe
chirurgica, conferendo comunque importanza al principio dell’affidamento,
in base al quale ciascuno può contare sul corretto comportamento degli altri
componenti l’équipe chirurgica: principio che è conseguenza della
specializzazione e divisione dei compiti tra medici ed infermieri.
La Raccomandazione n. 2 del 2008 del Ministero della Salute volta a
prevenire la ritenzione di materiale all’interno del sito chirurgico, indica che
il conteggio e il controllo dell’integrità dello strumentario deve essere
effettuato dal personale infermieristico (strumentisti ed infermieri di sala) o
altro personale di supporto avente tale funzione; ma in ogni caso “il chirurgo
verifica che il conteggio sia stato eseguito e che il totale di garze utilizzate e
rimanenti corrisponda a quello delle garze ricevute prima e durante
l’intervento”2.
Paragrafo 4 della Raccomandazione n. 2 del 2008 del Ministero della Salute. Si specifica che il conteggio e il
controllo dell’integrità dello strumentario deve essere effettuato dal personale infermieristico (strumentisti ed
infermieri di sala) o altro personale di supporto avente tale funzione e il chirurgo deve in ogni caso verificare.
2
128
Se l’attività di conteggio e controllo del materiale chirurgico è demandata al
personale infermieristico – ed è di sua esclusiva competenza – allora non si
spiega il motivo per cui il medico debba sempre e comunque supervisionare
quanto fatto dagli altri membri dell’équipe quasi fossero subalterni, quando
dovrebbero agire in completa autonomia e responsabilità nel loro ambito. Se
invece è un’attività di competenza anche del chirurgo, non è chiaro come
questi impegnato in un delicato intervento chirurgico potrebbe prestare
attenzione alla conta delle garze, mentre dovrebbe potersi affidare a quanto
a lui comunicato dagli strumentisti.
Persistono
dunque
preconcetti
e
mancato
riconoscimento
della
professionalità che avrebbero dovuto avere termine dopo le leggi n.42/1999
e n. 251/2000. Oggi, per i fatti avvenuti a partire dal marzo 1999 o almeno
dal settembre 2000, circa la conta dei ferri chirurgici – attività che attiene
alla generale assistenza infermieristica – è responsabile il solo strumentista.
5.2.4. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a incidenti vari
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 7082, 27 luglio 1983.
Ci sono altri incidenti che possono incorrere in sala operatoria.
Uno di questi è rappresentato dalle lesioni causate dal non corretto
posizionamento del corpo del paziente sul lettino prima dell’intervento.
Una datata sentenza del 1983, la per la precisione, ha attribuito la
responsabilità per la compressione del braccio destro del paziente provocata
da viziato posizionamento sul tavolo operatorio, al medico anestesista.
Un uomo, sottoposto ad intervento chirurgico di colecistectomia, riporta una
lesione del nervo ulnare avente carattere di permanente indebolimento
dell’organo della prensione. La lesione è causata da protratta compressione
periferica sul nervo stesso a seguito dell’eccessiva contenzione del braccio
destro con tutta probabilità in posizione viziata.
129
La preparazione del malato per la sala operatoria è un compito che da
sempre spetta al personale infermieristico: “Il posizionamento del paziente in
sala operatoria è un peculiare compito dell’infermiere di sala”.
L’abrogato mansionario, vigente all’epoca dello svolgimento dei fatti,
specificava che competeva all’infermiere assistere il medico nelle varie
attività di sala operatoria. L’unico ritenuto responsabile, è stato ritenuto
pertanto il medico anestesista che, per la sua particolare mansione, presenzia
alle operazioni preparatorie eseguite nella pre-sala: il posizionamento del
paziente sul letto operatorio deve svolgersi sotto stretto controllo medico in
tutte le fasi e non soltanto a posteriori. Tale attività era per l’infermiere
soltanto ausiliaria e di assistenza all’anestesista, cosicché soltanto
quest’ultimo era considerato responsabile della regolarità della posizione
dell’operando sul tavolo.
■ Tribunale di Monza, IV sezione civile, 17 gennaio 2007.
La paziente A.D., dopo aver subito un’evidente lesione termica al secondo
dito della mano destra durante un intervento di rinosettoplastica, conviene
dinnanzi al Tribunale la struttura della A. S.r.l. di Monza per avere il ristoro
dei danni biologici, estetici, esistenziali e morali subiti.
La relazione del consulente tecnico accerta la responsabilità dell’infermiera
incaricata di posizionare la piastra dell’elettrobisturi a contatto con la coscia
destra della paziente: per la precisione, a causa della negligenza
dell’operatrice sanitaria, il dito della mano destra aveva subito un’ustione per
l’errato posizionamento del braccio destro lungo il corpo. Quella in esame è
una manovra più semplice rispetto a quella del posizionamento del paziente
sul tavolo operatorio, basta una diligenza minima affinché sia svolta in modo
corretto, tanto più che l’anestesista potrà effettuare il controllo con difficoltà
essendo il paziente posizionato sulla piastra stessa. È stata perciò esclusa la
responsabilità professionale dei medici che eseguirono l’intervento facendo
leva sull’affermazione secondo cui “l’infermiera professionale deve essere in
130
grado di eseguire correttamente i compiti, di sua pertinenza, che gli vengono
affidati dai medici”.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 10868, 15 dicembre 1983.
La sentenza si riferisce alla vicenda di una infermiera di sala operatoria che
aveva eseguito un errato innesto dei tubi, portanti protossido di azoto ed
ossigeno, dagli impianti centralizzati a quelli dell’apparato per anestesia:
questo comportava la morte di una prima paziente cui era stato
somministrato protossido di azoto anziché ossigeno e, prima che si
avvedessero della causa del malore e quindi della morte, le lesioni per un
secondo paziente.
L’art. 4 del mansionario affidava agli infermieri professionali specializzati in
anestesia – cui possono essere assimilati gli infermieri professionali non
specializzati in anestesia, che di questi ultimi siano destinati specificamente
alle mansioni di fatto – le mansioni di preparazione e controllo delle
apparecchiature e del materiale necessario per l’anestesia generale, e di
sorveglianza della regolarità del funzionamento degli apparecchi di
respirazione automatica. Vi era perciò la responsabilità dell’infermiera di sala
in ordine agli eventi dannosi, pur se l’inversione dei tubi fosse stata
materialmente effettuata da altri; ella avrebbe comunque avuto il compito di
controllare, esaminare, preparare le apparecchiature e sorvegliarne il
funzionamento. Oltretutto, per accorgersi dell’inversione era sufficiente una
comune prudenza: esistono apposite scritte di riferimento in corrispondenza
delle bocche murali, i tubi di aggancio e le bombole di riserva sono di colore
diverso a seconda del gas, gli innesti hanno una diversa sezione.
Anche il medico anestesista è stato considerato colpevole per aver omesso di
controllare, prima del trattamento anestetico, che tutte le apparecchiature
fossero in regola e non vi fossero difetti di funzionamento; la colpa è stata
ravvisata nella mancanza di diligenza nell’espletamento del suo compito,
considerando anche la normativa ex art. 1 della legge 9 agosto 1954, n. 653:
131
“il medico anestesista pratica direttamente sui malati sotto la propria
responsabilità gli interventi per anestesia, sorvegliando l’andamento del
trattamento”.
■ Valutazioni riassuntive.
Le indicazioni della sentenza del Tribunale di Monza in merito alla
responsabilità degli infermieri sono in linea con la rinnovata figura di tali
professionisti sanitari, anche se sono usate alcune espressioni – ad esempio
“personale ausiliario” – non più pertinenti alle funzioni dell’infermiere.
È da ricordare che nel 2009 è stato presentato dal Ministero della Salute il
“Manuale per la sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e Cecklist”.
Al punto 4 si tratta dell’argomento: “Preparare e posizionare in modo
corretto il paziente”. Si raccomanda che la direzione sanitaria aziendale
adotti una procedura (con previsione di specifico addestramento) “per il
corretto posizionamento dei pazienti e per le tecniche da adottare nelle
diverse tipologie di interventi, con particolare riferimento alle manovre da
evitare”. Si afferma la responsabilità di tutta l’équipe operatoria per il
corretto posizionamento del paziente, che deve essere individuato in base
non solo al tipo di intervento e alla necessità di sorveglianza anestesiologica,
ma anche al fine di evitare di “procurare danni fisici da compressione e/o
stiramento di strutture nervose, articolazioni e/o tessuti”. È di seguito
attestato che è compito dell’infermiere di sala operatoria posizionare il
paziente, sotto il controllo e le indicazioni dell’anestesista e assicurare la
protezione dei punti di compressione.
5.2.5. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a errata
somministrazione di farmaci
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 5359, 6 maggio 1992.
Gli imputati sono un’infermiera, l’infermiera caposala e il direttore del
reparto ospedaliero in cui si sono svolti i fatti e un’altra: essi avrebbero
132
cagionato per colpa la morte di due degenti, somministrando loro sodio
azide al posto del solfato di magnesio (sale inglese). La somministrazione
materiale fu dell’infermiera, che aveva per negligenza introdotto nel
bicchiere il sodio azide, il cui contenitore era stato lasciato sul carrello della
terapia orale e quindi scambiato per il flacone di sale inglese. La caposala, cui
la normativa assegnava mansioni di custodia delle sostanze velenose (art. 41
DPR n. 128 del 1969, allora vigente, oggi abrogato), aveva omesso di
controllare che tale sostanza fosse chiusa nell’armadio chiuso a chiave o
comunque conservato con particolare attenzione: la mancata custodia era
condizione essenziale per il verificarsi dell’evento. Il direttore era assolto in
appello perché non è stato ritenuto suo compito custodire le sostanze
venefiche e controllare che anche le mansioni esecutive fossero svolte
regolarmente.
La Cassazione ha rigettato i ricorsi dell’infermiera e della caposala,
confermandone la condanna.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 1878, 25 ottobre 2000.
Sono imputati di omicidio colposo plurimo 5 professionisti di un medesimo
reparto: due dirigenti medici; la caposala; un’infermiera; un’infermiera
generica. Il decesso era stato causato da avvelenamento da potassio, per la
somministrazione di fleboclisi contenenti tale sostanza in misura da 5 a 8
volte superiore a quella tollerata dall’organismo.
Per preparare le flebo era stato usato il prodotto “K flebo” al posto della
“Soluzione 4”, andata esaurita: entrambi contenevano potassio, ma il primo
farmaco aveva una concentazione maggiore del secondo, talché era
necessario cambiare dosaggio.
Chi materialmente preparò le flebo fu l’infermiera generica, assolta in
appello, su indicazione dell’infermiera; quest’ultima diede indicazioni alla
generica sulla base delle istruzioni ricevute dal primo medico: il diverso
133
dosaggio somministrato e rivelatosi poi mortale era “7 fiale di K flebo in
luogo di una di Soluzione 4”.
Il primo medico non aveva redatto una prescrizione scritta e dettagliata, con
l’esatto quantitativo di potassio o del numero di fiale del nuovo farmaco, e si
era limitato a dare indicazioni a voce alla infermiera, senza verificare il
corretto recepimento delle istruzioni e la loro successiva esecuzione. Il
secondo medico, dopo aver richiesto una fornitura urgente di fiale di “K
flebo”, non si era attivato per fornire al personale del reparto prescrizione
esatta sul quantitativo di potassio da immettere nelle flebo. I due medici non
solo non hanno fornito nessuna indicazione scritta, ma non si sono neanche
preoccupati di controllare come proseguisse la terapia dopo il cambio di
farmaco.
La caposala, condannata in appello, ha visto poi accolto il suo ricorso in
Cassazione. Richiamando la norma ex art. 41 del DPR n. 128/1969, la Corte
ha escluso che tra i compiti del caposala vi fosse anche quello di controllare
la prescrizione dei farmaci né a maggior ragione la preparazione delle flebo.
L’attività di somministrazione dei farmaci è quasi interamente di
competenza degli infermieri, perciò è stata esclusa la responsabilità della
caposala.
Di interesse è la posizione dell’infermiera che, pur tentando di difendersi
descrivendo se stessa come semplice esecutrice delle istruzioni dei medici,
non ha ottenuto l’accoglimento del ricorso. La Cassazione ha sottolineato
che l’attività di preparazione del flacone non deve essere prestata in modo
meccanicistico, bensì in un rapporto di collaborazione con il medico; qualora
l’infermiere nutra perplessità sul dosaggio prescritto, ha l’obbligo di attivarsi
in tal senso richiamando l’attenzione del medico per avere indicazioni certe e
non contestabili.
Dalla ricostruzione dei fatti, è emerso che l’infermiera non si è attivata
lasciando per iscritto ai colleghi la prescrizione del “K flebo”, nonostante si
trattasse di un farmaco diverso rispetto alla “Soluzione 4” adoperata in
134
precedenza; diversità di principio attivo di cui lei non poteva non essersi
accorta dato che aveva compilato personalmente la richiesta di fornitura di
“K flebo”, inserendovi tutti i dati presenti sul foglietto illustrativo del
farmaco.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 24360,16 giugno 2008.
Sono imputati di lesioni colpose gravissime (malattia superiore ai quaranta
giorni e deformazione permanente del viso) in danno di una paziente
sottopostasi ad intervento di rinoplastica, un chirurgo plastico e un
infermiere strumentista.
Il chirurgo aveva erroneamente somministrato (tramite infiltrazione
sottocutanea) alla paziente una soluzione, alla quale era stato aggiunto un
disinfettante contenente benzalconio cloruro in luogo di una soluzione
fisiologica; aveva preparato la soluzione lo strumentista. Entrambi in primo
grado sono stati considerati colpevoli, il chirurgo in particolare per non aver
controllato l’operato dello strumentista che è incorso nel fatale scambio.
In appello il medico è assolto sulla base del principio di affidamento: egli
aveva fornito allo strumentista, persona esperta che già aveva partecipato a
simili interventi, tutte le istruzioni per preparare la soluzione; inoltre non
era emerso alcun elemento dal quale dedurre la necessità di un più accurato
controllo o la ragionevole possibilità che potesse verificarsi un tale evento.
Il Procuratore Generale e l’infermiere propongono ricorso in Cassazione.
Quanto al chirurgo, la Cassazione osserva che il giudice d’appello ha
impropriamente applicato il principio dell’affidamento: nei casi di
compartecipazione alla medesima attività o qualora si agisca nello stesso
ambito di attività o nel medesimo contesto, solo quando si ha la percezione
(o si dovrebbe averla) che gli altri stiano violando le regole o si è in una
situazione in cui è prevedibile l’altrui inosservanza di una regola cautelare,
ne deriva l’obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Perciò questo
dovere di controllo sussisteva in capo al medico, e lo confermerebbe il fatto
135
che nella sala operatoria erano presenti diverse sostanze tutto inodori e
incolori, con un grave rischio di confondimento. Anche per quanto riguarda
lo strumentista mancano i presupposti per l’assoluzione nel merito.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 32424, 10 luglio 2008.
Ad un bimbo di meno di un anno, ricoverato per problemi di alimentazione,
erano somministrati alcuni farmaci tra cui una fiala di Isoptin;
immediatamente dopo sopravveniva un aggravamento, e il giorno seguente
la morte. È accertato che il decesso fu causato dalla somministrazione per
via endovenosa dell’Isoptin, che avrebbe invece dovuto essere somministrato
per via orale: una somministrazione orale avrebbe evitato l’avvelenamento
perché avrebbe garantito diverse modalità di assorbimento del principio
attivo.
Imputati erano il medico A.C., il medico specializzando S. e l’infermiera V.:
A.C. ed S., pur consapevoli delle modalità con cui il farmaco avrebbe dovuto
essere somministrato, mancavano di specificarlo sul “foglio di terapia”, anche
se la confezione indicava l’endovenosa.
Tutti e tre gli imputati hanno avuto confermata la condanna anche in
Cassazione: i due medici avrebbero dovuto prescrivere con chiarezza la
modalità di somministrazione, scrivendola sul foglio di terapia e comunque
avrebbero dovuto verificare che l’infermiera avesse correttamente inteso ciò
che era da fare: il loro comportamento, unitamente all’indicazione riportata
sulla confezione, ha fatto sì che si creasse una situazione di ambiguità, su cui
si è poi innestata anche la condotta negligente dell’infermiera. Quest’ultima
avrebbe dovuto chiedere chiarimenti ai medici, data la non completezza della
prescrizione e le preoccupazioni espresse dalla madre del bimbo, che aveva
informato l’infermiera del fatto che l’Isoptin era stato in precedenza
somministrato al figlio per via orale.
Né i medici né l’infermiera hanno prestato l’attenzione esigibile.
136
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 36554, 28 maggio 2009.
Un’infermiera e un medico sono accusati di omicidio colposo in danno di un
loro paziente, deceduto in seguito ad una rapida endovenosa di cloruro di
potassio. L’infermiera aveva somministrato la flebo su prescrizione del
medico
e
la
morte
era
avvenuta
immediatamente
per
collasso
cardiocircolatorio. Quest’ultimo, convenuto in separato giudizio, decideva di
patteggiare la pena.
In primo grado il giudice ha sostenuto che la somministrazione avrebbe
dovuto essere effettuata lentamente per via periferica e previa diluizione, per
prevenire il pericolo di un blocco del cuore.
Pur se la terapia era stata decisa dal medico, l’infermiera non è esente da
colpa dato che l’errore verte su cognizioni tecniche elementari appartenenti
al suo bagaglio scientifico e di esperienza; ella avrebbe dovuto almeno
chiedere
spiegazioni
sulle
conseguenze
di
una
tale
modalità
di
somministrazione del farmaco.
Dopo la condanna del primo giudice, in appello non è stato ritenuto
sussistente l’elemento psicologico del reato data la scarsa esperienza
dell’imputata che mai aveva utilizzato prima quel farmaco, e ciò non le ha
consentito di assumere una posizione di controllo (esprimendo dei dubbi)
delle decisioni di un medico ritenuto estremamente affidabile.
Il Procuratore Generale della Repubblica propone ricorso in Cassazione, che
è dichiarato inammissibile. Il ricorrente denunciava la mancata osservanza
della circolare del Ministero della Sanità n. 28 del 12 aprile 1986, che
prescrive l’obbligo per gli infermieri di richiedere al medico opportune
precisazioni in caso di dubbi sulle modalità di somministrazione endovenosa
di un farmaco. Invero, secondo la Corte, l’imputata non poteva nutrire dubbi:
il medico aveva messo per iscritto con precisione la terapia, indicandone le
modalità, perciò non appariva necessario alcun chiarimento. L’infermiera si
era affidata alla competenza e all’esperienza del medico, andando esente da
colpa.
137
■ Valutazioni riassuntive.
L’attività in cui più frequentemente l’infermiere può incorrere in errore è la
somministrazione di farmaci.
Per errore di terapia è da intendere ogni evento prevenibile che può causare
o portare ad un uso inappropriato del farmaco o a un pericolo per il paziente;
cinque sono le categorie di errore: errore 1) di prescrizione, 2) di
trascrizione/interpretazione, 3) di preparazione, 4) di distribuzione, 5) di
somministrazione.
È da sottolineare che, coerentemente con il processo di professionalizzazione
in corso, il profilo professionale specifica che “l’infermiere garantisce la
corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”. In base
all’art. 2 del mansionario approvato con D.P.R 14 marzo 1974, n. 225
all’infermiere professionale competeva la “somministrazione dei farmaci
prescritti”; somministrazione consentita solo per via intramuscolare,
percutanea, endovenosa. L’attuale profilo professionale stabilisce dunque che
è di competenza dell’infermiere la “corretta applicazione delle prescrizioni
diagnostico-terapeutiche” e non la mera esecuzione delle prescrizioni
mediche. L’infermiere ha pertanto funzione garantista delle procedure
dettate secondo la miglior scienza ed esperienza attuali.
Dopo l’abrogazione del mansionario, che sul punto era più drastico (il tema è
dettagliato nel paragrafo 2 del capitolo 2), continua a essere comunque
necessaria la presenza della prescrizione medica. Essa deve essere scritta e
completa di tutti i suoi elementi costitutivi: il tipo di farmaco (nome
commerciale del farmaco), la forma farmaceutica (fiale, compresse, etc.), il
dosaggio, i tempi di somministrazione, la via di somministrazione, la
sottoscrizione del medico (data e firma).
La prescrizione in sé e per sé è di competenza medica; la corretta
somministrazione è di competenza infermieristica: l’infermiere perciò
risponde degli errori legati alla corretta somministrazione, tenendo conto
delle condizioni cliniche, anamnestiche ed attuali, dei pazienti.
138
Le esposte sentenze tendono ad indicare che la Corte di Cassazione sia
sensibile alle nuova normativa del profilo professionale, che fa carico
all’infermiere di “garantire” la corretta somministrazione dei farmaci,
ricorrendo eventualmente al medico per la soluzione di dubbi.
5.2.6. Esercizio abusivo della professione
■ Tribunale di Bergamo, sezione penale,19 marzo 2003.
Sono imputati ex art 348 c.p. una dozzina di infermieri che avevano esercitato la
professione senza essere iscritti all’Albo nel collegio Infermieri professionali Assistenti sanitari - Vigilatrici d’infanzia: in seguito ad accertamento, richiesto
dall’IPASVI di Bergamo, era emerso (in data 3 giugno 1999) che gli imputati –
tutti infermieri –, assunti dalle rispettive Aziende Ospedaliere tra il 1971 e il
1980, avevano effettuato l’iscrizione all’IPASVI soltanto successivamente alla
segnalazione effettuata dallo stesso Collegio; perciò, visto il considerevole lasso
di tempo trascorso esercitando la professione senza iscrizione all’Albo,
sarebbero incorsi nel reato di esercizio abusivo della professione infermieristica.
Il Tribunale decise per l’assoluzione degli imputati evidenziando come
l’iscrizione all’Albo non solo costituisca una semplice facoltà e non un
obbligo, ma anche come tale facoltà sia prevista solo per gli infermieri
pubblici dipendenti che svolgano – sotto autorizzazione – la libera
professione o abbiano chiesto autorizzazione a svolgerla. Il giudice si era
basato unicamente sul decreto legislativo n. 233 del 1946, ritenendo lo
stesso fonte primaria di riferimento sul tema, tale da prevalere sulle altre
molto più recenti, tra cui il Profilo professionale dell’infermiere, normativa
regolamentare di secondo grado: dispone l’art. 10 del D. Lgs. 233/1946 che
“I sanitari che siano impiegati in una pubblica amministrazione ed ai quali,
secondo gli ordinamenti loro applicabili, non sia vietato l'esercizio della
libera professione, possono essere iscritti all'albo. Essi sono soggetti alla
disciplina dell'Ordine o Collegio, limitatamente all'esercizio della libera
professione”.
139
Per quanto riguarda, invece, gli infermieri che svolgono – come i convenuti
in giudizio – la loro attività unicamente come dipendente nell’ambito del
sistema sanitario nazionale, per essi non sarebbe necessaria l’iscrizione
all’Albo.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 492, 1˚ aprile 2003.
Alcuni infermieri dipendenti di strutture del servizio sanitario della
provincia di Sondrio erano stati rinviati a giudizio per esercizio abusivo della
professione, poiché non risultavano iscritti all’Albo professionale nel
Collegio IPASVI. Assolti in entrambi i gradi di giudizio, gli imputati
ricorrono in Cassazione per ottenere la formula assolutoria più ampia della
“non sussistenza del fatto” (rispetto alla formula con cui erano stati assolti in
appello “perché il fatto non costituisce reato”). La Corte accolse il ricorso
interpretando il D. Lgs n. 233/1946 come riferentesi ai liberi professionisti –
ancorché venga usata la sola parola professionisti – e non ai professionisti
sanitari in generale: laddove l’art. 8 dispone che “per l’esercizio di ciascuna
delle professioni sanitarie è necessaria l’iscrizione al relativo albo”, la Corte
ha inteso obbligatoria l’iscrizione solo per i liberi professionisti, combinando
il disposto appena citato con l’art. 3 del medesimo D.Lgs. che stabilisce che il
Consiglio direttivo di ciascun Ordine e Collegio esercita “il potere
disciplinare nei confronti dei sanitari liberi professionisti iscritti all’albo”. Gli
infermieri, che esplicano la loro attività alle dipendenze della pubblica
amministrazione o di un altro ente, invece, dovrebbero rispondere
disciplinarmente soltanto alla propria amministrazione, non sono soggetti al
controllo di un ordine professionale, la cui stessa ragion d’essere starebbe
nel tutelare la collettività accertando le capacità di determinati professionisti
e sottoponendo gli stessi ad un regime di responsabilità deontologica.
L’iscrizione all’Albo per i dipendenti pubblici non avrebbe alcuno scopo, se
non qualora questi esercitino anche la libera professione, e solo
limitatamente ad essa potrebbe esplicarsi la vigilanza dell’Ordine che rimane
140
preclusa per coloro che già sono soggetti al controllo della propria pubblica
amministrazione nell’ambito della relativa attività.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 6491, 13 febbraio 2009.
È imputato l’avvocato P.M. per concorso nel reato di abusivo esercizio della
professione di infermiere: il legale, rappresentante della “Nuova Assistenza
Cooperativa Sociale” s.r.l., aveva preso in appalto la gestione del servizio
infermieristico nel reparto di riabilitazione della “Casa di Cura Salus s.r.l.”, e
aveva fatto lavorare presso tale struttura sanitaria infermieri – in possesso di
regolare titolo abilitante – dipendenti della Cooperativa non iscritti all’Albo.
Egli era riconosciuto colpevole del reato ascrittogli sia in primo grado sia in
appello. La Cassazione accoglie il ricorso presentato, essendo l’iscrizione
all’Albo professionale “un atto di accertamento costitutivo, operante erga
omnes, dello status di professionista ed è imposta soltanto a coloro che
esercitano la libera professione mediante contratti d’opera direttamente con
il pubblico dei clienti”. Il richiamo è sempre all’art.8 del D. Lgs. N. 233 del
1946, e alla sua ratio che consisterebbe nella necessità di portare a
conoscenza del pubblico le persone autorizzate ad esercitare la professione
infermieristica e di garantire la vigilanza dei Collegi competenti per quanto
riguarda gli aspetti disciplinari e tariffari. La stessa necessità non
sussisterebbe per gli infermieri legati da un rapporto dipendente – sia con
una struttura pubblica che privata –, dato che essi rispondono
disciplinarmente al loro datore di lavoro (e superiore gerarchico) ed hanno
uno stipendio fisso. La garanzia verrebbe quindi offerta direttamente dalla
struttura sanitaria in cui opera l’infermiere.
Anche in questo caso i fatti risalgono ad un periodo antecedente la legge n.
43 del 2006. La Cassazione non accenna alle intervenute modifiche
legislative.
141
■ Tribunale Penale di Pisa, n. 628, 21 maggio 2010.
È imputata un’infermiera che, dopo aver conseguito in Olanda il diploma di
abilitazione all’esercizio della professione, dal 1990 lavora in una casa di cura
in Italia, senza essersi iscritta all’albo professionale, neanche dopo l’entrata
in vigore della legge 1˚ febbraio 2006 n. 43. Non vi è dubbio che la condotta
costitutiva del reato sia, almeno in parte, successiva a quella legge che
avrebbe dovuto sancire in via definitiva la necessità per qualunque
infermiere – dipendente o libero professionista che sia – di iscriversi all’Albo
tenuto dall’IPASVI.
Il tribunale, pur tuttavia, continua a richiamare la giurisprudenza della
Suprema Corte e quindi ad applicare quella datata legge n. 233 del 1946
giungendo all’assoluzione dell’imputata, riportando le medesime parole della
sentenza della Cassazione n. 6491/2009 poco sopra citata. In sostanza
sarebbe sufficiente il possesso del titolo abilitante per poter esercitare la
professione presso una struttura sanitaria pubblica o privata, perché l’utenza
può far affidamento sulla garanzia offerta dalla struttura stessa, la sola alla
quale dovrebbe rispondere disciplinarmente l’infermiere.
■ Valutazioni riassuntive.
Le sentenze prime citate riguardano fatti sicuramente antecedenti alla legge
n. 43 del 2006, che pare aver chiarito la questione, nel senso
dell’obbligatorietà dell’iscrizione all’Albo IPASVI per tutti gli infermieri a
prescindere che siano dipendenti pubblici. Nelle due decisioni sono del 2003,
comunque Tribunale e Corte di Cassazione ben avrebbero potuto richiamare
nelle motivazioni la normativa vigente all’epoca della stesura delle sentenze,
per poter presentare anche quella che avrebbe dovuto essere l’evoluzione
successiva della vicenda.
Nonostante la sua vigenza all’epoca dei fatti, il Profilo professionale non è
stato preso in considerazione dai giudici, se non per ribadirne la non
142
applicabilità al caso concreto, data la prevalenza della normativa primaria
(D. Lgs. 233/1946) sulla normativa regolamentare.
Inoltre è stata disattesa non solo la dottrina giuridica – concorde nel
ritenere l’iscrizione all’Albo necessaria per l’attribuzione della qualità di
professionista –, ma altresì il parere del Consiglio di Stato che osservava
come fosse irragionevole che un sanitario ritenuto inidoneo dal proprio
Ordine ad esercitare la (libera) professione potesse essere legittimato ad
esercitarla come pubblico dipendente (o come privato dipendente).
5.2.7. Omissione o rifiuto di atti d’ufficio
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale n. 39486, 27 settembre 2006.
La vicenda riguarda un’infermiera generica, dipendente ospedaliera,
condannata sia in primo grado sia in appello per essersi indebitamente
rifiutata di effettuare le operazioni di pulizia di un degente sottoposto ad
intervento di resezione colica, il cui letto e le parti intime erano imbrattate
con le feci fuoriuscite dalla sacca di contenimento delle stesse (posizionata in
maniera errata da un infermiere professionale). L’infermiera aveva dichiarato
di provare vergogna per la differenza di sesso; ma questo non è stato
ritenuto un motivo legittimo per astenersi da un atto che avrebbe dovuto
essere compiuto senza ritardo per ragioni di igiene e sanità.
Il ricorso in Cassazione è respinto: la Corte descrive il comportamento
dell’infermiera generica – aderendo alla ricostruzione dei giudici di merito –
come palesemente ingiustificata, essendosi l’operatrice allontanata dal
reparto per circa mezz’ora (l’infermiera aveva dichiarato di essersi
allontanata perché impegnata nella distribuzione del vitto) invece di
provvedere prontamente alle operazioni di pulizia. La Corte ha affermato che
è dovere dell’infermiera generica attivarsi per la pulizia del paziente,
osservando per inciso che il riposizionamento della sacca è un’operazione di
normale routine e di facilissima esecuzione. L’impegno nella distribuzione
del vitto non ha valore alcuno, poiché l’operazione di pulizia del paziente
143
avrebbe occupato pochi minuti e si trattava di incombenza che aveva la
priorità.
Nel tentativo di difendersi l’infermiera aveva anche richiamato l’art. 6 del
mansionario, in base al quale l’infermiere generico provvede direttamente
alle operazioni di pulizia del paziente su prescrizione del medico: nel caso, il
medico non aveva specificato alcunché. Secondo la Corte, però, questa
disposizione non implica che la prescrizione medica debba avvenire di volta
in volta per ogni singolo paziente del reparto, ben potendo essere impartita
in via generale in base ai turni di servizio degli infermieri.
5.3. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’ostetrica
5.3.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione
Sono riportate nel box 5.2 le fonti normative indispensabili per la
comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo.
Circa il D.M. 15 settembre 1975 recante “Istruzioni per l’esercizio
professionale delle ostetriche” è da notare che esso non è formalmente
correlato al D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163 “Aggiornamento del regio decreto
26 maggio 1940, n. 1364, concernente il regolamento per l’esercizio
professionale delle ostetriche”, abrogato dall’art. 1 della legge 26 febbraio
1999, n. 42. Né la legge n. 42 del 1999 né alcuna altra norma ha abrogato
questo D.M., il cui contenuto è dunque valido, se non superato da regole
introdotte con le norme sopravvenute, a condizione comunque che esso non
sia considerato come esprimente le attività alle quali l’esercizio professionale
dell’ostetrica deve limitarsi. Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle
norme di carattere generale citate in giurisprudenza, si rinvia alla
trattazione sviluppata nel capitolo 2. Non compare nel box 5.2, in quanto
nessuna sentenza lo cita, il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 206 “Attuazione
della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche
professionali …”, pur disciplinante la professione di ostetrica e di cui si è
riferito nel paragrafo 7 del capito 2.
144
Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con
riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate
correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della
condotta professionale censurata.
Box 5.2 – Il profilo professionale dell’ostetrica, le persistenti istruzioni per l’esercizio
professionale delle ostetriche e l’ambito di autonomia secondo l’art. 1 della legge 10
agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche,
della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”
D.M. 15 settembre 1975, “Istruzioni per l’esercizio professionale delle ostetriche”, come modificato dal
D.M. 15 giugno 1981.
Art. 1. {I}. A norma del D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163, l’ostetrica può svolgere i seguenti compiti:
1) assistenza alla donna durante la gestazione, parto ed il puerperio;
2) assistenza al neonato;
3) vigilanza della madre e del bambino nel quadro della difesa sanitaria della famiglia;
4) assistenza medico sociale, in collegamento con centri che operano in questo settore;
5) assistenza infermieristica, nei limiti stabiliti dalle vigenti disposizioni per gli infermieri professionali, col
divieto di prestare assistenza ad infermi affetti da malattie contagiose (art. 7 del regolamento).
Art. 2. {I}. Per quanto concerne l’assistenza ai parti l’ostetrica ha l’obbligo di:
1) annotare ogni parto e ogni aborto, al quale abbia assistito, negli appositi registri (registro dei parti e registro
degli aborti) che, a richiesta, le saranno forniti dall’autorità sanitaria comunale (art. 8 del regolamento);
2) portare mensilmente tanto il registro dei parti che quello degli aborti all’ufficio comunale per il prescritto
“visto” mensile dell’ufficiale sanitario. Tali registri alla fine di ciascun trimestre sono trattenuti dall’ufficiale
sanitario e sostituiti con altri nuovi (art. 8 del regolamento);
3) redigere e rilasciare gratuitamente il certificato di assistenza al parto conforme al modello stabilito dal
Ministero della sanità, da servire per l’ufficio di stato civile (art. 18 regio decreto-legge 15 ottobre 1936, n.
2128, sull’ordinamento delle
scuole di ostetricia e sulla disciplina giuridica della professione di ostetrica);
4) denunciare al sindaco e all’ufficiale sanitario ogni nascita di neonato deforme (art. 139 del testo unico delle
leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 e art. 9 del regolamento), sempreché la
denuncia non venga fatta dal medico, il cui intervento deve essere in tali casi richiesto ai sensi dell’art. 4 del
citato regolamento;
5) segnalare sollecitamente all’ufficiale sanitario la nascita di immaturi e di deboli vitali promuovendo
l’immediato ricovero per gli eventuali interventi assistenziali.
{II}. L’ostetrica deve essere provvista per l’assistenza ai parti della busta ostetrica di cui all’art. 10 del
regolamento.
{III}. Detta busta deve contenere:
1) un grembiule di tessuto bianco di bucato, a maniche corte, che giungano sopra i gomiti, di forma e
dimensioni da coprire tutta la persona, con chiusura posteriore;
2) una cuffia di tela bianca, di bucato;
3) un termometro clinico;
4) uno stetoscopio;
5) uno spazzolino per le mani;
6) una saponetta;
7) una bottiglia di gr. 300 di alcool;
8) due paia di guanti di gomma sterili;
9) una boccetta di vetro contenente circa gr. 30 di tintura di iodio officinale fresca, o di acido picrico in
soluzione alcolica 5%, o altro disinfettante indicato dal Ministero della sanità;
10) un rasoio di sicurezza;
11) almeno cinque pacchetti, da gr. 50 ciascuno, di cotone idrofilo sterilizzato; cinque pacchetti da 50 quadratini
(cm. 10 x 10) e cinque fascette (m. 5 x cm. 7) di garza sterilizzata;
145
12) cateteri vescicali femminili di gomma, di vario calibro;
13) uno speculum vaginale;
14) due forbici smusse;
15) una pinza da zaffamento;
16) quattro pinze emostatiche ed una di medicazione;
17) anellini di gomma o le apposite pinze già sterili per la legatura del funicolo;
18) un pelvimetro;
19) un nastro metrico;
20) uno sfigmomanometro;
21) una pesa per il neonato;
22) una abbassalingua;
23) un tubetto di pomata oftalmica antibiotica;
24) due cannule di vetro munite di tubo di gomma, per aspirare il muco dalla
retrobocca del neonato;
25) alcune siringhe di vetro oppure quelle già sterili di plastica;
26) alcune fiale di cardiotonici, uterotonici, coagulanti, antispastici, bicarbonato di sodio all’8%;
27) il materiale necessario per la ricerca e la valutazione dell’albumina e del glucosio nelle urine;
28) un enteroclisma completo o i clisteri già pronti in commercio.
{IV}. I medicinali indicati ai numeri 9), 23), 26) e 27) sono rilasciati dai farmacisti, a semplice richiesta scritta,
firmata dalle ostetriche.
{V}. Il comune, a norma dell’art. 55 del testo unico delle leggi sanitarie e degli articoli 62 e 63 del regolamento
approvato con regio decreto 19 luglio 1906, n. 466, deve fornire all’ostetrica condotta la busta contenente il
materiale elencato nel precedente articolo.
Art. 3. {I}. L’ostetrica chiamata ad assistere una gestante, qualunque sia il mese di gravidanza, deve rendersi
conto dello stato generale di salute della donna, informandosi di eventuali malattie, pregresse o attuali, degli
stati di sofferenza o disturbi di cui la gestante possa essere affetta in dipendenza o meno dello stato di
gestazione.
In particolare dovrà:
a) procedere ad un’accurata raccolta dell’anamnesi, con particolare riguardo ai fattori di rischio;
b) fare l’esame ostetrico;
c) fare eseguire l’esame dell’azotemia e della glicemia (da praticarsi al terzo, sesto e nono mese);
d) far eseguire l’esame delle urine;
e) determinare la pressione arteriosa e controllare il peso e la diuresi. (I controlli di cui alla lettera d) ed e)
dovranno praticarsi una volta al mese fino all’ottavo mese, ogni quindici giorni nel corso del nono mese,
comunque quando vi sia presenza di edemi, cefalea, ecc.);
f) far eseguire l’esame sierologico del sangue per la ricerca della sifilide ignorata;
g) far determinare il gruppo sanguigno, il fattore RH e far eseguire controlli emocitometrici per evidenziare
eventuali anemie ferroprive o megaloblastiche.
{II}. I rilievi di cui sopra verranno trascritti sulla “tessera sanitaria” attualmente distribuita dall’O.N.M.I.
{III}. Nel primo trimestre di gestazione o, comunque, quando l’ostetrica viene a conoscenza di uno stato di
gravidanza, deve far sottoporre la donna ad una visita medica generale.
{IV}. In caso di qualsiasi irregolarità risultante dai controlli predetti, l’ostetrica richiederà l’intervento del
medico e in caso di rifiuto della gestante, ne informerà riservatamente l’ufficiale sanitario.
Art. 4. {I}. L’ostetrica quando rilevi anche semplicemente sospetti di aborto in atto o già spontaneamente
espletato, da qualsiasi causa o con qualsiasi mezzo determinato, deve astenersi da ogni intervento ed attendere
l’intervento medico.
{II}. Ove la donna rifiuti di chiamare il medico, l’ostetrica ne informerà riservatamente per iscritto, l’ufficiale
sanitario.
Art. 5. {I}. L’ostetrica deve concorrere a combattere eventuali pregiudizi e abitudini dannose della gestante ed
indurla a seguire, per il benessere proprio e del nascituro, le norme igieniche più appropriate per il suo stato al
fine di assicurare il buon andamento della gravidanza, le migliori condizioni per il normale sviluppo del feto e
per il normale decorso del parto.
{II}. Darà pure consigli sull’alimentazione più appropriata della gestante, sull’igiene personale, sulla
prevenzione della morbosità congenita da fattori fisici e chimici, rappresentati oltre che dai vari tossici, dai
farmaci soprattutto se somministrati nelle prime dodici settimane della gravidanza, sulla necessità di evitare
lavori faticosi e strapazzi fisici di qualsiasi genere specialmente nelle ultime sei settimane precedenti al parto.
{III}. Nei luoghi dove esistono centri di preparazione al parto, l’ostetrica farà opera di persuasione affinché le
gestanti li frequentino. Ove invece non esistano, l’ostetrica darà essa stessa alle gestanti le nozioni di psicoprofilassi ostetrica, affinché il parto si svolga nelle migliori condizioni psico-fisiche. Essa renderà inoltre edotte
le donne assistite di tutte le provvidenze mutualistiche ed assistenziali di cui hanno diritto.
ASSISTENZA AL PARTO.
Art. 6. {I}. In prossimità della data presunta del parto l’ostetrica deve assicurarsi che la camera della
partoriente sia ripulita e sgombra di mobili ed oggetti inutili; che sia predisposta la biancheria personale e del
letto della partoriente (di bucato) in quantità sufficiente ai bisogni.
146
{II}. Ove l’ambiente sia inidoneo o vi sia deficienza di materiale o di mezzi indispensabili, deve consigliare il
ricovero della partoriente in ospedale o in sale di maternità.
{III}. Quando il materiale del pacco ostetrico non sia sterile, avrà cura di far bollire l’ovatta, la garza, i panni ed
ogni altro presidio da usare nell’espletamento del parto.
Art. 7. {I}. Durante l’assistenza al parto, l’ostetrica deve usare, previa disinfezione delle mani, i guanti di
gomma, precedentemente sterilizzati. Avrà a disposizione l’alcool per usarlo tutte le volte che le mani, con o
senza guanti, siano venute accidentalmente a contatto con oggetti non asettici.
Art. 8. {I}. L’ostetrica deve richiedere l’intervento medico ogni qualvolta rilevi o sospetti nella partoriente
malattie generali (cardiopatie, nefriti, anemie, ecc.); distocie di qualsiasi natura, ritardi o emorragia nel
secondamento, o comunque avverta che il parto non procede in modo del tutto normale.
Art. 9. {I}. Durante il secondamento l’ostetrica si limita a sorvegliare e controllare, con esame esterno, le
contrazioni e la retrazione emostatica dell’utero ed a raccogliere la placenta al momento dell’espulsione,
evitando ogni trazione sul cordone ed il massaggio dell’utero, a meno che non sia richiesto da emorragia in
atto.
{II}. Deve sempre esaminare attentamente la placenta e le membrane appena espulse, perché nel caso constati
che siano incomplete o non del tutto normali, deve conservarle per sottoporle all’esame del medico.
{III}. L’intervento del medico deve essere richiesto nei casi di lacerazioni verificatesi nel canale del parto, di
nascita di infante deforme e di feto nato morto, anche se il parto è stato spontaneo.
Art. 10. {I}. Indipendentemente dalle facoltà previste dall’art. 7 del regolamento è consentito alle ostetriche di
eseguire:
1) il cateterismo vescicale;
2) la rottura delle membrane ovulari, soltanto se richiesta da condizioni generali del parto o locali, purché la
dilatazione della bocca uterina sia completa, la presentazione di vertice è profondamente impegnata;
3) la rottura delle membrane a dilatazione ancora incompleta della bocca uterina nel solo caso di placenta previa
laterale, con emorragia in atto, quando il feto sia in situazione longitudinale e non sia possibile l’immediato
intervento medico;
4) l’assistenza al parto podalico, spontaneo;
5) l’esecuzione della versione per manovre esterne durante la gravidanza o nel travaglio del parto iniziale, a
membrane integre, nella presentazione di spalla;
6) la spremitura del feto nell’utero per facilitare l’espulsione, quando la testa fetale già ruotata, affiori alla vulva;
7) l’episiotomia per facilitare l’espulsione del feto quando la parte presentata affiori alla vulva;
8) la spremitura dell’utero sicuramente retratto e contratto, nel periodo del secondamento, ed a placenta
sicuramente staccata oppure, in caso di emorragia, quando non sia possibile l’intervento immediato del medico;
9) la spremitura dell’utero nel post-partum per ottenere la fuoriuscita dei coaguli se provocano perdita di
sangue, previo accertamento che l’utero sia retratto;
10) lo zaffo della vagina, in caso di emorragia;
11) le iniezioni di antispastici in caso di ipercinesi nell’attesa dell’arrivo del medico per il viaggio al luogo di
cura;
12) le iniezioni utero-toniche dopo l’eventuale svuotamento dell’utero dai coaguli sanguigni, nei casi di atonia,
nel post-partum;
13) le iniezioni di analettico o cardiotonici nell’attesa del medico;
14) il prelievo di sangue capillare e venoso durante la gravidanza per facilitare gli esami necessari per una
corretta assistenza alla gravida stessa;
15) il prelievo vaginale per l’esame citologico;
16) illustrazione dei vari metodi contraccettivi (metodi naturali, diaframma vaginale, ecc.).
{II}. Ogni altro intervento manuale o strumentale è vietato all’ostetrica.
Art. 11. {I}. Subito dopo espletato il secondamento si tratterrà ancora qualche tempo (due ore almeno) per
sorvegliare la permanente retrazione emostatica del corpo uterino, dedicando questo tempo alle prime cure al
neonato, ai sensi del precedente art. 14.
ASSISTENZA AL PUERPERIO.
Art. 12. {I}. Nei primi cinque giorni dopo il parto l’ostetrica è tenuta a visitare la puerpera due volte al giorno,
mattina e sera, annotando metodicamente la temperatura ed il polso e controllando l’apparato genitale
(involuzione dell’utero, aspetto dei genitali esterni, lochiazione, emorragie, ecc.).
{II}. Nei casi di temperatura febbrile, di polso troppo frequente, di lochiazione fetida, troppo a lungo ematica o
in qualunque modo anormale, deve chiedere l’immediato intervento del medico e, nell’eventuale assenza di esso,
segnalare d’urgenza il caso all’ufficiale sanitario, ai sensi e per gli effetti degli articoli 139 e 254 del testo unico
delle leggi sanitarie.
{III}. Nelle prime sei settimane dopo il parto svolge la sorveglianza tendente ad evitare lo stabilirsi di una
patologia uterina, o annessiale o mammaria o della malattia trombo-embolica.
{IV}. Qualora l’assistenza domiciliare non sia sufficientemente assicurata, consiglia il ricovero di urgenza
dell’inferma all’ospedale, sollecitandone il provvedimento dall’autorità sanitaria.
Art. 13. {I}. L’ostetrica che ha prestato le sue cure ad una donna colpita da processo infettivo puerperale, è
tenuta a darne subito avviso all’ufficiale sanitario comunale e ad attenersi rigorosamente alle prescrizioni di
esso, a norma delle disposizioni del regolamento per la profilassi delle malattie infettive.
147
ASSISTENZA AL NEONATO ED AL BAMBINO.
Art. 14. {I}. Ai sensi dell’art. 6 del regolamento, l’ostetrica, espletato il parto, deve praticare la profilassi
oftalmica, istillando all’angolo interno del sacco congiuntivale di ciascun occhio una goccia di collirio
antibiotico.
{II}. Nei giorni seguenti deve vigilare lo stato degli occhi del neonato, reclamando subito l’intervento del
medico, ove constatasse arrossamenti o altri segni di infiammazione.
{III}. La pulizia del neonato, subito dopo la nascita, sarà praticata con acqua a circa 31° centigradi avendo cura
di non bagnare il moncone del cordone ombelicale e gli occhi del neonato per evitare possibili infezioni.
Art. 15. {I}. L’ostetrica deve consigliare l’abbigliamento più idoneo per il neonato, tenuto conto della stagione
e delle condizioni di ambiente, preoccupandosi di evitare il raffreddamento del nella stagione fredda; il
sovrariscaldamento nella stagione calda.
{II}. Deve dare opportuni suggerimenti circa l’igiene dell’ambiente, indicando il punto più adatto della camera
per disporvi la culla ed il modo di ricambiare l’aria senza che il neonato sia colpito da correnti.
Art. 16. {I}. L’ostetrica deve spiegare opera per assicurare al neonato l’allattamento materno, a meno che il
medico non lo controindichi, dettando le norme per bene regolare l’allattamento, indicando la posizione da dare
al poppante,
l’orario e la durata delle poppate, il modo di controllare con la doppia pesata la quantità di latte ingerito.
{II}. In caso di anomalie a carico della mammella della madre (arrossamento, indurimento, ragadi, ecc.), o di
patine biancastre alla bocca del neonato, dovrà richiedere l’intervento del medico.
Art. 17. {I}. L’ostetrica quale vigilatrice della madre e del bambino.
{II}. L’ostetrica cui viene affidato il compito di vigilatrice della madre e del bambino, secondo quanto è stabilito
all’art. 2 del regolamento, deve: diffondere le norme pratiche di igiene materna vigilandone e curandone
l’applicazione; nei casi di anomalie o disturbi nella funzione genitale come ritardi nella prima mestruazione,
amenorrea, dismenorrea, menorragia, metrorragia, leucorrea, sterilità, ecc.; di segni manifesti o sospetti di
infezione sifilitica o blenorragia, di segni iniziali che possono far sospettare tumori dell’utero come perdite
vaginali sanguigne atipiche, e, dopo la menopausa, aumento del volume dell’addome, ecc.; o di tumore della
mammella (noduli mammari, retrazione del capezzolo) deve consigliare la consultazione di un medico o, se
possibile, indirizzare la donna ai consultori ostetrici o materni, astenendosi dal dare consigli terapeutici e
manifestare opinioni che non rientrano nel campo della sua competenza professionale come dal dare indicazioni
oltre quelle generiche concernenti le ordinarie pratiche di pulizia e di igiene e le cautele da usare per evitare
eventuali contagi familiari, ecc. Nel caso di accertata difficoltà per la donna di accedere agli appositi ambulatori,
l’ostetrica può effettuare prelievi di materiale dalla vagina per l’esecuzione di esami citologici e può eseguire
prelievi di sangue capillare e venoso.
Art. 18. {I}. L’ostetrica deve:
far propaganda per combattere i pregiudizi e le abitudini nocive al buon allevamento dei bambini;
sorvegliare lo stato di nutrizione di essi, provvedendo a periodici controlli del peso e consigliando la visita del
medico in caso di mancato accrescimento;
vigilare a che le istruzioni impartite dai consultori pediatrici e dal medico siano eseguite;
collaborare attivamente alle varie iniziative riguardanti l’educazione sanitaria, l’educazione sessuale, la
regolamentazione delle nascite.
{II}. La vigilanza deve estendersi al vestiario del bambino, alla pulizia giornaliera, all’ambiente di vita, allo
sviluppo fisico e psichico, rilevando e segnalando ogni deficienza per i provvedimenti di assistenza.
D.M. 14 settembre 1994, n. 740 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del
relativo profilo professionale dell'ostetrica/o”.
Art. 1. 1. È individuata la figura dell'ostetrica/o con il seguente profilo: l'ostetrica/o è l'operatore sanitario
che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale, assiste e
consiglia la donna nel periodo della gravidanza, durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine
parti eutocici con propria responsabilità e presta assistenza al neonato.
2. L'ostetrica/o, per quanto di sua competenza, partecipa:
a) ad interventi di educazione sanitaria e sessuale sia nell'ambito della famiglia che nella comunità;
b) alla preparazione psicoprofilattica al parto;
c) alla preparazione e all'assistenza ad interventi ginecologici;
d) alla prevenzione e all'accertamento dei tumori della sfera genitale femminile;
e) ai programmi di assistenza materna e neonatale.
3. L'ostetrica/o, nel rispetto dell'etica professionale, gestisce, come membro dell'equipe sanitaria,
l'intervento assistenziale di propria competenza.
4. L'ostetrica/o contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente
all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca.
5. L'ostetrica/o è in grado di individuare situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento
medico e di praticare, ove occorra, le relative misure di particolare emergenza.
6. L'ostetrica/o svolge la sua attività in strutture sanitarie, pubbliche o private, in regime di dipendenza o
libero-professionale.
148
Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”.
Art. 1. (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica) 1. Gli operatori delle professioni
sanitarie dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con
autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e
collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché
dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza.
…
5.3.2. Lesioni personali colpose / omicidio colposo in relazione alla omissione nella
presa in carico
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 522, 10 maggio 1978.
X.Y., al settimo mese della sua quarta gravidanza, accortasi di avere delle
perdite, chiamò l’ostetrica G.G.; questa, affermando che si era verificata
rottura del sacco amnio-coriale, accompagnò l’assistita in clinica. Qui entrò
in gioco il dottor M.G. che, nonostante la rilevazione della dilatazione del
collo dell’utero e l’imminenza del parto, diede assicurazione sulla non
necessità di un ricovero e sul normale posizionamento del feto, e che quindi
il parto avrebbe potuto essere portato a termine tranquillamente a domicilio.
Dopo 5 giorni, X.Y., già in condizioni non ottimali, avvertì l’ostetrica, che
nel pomeriggio iniziò l’assistenza al parto, cercando di provocare
l’espulsione del feto. Le condizioni della partoriente erano andate
peggiorando, ne conseguì un parto difficile e con prospettive di esito
infausto, perciò l’ostetrica dispose il ricovero nella clinica villa L., dove X.Y.
venne sottoposta ad urgente intervento chirurgico di laparotomia con
isterectomia sub-totale ed annessiectomia.
Sia in primo che in secondo grado entrambi l’ostetrica e il medico sono stati
condannati per aver cagionato, in concorso tra loro con condotte autonome
ed indipendenti, lesioni personali gravi e gravissime alla paziente: in
particolare “l’ostetrica professionista, ometteva di richiedere, in violazione
dell’art. 5 del R.D. 26 maggio 1940 n. 1364, l’intervento di un medico e di
disporre il ricovero della partoriente sia nei giorni precedenti sia allorché,
149
assistendo la X.Y. nel parto a domicilio, si era accorta che il parto stesso non
procedeva in maniera del tutto normale”.
L’ostetrica nel ricorso in Cassazione ha sostenuto che fossero stati omesse le
indagini circa la sussistenza degli elementi idonei ad integrare gli estremi
della colpa professionale. La Corte ha ritenuto infondato il ricorso: nel caso
in esame, in cui le condizioni della gestante non esigevano la soluzione di
complessi problemi diagnostici o terapeutici, bene hanno fatto i giudici di
merito a condannare i due sanitari per colpa generica. È stato richiamato in
sentenza, costatandone la violazione, l’art. 5 del R.D. del 26-5-1940 n. 1364,
secondo cui l’ostetrica assistente il parto avrebbe dovuto richiedere
l’intervento del medico qualora avesse avvertito che il parto non stesse
procedendo in modo del tutto normale; e difatti nel caso di specie è stata
riscontrata nel corso dei due procedimenti di merito la presenza di diversi
segnali di infezione in corso, l’elevata temperatura corporea e le macchie
giallo-verdastre.
La Corte ha specificato non integrarsi l’ipotesi della prestazione
professionale implicante la risoluzione di problemi tecnici di particolare
difficoltà per cui il professionista risponderebbe soltanto per dolo o colpa
grave. L’attenuazione della responsabilità nel caso non è stata ritenuta
sussistere, dato che la prematura rottura delle acque e l’elevato stato febbrile
della partoriente, avrebbero costituito palesi segnali – secondo la comune
esperienza, di agevole constatazione – di insorgenza di complicazioni per la
partoriente, tanto da dover indurre a richiedere immediato intervento
medico.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 5665 del 15 maggio 1992
L’ostetrica è imputata di omicidio colposo in concorso con un medico
ginecologo, per non aver diagnosticato una parziale ritenzione placentare
nella puerpera, omettendo qualsiasi tipo di terapia e di assistenza,
150
nonostante le precarie condizioni, che avevano poi condotto alla morte la
donna.
La Corte di Appello, dopo l’assoluzione dell’ostetrica in primo grado per
insufficienza di prove e un’affermazione di colpevolezza del medico, ha
dichiarato non doversi procedere in relazione al delitto di omicidio colposo
per essersi il reato estinto per prescrizione, condannando tuttavia gli
imputati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili nella misura del
60% per il ginecologo e del 40% per l’ostetrica. La responsabilità di
quest’ultima è emersa durante il dibattimento in secondo grado di giudizio:
la Corte ha ritenuto che ella avrebbe dovuto sollecitare un nuovo intervento
medico ed insistere per il trasporto in ospedale, avendo privato essa stessa
della sua assistenza la donna dopo il parto.
La Cassazione, adita con ricorso, ha affermato di non esserci contrasto tra il
riconoscimento della colpa del medico e quella dell’ostetrica, “trattandosi di
soggetti distinti con autonome professionalità ai quali sono state contestate
condotte colpose diverse”. Inoltre le condizioni fisiche dell’assistita
(sensazione di freddo, svenimenti, perdita di pressione) – in accordo con la
precedente pronuncia in appello – sono state considerate tali da dover
indurre l’ostetrica ad insistere per l’intervenisse medico ed un celere
ricovero in ospedale: per motivare tale affermazione si è pure tenuto conto
del fatto che l’ostetrica, avendo assistito al parto, non avrebbe potuto non
accorgersi della non integrità della placenta espulsa.
La Cassazione ha sottolineato che il quadro patologico complessivo della
paziente avrebbe dovuto indurre l’ostetrica ad una maggior assistenza e
sollecitudine, che non sono state invece messe in atto: quest’inerzia
imprudente e negligente, dell’ostetrica, unitamente alla condotta del medico,
hanno fatto sì che i sintomi, causati dall’incompleta espulsione della placenta,
si aggravassero progressivamente, fino a condurre la donna al decesso.
151
■ Valutazioni riassuntive.
Le due sentenze affrontano la situazione di richiesta di intervento medico da
parte dell’ostetrica, su cui la giurisprudenza ha centrato l’attenzione
riguardo alla responsabilità dell’ostetrica.
Il limite dell’atto medico, ha fin dalla prima fonte di riferimento del
mansionario, fatto da sfondo alla responsabilità dell’ostetrica in caso di parto
non naturale: l’ostetrica era e continua ad essere (dato che la normativa di
riforma non ha innovato sul punto) la professionista di riferimento del parto
fisiologico, mentre nel caso di parto patologico è il medico il professionista
centrale.
È, pertanto, compito dell’ostetrica avvertire il medico nel caso riscontri
anomalie che comportino il passaggio da parto fisiologico a patologico: in tal
senso si esprimevano le abrogate fonti mansionariali, sia quella del 1940 che
quella del 1975, e ciò continua a disporre il profilo professionale del 1994,
così come il codice deontologico del 2010 che richiama il dovere di
collaborazione con altri professionisti sanitari in vista della salvaguardia
della salute della donna e del bambino.
In entrambe le sentenze, la responsabilità dell’ostetrica è stata individuata
nella mancata solerzia nell’attivarsi con conseguente intempestivo
intervento del medico, che avrebbe potuto mettere in atto una terapia
adeguata che, in base ad un ragionamento controfattuale, avrebbe potuto
evitare lesioni alla puerpera o la sua morte. Tale obbligo, presente sia nel
R.D. n. 1364/1940 all’art. 5 che nel D.P.R. n. 163/1975 all’art. 4, è stato poi
mantenuto, simile anche se non sovrapponibile, nel profilo professionale
all’art. 1, comma 5.
5.3.3. Omicidio colposo a carico del nascituro in relazione a carenze nella presa in
carico
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 21709, 29 gennaio 2004.
152
Il reato contestato all’ostetrica è quello di omicidio colposo del nascituro per
aver tenuto una condotta colposa. Si è trattato di una condotta negligente e
imprudente omissiva caratterizzata dal mancato allertamento del medico,
nonostante il monitoraggio cardiotocografico della paziente indicasse una
progressiva sofferenza fetale. Il medico è quindi intervenuto con notevole
ritardo, non riuscendo ad impedire il decesso del feto. L’ostetrica avrebbe
dovuto, infatti, avvertire con massima sollecitudine il medico, non appena
emersi segni di sofferenza con rischio per la madre o per il nascituro.
La partoriente, ricoverata in ospedale al termine di una normale gravidanza,
era sottoposta a monitoraggio cardiotocografico, che risultò ,in un primo
momento normale, per poi segnalare un andamento “ondulatorio attenuato”
e quindi “silente”, fino a registrare molteplici decelerazioni tardive. Nella
consulenza richiesta dal P.M., è stato evidenziato come tali elementi fossero
da ritenersi univocamente indicativi di una sofferenza fetale; le indagini
hanno quindi accertato il nesso di causalità tra la condotta colposa della
professionista sanitaria e l’evento del decesso del feto.
La Corte di appello di Roma nel 2003 ha confermato la precedente sentenza
del Tribunale di Roma quanto alla riconoscimento della responsabilità
dell’ostetrica in ordine al delitto di omicidio del nascituro; e così ha fatto
pure la Cassazione, ponendo in tale occasione alcuni principi cardine in
materia.
La sentenza della Cassazione ha sancito come la sorveglianza del battito
cardiaco fetale intrapartum nella gravida sana, a basso rischio, sia una
competenza appartenente all’ostetrica: l’affidamento di tale attività in totale
autonomia all’ostetrica, ne rappresenta la sua diretta responsabilità nel
rispondere in prima persona dei fatti compiuti. “Rientra” – infatti –
“nell’ordinaria competenza dell’ostetrica la possibilità di riconoscere con
tempestività alterazioni della frequenza cardiaca fetale, rivelatrici di una
sofferenza che deve essere immediatamente riferita al sanitario del reparto o
comunque al personale medico disponibile o reperibile”.
153
La rilevazione e valutazione delle variazioni emergenti dall’esame del battito
cardiaco del feto indicative di possibili fattori di rischio è considerata dalla
Suprema
Corte
una
competenza
caratterizzante
la
professionalità
dell’ostetrica, in relazione alla quale non è richiesta una diagnosi medica.
Perciò l’omessa attivazione di coinvolgimento medico nel caso di rilievi
patologici ha costituito violazione di competenze ostetriche, ed ha
supportato il reato di omicidio colposo, avendo condotto al decesso del
nascituro.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 19163, 16 dicembre 2005.
I due imputati, un medico ed un’ostetrica, secondo l’accusa avrebbero
cagionato il decesso del feto, non avendo rilevato colposamente, il grave
stato di sofferenza ipossica del feto. Il medico avrebbe mal interpretato i
tracciati cardiotocografici della partoriente e quindi non ha attivato un
monitoraggio continuo della frequenza cardiaca fetale e dell’attività uterina;
la ostetrica avrebbe dovuto invece richiedere il tempestivo intervento di un
medico all’insorgenza dei primi sintomi di sofferenza.
In primo grado il Tribunale di Trapani ha affermato la responsabilità dei
due imputati, perché una maggiore attenzione alle presenti variazioni del
tracciato e alla situazione complessiva, avrebbe consentito di rilevare i segni
di sofferenza del feto e perciò di evitarne il decesso procedendo alla sua
tempestiva estrazione mediante cesareo.
Dalla ricostruzione dei fatti è emerso che, ad un primo tracciato
cardiotocografico normale effettuato la sera del ricovero, il giorno successivo
vennero eseguiti dall’ostetrica ad altri due tracciati: il secondo di questi,
effettuato nel tardo pomeriggio, presentava un “andamento saltatorio” che,
pur non rilevando patologie, avrebbe dovuto essere seguito da controlli più
approfonditi giustificando eventualmente il ricorso al taglio cesareo.
La Corte d’Appello di Palermo, invece, con sentenza del 29 aprile 2002, ha
assolto gli sia l’ostetrica che il medico per non aver commesso il fatto: il
154
perito nominato dal giudice, concordando con la difesa, riteneva che il terzo
tracciato fosse tale da porre esclusivamente indicazione a ripetere i controlli
a distanza di un’ora. Cosa che, in effetti, l’ostetrica aveva fatto, tuttavia, già
al successivo esame, non erano presenti segni di vitalità del feto.
Quest’ultimo, secondo quanto sostenuto dal perito, sarebbe deceduto in
tempi molto rapidi a causa di una non diagnosticabile brevità del cordone
ombelicale, causa prima della sofferenza fetale. Sempre secondo questi, con
tutta probabilità, nessuna manovra di emergenza avrebbe potuto evitare il
decesso (repentino) del feto, per tali motivi gli imputati sono stati assolti da
qualunque responsabilità.
Il ricorso avverso la sentenza d’Appello è stato respinto dalla Corte di
Cassazione perché nella decisione impugnata non sono stati rilevati vizi di
motivazione ed inoltre è stato dimostrato in modo convincente come la
rapidissima evoluzione degli eventi sia stata esclusivamente conseguenza
della malformazione del funicolo, tanto da interrompere qualsiasi eventuale
nesso di causalità tra la morte durante il travaglio e le condotte dei
professionisti sanitari imputati.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 35027, 16 luglio 2009.
L’ostetrica è imputata del delitto di omicidio colposo per non essersi
correttamente attivata alla rilevazione delle anomalie della frequenza
cardiaca fetale documentate dallo cardiotocografo, e quindi aver cagionato il
decesso del feto.
La Corte d’Appello di Roma (sentenza del 21 luglio 2008), ha dichiarato non
doversi procedere essendo il reato estinto per prescrizione, ma ha comunque
confermato quanto previsto civilmente per il risarcimento dei danni.
Con il ricorso in Cassazione, il difensore dell’imputata ha sostenuto che il
reato ascrivibile non fosse di omicidio colposo bensì di lesioni colpose
gravissime in danno alla madre – reato comunque estinto per prescrizione –,
poiché la morte della bambina era avvenuta in utero e non era mai nata: ciò
155
ha affermato la sentenza di primo grado, contrariamente a quella di appello
secondo cui non è stata data prova certa che il decesso fosse avvenuto prima
della separazione dal corpo della madre. Inoltre è stata denunciata
l’omissione della motivazione sugli specifici motivi e la contraddizione tra le
motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado.
La Corte ha rigettato il ricorso. Quanto al primo motivo è stata ribadita la
correttezza della contestazione di omicidio colposo: se da un lato il giudice
d’Appello ha affermato l’assenza di prova certa del decesso del feto prima
della separazione dal corpo della donna, non è da ritenersi tale momento
coincidente con l’effettiva acquisizione di autonomia dalla madre, quanto
piuttosto con l’inizio del travaglio.
Quanto alla seconda censura la Corte non ha ravvisato alcuna
contraddizione nelle due sentenze di merito, dato che la seconda ha meglio
precisato e completato la prima: il giudice di prime cure si è soffermato
maggiormente sulla non corretta esecuzione – od omissione – del tracciato
cardiotocografico; in secondo grado invece l’attenzione è stata posta sul
mancato allertamento del medico, sulla mancata reazione di fronte alla
caduta di tono cardiaco, sia pur constatando che la registrazione aveva
ripreso bene.
La IV sezione ha richiamato la precedente sentenza del 2004 n. 21709,
ribadendo la responsabilità per omicidio colposo dell’ostetrica che, a fronte
di un monitoraggio cardiotocografico – la cui lettura è di competenze
dell’ostetrica
–indicante
una
sofferenza
fetale,
non
ha
avvertito
tempestivamente il medico, provocando il decesso del feto.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 17556 del 22 gennaio 2010
Un medico ginecologo ed un’ostetrica sono condannati sia in primo grado
che in appello, in un caso in cui si è verificato il decesso di un feto alla
trentacinquesima settimana, avvenuto per asfissia da compromissione della
funzionalità placentare.
156
La gravida, alla trentacinquesima settimana di gravidanza, si era recata in
ospedale con dolori, in tale occasione erano stati effettuati due tracciati
cardiotocografici, il secondo dei quali dall’ostetrica imputata. A distanza di
diverse ore, a fronte della persistenza della sintomatologia, era stato
eseguito un ulteriore tracciato che aveva accertato l’assenza del battito
cardiaco fetale: la donna era stata sottoposta a parto cesareo e il feto estratto
era privo di vita. La causa della morte accertata fu distacco intempestivo di
placenta.
Il difensore dell’ostetrica ha denunciato in Cassazione la mancanza di
considerazione per le limitate competenze dell’ostetrica, anche in relazione
alle linee guida redatte dal primario del reparto di Ginecologia dell’Ospedale
in questione: secondo le quali non sarebbe stato compito dell’ostetrica
valutare il tracciato, avendo un “ruolo di mero esecutore materiale
dell’esame strumentale”. Inoltre, qualora l’imputata avesse comunicato al
medico le anomalie risultanti dal tracciato, il ginecologo avrebbe comunque
deciso di non intervenire.
La Corte ha innanzitutto precisato che entrambi i tracciati eseguiti sulla
paziente avevano mostrato una riduzione del battito cardiaco del nascituro e
quindi uno stato di sofferenza fetale, si sarebbe, quindi, dovuto prestare
attenzione a tali alterazioni, attraverso un monitoraggio continuo e
l’effettuazione di un’indagine da parte del medico sulle cause di tali
decelerazioni: se ciò fosse stato fatto, i professionisti sanitari, verificando la
permanenza di elementi negativi in ordine al benessere fetale, avrebbero
potuto orientarsi per un precoce parto cesareo.
La colpevolezza della condotta dell’ostetrica è stata affermata nei due gradi
di giudizio di merito e confermata dalla Cassazione, dato che dopo aver
effettuato il secondo tracciato si era limitata a portare il risultato al medico,
aggiungendo che si trattava di condizione nella norma. La Suprema Corte ha
anche in questa occasione ribadito che compito di un’ostetrica non è soltanto
quello di mera esecuzione dei tracciati cardiotocografici, ma anche quello di
157
leggerli: la capacità di interpretare il tracciato rientra senza dubbio tra le
competenze di questa professione sanitaria, perciò l’ostetrica avrebbe dovuto
rilevare le anomalie e allertare il medico comunicandogli la sua
interpretazione.
La difesa dell’ostetrica è stata ritenuta pertanto priva di fondamento. La
stessa aveva riferito al ginecologo che si trattava di andamento positivo del
tracciato, inducendolo lo stesso a non richiedere ulteriori verifiche data la
fiducia del medico nelle capacità di lettura del tracciato della ostetrica, a
conferma che tale attività era considerata dagli stessi medici come rientrante
nelle competenze dell’ostetrica.
■ Corte d’Appello de L’Aquila , 24 giugno 2011.
La sentenza conferma l’assoluzione per due medici ginecologi, un anestesista
e un’ostetrica, imputati di omicidio colposo ai danni di un neonato.
La gestante si era recata in ospedale, lamentando i segnali tipici di un parto
imminente, per la stessa era già stata programmata l’intervento di “analgesia
del parto”; l’anestesista, portata la donna in sala parto, praticava l’epidurale
con due somministrazioni. A questo punto la paziente veniva staccata
dall’apparecchio cardiotocografico che le era stato precedentemente
applicato in sala travaglio per verificare la frequenza cardiaca del feto.
Qualche ora più tardi, alla nascita del bambino, i medici ne constatavano il
decesso per ipossia, dopo un’inutile rianimazione.
Secondo l’accusa il decesso del feto sarebbe avvenuto per un mancato
monitoraggio continuo della frequenza cardiaca in sala parto e lo stesso
Tribunale di Pescara, sezione distaccata di Penne (pronunciatosi in primo
grado), ha specificato come sarebbe stato raccomandabile mantenere un
continuo esame cardiotocografico in caso di analgesia epidurale, tanto in
questo caso in cui vi era stata somministrazione di ossitocina.
In sala travaglio, durante il monitoraggio, erano state evidenziate delle
decelerazioni del battito, ma questo quadro, anche se avrebbe potuto
158
richiedere una maggiore attenzione, non è stato ritenuto dai periti indicativo
di condizione patologica tale da far prevedere la sopravvenuta grave
bradicardia. La causa dell’asfissia è stata individuata precisamente nel
restringimento del funicolo di lunghezza pari a soli 26 cm, con trombosi dei
vasi all’interno del cordone ombelicale. I periti non hanno trovato, tuttavia,
un’intesa sulla durata dell’ipossia/asfissia, e pertanto non hanno rilevato la
possibilità per i sanitari di intervenire ed evitare il decesso. Per tali motivi,
sia il Tribunale che la Corte d’Appello de L’Aquila hanno assolto gli
imputati, non avendo raggiunto la prova della loro responsabilità penale.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 13922, 8 marzo 2012.
La sentenza origina dal ricorso contro una sentenza di non luogo a
procedere del GUP del Tribunale di Firenze, pronunciata nei confronti
alcuni medici ginecologi ed un’ostetrica. L’imputazione era omicidio colposo
nei confronti di un neonato estratto con parto cesareo già in stato di arresto
cardiaco e deceduto il giorno seguente per l’insorgere di una “polmonite da
meconio”. I tracciati cardiotocografici eseguiti durante la fase del travaglio
avevano mostrato segni di difficoltà respiratoria del feto, per questo è stata
contestata ai medici e all’ostetrica la mancata rilevazione degli indici di
sofferenza emersi strumentalmente e la conseguente mancata effettuazione
di ulteriori accertamenti, e la conseguente tardiva espletazione del parto
cesareo.
La morte è stata attribuita ad una MOF (multi organ failure) conseguita a
“corangiosi”, insorta da un’alterazione placentare a patogenesi sconosciuta. I
periti d’ufficio, pur concordando sul fatto che un parto cesareo più
tempestivo avrebbe evitato con alta probabilità il decesso del neonato, hanno
ritenuto che giungere alla diagnosi sopra riportata, sarebbe stato
particolarmente difficile, stante la non univocità degli indici di sofferenza
fetale.
159
Il GUP ha aggiunto che nei riguardi dell’ostetrica non era stata mossa
alcuna contestazione in concreto.
La Corte di Cassazione, pur ribaltando la decisione del GUP rispetto ai
ginecologi, ha ritenuto di non procedere nei confronti dell’ostetrica: non solo
il PM non aveva mosso contro di lei precisi addebiti, ma dalla ricostruzione
dei fatti è emerso che la stessa era entrata in servizio poco prima del parto (2
ore) e che la decisione di procedere o meno con il cesareo era stata presa
unicamente dai medici, e quindi soltanto le condotte di questi ultimi si
sarebbero inserite nel percorso causale che aveva condotto al decesso del
neonato.
Il procedimento nei confronti dei ginecologi è stato così dalla Corte rinviato
al Tribunale di Firenze affinché si concludesse, e si potesse così addivenire
ad una analisi più precisa dei singoli comportamenti dei medici e sulla
possibilità per loro di effettuare una diagnosi ed un intervento più tempestivi
tali da evitare il decesso del neonato.
■ Valutazioni riassuntive
La sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 21709/2004 riveste
particolare interesse nel panorama giurisprudenziale sulla responsabilità
dell’ostetrica, anche perché gli eventi si collocano nel periodo di combinata
vigenza delle fonti normative: mansionario e profilo professionale, prima
della legge n. 42/1999. La Corte sancisce, attingendo alle comuni regole
d’esperienza, come rientri nelle competenze dell’ostetrica la lettura del
tracciato cardiotocografico e la rilevazioni di eventuali anomalie.
Anche le successive cinque sentenze (IV sezione penale della Cassazione n.
19163/2005, n. 35027/2009, n. 17556/2010, n. 13922/2012 e Corte
d’Appello de L’Aquila del 24 giugno 2011) che trattano del reato di omicidio
colposo del neonato o del nascituro, essendo in una fase di travaglio di parto,
riguardano casi in cui l’organo giudicante si è trovato a decidere sulla
160
mancata rilevazione di anomalie nel corso del parto, in conseguenza di un
non continuo o assente monitoraggio cardiotocografico.
Anche in queste sentenze, emerge la convinzione della Corte che l’ostetrica
sia perfettamente in grado di riconoscere eventuali alterazioni nel battito
cardiaco fetale, attraverso la lettura dei tracciati cardiotocografici, e quindi
di comunicare la sua valutazione al medico in modo tale da allertarlo.
5.3.4. Lesioni personali colpose / danno biologico in relazione a omissioni nella
presa in carico
■ Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, n. 403,
12 luglio 2010.
La sentenza tratta di un caso di responsabilità per lesioni gravissime e
permanenti ai danni di un neonato da parte di un medico ed un’ostetrica.
Questi ultimi erano stati chiamati a giudizio in un separato processo civile,
insieme con l’azienda ospedaliera in cui svolgevano il loro servizio, per
risarcire in solido i danni causati ad un bambino la cui madre avevano
seguito prima e durante il parto (avvenuto, si precisa, nel gennaio del 1983):
il minore era risultato affetto da tetraparesi spastica. Sia in primo che in
secondo grado era riconosciuta la responsabilità dei due professionisti e
dell’ospedale, per l’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie erogate alla
madre del bambino sia in previsione del parto che durante il travaglio, come
anche allo stesso neonato dopo la nascita. A questo punto l’azienda
ospedaliera aveva versato la somma dovuta in base alla sentenza della Corte
d’Appello di Brescia.
Successivamente la Procura regionale ha convenuto i due sanitari, pendente
ancora il ricorso per Cassazione, affinché fossero condannati per il
pregiudizio erariale arrecato alla Gestione Liquidatoria della detta Azienda
ospedaliera, nella misura rispettivamente del 70% il medico e del 30%
l’ostetrica.
161
La Procura ha dedotto, basandosi sui riscontri istruttori eseguiti durante il
procedimento civile di primo grado, che la gravissima invalidità del minore
sia conseguita ad una ipossia intrapartum non diagnosticata, né trattata
dopo il parto. E’ stato ritenuto che la carente ed inadeguata organizzazione
del servizio sanitario nei confronti della partoriente fosse stato tale da
determinare anche aggravare la lesione neurologia.
Il medico, aveva seguito la madre nella gravidanza, nel corso della quale si
era reso necessario un ricovero per ipertensione gestazionale. All’atto del
ricovero per travaglio lo stesso medico non aveva disposto esami mirati, né
aveva ritenuto necessaria l’assistenza di un medico durante il parto.
L’ostetrica, presente in sala parto con un’infermiera, aveva omesso di
registrare alla nascita i codici APGAR, utili a fornire valide indicazioni sulla
salute del neonato. Quest’ultimo nell’immediatezza del parto non era stato
sottoposto a nessuna indagine valutativa nonostante le sue condizioni
neurologiche non ottimali.
L’ostetrica ha eccepito nella memoria con cui si è costituita in giudizio,
l’inammissibilità della domanda prima del passaggio in giudicato della
sentenza civile, e inoltre il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti per
la preesistenza di una condanna (non definitiva) del giudice civile nei
confronti degli stessi convenuti, responsabili in solido con l’azienda sanitaria
ma senza alcuna graduazione di colpa. È inoltre denunciato che l’azione della
Procura sarebbe tesa ad escludere la responsabilità dell’ente ospedaliero in
ambito civile, essendo stato richiesto il regresso per l’intero ai condebitori
(pur con percentuali diverse per ciascuno): tale esclusione sarebbe parsa
arbitraria per via del fatto che la stessa Procura regionale ha evidenziato
gravi carenze nell’organizzazione del servizio sanitario.
La Corte dei Conti ha dichiarato inammissibile la domanda giudiziale per
carenza d’interesse, contraddicendo le deduzioni del PM, secondo cui il fatto
stesso che l’azienda sanitaria avesse effettuato il pagamento avrebbe
costituito requisito soddisfacente dell’attualità del danno. Richiamando
162
precedenti pronunce giurisprudenziali, il Collegio ha affermato come in
questo caso il diritto di credito intestato all’ente pubblico di cui si è
lamentata la lesione, difettasse dei requisiti di certezza ed attualità, dato che
l’accertamento giurisdizionale contenuto nella sentenze di merito avrebbe
potuto essere ribaltato in sede di legittimità: in sostanza era stata attivata la
responsabilità indiretta dei sanitari dell’Azienda ospedaliera prima che fosse
accertata la responsabilità civile diretta dell’ente stesso, pur essendo la
lesione (da cui sarebbe scaturita la responsabilità indiretta) subordinata al
verificarsi dell’evento futuro ed incerto del rigetto del ricorso in Cassazione.
La Procura ha agito per tutelare le ragioni del pubblico erario – dato che
l’ente pubblico Azienda ospedaliera aveva già risarcito i danni derivanti dalle
condotte illecite di due suoi dipendenti – ma il presupposto della
responsabilità indiretta è stato sancito non poter essere altro che
l’incontrovertibilità del giudicato e non il depauperamento dell’ente, che
d’altro canto aveva ottemperato a una sentenza sì esecutiva ma con
pagamento a titolo provvisorio.
■ Tribunale di Novara, 8 marzo 2011.
Il caso si riferisce alla nascita di un bambino avvenuta nel settembre 2002 in
un ospedale, al termine di una gravidanza di quaranta settimane, che per le
sue condizioni critiche, era sottoposto a intubazione e rianimazione. Nelle
settimane successive il neonato continuato ad patire un danno neurologico
(encefalopatia ipossico-ischemica, unita a convulsioni neonatali) che si
diagnosticherà poi essere irreversibile, con necessità di supporto
assistenziale continuo.
I genitori del bambino ha proceduto con una richiesta di risarcimento danni
nei confronti dell’ospedale, di alcuni medici e di un’ostetrica, lamentando una
gestione del travaglio e del parto non congrue. La donna riferiva di non era
stata sottoposta ad induzione del parto secondo i protocolli aziendali, di non
era stata visitata da un medico nonostante la difficoltà nelle contrazioni solo
163
un’ora prima del trasferimento in sala parto e di non aver avuto il
monitorato del battito cardiaco, inoltre in occasione dell’estrazione del feto
era stata utilizzata la ventosa ostetrica per due volte, invece di procedere con
taglio cesareo, data la grave sofferenza fetale. L’ostetrica in particolare non
aveva né monitorato la paziente, né effettuato i controlli del battito cardiaco
fetale, né aveva interpellato un medico per verificare gli esiti dell’induzione
al parto.
Il Tribunale ha confermato quanto rilevato dal consulente tecnico nominato
d’ufficio circa le numerose mancanze nelle condotte dei professionisti
sanitari. Alla partoriente era stato somministrato un farmaco per indurre il
parto in due fasi a distanza di ore, ma la seconda volta l’indizione non era
stata preceduta da un controllo come di norma viene eseguito. In seguito
all’inizio della fase attiva del travaglio non era applicato un monitoraggio
cardiotocografico. Il medico di guardia intervenuto aveva somministrato
inopportunamente anche dell’ossitocina, dopo un tempo troppo breve dalla
seconda somministrazione del primo farmaco. L’infusione di ossitocina non
era sospesa neanche quando, al momento della esecuzione, seppur tardiva,
del tracciato cardiotocografico, erano rilevate caratteristiche patologiche
dello stesso. Tuttavia i medici intervenuti non avevano deciso per un parto
cesareo d’urgenza – considerato necessario dai consulenti tecnici d’ufficio – e
il bambino era nato più di un’ora dopo la rilevazione della sofferenza fetale
attraverso due applicazioni della ventosa ostetrica con un’attività
respiratoria molto flebile.
Il Tribunale di Novara ha stabilito nella misura pari soltanto al 3% la
responsabilità dell’ostetrica, a fronte di una responsabilità dell’azienda
ospedaliera del 55%, del 30% e 12% per gli altri due medici chiamati a
giudizio.
164
■ Tribunale di Bari, II sezione civile, n. 2605, 26 luglio 2011.
In questo caso, un bimbo nasce con parto cesareo, nel 1993, riportando
tetraparesi spastica e ritardo neuromotorio, e successiva diagnosi di grave
encefalopatia epilettica con crisi farmacoresistenti da sofferenza anossicaischemica perinatale. Ai fini della invalidità civile gli era stata riconosciuta
un’invalidità permanente assoluta.
Dalla ricostruzione dei fatti è emersa una grave imperizia dell’ostetrica nella
valutazione del tracciato cardiotocografico. Fin dai primi tracciati dopo il
ricovero era costantemente presente un tracciato non molto reattivo e
nell’ultimo eseguito prima del parto compariva una lunga decelerazione. A
questo rilievo avrebbe dovuto conseguire l’immediata esecuzione del cesareo,
che invece avvenne ingiustificatamente ben due ore dopo, senza
caratteristiche d’urgenza. L’ostetrica non si era attivata per richiedere un
intervento medico, nonostante l’ultimo tracciato lasciasse pochi spazi
all’interpretazione. Secondo la relazione del consulente tecnico d’ufficio:
questa inerzia e il conseguente parto ritardato avrebbero comportato ed
aggravato la sofferenza fetale, e causato la gravissima situazione psicofisica
del minore.
L’ostetrica, invocando l’applicazione del DPR n. 163 del 1975 vigente
all’epoca dei fatti, ha assunto che tale disciplina dipingeva l’ostetrica come
una semplice assistente del ginecologo con limitati compiti materiali, tra cui
non sarebbe stata ricompresa l’interpretazione del cardiotocogramma, bensì
solo la mera applicazione dell’apparecchio. Il giudice ha affermato che l’art. 4
del citato DPR disponeva che l’ostetrica sarebbe stata obbligata a richiedere
l’intervento del medico ogni volta che avesse rilevato dei fattori di rischio
per la madre e per il feto; inoltre ha richiamato la sentenza della IV sezione
penale della Cassazione n. 21709/2004 che, in un caso simile (anche se
risoltosi col decesso del nascituro), ha stabilito la responsabilità dell’ostetrica
che aveva ritardato ad avvertire il medico nonostante il tracciato indicasse
una progressiva sofferenza fetale.
165
Nella sentenza, nella ricostruzione del nesso causale è specificato che,
qualora si fosse intervenuti subito dopo l’ultimo cardiotocogramma, e non a
distanza di due ore, non si sarebbe verificato il danno.
Un’ulteriore difesa dell’ostetrica ha riguardato la connotazione della
responsabilità
come
extracontrattuale
e
non
come
contrattuale.
Contrariamente alla responsabilità di natura contrattuale dell’ospedale,
secondo la parte convenuta la responsabilità vincolante l’ostetrica nei
confronti del paziente sarebbe esclusivamente aquiliana, così da poter far
valere la prescrizione in tal caso già trascorsa (5 anni invece che i 10 per far
valere un obbligo di natura contrattuale). L’eccezione non è stata accolta e il
giudice che ha precisato come la responsabilità dell’ostetrica verso il
paziente dovesse essere inquadrata nell’ambito contrattuale poiché “essendo
dipendente della stessa Casa di Cura, la sua responsabilità è compresa in
quella del suo datore di lavoro nel quale la stessa svolgeva la sua attività
lavorativa” (c.d. responsabilità sociale).
Il Tribunale di Bari ha accolto la domanda della parte attrice ed ha
condannato in solido sia la clinica che l’ostetrica.
■ Corte dei Conti, Regione Toscana, 6 ottobre 2003.
Due medici ginecologi e un’ostetrica sono citati per rispondere, a titolo di
responsabilità amministrativa, per il danno erariale causato all’ASL n. 11 di
Empoli, essendo stata quest’ultima condannata a risarcire i danni subiti dal
neonato al momento della nascita presso il presidio ospedaliero. I tre
professionisti sanitari avevano prestato la loro assistenza alla gravida, che si
era recata il 30 agosto 1987 all’ospedale per partorire il suo secondogenito, il
quale in seguito al parto riportò lesioni traumatiche a carico del plesso
brachiale sinistro, comportanti dei postumi permanenti compromettenti la
futura capacità lavorativa. Il parto, si è svolto naturalmente per via vaginale
e si era presentato con la complicanza della distocia di spalla che consiste
nell’arresto della spalla anteriore durante la fase espulsiva del travaglio di
166
parto dopo la fuoriuscita della testa fetale: si erano rese pertanto necessarie
manovre di disimpegno della spalla del neonato, tra l’altro nato con un peso
di 4,5 Kg.
Nel giudizio civile era emersa la correlazione tra le manovre di disimpegno
della spalla e le lesioni subite, manovre così violente da causare il distacco
dei nervi.
Secondo la consulenza del medico legale, i medici avrebbero dovuto
intervenire con il taglio cesareo richiesto dalla partoriente, che aveva già
subitola medesima esperienza con il primogenito nato anch’esso con un peso
di 4 Kg.
La Procura ha chiesto di conseguenza alla Corte dei Conti la condanna di
tutti e tre i convenuti, nella misura del 10% per l’ostetrica e del 90% per i
due medici (in ragione del 50% ciascuno), basandosi sulla loro negligenza ed
imperizia nel prestare assistenza alla donna e a suo figlio.
L’ostetrica si è difesa, sostenendo che materialmente aveva effettuato le
manovre di disimpegno del feto, coadiuvato il medico e ricevendo da questo
precise disposizioni tecniche; la ginecologa nella sua difesa riteneva che la
responsabilità
fosse
totalmente
sull’ostetrica,
che
avrebbe
agito
sostanzialmente senza l’intervento medico. La difesa dell’ostetrica fondava
riconoscendo una funzione ausiliaria all’ostetrica, in particolare in situazione
di patologia del parto, come in questo caso, in cui l’intervento medico era
comunque stato richiesto e ottenuto.
Il tipo di difesa formulata dagli avvocati si giustifica solamente in base al
fatto che il parto era avvenuto nel 1987, vigente ancora il mansionario ed
essendo ancora l’ostetrica una professione ausiliaria prima della riforma del
1999.
La Corte ha infine affermato che l’ostetrica avrebbe contravvenuto a precise
norme mansionariali disciplinanti attività e comportamenti consentiti,
avendo la stessa effettuato una prestazione di competenza soltanto del
medico, tra l’altro presente.
167
L’ingerenza dell’ostetrica nella esecuzione di una prestazione medica,
l’inerzia e la leggerezza del secondo medico in sala parto, e anche del medico
accettante al momento del ricovero, hanno indotto la Corte a pronunciarsi
riconoscendo un addebito di responsabilità del 15% all’ostetrica, del 55% al
ginecologo di sala parto, del 35% al ginecologo che ha ricoverato la paziente.
■ Tribunale di Palmi, sezione civile, 21 novembre 2005.
Si tratta di un caso di sofferenza neonatale e paralisi ostetrica totale all’arto
superiore sinistro. La lesione al momento dell’estrazione neonatale, sarebbe
stata causato dal comportamento colposo dei professionisti sanitari presenti
al parto. I genitori della bambina hanno chiamato in giudizio due medici ed
un’ostetrica, unitamente all’Asl n. 10 di Palmi, affinché fossero condannati in
solido al pagamento delle somme dovute come risarcimento in quanto
dall’esame della cartella clinica, non sono emersi i dati relativi alla
pelvimetria materna che avrebbero dovuto indurre ad optare per il parto
cesareo che non avrebbe determinato le lesioni patite dal minore.
Il Tribunale ha escluso da un lato la responsabilità dell’ostetrica, affermando
dall’altro lato quella dei due medici che con le loro condotte negligenti
avrebbero colposamente causato la paralisi del braccio.
In linea generale, sulla scorta di quanto affermato dal consulente tecnico
d’ufficio, in occasione di un parto distocico i professionisti sanitari
dovrebbero dapprima eseguire (in tempi brevi) delle comuni manovre di
modica trazione e rotazione nel tentativo di favorire il disimpegno e
l’espulsione delle spalle se l’esito è negativo, sarebbe necessario passare a
manovre ostetriche di notevole difficoltà quali: Mc Roberts, Jacquemier,
Rubin e Wood.
Il Tribunale, validando le conclusioni della consulenza, ha ritenuto, che
l’errore nel caso concreto si fosse prodotto nel corso delle manovre iniziali,
attraverso una trazione eccessiva del feto. Dalla cartella clinica non era
emerso l’esecuzione di manovre particolarmente complesse, bensì risultava
168
essere stata eseguita la manovra di Kristeller con episiotomia, manovra che,
oltre a non essere appropriata nell’ipotesi di distocia di spalla con
sbarramento dell’arto, non sarebbe comunque stata valutata dal consulente
come idonea a produrre il danno di specie.
La consulenza tecnica di ufficio ha concluso inoltre che al momento del
ricovero, una più approfondita valutazione delle dimensioni del feto (peso
alla nascita 4,650 Kg) avrebbe dovuto indurre i medici a praticare il taglio
cesareo, come scelta prudente, riconoscendo quindi una condotta colposa del
personale sanitario in epoca antecedente al parto.
La letteratura scientifica riporta che un peso del feto superiore a 4 Kg è un
fattore di rischio rilevante della distocia (che rimane in ogni caso evento
imprevedibile della fase espulsiva) e pertanto dovrebbe indurre i medici
quanto meno a vagliare la possibilità di un parto non naturale. Pur
riconoscendo che la scelta del cesareo non dovrebbe essere automatica, in
questo caso non era stata presa in considerazione, in quanto non era stata
eseguita un’analisi ecografica con rilevazione dei dati biometrici che avrebbe
consentito di rilevare che si trattava di un feto macrosomico.
■ Tribunale di Reggio Emilia, II sezione, 14 novembre 2007.
L’Arcispedale di S. Maria Nuova di Reggio Emilia, una ostetrica ed un
medico ginecologo sono citati per un risarcimento del danno causato ad un
minore al momento del parto avvenuto il 26 agosto 1997, in cui è conseguita
la paralisi del plesso brachiale dell’arto superiore sinistro, con postumi
permanenti invalidanti la futura capacità lavorativa del minore.
Dall’analisi della vicenda, è emerso, nonostante le difese finalizzate a far
ritenere che il parto fosse avvenuto in modo regolare, che al momento del
parto i professionisti sanitari si trovarono di fronte ad una sofferenza fetale
acuta, documentata dalla fuoriuscita di liquido tinto e maleodorante alla
rottura della borsa amnio-coriale, associato allo stato di depressione
cardiorespiratoria del bambino nell’immediatezza della nascita. La situazione
169
descritta, per facilitare ed accelerare l’espulsione del neonato, rese necessario
eseguire la manovra di Kristeller, potenzialmente idonea a cagionare
stiramenti o lesioni.
I consulenti tecnici d’ufficio hanno concluso ritenendo che la manovra di
Kristeller effettuata dall’ostetrica era una soluzione corretta, l’errore
professionale è consistito nell’omessa esecuzione di una episiotomia
profilattica, un allargamento del canale del parto volto a prevenire eventuali
traumi fetali. Secondo questa interpretazione l’episiotomia avrebbe potuto,
“con alta probabilità, evitare o quanto meno attenuare in maniera
considerevole le lesioni” patite dal neonato. Non avendo effettuato ciò che
era richiesto in conformità alla diligenza e perizia ordinariamente esigibile,
le pratiche approntate dal personale sanitario sono state riconosciute come
causa dell’evento lesivo.
L’episiotomia suggerita dalla perizia tecnica rientra tra le attività di
competenza ostetrica e vi rientrava anche prima delle riforme legislative
degli anni novanta/duemila: l’art. 10 del D.M. 15 settembre 1975 “Istruzioni
per l’esercizio professionale delle ostetriche” indicava tra le attività
demandate all’ostetrica proprio “l’episiotomia per facilitare l’espulsione del
feto quando la parte presentata affiori dalla vulva”; in ogni caso, a norma
dell’art. 4 del D.P.R. 7 marzo 1975 n. 163, l’ostetrica assistente il parto
aveva l’obbligo di richiedere l’intervento medico qualora fossero rilevati
fattori di rischio per la madre e/o per il suo bambino. Le condotte omissive,
sia dell’ostetrica che della ginecologa, responsabile al momento della nascita
e astenutasi dall’intervenire nell’attività di assistenza prestata dalla prima in
situazione di dichiarata emergenza, hanno fanno sorgere la colpa
professionale in capo alle convenute, perché improntate ad imperizia e
negligenza.
170
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 13942, 3 aprile 2008.
In questo caso l’ostetrica è imputata di lesioni colpose, per aver determinato
una irreversibile paresi al braccio sinistro alla neonata a causa di errata
assistenza al parto.
In primo grado, con sentenza del 26 gennaio 2005, il Tribunale di Napoli
condannava l’ostetrica per il reato di cui all’art. 590 c.p., per aver eseguito
manovre grossolane e con troppa forza per agevolare l’espulsione del feto.
La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza del 29 marzo 2006, ha assolto
l’ostetrica ritenendo che questa si era resa conto di trovarsi di fronte ad un
parto complicato da macrosomia fetale e aveva chiesto l’intervento di uno dei
due ginecologi di turno. Essendo i medici impegnati in altre attività,
l’ostetrica trovandosi in una situazione di emergenza aveva condotto il parto
da sola. In occasione del ricorso in Cassazione, il Procuratore Generale e il
difensore della parte civile (la madre) hanno posto questioni attinenti non
solo all’effettivo compimento di manovre anomale da parte dell’imputata, ma
altresì alla sua stessa legittimazione a compiere tali manovre in caso di parti
non fisiologici, stante l’assoluto divieto di cui al D.P.R. n. 163/1975, art. 4 e
al D.M. n. 740/1994.
La Corte ha rigettato i ricorsi. Il Regolamento per l’esercizio professionale
delle ostetriche – DPR n. 163/1975 –, ora abrogato, imponeva il dovere di
astenersi dal praticare interventi manuali o strumentali diversi da quelli
specificamente consentiti dalle disposizioni dell’art. 10 del Regolamento
stesso; inoltre si imponeva all’ostetrica di richiedere l’intervento medico in
caso emergessero complicanze (obblighi a tutt’oggi comunque vigenti,
perché ripresi dalla successiva normativa, in particolare dal profilo
professionale di cui al D.M. n. 740/1994).
Per quel che concerne il nesso causale, il fatto tuttavia non è stato
inquadrato né nell’ipotesi di causalità omissiva né commissiva: l’ostetrica
aveva richiesto l’intervento medico dopo aver riscontrato la presenza di
fattori di rischio, quindi non si è potuta ravvisare colpa nello svolgere in
171
condizioni di indifferibile urgenza un’attività specializzata pur non avendo la
necessaria specializzazione in merito.
In questo caso, ciò che induce ad una riflessione non sono le conclusioni cui è
addivenuta la Suprema Corte, quanto la normativa a cui la stessa fa
riferimento, tenuto conto che la vicenda in questione si era svolta nel 2001.
La Corte richiama il Regolamento per l’esercizio professionale delle
ostetriche, il DPR n. 163/1975, che era stato abrogato dalla legge n.
42/1999, entrata in vigore nel marzo dello stesso anno. In conclusione non
si comprende il motivo che abbia indotto gli organi giudicanti a basarsi per
la loro pronuncia su tali disposizioni.
■ Tribunale di Trani, sezione civile, n. 278, 22 aprile 2010.
Il caso riguarda una bambina nata nell’aprile del 1992 nasce nell’Ospedale
civile di Molfetta, con una paralisi di tipo ostetrico all’arto superiore sinistro,
con un’invalidità permanente stimata successivamente pari al 20%.
Dall’esame della vicenda risulta che la madre, giunta in ospedale, era
sottoposta, a stimolazione del parto dalla ginecologa e lasciata senza
assistenza in sala travaglio; su richiesta della gravida l’ostetrica era giunta
quando il feto era già in via d’espulsione. La neonata era nata cianotica e con
il cordone intorno al collo e in sala parto, per disimpegnare la nascitura,
l’ostetrica e la ginecologa avrebbero posto in essere delle manovre
improprie. All’esito dei controlli era riscontrata la lesione dell’arto superiore
sinistro.
I genitori della bambina hanno convenuto in giudizio i due sanitari che
avevano condotto il parto e l’ASL di appartenenza affinché fossero
condannati in solido tra loro a risarcire i danni arrecati, previo accertamento
della colpa professionale.
Si era appreso successivamente che la ginecologa in questione in realtà fosse
un sedicente medico, priva di laurea, a carico della quale era già stato avviato
un procedimento penale.
172
Il consulente tecnico di ufficio nella sua relazione ha ritenuto che le cause
dello stiramento delle radici nervose del braccio della neonata avrebbero
potuto essere due: una manovra di trazione eccessiva per risolvere una
distocia di spalle oppure un fenomeno naturale dinamico intrapartum
dipendente da una discesa troppo precipitosa della testa del feto nel bacino
materno. Ha aggiunto quindi che nella prima ipotesi si sarebbe posta in
evidenza la responsabilità dell’ostetrica che, trovandosi di fronte ad una
situazione in cui la spalla aveva impattato contro la sinfisi pubica (così che
era rimasta fuori solo la testa e il resto del corpo bloccato), probabilmente
aveva compiuto delle trazioni errate od eccessive dirette ad agevolare il
disimpegno. Nella seconda ipotesi, invece, sarebbe completamente esclusa la
responsabilità dell’ostetrica dato che le lesioni si sarebbero prodotte prima
della fuoriuscita dell’estremo encefalico.
Il giudice ha specificato come fosse a carico del danneggiato la prova del
nesso di causalità, e come fosse necessario far riferimento ad un serio e
ragionevole criterio di probabilità scientifica. Il Giudice, a fronte di tali
ipotesi scientifiche, ritenendo che lo stiramento spontaneo all’interno del
canale intra partum fosse un’ipotesi di scuola, di più difficile verificazione,
mentre una maggiore probabilità scientifica fosse riconoscibile alla ipotesi di
una manovra impropria della professionista per disimpegnare la spalla, ha
concluso riconoscendo la sussistenza del rapporto causale tra l’insorgenza
della patologia e la condotta dell’ostetrica.
La sentenza del Tribunale ha attribuito la colpa alla sola ostetrica assistente
il parto, escludendo quella della ginecologa che, pur essendosi spacciata per
un medico quando non aveva mai neanche conseguito la laurea, si era
limitata ad eseguire una semplice sutura sulla paziente.
Quanto alla responsabilità civile, è stata ritenuta sussistere anche quella
dell’ente ospedaliero.
173
■ Corte d’appello di Roma, sezione III civile, n. 847, 1º marzo 2011.
I genitori di una bimba nata nel 1994 citavano il direttore sanitario della
clinica e la clinica stessa per il risarcimento dei danni subiti dalla neonata
vale a dire una paralisi ostetrica superiore sinistra, addebitata alle
inadeguate prestazioni dei professionisti sanitari durante il parto.
Furono inoltre chiamati in causa dai convenuti i tre medici e l’ostetrica che
avevano seguito la donna al momento del parto.
Il tribunale di Roma con sentenza del 23 marzo 2005 ha rigettato la
domanda degli attori, ha dichiarato cessata la materia del contendere nei
confronti del direttore sanitario, ha accolto la domanda di risarcimento
danni verso la clinica per infondatezza della chiamata in causa effettuata
dalla neonatologa che aveva solo visitato la neonata a parto concluso. Gli
attori hanno appellato la sentenza riproponendo le proprie domande nei
riguardi della clinica, dei due medici non ancora usciti dal processo e
dell’ostetrica.
La consulenza tecnica d’ufficio ha riportato che la neonata in questione aveva
manifestato immediatamente una patologia post-traumatica consistente in
un deficit neurologico verosimilmente da ascriversi all’evento parto; la
cartella clinica risultava lacunosa, era stato comunque inserito il riferimento
ad un’inerzia uterina e alla manovra di Kristeller senza menzionare da chi
fosse stata eseguita, il parto era definito spontaneo ma non erano stati
indicati ruolo ed operato dei due medici e dell’ostetrica che l’avevano portato
a termine.
Essendo la cartella ostetrica priva di elementi che permettessero di trarre
conclusioni obiettive, era difficile stabilire la patogenesi del danno e
impossibile rilevare eventuali singole responsabilità; è stata inoltre rilevata
una discrepanza tra l’affermazione della paziente secondo cui il parto sarebbe
stato immediata conseguenza della manovra di Kristeller e il divario di 22
minuti emerso dagli atti tra la spinta sulla pancia e l’espulsione.
174
I consulenti di parte attrice hanno attribuito la paralisi ad una distocia di
spalla, tra l’altro prevedibile visto anche il peso considerevole della paziente;
mentre la tesi del consulente tecnico d’ufficio, affermava che secondo la
descrizione dei fatti fornita dalla madre non vi fossero avvaloranti l’ipotesi
della distocia, perché in una simile evenienza una spinta sul fondo uterino
(manovra di Kristeller) non avrebbe potuto far altro che bloccare
ulteriormente la spalla. Il Tribunale di Roma aderendo alla tesi dei
consulenti tecnici e pur riconoscendo che il danno alla bambina si era
prodotto durante il parto, non fosse possibile identificare il tipo di distocia in
concreto verificatosi, né esprimere giudizi su eventuali misure terapeutiche
poste in essere. Si è sottolineato comunque che la mancanza di rilevazione
preventiva del peso fetale (ben 4,450 Kg) aveva influito sulle scelte
ostetriche, che ad una più attenta analisi forse avrebbero dovuto propendere
per il parto cesareo, data anche l’inerzia uterina e la lunghezza della fase
espulsiva.
È rimasto infine il problema degli adempimenti contrattuali dei
professionisti sanitari e del rapporto causale tra questi e il danno lamentato,
in relazione a cui si è precisato come permanesse a carico del debitore
dimostrare che inadempimento non vi era stato o che, seppur vi fosse stato,
non era stato eziologicamente rilevante. Sono emersi dalla relazione di
consulenza tecnica diversi inadempimenti quali: cartella clinica lacunosa e a
tratti incomprensibile, esami ecografici non menzionati, mancanza tracciati
cardiotocografici, assenza di firme e del nome di chi aveva eseguito la
manovra di Kristeller (sulla cui necessità sussistevano dubbi), mancato
sollevamento di dubbi in relazione ad un’eventuale megalosomia malgrado
l’eccedenza ponderale
della madre, chiarimento insussistente sulla
stimolazione uterina tramite somministrazione di Syntocinsia che hanno
impedito come già detto un sicuro accertamento medico-legale.
Partendo dal fatto che un tale difetto di diligenza non avrebbe in ogni caso
dovuto tradursi in un ulteriore danno per il paziente avente diritto ad
175
un’adeguata prestazione sanitaria, la casa di cura e uno dei medici che non ha
fornito indicazioni per provare che la sua attività andava esente da colpa,
sono stati condannati in solido a risarcire i danni.
Il Collegio giudicante ha aderito alle motivazioni della professionista
sanitaria che si è definita ancora ausiliaria essendo il parto avvenuto nel
1994, e ha rigettato quindi la domanda nei suoi confronti e non l’ha ritenuta
colpevole, dato che la stessa non avrebbe ricevuto istruzioni prevedendosi il
parto come fisiologico e non sarebbe stato suo compito prendere decisioni
cliniche o verificare la mancanza di documentazione riguardo il periodo di
gestazione, e neanche avanzare dubbi diagnostici sulla difficoltà del parto.
Nel leggere la sentenza alla luce delle successive normative di settore, ci
sono delle affermazioni che ad oggi potrebbero lasciare qualche perplessità:
in particolare quando è affermato che non sarebbe stato compito
dell’ostetrica controllare la presenza della documentazione in merito alla
gravidanza e nemmeno ella avrebbe potuto avanzare dubbi sulla diagnosi in
relazione alle difficoltà del parto. La decisione sembra descrivere una “mera
esecutrice di istruzioni mediche” in contrasto con altre sentenze e con la
normativa di riferimento attuale.
■ Tribunale di Napoli, XI sezione penale, n. 13946, 24 gennaio 2012
La valutazione del caso è relativa alla nascita di un bambino con paralisi
dell’arto superiore sinistro causate da un’errata manovra ed eccessiva
trazione della testa e del collo del nascituro nell’atto di disimpegnare le
spalle dello stesso. Per tale motivo è stata formulata imputazione nei
confronti di un ginecologo ed un’ostetrica per lesioni colpose gravi consistite
nella paralisi dell’arto superiore sinistro con conseguente deficit funzionale
irreversibile (indebolimento permanente) della spalla e del braccio di
sinistra.
L’accusa ha addebitato all’ostetrica una condotta commissiva per l’errata ed
eccessiva manovra; al ginecologo, una condotta colposamente omissiva per
176
non essere intervenuto egli stesso sulla partoriente per agevolare
l’espulsione del feto, che si era presentato con diametro bisacromiale non in
perfetto allineamento con i diametri del bacino materno, e data la natura non
proprio eutocica del parto nonché uno stato di sofferenza fetale.
La ricostruzione del Pubblico Ministero ha descritto un parto caratterizzato
da qualche anormalità tra cui un giro di cordone intorno alla gola del
nascituro, il liquido amniotico fetido, l’effettuazione della manovra di
Kristeller in seguito a rallentamento delle contrazioni, l’utilizzo della
ventosa meccanica, la presenza di tumefazione cefalica il giorno dopo il
parto, ma il giudice ha considerato mere congetture gli elementi di sospetto
e non ha evidenziato profili certi di responsabilità per colpa a carico degli
imputati.
Egli ha affermato in sentenza come non sussistessero motivi per poter dire
che il parto fosse distocico, data anche la brevità della fase espulsiva; inoltre
sono apparse frutto di suggestione le dichiarazioni della madre riguardo il
rallentamento delle contrazioni che aveva indotto ad effettuare la manovra
di Kristeller; la descrizione del liquido amniotico come fetido si è rivelata
essere derivata da un errore materiale, e l’utilizzo del forcipe un semplice
equivoco sull’interpretazione di una sigla in cartella; non sono stati rinvenuti
infine segni di sofferenza fetale.
Si è precisato come si fosse nell’impossibilità di ricostruire adeguatamente le
manovre poste in atto dall’ostetrica, né stabilire se fossero state eseguite in
modo improprio. Per di più non si è escluso la sussistenza di altre cause
relativamente alle lesioni, come ad esempio le forze pressorie intrauterine.
■ Valutazioni riassuntive.
La sentenza della sezione giurisdizionale per la regione Lombardia della
Corte dei Conti n. 403/2010 e quella della sezione II del Tribunale di Bari n.
2605/2011 si riferiscono ad eventi svoltisi in un periodo antecedente
177
l’entrata in vigore del profilo professionale (1983 nel primo caso e 1993 nel
secondo).
In entrambe le sentenze, sebbene gli organi decidenti abbiano fatto
obbligatorio riferimento al D.P.R. n. 163/1975 allora vigente, l’ostetrica non
è relegata ad un mero ruolo di assistente del medico ginecologo, dovendo
essere in grado di rilevare fattori di rischio per la madre ed il feto (art. 4); tra
l’altro il giudice del Tribunale di Bari richiama anche la sentenza della
Cassazione n. 21709/2004.
La sentenza del Tribunale di Novara n. 209/2011 si orienta nello stesso
senso. In questo caso, i fatti che avevano condotto a lesioni neurologiche nel
neonato risalgono al 2002; l’ostetrica è condannata a risarcire i danni
arrecati in solido con altri professionisti e con l’azienda ospedaliera, non
avendo monitorato la paziente in fase di travaglio da parto indotto, non
avendo effettuato il controllo del battito cardiaco fetale né avendo ichiesto
l’intervento di un medico per verificare l’andamento dell’induzione al parto.
In tal senso vale a dire individuare situazioni potenzialmente patologiche in
relazione all’allertamento del medico è previsto oggi dal profilo
professionale al comma 5 dell’art. 1
Circa la serie di sentenze inerenti la complicanza della distocia di spalla che
può insorgere durante il parto, la prima è quella della sezione giurisdizionale
per la regione Toscana della Corte dei Conti del 6 ottobre 2003, che
riguarda fatti avvenuti nel 1987. La difesa dell’ostetrica è fondata sulla
dimostrazione della sua funzione ausiliaria, in particolare in situazione di
patologia del parto, sul suo ruolo di mera assistenza al medico tramite
manovre manuali di disimpegno del feto, sulla sua subordinazione rispetto ai
medici e alle loro decisioni. La condanna da parte della Corte al pagamento
di quanto corrisposto dall’ASL alle parti offese a titolo di risarcimento
danno, in ragione del 15%, è motivata sulla base dell’art. 4 del D.P.R. n.
163/1975: è affermato che l’ostetrica avrebbe dovuto astenersi dal praticare
178
qualsiasi manovra vista la complicazione insorta e avrebbe dovuto avvertire
il medico e lasciarlo intervenire.
Il Tribunale di Palmi, nella sentenza del 21 novembre 2005, relativa a fatti
del 1992, respinge la domanda della parte attrice di risarcimento danni da
parte dell’ostetrica, essendo la responsabilità delle scelte sulla modalità del
parto e della correttezza delle manovre praticate a carico totalmente dei
medici presenti per disimpegnare le spalle del nascituro.
La sentenza della II sezione del Tribunale di Reggio Emilia del 14 novembre
2007 riguarda un caso del 1997, periodo di combinata vigenza del
mansionario e del profilo professionale. La decisione del giudice, quindi, non
può non fondarsi sul mansionario e sulle istruzioni correlate, e pur tuttavia,
dalla lettura del testo e dalle difese approntate, non emerge alcuna
considerazione che l’ostetrica sia figura con un ruolo di secondo piano
all’interno del percorso nascita: non ricorre alcun termine che richiami un
ruolo ausiliario. L’ostetrica è ritenuta responsabile, insieme alla ginecologa,
della paralisi del plesso brachiale dell’arto superiore sinistro accorso al
neonato durante il parto: la professionista sanitaria aveva omesso di
praticare l’episiotomia profilattica allorché si era resa necessaria la manovra
di Kristeller a causa di una sofferenza fetale; essendosi poi verosimilmente
presentata la complicanza della distocia di spalla, a maggior ragione, prima
di
effettuare
qualsiasi
manovra,
avrebbe
dovuto
essere
praticata
preventivamente l’episiotomia. Quest’ultima, come anche la manovra di
Kristeller, rientra tra le attività demandate all’ostetrica (art. 10 D.M. 15
settembre 2005).
La sentenza della IV sezione penale della Cassazione, n. 13942/2008,
presenta una anomalia rispetto alla normativa cui la Corte fa riferimento al
fine di decidere la causa in quanto, nonostante i fatti si svolgano nel giugno
2001, la Cassazione non solo non prende in considerazione la legge n.
42/1999 e la legge n. 251/2000, bensì ancora il D.P.R. n. 163/1975,
unitamente al profilo professionale. La decisione appare corretta, dato che
179
trattasi di un caso di forza maggiore in cui l’ostetrica aveva dovuto
necessariamente intervenire pur constatando l’evidente non fisiologicità del
parto: rimasta inascoltata la richiesta d’intervento fatta al medico ginecologo
di turno, l’imputata aveva posto in essere una manovra verosimilmente
grossolana (e comunque non di sua competenza) per estrarre il nascituro,
molto più grosso del normale, provocando un’irreversibile paresi al braccio
sinistro.
D’altro canto, è vero che il D.M. n. 740/1994 impone all’ostetrica di
individuare le situazioni potenzialmente patologiche ed in tal caso di
allertare il medico, ma è altrettanto vero che lo stesso comma 5 dell’art. 1
continua con l’affermazione della competenza dell’ostetrica nel praticare ove
occorra le relative misure di emergenza.
La sentenza n. 278/2010 del Tribunale di Trani riguarda come convenute
nel giudizio civile assieme all’ASL coinvolta, un’ostetrica ed una ginecologa.
I fatti erano avvenuti nel 1992, la normativa di riferimento è il mansionario
più il decreto contenente le istruzioni per l’esercizio professionale, che
contempla all’art. 10 l’esecuzione della manovra che ha materialmente
causato il danno in coerenza con le conclusioni della sentenza.
La ginecologa non è ritenuta responsabile della lesione del plesso brachiale
nel neonato, avendo solo praticato una sutura alla madre. L’ostetrica è
riconosciuta responsabile per errata assistenza durante il parto spontaneo
distocico: dai consulenti tecnici l’ipotesi considerata più probabile e
verosimile è quella di una manovra di trazione del feto, per liberare la spalla
anteriore, impropria ed eccessiva; e tale conclusione non è stata superata da
ricostruzioni su possibili cause alternative fornite dalla parte convenuta.
Anche la sentenza n. 847/2011 della III sezione civile della Corte d’Appello
di Roma decide in merito ad eventi antecedenti l’entrata in vigore del profilo
professionale, giungendo però a non considerare responsabile l’ostetrica
della paralisi superiore sinistra del neonato, essendo la stessa una semplice
ausiliaria, che non può neanche proporre dubbi diagnostici sulla difficoltà del
180
parto, che nel caso era complicato da una macrosomia fetale (e forse da una
distocia di spalla) decisione che sembra essere poco aderente alle indicazioni
normative.
La sentenza n. 13946/2012 della XI sezione penale del Tribunale di Napoli
riguarda un caso del 2002 di paralisi della spalla e del braccio sinistro di un
neonato. L’accusa si fonda sulla colpa commissiva dell’ostetrica per
l’effettuazione di una manovra di disimpegno errata ed eccessiva, e sulla
colpa omissiva del medico ginecologo per il mancato intervento in un caso
come questo di parto non propriamente eutocico. In questo caso sono stati
assolti gli imputati per mancanza di profili certi di responsabilità nella
ricostruzione degli eventi.
Dalle sentenze discende l’idea che l’ostetrica abbia sicuramente, oggi come in
passato, un ruolo cardine in caso di parto fisiologico, con competenze
delineate e autonomia decisionale e come invece debba richiedere
l’intervento del ginecologo qualora il parto presenti elementi patologici.
5.3.5. Omicidio colposo in relazione a errori nella somministrazione di farmaci
■ Tribunale di Modena, II sezione civile, n. 490, 24 marzo 2011.
La sentenza riguarda un caso di risarcimento danni per responsabilità nel
reato di omicidio colposo, causato da un errore nella somministrazione di un
farmaco.
Il caso riguarda un neonato, che aveva subito lesioni gravissime da asfissia
durante il travaglio, a cui era stato dato un farmaco diverso da quello
prescritto provocandone la morte a distanza di tre settimane dalla nascita.
I genitori hanno convenuto in giudizio l’ostetrica e l’Azienda ASL di
Modena, per richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza del
decesso. Era già intervenuta una sentenza penale di patteggiamento, che
avrebbe costituito una fonte di prova con la quale completare il quadro
istruttorio e non un vincolo per il giudice civile. In sintesi, l’esistenza
dell’errore sanitario e della sua rilevanza causale erano dati per acquisiti.
181
In base alla ricostruzione effettuata dalla parte attrice, il Tribunale civile di
Modena ha potuto accertare che al termine di una normale gravidanza,
l’attrice si era presentata in ospedale per una visita e in tale occasione era
documentata la presenza di scarso liquido amniotico; dopo aver eseguito un
tracciato cardiotocografico erano indotte le contrazioni; dopo alcune ore,
nonostante le contrazioni fossero diventate molto forti e vicine tra loro, la
dilatazione era apparsa ancora minima; il ginecologo aveva prescritto allora
un farmaco miorilassante per favorire la dilatazione del collo dell’utero:
l’ostetrica aveva somministrato per errore alla paziente un farmaco diverso
da quello indicato, che aveva determinato contrazioni potenti e protratte, e
la conseguente insorgenza di ipertono uterino e bradicardia fetale. Il
bambino era nato con sintomi di severa asfissia intrapartum: non era rilevata
attività respiratoria spontanea che non si attivò neanche dopo la
rianimazione cardiaca. L’ormai compromessa situazione aveva comportato
poi la morte del neonato.
Nella sentenza in esame il giudice ha proceduto quindi alla quantificazione
del danno morale, biologico ed esistenziale. Stante l’affermata responsabilità
della convenuta ostetrica, ne è derivata anche la solidale responsabilità
risarcitoria
dell’ente
ospedaliero
alle
cui
dipendenze
lavorava
la
professionista.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 12347, 29 gennaio 2008.
Il caso si riferisce al delitto di lesioni colpose gravi causato da un’errata
somministrazione di farmaci.
Sia il Tribunale di Torre Annunziata che la Corte d’Appello di Napoli hanno
riconosciuto la responsabilità per colpa dell’ostetrica per le gravissime
lesioni personali cagionate ad una neonata nel corso di travaglio di parto e
consistite in microcefalia, asimmetria e strabismo. Durante i processi di
merito è stato accertato che l’ostetrica aveva somministrato alla partoriente
un farmaco per aumentare l’intensità e la frequenza delle contrazioni uterine,
182
in misura e con modalità incongrue. Inoltre, il farmco era stato
somministrato per via orale, e non per via endovenosa che avrebbe
consentito l’eventuale sospensione. In questo modo si era assunta
competenze riservate al medico.
L’errore provocò una grave asfissia alla nascitura, e neanche il successivo
intervento del medico con un farmaco contrastante il primo era riuscito a
bloccare l’effetto di subcontrazione uterina che si era ormai innescato.
La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal responsabile civile,
richiamando tra l’altro il Profilo professionale dell’ostetrica (DM 14
settembre 1994 n. 740), in base al quale quest’ultima può condurre e portare
a termine i soli parti eutociti, dovendo invece rivolgersi al medico
allorquando individui situazioni potenzialmente patologiche (art. 1, comma
1-5).
La Corte ha sottolineato come nel caso in questione l’ostetrica non si era
trovata di fronte ad un parto eutocito, visto che si era presentata la necessità
di accelerare il ritmo delle contrazioni uterine: ella avrebbe dovuto allertare
immediatamente il personale medico, che aveva la capacità di prescrivere il
trattamento farmacologico.
■ Valutazioni riassuntive.
Le due sentenze riguardano la somministrazione di farmaci da parte delle
ostetriche. Queste ultime hanno, come gli infermieri tale competenza, che va
però circoscritta al settore ostetrico-ginecologico; le stesse norme di
esercizio professionale valide per gli infermieri, si ritiene siano valide anche
per le ostetriche, nonostante il loro profilo professionale non si occupi in
modo specifico di somministrazione di farmaci. Pur tuttavia vista la
formazione universitaria (nell’ottica della legge n. 42/1999 il concetto di
attività si declina come capacità, che deve acquisirsi primariamente
attraverso lo studio) e il codice deontologico, che si conferma essere uno dei
criteri guida unitamente al profilo professionale, che fa spesso riferimento
183
alla partecipazione dell’ostetrica al programma terapeutico nel farsi carico
della salute del paziente, appare coerente ritenere che l’ostetrica abbia le
competenze e la responsabilità, di somministrare medicinali in base alle
prescrizioni del medico.
5.4. Giurisprudenza in tema di responsabilità del fisioterapista
5.4.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione
Sono riportate nel box 5.3 due fonti normative indispensabili per la
comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo.
Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle norme di carattere generale
citate in giurisprudenza, si rinvia alla trattazione sviluppata nel capitolo 2.
Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con
riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate
correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della
condotta professionale censurata.
Box 5.3 – Il profilo professionale del fisioterapista e ambito di autonomia secondo l’art.
2 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie
infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della
professione ostetrica”
D. M. 14 settembre 1994 , n. 741 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del
relativo profilo professionale del fisioterapista”.
Art. 1. 1. È individuata la figura del fisioterapista con il seguente profilo: il fisioterapista è l'operatore
sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, che svolge in via autonoma, o in collaborazione
con altre figure sanitarie, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle
funzioni corticali superiori, e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia, congenita
od acquisita.
2. In riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell'ambito delle proprie competenze, il
fisioterapista:
a) elabora, anche in equipe multidisciplinare, la definizione del programma di riabilitazione volto
all'individuazione ed al superamento del bisogno di salute del disabile;
b) pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità motorie,
psicomotorie e cognitive utilizzando terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali;
c) propone l'adozione di protesi ed ausili, ne addestra all'uso e ne verifica l'efficacia;
d) verifica le rispondenze della metodologia riabilitativa attuata agli obiettivi di recupero funzionale.
3. Svolge attività di studio, didattica e consulenza professionale, nei servizi sanitari ed in quelli dove si
richiedono le sue competenze professionali;
4. Il fisioterapista, attraverso la formazione complementare, integra la formazione di base con indirizzi di
184
specializzazione nel settore della psicomotricità e della terapia occupazionale:
a) la specializzazione in psicomotricità consente al fisioterapista di svolgere anche l'assistenza riabilitativa
sia psichica che fisica di soggetti in età evolutiva con deficit neurosensoriale o psichico;
b) la specializzazione in terapia occupazionale consente al fisioterapista di operare anche nella traduzione
funzionale della motricità residua, al fine dello sviluppo di compensi funzionali alla disabilità, con
particolare riguardo all'addestramento per conseguire l'autonomia nella vita quotidiana, di relazione
(studio-lavoro-tempo libero), anche ai fini dell'utilizzo di vari tipi di ausili in dotazione alla persona o
all'ambiente.
Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione nonchè della professione ostetrica”.
Art. 2. (Professioni sanitarie riabilitative) 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area della
riabilitazione svolgono con titolarità e autonomia professionale, nei confronti dei singoli individui e della
collettività, attività dirette alla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e a procedure di valutazione
funzionale, al fine di espletare le competenze proprie previste dai relativi profili professionali. ….
5.4.2. Lesioni personali colpose, in relazione a errori nell’ambito della professione
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, 10 aprile 1998, n. 859.
Il fisioterapista è stato in primo grado condannato per il reato di cui all’art.
590 c.p., perché, per colpa consistita in imperizia, imprudenza e negligenza,
aveva cagionato lesioni ad un uomo, avendo provocato una nuova frattura
all’omero sinistro (il leso si era rivolto al fisioterapista a causa dei postumi di
una prima frattura, dopo rimozione dell’ingessatura) guaribile in una
trentina di giorni.
Con sentenza del 16 maggio 1997, la Corte di Appello di Ancona ha
ribaltato il verdetto, assolvendo il professionista sanitario perché il fatto non
costituisce reato. La Corte conferma la sussistenza del rapporto di causalità
tra l’azione che il fisioterapista aveva operato sul braccio e la frattura
dell’omero del paziente. Non è comunque certa la colpa dell’imputato, non
essendo nemmeno accertata l’esecuzione di manovre improprie: così, data
l’infondatezza
dell’elemento
soggettivo
del
reato,
si
è
pervenuti
all’assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p.. È stato osservato che la
condotta dell’imputato dovesse essere valutata sul presupposto che egli
avesse saputo solo dell’esigenza di sottoporre il paziente a kinesiterapia
secondo la prescrizione del medico ortopedico, in base a quanto sostenuto
dal fisioterapista; invece, l’affermazione del paziente d’aver fornito tutta la
documentazione clinica, non è stata valutata del tutto attendibile. È stato
185
ritenuto, inoltre, non gravante sul fisioterapista un onere d’informazione
circa le cause di irrigidimento del gomito, poiché è stato considerato
sufficiente che egli fosse stato a conoscenza del fatto che al paziente era stato
precedentemente applicato un apparecchio gessato.
La Cassazione giudica errata l’esclusione di un obbligo di informazione a
carico del fisioterapista (a prescindere dalla produzione di idonea
documentazione). Sottolinea infatti che “incombe sul fisioterapista,
nell’espletamento della sua attività professionale, un obbligo di accertamento
delle condizioni del paziente traumatizzato prima di compiere manovre
riabilitative che possono rivelarsi dannose, sicché, in mancanza di idonea
documentazione medica lo stesso fisioterapista ha il dovere di assumere tutte
le informazioni richieste dal trattamento che si accinge a praticare”. La
sentenza impugnata è quindi annullata e rinviata per un nuovo esame, al
giudice civile, essendo stata proposta impugnazione dalla sola parte civile.
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 35318, 12 giugno 2008.
Il fisioterapista era già stato condannato sia in primo grado dal Tribunale di
Lecce – Sezione distaccata di Maglie – nel 2006, sia dalla Corte d’Appello di
Lecce nel 2007, perché per imprudenza ed imperizia aveva cagionato alla
persona offesa lesioni personali nel corso di un trattamento fisioterapico: a
causa di una violenta torsione del collo, aveva determinato distorsione
cervicale con cervicobrachialgia sinistra in soggetto con cervicoartrosi e
discopatia, il che aveva comportato uso del collare per due settimane.
Il ricorso in Cassazione è stato rigettato. La Suprema Corte ha rilevato che
gli stessi giudici di merito avevano con sicurezza accertato che, durante una
seduta di massaggi praticati dalla fisioterapista imputata, la parte offesa
aveva avvertito un importante dolore al collo – tanto da urlare – all’atto
dell’effettuazione di una duplice torsione dello stesso: di ciò erano stati
subito informati i medici del presidio ospedaliero.
186
È risultato quindi certo che le lesioni fossero state causate da una manovra
troppo violenta del fisioterapista che, in quanto professionista autonomo e
perciò stesso responsabile in proprio del suo operato, ha visto confermata in
via definitiva la sua condanna ad una pena pecuniaria per l’imputazione di cui
all’art. 590 c.p..
■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 27978, 24 giugno 2008.
Si tratta di un caso di lesioni colpose causate da un fisioterapista nel corso di
un trattamento. Essendo intervenuta remissione di querela, la Corte ha
annullato la decisione intervenuta in Appello per estinzione del reato ex art.
590 c.p. Conviene comunque considerare lo svolgimento del processo nelle
fasi precedenti, in base alla ricostruzione effettuata dalla Cassazione.
Il fisioterapista S.C. è stato dichiarato colpevole del delitto di lesioni
personali colpose in danno di un paziente, una prima volta dal Tribunale di
Roma con giudizio abbreviato; con sentenza della Corte d’Appello di Roma
del 15 ottobre 2007, è stata confermata la condanna al pagamento di una
multa, oltre al risarcimento danni da liquidarsi in separata sede.
Secondo la tesi accusatoria (comunque accolta dai giudici di merito),
l’imputata, durante una seduta fisioterapica di “trazione” cervicale, avrebbe
effettuato il trattamento in questione in modo “prolungato e massimale”, e
non con una più corretta trazione graduale: ciò avrebbe comportato lo
stiramento delle radici cervicali C7-C8.
Il dibattimento si è concentrato sull’“idoneità della trazione cervicale a
produrre le lesioni indicate, valutate le modalità accertate da periti e da
consulenti di parte”. La consulenza tecnica disposta dalla Corte d’Appello, ha
rilevato come il medico curante della R. avesse prescritto una “trazione
cauta”, mentre la fisioterapista si era allontanata una volta iniziato il
trattamento così da non poter porre rimedio al processo distrattivo; la
sofferenza radicale dei nervi aveva avuto origine con detto intervento,
perché le precedenti lesioni erano di più modesta entità e non compatibili
187
con un dolore così intenso (anche il consulente della difesa aveva indicato
che le nuove lesioni avevano accentuato una pregressa patologia cronica); le
lesioni sono poi risultate compatibili con l’applicazione di un peso di 2Kg e
comportanti 180 giorni di malattia e ulteriori 180 giorni di incapacità di
attendere alle ordinarie occupazioni.
La Corte di merito ha dunque ritenuto che l’esecuzione di una “trazione
normale” – e non “cauta” come da indicazione medica – rappresentasse
imprudenza ed imperizia, tanto da porsi come antecedente causale
dell’evento.
Nel ricorso proposto, il fisioterapista ha rilevato, per quanto riguarda il
nesso causale, che il peso di 2 Kg fosse da ritenersi esiguo, tanto che il
giudizio civile ha escluso proprio il nesso di causalità tra il trattamento e le
lesioni; per quanto riguarda la condotta, la non correttezza dell’argomento
della “trazione cauta”, perché le trazioni devono avere un andamento
progressivo.
■ Tribunale di Roma, XIII sezione, 10 luglio 2006.
Si tratta di una causa civile, in cui sono convenuti in giudizio il fisioterapista
che materialmente aveva eseguito la seduta fisioterapica e l’AIRRI,
l’associazione che aveva fornito il professionista per la riabilitazione. Al
termine della seduta il paziente, persona anziana del peso di oltre 100 Kg e
non in grado di deambulare autonomamente, cade procurandosi la frattura
del femore per culpa in vigilando del fisioterapista.
Il giudice ha condannato in solido entrambi i convenuti al risarcimento
danni (patrimoniali e non) a favore degli eredi dell’attore nel frattempo
deceduto, richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui
“l’obbligo di assistenza scaturente da un contratto di cura non si esaurisce
nella mera prestazione delle cure mediche, ma include la protezione delle
persone di menomata o mancante autotutela che siano destinatarie
188
dell’assistenza, per le quali detta protezione costuisce la parte essenziale
della cura”.
■ Tribunale di Bari, I sezione, 11 dicembre 2006.
Si tratta di una causa penale con costituzione di parte civile. Un
fisioterapista dipendente ospedaliero è imputato del reato di lesioni colpose
in danno di una paziente affetta da grave patologia che l’aveva costretta a
letto per diverso tempo, motivo per cui aveva iniziato sedute di fisioterapia
alle quali si recava in sedia a rotelle.
In base a quanto sostenuto dalla parte offesa il fisioterapista non l’avrebbe
sostenuta nello spostamento dal lettino alla cyclette, tirandole anzi la
gamba, tanto da causare perdita dell’equilibrio e conseguente caduta, con
frattura della caviglia e tre mesi di permanenza a letto. Tre testimoni hanno
invece dichiarato che il fisioterapista non aveva smesso un attimo di
sostenere la paziente standole sempre di fianco ma, di fronte ad una
repentina perdita di equilibrio, non era stato in grado di evitare del tutto la
caduta.
Il Tribunale ha assolto l’imputata, non essendo stato possibile fondare la
colpa su elementi certi ed oggettivi.
■ Valutazioni riassuntive.
La prima sentenza citata in materia di lesioni personali colpose causate da
errate manovre del fisioterapista, è la n. 859/1998 della IV sezione penale
della Cassazione. Pur se non era vigente la legge n. 42/1999 (né tanto meno
la n. 251/2000), ma solo il profilo professionale del 1994, questa decisione
rimane comunque attuale anche alla luce dei successivi interventi normativi.
La Corte attribuisce al fisioterapista il dovere di accertarsi delle condizioni
del paziente traumatizzato prima di compiere qualsiasi manovra e di
assumere tutte le informazioni richieste dal trattamento che deve praticare
in caso di documentazione medica assente o insufficiente: il professionista
189
deve
infatti
elaborare
il
programma
di
riabilitazione
volto
sia
all’individuazione che al superamento del bisogno di salute del disabile, per
poi praticare autonomamente l’attività terapeutica, e da questo deriva che
evidentemente ci debba essere un precedente passaggio per analizzare lo
stato psico-fisico del paziente e capire pienamente il tipo di problematica di
cui soffre. Il punto di riferimento della diagnosi e prescrizione del medico,
non può quindi esimere il professionista della riabilitazione da una propria
ed autonoma “raccolta dati” che in parte si può sovrapporre all’anamnesi
medica; ciò pur tuttavia potrà e dovrà esser fatto anche in caso di
prescrizione medica completa, dato che anche la dottrina da tempo avverte
come il fisioterapista non possa limitarsi soltanto ad eseguire quanto
prescritto dal medico (in particolare nell’ipotesi in cui il trattamento
prescritto dal medico non appaia idoneo al caso di specie), dovendo
comunque poi egli assumersi la responsabilità della terapia che esegue.
Il profilo professionale, in particolare il comma 2 dell’art. 1, tratta del
rapporto tra fisioterapista e medico prescrittore e formulante diagnosi: il
primo, nell’ambito delle proprie competenze, elabora la definizione del
programma di riabilitazione, anche in équipe multidisciplinare; l’attività
terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità, è poi praticata
autonomamente. Da ciò, anche se non specificato testualmente nella
sentenza della Suprema Corte, discende l’obbligo per il fisioterapista di
accertarsi delle condizioni del paziente prima di compiere qualsiasi manovra.
Il comma 2 art. 1 dispone che le funzioni del fisioterapista devono essere
eseguite in riferimento alla diagnosi e alle prescrizioni del medico, ma ciò
evidentemente non può prescindere da una autonoma raccolta di dati che si
può in parte sovrapporre all’attività del medico. Il tutto nello spirito di “una
proficua collaborazione basata sulle reciproche competenze”.
La collaborazione con il medico ed altri professionisti, come ad esempio si
realizza nei reparti di riabilitazione intensiva, può essere assimilata
all’attività svolta in équipe; si può di conseguenza richiamare il principio
190
dell’affidamento, in particolare dell’affidamento cosiddetto temperato o
relativo. Nel lavoro di équipe, la regola ordinaria è che ognuno risponde
dell’inosservanza delle legis artis del proprio specifico settore, perché si deve
aver fiducia nel corretto comportamento altrui; vi è però anche un obbligo di
controllo e di sorveglianza, e quindi di relativo intervento, quando il
soggetto partecipante abbia possibilità di rilevare circostanze tali da
mostrare errori di condotta.
Ciò vale in riferimento alla normativa vigente, mentre in precedenza era
prevista una condizione di subordinazione in cui il medico poteva affidare
attività all’ausiliario, su cui doveva vigilare. Ne derivava per il medico un
addebito di corresponsabilità per il fatto commesso dall’ausiliario, tranne
nelle condotte colpose dell’ausiliario nello svolgimento di funzioni che questi
poteva autonomamente esercitare.
Oggi, titolarità ed autonomia che il legislatore ha riconosciuto ai singoli
professionisti sanitari sembrerebbero dunque sollevare il medico dai predetti
compiti di vigilanza”.
Le altre due sentenze della IV sezione penale della Cassazione su casi di
errati trattamenti fisioterapici, la n. 35318/2008 e la n. 27978/2008, si
soffermano sul fatto che anche manovre troppo violente o prolungate
comportano la responsabilità del fisioterapista in caso il paziente subisca una
lesione o veda aggravarsi la patologia in corso. Attenzione che non può mai
mancare per tutta la seduta fisioterapica, anche nel lasso di tempo in cui il
fisioterapista non stia materialmente effettuando il trattamento.
Dalle sentenze della XIII sezione civile del Tribunale di Roma del 10 luglio
2006 e della I sezione del Tribunale di Bari dell’11 dicembre 2006, discende
che la protezione delle persone che abbiano una deambulazione difficoltosa è
parte essenziale della cura stessa. Se un paziente con menomazioni durante
la fisioterapia, sorge una presunzione di culpa in vigilando (obbligo ordinario
di vigilanza) a carico del fisioterapista, che si può superare soltanto
191
dimostrando di aver offerto un’assistenza vigile e continua (e quindi che la
caduta è avvenuta per cause di forza maggiore).
5.4.3. Esercizio della professione di fisioterapista
■ TAR Toscana, II sezione, n. 552, 11 giugno 1998.
Il ricorso concerne la contestazione di un ordine di servizio da parte di
alcuni professionisti sanitari (tra cui fisioterapisti, ma nessun medico)
operanti in un centro diurno di riabilitazione di un’azienda sanitaria: la
direzione generale dell’azienda aveva emanato l’ordine di servizio
incaricando i suddetti professionisti delle somministrazione per via orale agli
assistiti di farmaci prescritti dal medico curante; fra i farmaci vi erano
antidepressivi, ansiolitici e cardiotonici.
Il TAR ha sancito l’illegittimità di un tale ordine di servizio, perché la
somministrazione di farmaci richiede qualifica ed esperienza professionale,
come quella infermieristica, in relazione alla quale sussiste un certo grado di
responsabilità. Il Collegio ha precisato che il profilo professionale del
fisioterapista fa riferimento, contrariamente al profilo professionale
dell’infermiere, alla somministrazione di farmaci; né sono presenti negli
ordinamenti didattici dei diplomi universitari, corsi dedicati alla formazione
dei fisioterapisti circa le tecniche di somministrazione, la conoscenza degli
effetti collaterali e le controindicazioni rispetto all’effettiva situazione del
paziente.
■ TAR Sardegna, I sezione, n. 1511, del 9 ottobre 2009.
Alcune società eroganti prestazioni di “medicina fisica e riabilitazione” per il
Servizio Sanitario Nazionale e i loro sindacati professionisti medici SAPMI
(Sindacati Autonomi Professionisti Medici Italiani) – sezione Sardegna – e
SIMFIR (Sindacato Italiano Medici Fisici Riabilitatori), presentano ricorso
al TAR per ottenere l’annullamento di alcune delibere della Giunta della
Sardegna (n. 13 del 4 marzo 2008 e n. 21 dell’8 aprile 2008) con cui la
192
Regione aveva disciplinato le attività esercitabili nell’ambito degli “studi
professionali di fisioterapia”: in particolare era consentita l’effettuazione di
prestazioni
terapeutiche
riconducibili
al
profilo
professionale
del
fisioterapista di cui al D.M. 741/1994, con uso di apparecchiature
elettromedicali con parti applicate che avrebbero potuto comportare rischio
per il paziente; inoltre, al fine dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività
sanitaria di studi professionali di fisioterapia, era stabilita la necessità di una
costante presenza del fisioterapista durante lo svolgimento dell’attività.
La tesi delle società ricorrenti (unitamente ai loro sindacati) – tutti studi
medici di medicina fisica e riabilitazione convenzionati con il SSN – era che
gli studi professionali di fisioterapia (pur erogando le stesse tipologie di
prestazioni) disponessero grazie a queste delibere di una disciplina più
favorevole rispetto a quella che li riguardava, in particolare per la mancata
previsione della presenza del medico (essendo sufficiente, cioè, la presenza
del solo fisioterapista) nel corso di sedute implicanti l’uso di apparecchi
elettromedicali potenzialmente rischiosi per la salute del paziente.
Nella prima udienza del giorno 11 marzo 2009, il Collegio ha disposto
l’integrazione del contraddittorio anche nei confronti dell’Associazione
Italiana Fisioterapisti (AIFI), in rappresentanza della categoria professionale
avente evidente interesse alla conservazione dell’atto impugnato.
Di fronte della lamentata mancata previsione della presenza del medico, il
TAR in primo luogo richiama il profilo professionale, la legge n. 42/1999 e
l’art. 2 della legge 251/2000, focalizzando così l’attenzione soprattutto
sull’autonomia e sul campo di attività e responsabilità proprio del
fisioterapista.
In secondo luogo, il TAR fa riferimento alla legge della Regione Sardegna n.
10 del 2006, il cui art. 6 (“autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie”)
contempla che sia la Giunta regionale a stabilire ed aggiornare, con apposita
deliberazione, “i requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi
richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture
193
pubbliche e private, nonché,…, degli studi professionali singoli e associati,
mono o polispecialistici di cui al comma 2 dell’articolo 8 ter del decreto
legislativo n. 502 del 1992, e successive modifiche e integrazioni, sulla base
dei principi e dei criteri direttivi contenuti nel comma 4 dell’articolo 8 del
decreto legislativo n. 502 del 1992, e successive modifiche e integrazioni”. In
conformità a questo disposto, con le impugnate delibere del 2008, la Giunta
regionale aveva dettato una disciplina specifica per gli studi di fisioterapia.
Il TAR argomenta poi del grado di autonomia da riconoscere ai fisioterapisti
nell’espletamento delle loro attività negli studi professionali.
L’analisi delle delibere evidenzia l’assenza di limitazioni circa le attività
manuali; per l’utilizzo delle apparecchiature elettromedicali con parti
applicate, le delibere sono più articolate: qualora tali apparecchiature
comportino “un rischio” per la sicurezza del paziente, l’utilizzo va riservato
al medico; qualora comportino solo “un certo grado di rischio”, l’attività è
ammessa anche per i fisioterapisti in via autonoma.
Il TAR ha ritenuto che, se il legislatore statale ha conferito al fisioterapista
un ampio spazio di autonomia, correttamente la Giunta regionale ha indicato
che in quello spazio potessero essere utilizzate senza supervisione medica – e
perciò con piena responsabilità del fisioterapista stesso –apparecchiature
elettromedicali strettamente connesse all’esercizio della professione, purché
queste non implicassero il superamento di un livello moderato di rischio per
la sicurezza del paziente. Il TAR ha infine focalizzato la sua posizione
affermando che “richiedere la presenza di un medico nell’ambito dello studio
professionale del fisioterapista avrebbe svilito la sfera di azione e di
autonomia di tale professionista”.
I ricorsi per queste motivazioni sono stati respinti.
■ TAR Piemonte, II sezione, n. 516, 20 maggio 2011.
L’AIFI
presenta
ricorso
contro
la
Regione
Piemonte
chiedendo
l’annullamento della deliberazione di Giunta regionale 6 aprile 2009 n. 9194
11161 – nonché di tutti gli atti antecedenti, preordinati, consequenziali e
comunque connessi – che aveva definito i “requisiti minimi degli studi dei
fisioterapisti libero professionisti”.
L’atto regionale aveva sancito che nell’attività sanitaria di riabilitazione,
nell’ottica di una presa in carico globale della persona, dovesse essere
predisposto dal medico un progetto riabilitativo individuale, poi realizzato
dal fisioterapista tramite uno o più programmi riabilitativi: si tratta di un
programma riabilitativo realizzato dal fisioterapista, in attuazione però (ed è
il nodo della questione) del progetto riabilitativo individuale redatto dal
fisiatra.
Il ricorrente ha lamentato che dette previsioni fossero lesive per le
competenze del fisioterapista: sarebbe stata in particolare snaturata
l’autonomia del professionista, delineata dal profilo professionale, dalla legge
n. 42/1999 e dalla legge n. 251/2000. La lesione dell’autonomia assume una
duplice caratterizzazione: 1) la previsione che l’attività del fisioterapista deve
necessariamente svolgersi in équipe è in contrasto con l’art. 1 del profilo
professionale che contempla interventi da compiere sia in via autonoma sia
in collaborazione con altre figure professionali; 2) la subordinazione
dell’attività del fisioterapista alla presenza di un progetto riabilitativo
redatto dal fisiatra, mentre le leggi n. 42/1999 e n. 251/2000 si riferirebbero
piuttosto ad un campo proprio di attività e responsabilità, essendo i
fisioterapisti professionisti sanitari dell’area della riabilitazione con titolarità
ed autonomia.
Il Collegio, considerando il contenuto del profilo professionale del
fisioterapista, ha precisato che, seppur l’attività venga svolta in via autonoma
o in collaborazione con altre figure sanitarie, questa dovrebbe pur sempre
essere esercitata “in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico,
nell’ambito delle proprie competenze”. Il TAR non ha avuto dubbi sul fatto
che il fisioterapista debba operare in necessario coordinamento con le
indicazioni provenienti dal medico, che risulterebbe responsabile ultimo
195
della diagnosi sul paziente e delle prescrizioni idonee alla cura. Secondo il
TAR, il d.m. n. 741 descrive un professionista la cui autonomia conoscerebbe
il rilevante limite dell’imprescindibile collaborazione e coordinamento con
altri professionisti; spetterebbe al fisioterapista la “definizione del
programma di riabilitazione”, in via esclusiva, ma rimanendo nel solco
tracciato dal medico con la prescrizione diagnostica.
■ TAR Lazio, sezione terza quater, n. 1704 del 20 febbraio 2012.
Il ricorso è proposto dalla S.I.MF.E.R. – Società Italiana di medicina Fisica e
Riabilitativa – e dal S.I.M.M.Fi.R. – Sindacato Italiano Medici di medicina
Fisica e Riabilitativa – contro il Ministero della Salute per l’annullamento
(previa sospensiva) del D.M. 16 dicembre 2010 n. 52268 avente ad oggetto
l’”erogazione da parte delle farmacie di specifiche prestazioni professionali”.
Il D.M. contemplava la “possibilità per le farmacie di erogare specifiche
prestazioni di carattere prevalentemente assistenziale avvalendosi, ove
necessario, di fisioterapisti”: tale possibilità era subordinata alla triplice
condizione che si trattasse di prestazioni a carico del SSN, che fossero
prescritte da medici di medicina generale, e che i fisioterapisti svolgessero –
all’interno della farmacia o al domicilio del paziente – solo attività rientranti
nelle loro competenze legislativamente previste.
La censura mossa dai ricorrenti al D.M. è che il fisioterapista sarebbe stato
autorizzato a compiere attività riabilitative, identiche a quelle offerte negli
ambulatori medici, ma senza la presenza o il costante controllo del medico
specialista in medicina fisica e riabilitazione: ciò avrebbe comportato un
ineguale trattamento per le farmacie, trasformate in ambulatori o
poliambulatori, senza i necessari controlli e autorizzazioni.
Il Collegio ha completamente respinto il ricorso esordendo con
un’affermazione tassativa: “Non esiste … una norma che imponga al
fisioterapista, allorché eroga prestazioni rientranti nella propria competenza,
di agire alla presenza o quanto meno sotto il controllo dello specialista”. I
196
ricorrenti non hanno indicato alcuna norma a sostegno di questa prerogativa
dello specialista.
Il TAR ha inoltre indicato il ruolo del medico generico all’interno del SSN: il
medico generico, formulata la diagnosi, può scegliere di prescrivere egli
stesso il programma terapeutico che poi il fisioterapista attuerà sotto il suo
controllo; oppure può sollecitare l’intervento dello specialista, che formuli
diagnosi e definisca terapia, qualora risulti necessario per la complessità
della patologia in esame. Il D.M. impugnato contempla solamente la prima
ipotesi e casi in cui ci si trovi di fronte a patologie di ridotto rilievo.
Il TAR ha sottolineato che, in base al D.M., fosse comunque necessario sia
che il programma terapeutico affidato al fisioterapista rispettasse le sue
competenze, sia che permanesse un certo controllo del medico generico il
quale, prima avrebbe dovuto instaurare un rapporto collaborativo con il
professionista della riabilitazione nella predisposizione di detto programma,
ma poi verificare anche che questo venisse compiutamente attuato.
Tale attività di assistenza all’utente del SSN che cerchi un fisioterapista, cui
affidare la realizzazione di un programma di recupero, non avrebbe
trasformato, come invece sostenuto dai ricorrenti, la farmacia in un
ambulatorio,
perché
l’attività
principale
rimane
comunque
quella
commerciale.
Tutte le argomentazioni sollevate dalla SIMFER e dal SIMMFiR sono
risultate dunque pretestuose. È stata respinta la richiesta della presenza
continua dello specialista alle attività di riabilitazione; il giudice
amministrativo ha ammonito che, se il fisiatra vuol “invadere” il campo del
fisioterapista svolgendo pure le “minori prestazioni” che non richiedono il
bagaglio di conoscenze ed esperienze professionali del medico specialista
solo per meri calcoli di convenienza economica, non può invocare misure a
sua protezione.
197
■ Valutazioni riassuntive.
Il TAR di Cagliari, nella sentenza n. 1511/2009, per risolvere la
controversia, delinea il quadro normativo esistente per quanto riguarda la
figura del fisioterapista. Il Collegio si sofferma sul concetto di autonomia,
nell’art. 1 del profilo professionale e nell’art. 2 della legge 251/2000: è
sottolineato come il legislatore abbia attribuito un rilevante spazio di
autonomia alla figura del fisioterapista, da cui si fa discendere quindi anche
la possibilità di utilizzo di “apparecchiature elettromedicali strettamente
connesse all’esercizio della specifica professione sanitaria” (ciò su cui in
sostanza si dibatteva). La Giunta regionale ha correttamente indicato che
negli studi di fisioterapia alla presenza del solo fisioterapista si svolgano
attività implicanti l’uso di tecnologie, purché queste non comportino il
superamento di un livello moderato di rischio per la sicurezza del paziente.
La presenza di un medico avrebbe compromesso l’autonomia di un
professionista la cui attività è dalla legge n. 42/1999 riconosciuta come non
più ausiliaria; il fisioterapista deve assumersi la piena responsabilità di ogni
trattamento e anche del corretto utilizzo dei supporti tecnologici
eventualmente utilizzati.
Il TAR di Torino, nella sentenza n. 517 del 2011, fornisce invece
un’interpretazione dell’art. 1 del profilo professionale non in sintonia con la
precedente pronuncia. Concordando con l’impugnata delibera della Giunta
regionale che ha imposto che negli studi professionali il fisioterapista eserciti
la propria attività (il programma riabilitativo, che dovrebbe elaborare questo
sì in via esclusiva) in base al progetto riabilitativo individuale redatto dal
fisiatra, il TAR ha precisato che l’autonomia di cui si parla nel suddetto
disposto non è assoluta ma deve esplicarsi in necessaria collaborazione con le
altre figure sanitarie: in particolare il fisioterapista elabora il programma di
riabilitazione “in riferimento alla diagnosi e alle prescrizioni del medico”
(comma 2), dove l’espressione in riferimento è qui concepita come necessaria
198
subordinazione al progetto del medico (ciò di cui più si lamentava il ricorso
presentato).
La delibera in oggetto prescrive tra l’altro la supervisione del medico
fisiatra, non un medico generico, laddove il profilo professionale, che fa
riferimento ad un medico, non parla di uno specialista.
Il TAR del Lazio, nella sentenza n. 1704/2012, invece afferma, in un caso
molto diverso, come non esista una “norma che imponga al fisioterapista,
allorché eroga prestazioni rientranti nella propria competenza, di agire alla
presenza o quanto meno sotto il costante controllo dello specialista”, pur se
il ricorso miri a far riconoscere un diritto in questo senso del fisiatra. Il
decreto ministeriale impugnato, che ha autorizzato le farmacie ad erogare
prestazioni di carattere prevalentemente assistenziale avvalendosi ove
necessario di fisioterapisti, ha comunque imposto la necessaria presenza della
prescrizione del medico di medicina generale, essendo in ciò maggiormente
in linea con la normativa di settore rispetto alla decisione di cui sopra.
Il TAR di Firenze, nella sentenza n. 552/1998, sancisce in via definitiva
l’impossibilità per i fisioterapisti di somministrare farmaci, attività di
competenza principalmente infermieristica.
5.4.4. Esercizio abusivo di professione
■ Cassazione, IV sezione, n. 4454, 11 gennaio 2001.
La sentenza origina dal ricorso contro un’ordinanza del Tribunale di Parma
che, in veste di giudice del riesame, ha revocato un provvedimento di
sequestro preventivo di un locale adibito a studio professionale. L’accusa del
P.M. era che nello studio, privo di autorizzazione, erano esercitate terapie
riabilitative, da parte di due soggetti che esercitavano la professione di
fisioterapisti, abusivamente perché privi della necessaria abilitazione: erano
stati infatti ivi trovate “12 persone intente ad eseguire esercizi di
riabilitazione fisica, aventi finalità terapeutiche in relazione a pregressi
eventi traumatici o a postumi di interventi chirurgici”.
199
Il giudice del riesame, nel revocare il provvedimento di sequestro, ha
osservato come ci sia una particolare area di intervento comune sia al
fisioterapista che al chinesiologo, figura non rientrante tra le professioni
sanitarie, dotata comunque di uno statuto in base al quale la chinesiologia è
attività finalizzata al recupero motorio, mantenimento e potenziamento
muscolare attraverso esercizi di ginnastica; il fisioterapista svolge interventi
di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni
corticali superiori e di quelle viscerali conseguenti ad eventi patologici: è in
riferimento all’area della c.d. motricità che l’attività del fisioterapista si
interseca con la professione del chinesiologo.
La scriminante è stata individuata nella correlazione dell’attività
fisioterapica a situazioni di disabilità motorie, psicomotorie e cognitive,
correlazione che non sussiste per la chinesiologia: qualora la persona intenda
semplicemente raggiungere una migliore forma fisica non appare necessaria
l’attività del fisioterapista, e quindi la presenza di una persona munita di una
specifica abilitazione.
Il Tribunale di Parma ha sottolineato che non emergesse in modo univoco
che fossero effettivamente svolte “terapie fisiche, manuali, massoterapiche e
occupazionali”, che contraddistinguono l’opera del fisioterapista.
La Cassazione ha confermato dunque l’ordinanza del tribunale del riesame,
rigettando il ricorso del P.M., ribadendo la correttezza della analisi
effettuata sulle competenze della professione di fisioterapista e l’attività di
chinesiologo.
■ Corte di Cassazione, sezione VI penale, 25 settembre 2003.
Un medico generico iscritto all’Albo, che aveva esercitato la professione di
fisioterapista in assenza di abilitazione nel suo studio, dove erano state
sequestrate delle apparecchiature destinate alla riabilitazione. Con ordinanza
del Tribunale di Reggio Calabria è stato confermato il provvedimento di
200
sequestro, contro cui ha ricorso in Cassazione l’imputato, secondo cui
l’abilitazione all’esercizio dell’attività medica rappresenterebbe titolo
costitutivo anche per l’esercizio della professione di fisioterapista.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso aderendo alle tesi della difesa.
Essendo l’art. 348 c.p. una norma penale in bianco, si è fatto riferimento ad
altre disposizioni di legge che stabilissero le condizioni in difetto delle quali
l’esercizio di determinate professioni risultasse abusivo: la Cassazione ha
richiamato in particolare il D.L.vo n. 502/1992 e il conseguente D.M.
741/1994 recante il profilo professionale del fisioterapista. Tale normativa è
stata considerata come riferentesi ai non laureati (appunto perché all’epoca i
professionisti sanitari ausiliari non erano laureati) e non al medico “che in
quanto titolare della laurea in medicina e chirurgia è abilitato ad esplicare
assistenza sanitaria in funzione di prevenzione, diagnosi e cura, di guisa che
il diploma di specializzazione della riabilitazione non può essere previsto tra
i requisiti, la cui mancanza impedisca a qualsiasi medico di esercitare la
terapia della riabilitazione”. In altre parole, la Cassazione partendo dal
presupposto che la medicina riabilitativa è una branca della sanità in
generale, ha affermato che il medico iscritto all’albo professionale può ben
espletare la sua professione anche in questo settore, non essendo allo stato
necessario alcun diploma di specialità.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 20438, 6 marzo 2009.
La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso contro
l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Vicenza ha rigettato la
richiesta di annullamento dell’ordinanza di convalida del sequestro
preventivo effettuato dalla Guardia di Finanza di Schio sulle attrezzature
usate dall’indagato e sull’immobile destinato a studio professionale. P.A. era
stato accusato di svolgere l’attività di fisioterapista senza abilitazione: il P.A.
aveva una qualifica di tecnico massaggiatore e nel suo studio erano stati
trovati tre pazienti affetti da patologie ossee in attesa di cure fisioterapiche; i
201
beni sequestrati erano apparsi del tutto coerenti rispetto allo svolgimento
dell’attività di fisioterapista.
Il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile, perché il praticare
massaggi a scopo curativo integrerebbe l’ipotesi accusatoria: le reazioni sulla
persona del paziente del metodo di cura adottato in relazione alla patologia
non avrebbero potuto essere valutate nel caso di specie non essendo stato
presente un soggetto abilitato alla professione sanitaria di fisioterapista;
quanto al metodo di cura è stata sancita la necessità di controllo medico.
Stante la pericolosità del tipo di attività svolta su persone affette da diversi
morbi, e dato che l’immobile adibito a gabinetto per massaggi era
stabilmente destinato a tale scopo, il sequestro a fini preventivi è stato
ritenuto giustificato.
■ Cassazione, VI sezione penale, n. 47028 10 novembre 2009.
Un soggetto che aveva conseguito il titolo di massoterapeuta, era stato
condannato, in entrambi i giudizi di merito, per esercizio abusivo di
professione sia di medico sia di fisioterapista. La Corte, dichiarando
inammissibile il ricorso, ha ribadito che la ricostruzione dei fatti accertata in
sede di merito aveva evidenziato come l’imputato non si fosse limitato ad
eseguire interventi rilassanti e di benessere, ma avesse attuato massaggi per
lenire e curare patologie di vario tipo secondo un proprio programma di
sedute, indicando talvolta una diagnosi – per cui è stato individuato l’abusivo
esercizio di professione medica – o sulla base della manifestazione dolorosa o
dall’esame di lastre, radiografie e referti.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 39292, 27 settembre 2011.
Il Tribunale di Agrigento, in sede di riesame, aveva confermato con
l’ordinanza del 14 marzo 2011 il provvedimento del G.I.P. del 24 febbraio
2011, che aveva disposto il sequestro preventivo di un centro fisioterapico,
perché la principale socia del centro stesso era indagata per esercizio abusivo
202
di professione sanitaria; nella struttura si sarebbe esercitata attività
riabilitativa da parte di soggetti privi della laurea triennale richiesta e in
assenza di medici fisiatri. Due dipendenti, masso terapeuti, non erano in
possesso della qualifica di fisioterapista, pur avendo eseguito in alcune
occasioni trattamenti fisioterapici per i quali non erano abilitati. Per questi
elementi, unitamente al rischio di reiterazione della condotta delittuosa, il
Tribunale a confermare il sequestro e la Corte di Cassazione ha dichiarare
inammissibile il ricorso.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 5005, 14 dicembre 2010.
Caso analogo è quello inerente al sequestro preventivo del centro estetico e
fisioterapico Elite Fisiosport s.n.c., il cui amministratore Z.A. aveva ivi
esercitato abitualmente la professione di fisioterapista in modo abusivo: nel
locale sottoposto a sequestro erano state rinvenute (e sequestrate anch’esse)
apparecchiature per applicazione di ultrasuoni, per elettrostimolazioni e per
laserterapia.
■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n 436568, 2011.
Il caso interessa il sequestro di uno studio di bionaturopatia con relative
apparecchiature e medicinali, il cui proprietario era stato indagato per
esercizio della professione sanitaria di fisioterapista in assenza del richiesto
titolo abilitativo: in particolare egli avrebbe effettuato massaggi alla
cervicale, utilizzato apparecchio di agopuntura e prescritto medicinali
omeopatici.
Ancora una volta la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato contro
l’ordinanza del Tribunale di Frosinone, del 23/06/2011, di conferma del
sequestro preventivo.
203
■ Valutazioni riassuntive.
La Cassazione, nella sentenza n. 4454/2001, ha affermato come non dia
luogo al reato di esercizio abusivo l’attività di chinesiologia, tesa a favorire il
recupero motorio ed il mantenimento e potenziamento muscolare attraverso
esercizi di ginnastica. La Corte, basandosi sul profilo professionale del
fisioterapista, ha specificato che la sua professione ha per oggetto lo
svolgimento di “terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali”
richiedenti l’esistenza di “disabilità motorie, psicomotorie e cognitive”: lo
spartiacque tra le due professioni andrebbe ravvisato dunque nelle
condizioni di salute della persona che si sottopone alla cura del fisioterapista
o del chinesiologo. Invero, anche se il profilo professionale si riferisce a
specifiche situazioni di “disabilità motorie, psicomotorie e cognitive”, gli
interventi del fisioterapista sono di cura e di riabilitazione, ma anche di
prevenzione; quindi alcuni ambiti di operatività di tale professione
potrebbero sovrapporsi a quelli in cui svolge la sua attività il chinesiologo.
La IV sezione penale della Cassazione, con sentenza del 25 settembre 2003,
accoglie le doglianze di un medico generico cui erano state sequestrate delle
apparecchiature riconducibili all’attività di fisioterapista, svolta senza la
necessaria abilitazione, essendo stato ravvisato in ciò il fumus del reato di
esercizio abusivo di detta professione. La Corte afferma che la necessità di
possedere un diploma universitario abilitante “che costituisce titolo
preferenziale per l’esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo
il superamento di apposite prove valutative”, vale solo per i non laureati e
non per i medici, la cui laurea li abilita ad esercitare nell’ambito della
medicina riabilitativa. La sentenza trascura completamente la legge n.
42/1999: difatti si fa riferimento al fisioterapista come professionista
sanitario ausiliario e non si considera che tale figura avrebbe un campo
proprio di attività e responsabilità.
204
CAPITOLO 6
RESPONSABILITA’ E GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO
Negli anni l’incremento dei casi di rivalsa in ambito sanitario da parte
dell’utenza sia con richieste di risarcimento che con attivazione di persi in
ambito penalistico ha indotto nel personale sanitario un atteggiamento di
timore o anche di cultura “della colpa”, in cui gli operatori hanno sviluppato
una paura nei confronti dell’errore sviluppando comportamenti difensivi
finalizzati alla tutela dell’operatore stesso e non del paziente. In questo clima di
diffidenza è stata traslata dal sistema industriale la cultura di miglioramento
della organizzazione dallo studio e analisi dell’errore.
Vale a dire apprendere dall’errore, come metodo di applicazione per la gestione
del rischio, al fine di superare l’accaduto per arrivare ad una cultura di
prevenzione degli errori che, partendo dall’evento, analizza il come e il perché
lo stesso si sia verificato, per poi cercare di rafforzare le difese con sistemi di
compensazione e di tolleranza dei possibili errori.
La gestione del rischio clinico è inserita in un sistema più ampio di clinical
governance in cui questa rappresenta un complesso di sistemi finalizzati al
miglioramento della qualità dell’organizzazione, della sicurezza dei pazienti e
di tutti gli stakeolders (parti interessate), identificando, valutando e riducendo i
rischi.
1. Riferimenti normativi italiani.
Nell’ambito delle attività avviate dal Ministero della Salute in tema di Qualità
dei servizi sanitari, sono stati istituiti, in tempi successivi, presso la Direzione
generale della Programmazione sanitaria, dei Livelli essenziali di assistenza e dei
Principi etici di sistema, plurimi gruppi di lavoro con diverse finalità: studiare la
prevalenza e le cause del rischio clinico e formulare indicazioni generali per la
sua riduzione e l'individuazione delle priorità, delle azioni e delle tecniche per la
gestione del rischio clinico; individuare soluzioni operative per la definizione di
205
un sistema di monitoraggio degli eventi avversi e determinare le modalità di
formazione per gli operatori sanitari; monitoraggio degli eventi avversi ed
elaborazione di raccomandazioni e di documenti per la formazione.
Il Ministero della Salute, Dipartimento della qualità della Direzione generale
della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di
sistema - Ufficio III – ha elaborato dodici “raccomandazioni” in relazione a
numerosi eventi sentinella3:
n. 1 Sul corretto utilizzo delle soluzioni di kcl e altre soluzioni concentrate
contenenti potassio (03.2008); n. 2 prevenire la ritenzione di garze, strumenti o
altro materiale all’interno del sito chirurgico (03.2008); n. 3 corretta
identificazione dei pazienti, del sito chirurgico e della procedura (03.2008); n. 4
prevenzione del suicidio di pazienti in ospedale (03.2008); n. 5
prevenzione della reazione trasfusionale da incompatibilità AB0 (03.2008); n. 6
raccomandazione per la prevenzione della morte materna correlata al
travaglio e/o parto (03.2008); n. 7 prevenzione della morte, coma o grave
danno derivati da terapia farmacologica (03.2008); n. 8 prevenire gli atti di
violenza a danno degli operatori sanitari (11.2007); n. 9 raccomandazione per
la prevenzione degli eventi avversi conseguenti al malfunzionamento dei
dispositivi medici/apparecchi elettromedicali (04.2009); n. 10 raccomandazione
per la prevenzione dell’osteonecrosi della mascella/mandibola da bifosfonati
(09.2009); n. 11 morte o grave danno conseguenti ad un malfunzionamento del
sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero) (01.2010); n. 12
prevenzione degli errori in terapia con farmaci “look-alike/sound-alike”
(08.2010).
Il Piano sanitario nazionale 2006-2008, approvato con d.p.r. 7 aprile 2006,
dedica specifica attenzione al tema del rischio clinico e prevede nel § 4.44
3
Gli eventi sentinella sono eventi avversi di particolare gravità, inattesi, potenzialmente rivelatori, per quanto relativamente
poco frequenti, di gravi criticità del sistema.
4
4.4 … Altro aspetto fondamentale è quello della gestione del rischio clinico a salvaguardia e tutela della sicurezza dei
pazienti e del personale. In stretta relazione a ciò è necessario che le attività di audit clinico siano effettivamente integrate
nella missione aziendale, abbandonando la logica elitaria che li ha finora accompagnati. …
Il rischio clinico e la sicurezza dei pazienti
206
l’attivazione di sistemi di monitoraggio degli eventi avversi, la formazione del
personale al fine di acquisire per tutti gli operatori la consapevolezza e favorire
l’implementazione della cultura della sicurezza e dell’errore come fonte di
apprendimento, attivazione del monitoraggio degli eventi sentinella, secondo
quanto previsto dal Protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella (luglio
2009), l’operatore sanitario coinvolto nell’evento avverso comunica al referente
del rischio clinico o alla Direzione aziendale l’avvenuto evento, quest’ultimo
avvierà una indagine interna per stabilire se si tratta di evento sentinella
segnalerà nell’immediatezza il caso al Ministero e inizierà una contestuale
analisi per comprendere i fattori che hanno contribuito al determinarsi
dell’evento. Analizzate le cause e i fattori contribuenti e redatto il piano di
Azione (il tutto entro 45 giorni) invierà un report conclusivo.
2. Il rischio clinico e l’errore
Il “rischio” (R) è la condizione o l’evento potenziale che modifica l’esito atteso
di un processo; è misurato come prodotto fra la probabilità che accada uno
specifico evento (P) e l’entità del danno connesso (D); nel calcolo del rischio, si
considera anche la capacità di prevedere l’evento e contenerne le conseguenze
(K), legata alla formazione, alla informazione ed alla organizzazione:
Sulla gestione del rischio clinico esistono iniziative regionali da valorizzare e generalizzare che assumono come obiettivo
quello di coniugare il tradizionale punto di vista “assicurativo” tipico della responsabilità dei professionisti a quello più
generale della “sicurezza del paziente” che attiene ai livelli di qualità del sistema dei servizi e che ha pertanto un impatto
diretto sulle capacità di offerta dei livelli di assistenza. Negli ospedali italiani si cominciano a sperimentare e a diffondere
Unità per la gestione del rischio.
Il rischio clinico è la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè subisca un qualsiasi danno o disagio
imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate, che causa un peggioramento delle condizioni di salute
o la morte.
Una gestione efficace del rischio clinico presuppone che tutto il personale sia consapevole del problema, che sia incoraggiata
la segnalazione degli eventi e che si presti attenzione ai reclami e al punto di vista dei pazienti. Le strategie di gestione del
rischio clinico devono utilizzare un approccio pro-attivo, multi-disciplinare, di sistema, e devono prevedere attività di
formazione e monitoraggio degli eventi avversi.
La formazione, che deve prevedere un livello nazionale, regionale ed aziendale, deve consentire a tutti gli operatori di
acquisire la consapevolezza del problema del rischio clinico, per favorire la cultura della sicurezza che considera l’errore
come fonte di apprendimento e come fenomeno organizzativo, evitando la colpevolizzazione del singolo.
Le attività di monitoraggio, devono essere condotte secondo un criterio graduato di gravità di eventi, prevedendo che i tre
livelli, nazionale, regionale ed aziendale, possano promuovere le rispettive azioni, secondo un disegno coerente e praticabile.
Deve essere attivato un monitoraggio degli eventi sentinella, cioè quegli eventi avversi di particolare gravità, indicativi di un
serio malfunzionamento del sistema, che causano morte o gravi danni al paziente e che determinano una perdita di fiducia dei
cittadini nei confronti del Servizio Sanitario. L’efficace gestione del rischio clinico porterà oltre ad importanti risultati di
carattere sanitario anche rilevanti risvolti economici.
207
R=PxD
K
Il “rischio clinico” è la probabilità (P) che un paziente sia vittima di un evento
avverso5 e patisca, a causa dell’intervento sanitario, un danno (D), consistente
in una nuova malattia o in un peggioramento della malattia preesistente (un più
lungo decorso della stessa o una maggior gravità dei postumi) o nella morte. Il
rischio è la probabilità che si verifichi un evento avverso, pertanto, la gestione
del rischio clinico si fonda sostanzialmente sull’analisi degli eventi avversi. In
questa logica si spiega da dove trae il suo fondamento la cultura dell’apprendere
dall’errore, spostando quindi l’interesse non più finalizzato alla ricerca del
colpevole.
In questa logica di interpretazione l’errore è secondo il glossario di riferimento
nazionale il “fallimento nella pianificazione e/o nell’esecuzione di una sequenza
di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso,
dell’obiettivo desiderato”.
L’errore può essere a sua volta classificato in modi diversi:
ERRORI SENZA COLPA
- presentazione non-usuale o mascherata della malattia
- errori correlati al paziente (non cooperativo, ingannatore)
ERRORI LEGATI AL SISTEMA
- difetti tecnici e problemi di apparecchiature
- difetti organizzativi
5
Evento inatteso correlato al processo assistenziale e che comporta un danno al paziente, non intenzionale e indesiderabile.
Gli eventi avversi possono essere prevenibili o non prevenibili. Un evento avverso attribuibile ad errore è un evento avverso
prevenibile.
208
ERRORI COGNITIVI
- conoscenze difettose
- raccolta difettosa di dati
- sintesi difettosa
(da: M.L. Graber, Arch Intern Med 2005)
Errori cognitivi: E. prelogici: procedurali
intellettivi
cognitivistici
E. logici: generazione delle ipotesi
processazione delle ipotesi
formulazione delle ipotesi
E. extralogici: psicologico-affettivi
difensivi
conflitti nelle decisioni di gruppo
conflitti d’interesse
Errori operativi: E. accidentali (sviste, distrazioni, ecc.)
E. sistematici (procedure codificate, ecc.)
da: G. Delvecchio ‘Decisione ed errore in medicina’ 2005
Nell’ambito dell’approccio sistemico diviene rilevante la distinzione tra diverse
tipologie di errori:
Attivi: i fallimenti associati direttamente alle prestazioni degli operatori di
prima linea, i cui effetti sono immediatamente percepibili e, dunque, facilmente
individuabili;
Latenti: associati ad attività distanti dal luogo dell’incidente, sia in termini di
tempo sia di luogo, quali le attività manageriali, normative e organizzative.
Da questo approccio sistemico, nasce l’idea che il verificarsi di un incidente sia
frutto di una concatenazione di eventi che hanno superato tutte le difese che
sono state messe in atto.
Poiché gli errori attivi non potranno mai essere eliminati in modo definitivo,
aumentare l’affidabilità e la sicurezza di un sistema significa influire sulle
criticità latenti, sulle quali gli errori attivi si innescano.
209
L’errore può quindi causare un evento avverso, cioè un evento indesiderabile
non intenzionale, dannoso per il paziente. L’attività di risk management o di
gestione del rischio clinico si sviluppa in più fasi: conoscenza ed identificazione
dell’errore, analisi degli errori, correzione delle cause, monitoraggio delle
misure messe in atto per la prevenzione dell’errore, implementazione e
sostegno attivo delle soluzioni proposte.
Il sistema di analisi è finalizzato alla riduzione dell’incidenza degli eventi
avversi, mediante l’identificazioni di eventuali fattori umani, organizzativi,
tecnologici come fonte di errore, cercando sistemi di applicazione che riducano
al massimo l’incidenza del comportamento umano, ma che hanno dimostrato
avere la loro prevalente azione migliorativa agendo direttamente sui settori
tecnologici, organizzativi, procedurali, culturali piuttosto che quelli umani.
La sua applicazione in ambito sanitario richiede un fondamentale cambio di
paradigma e una variazione culturale: considerare l’errore come fonte di
apprendimento per evitare il ripetersi delle circostanze che hanno portato a
sbagliare.
La metodologia di analisi della gestione del rischio clinico è raggiungibile solo
in un contesto culturale e organizzativo in cui tutti i professionisti sanitari
medici e non, abbiano raggiunto un livello di maturità adeguato in cui la
sicurezza, la prevenzione degli eventi avversi, l’organizzazione siano
fondamenti delle loro attività. Solo in questa ottica potranno essere superati i
timori e le paure personali vincolate alla responsabilità giuridica, consentendo
agli stessi di non celare eventuali condotte errate proprie o altrui ma di
favorire l’analisi e il confronto in una direzione comune di miglioramento per
evitare il ripetersi dell’evento.
210
3. Le fasi della gestione del rischio clinico: metodi e strumenti per
l’identificazione e l’analisi di rischio
Le fasi della gestione del rischio prevedono: l’identificazione dei rischi; l’analisi
dei rischi, trattamento e monitoraggio dei rischi.
Le varie fasi sono interconnesse e raggiungibili mediante l’applicazione di
strumenti di seguito schematicamente rappresentati.
3.1 Strumenti di identificazione del rischio
I metodi e gli strumenti sono stati sviluppati nel corso degli ultimi dieci anni e
si sono sviluppati soprattutto nei paesi anglosassoni e introdotti in molte realtà
italiane. I principali strumenti per l’identificazione del rischio sono:
a) Incident reporting
b) Revisione della cartella clinica e delle schede di dimisione
c) segnalazione degli eventi sentinella
d) esame del contenzioso
e) Patient safety walkround
a) Incident reporting
L’incident reporting è un sistema di segnalazione spontanea, è una modalità
strutturata per la raccolta di informazioni relative al verificarsi di eventi
indesiderati, la segnalazione riguarda: gli eventi avversi (attività che hanno
determinato un danno) i “no harm events”, vale a dire attività potenzialmente
lesiva ma che non ha causato il danno e i “near misses” o quasi evento costituito
da attività lesiva, interrotta prima della concretizzazione del danno.
L’incident reporting non è di facile utilizzo, poiché, pur garantendo l’anonimato,
incontra resistenze da parte dei professionisti sanitari chiamati a redigerlo, per
il timore che la segnalazione non sia svincolata da connessi procedimenti
disciplinari o segnalazioni all’autorità giudiziaria. In tal senso è opportuno
precisare che il responsabile del clinical risk management, da ritenere o pubblico
211
ufficiale o incaricato del pubblico servizio, ha l’obbligo della segnalazione
all’autorità giudiziaria, con riferimento alla ricezione dell’incident reporting, solo
in caso di reati perseguibili di ufficio (secondo i disposti degli artt. 361 e 362
c.p. e dell’art. 331 c.p.p.): egli non deve pertanto segnalare all’autorità predetta
le condotte che non hanno condotto ad un danno per la persona, né gli eventi
avversi riconducibili ad errore professionale, che abbiano determinato una
malattia, che in questo caso configurerebbe il reato di lesioni personali colpose,
che sono perseguibili a querela di parte.
L’incident reporting, oltre che per l’identificazione del rischio, è uno strumento
utile anche nelle fasi di monitoraggio del processo esaminato.
b) Revisioni delle cartelle cliniche e delle schede di dimissione
La revisione delle documentazione clinica è una analisi retrospettiva per
l’identificazione degli eventi e permette di identificare eventuali ingongruità,
scostamenti dalle linee guida o dai protocolli. E’ uno strumento che viene
applicato a campione che richiede per la sua realizzazione una preliminare
definizione dei criteri di campionamento e degli indicatori da rilevare. E’
caratterizzato da un approccio multidisciplinare e nella sua applicazione
determina un aumento della consapevolezza degli operatori sui rischi con
condivisione dei requisiti formali e sostanziali della cartella clinica con
conseguente cambiamento dei comportamenti. Tuttavia è limitato dalla
numerosità del personale che occorre e dal tempo necessario per l’indagine
oltre che dalla formazione degli operatori e dalla correttezza e completezza
delle registrazioni presenti nella documentazione.
Il processo di revisione della cartella può essere usato per monitorare i
progressi della prevenzione degli eventi avversi, quando ad esempio si
introducono processi o procedure nuove e, attraverso la revisione si valuta il
livello di adozione delle stesse.
212
c) Segnalazione degli eventi sentinella
Gli eventi sentinella sono eventi avversi di particolare gravità, inattesi,
potenzialmente rivelatori, per quanto relativamente poco frequenti, di gravi
criticità del sistema. Nel 2005, l’allora Ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche sociali, aveva già attivato il monitoraggio degli eventi sentinella con
l’obiettivo di realizzare, con le Regioni e le Province Autonome e con le
Aziende sanitarie, una modalità condivisa di sorveglianza e gestione degli
eventi sentinella. In seguito all’Intesa della Conferenza permanente rapporti Stato
Regioni del 20 marzo 2008, concernente la gestione del rischio clinico e la
sicurezza dei pazienti e delle cure, è stato attivato, presso il Ministero della
Salute, l’Osservatorio nazionale sugli eventi sentinella attraverso il Sistema
informativo per il monitoraggio degli errori in sanità (SIMES). Secondo il
Protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella, elaborato dal Ministero della
Salute, nel contesto dell’ Osservatorio nazionale sugli eventi sentinella è stata
individuata la seguente lista di eventi sentinella:
1. procedura in paziente sbagliato;
2. procedura in parte del corpo sbagliata (lato, organo o parte);
3. errata procedura su paziente corretto;
4. strumento o altro materiale lasciato all’interno del sito chirurgico che
richieda un successivo intervento o ulteriori procedure;
5. reazione trasfusionale conseguente ad incompatibilità AB0;
6. morte, coma o gravi alterazioni funzionali derivati da errori in terapia
farmacologica;
7. morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto;
8. morte o disabilità permanente in neonato sano di peso >2500 g non correlata
a malattia congenita;
9. morte o grave danno per caduta di paziente;
10. suicidio o tentato suicidio di paziente in ospedale;
11. violenza su paziente;
12. atti di violenza a danno di operatore;
213
13. morte o grave danno conseguente ad un malfunzionamento del sistema di
trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero);
14. morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice
triage nella centrale operativa 118 e/o all’interno del pronto soccorso;
15. morte o grave danno imprevisti a seguito dell'intervento chirurgico;
16. ogni altro evento avverso che causa morte o grave danno.
d) Esame del contenzioso
Nelle strutture sanitarie è presente in larga percentuale una unità che gestisce
il contenzioso, vale a dire l’insieme dei casi per i quali è s stata avanzata una
richiesta di risarcimento per responsabilità professionale in via giudiziale o
extragiudiziale o un’azione penale. E’ uno strumento che consente di
identificare eventuali aree di rischio a livello aziendale utili in un contesto di
mappatura delle azioni correttive da applicare.
e) Patient Safety Walkround
Il Safety Walkround è uno strumento caratterizzato dalla effettuazione di
“giri” da parte di personale formato e con specifico mandato istituzionale
effettua nelle diverse unità operative sanitarie al fine di raccogliere mediante
una intervista strutturata informazioni utili a identificare situazioni di rischio o
eventi occorsi o quasi eventi ma anche eventuali misure di correzione possibili o
eventuali azioni di contenimento già applicate.
Il personale viene quindi invitato a raccontare eventi, fattori concomitanti,
fattori causali o concomitanti, problemi potenziali e possibili soluzioni. Questo
strumento consente di ottenere la raccolta di informazioni utili a prevenire le
circostanze che possono indurre un evento avverso, e contestualmente le
soluzioni al problema con immediata modifica e miglioramento ed è
contestualizzato alla sede esaminata. Il sistema proposto stimola il personale ad
osservare comportamenti e pratiche con occhio critico e riconoscere i rischi da
un nuovo punto di vista. L’applicazione del metodo è limitata dal timore dei
214
professionisti intervistati di essere puniti o colpevolizzati per aver effettuato la
segnalazione, nonché dalla mancanza di fiducia nella applicazione di azioni
correttive. E’ indispensabile che sia condivisa l’applicazione di tale metodo con
chi ha il potere di decidere/garantire gli interventi correttivi individuati.
3.2 Strumenti di analisi del rischio
L’analisi del rischio clinico viene effettuata mediante plurimi strumenti di anali
ed è finalizzata alla identificazione delle insufficienze di sistema alla
individuazione delle cause profonde che hanno determinato il verificarsi
dell’evento e hanno l’obiettivo di individuare altresì possibili azioni correttive o
barriere che impediscano il ripetersi dell’evento o ne abbattano la gravità del
danno conseguente.
La metodologia della gestione del rischio clinico prevede due tipologie di
analisi: un’analisi di natura reattiva e un’analisi di natura proattiva con relativi
strumenti informativi.
a) Analisi reattiva: l’analisi parte da un evento avverso e ricostruisce a
ritroso la sequenza di avvenimenti con lo scopo di identificare i fattori che
hanno contribuito al verificarsi dell’evento (reporting system).
b) Analisi proattiva: l’analisi parte dalla revisione dei processi e delle
procedure esistenti, identificando nelle diverse fasi, i punti di criticità. Può
essere utilizzata anche nella ideazione e progettazione di nuove procedure, di
processi e di tecnologie per realizzare barriere protettive che impediscano
l’errore umano/attivo.
Le analisi descritte possono essere utilizzate entrambi in una struttura
sanitaria in cui si ha l’intenzione di introdurre processi per la gestione del
rischio.
→
failure mode and effect analysis (FMEA) e la failure mode and effect
criticality analisys (FMECA);
→
Root Causs Analysis (RCA)
→
AUDIT
215
3.2.1 FMEA ( Fairlure Mode and Effect Analysis) e FMECA
Sono metodi utilizzati per identificare la vulnerabilità dei processi con
approccio proattivo al fine di individuare eventuali criticità di inefficacia, guasto
o “fallimento” per individuare preventivamente i possibili errori e prevedere
sistemi correttivi o contenitivi. La FMEA è un’analisi di tipo qualitativo, la
FMECA anche quantitativo. La valutazione, standardizzata, è svolta da esperti
nel metodo FMEA/FMECA, con la partecipazione dei professionisti sanitari
direttamente coinvolti nel processo in esame. Si basa sulla analisi di un
processo, eseguita da un gruppo multidisciplinare. In pratica, identificato il
processo che sarà oggetto dello studio critico, il gruppo di lavoro scorpora il
processo stesso nelle singole attività, individuando per ognuna i potenziali
errori, la concreta rilevabilità degli stessi, la probabilità di accadimento e la
gravità dei possibili danni, mediante applicazione di scale quantitative che
consentono una stima del rischio e l’elaborazione di indici di priorità di azione,
tenendo conto della presenza o della possibile introduzione di barriere
preventive.
3.2.2. Root Cause Analysis (RCA)
La RCA è uno strumento di analisi reattivo, per il miglioramento della qualità,
che aiuta gli individui e le organizzazioni ad identificare le cause profonde e i
fattori contribuenti che hanno condotto al verificarsi dell’evento avverso. E’ lo
strumento consigliato dal Ministero per l’esame degli eventi sentinella.
Consiste nello sviluppare, procedendo a ritroso, un’analisi approfondita delle
“cause radice”. È applicato un approccio sistemico, volto a stabilire sia i fattori
umani, tecnologici, organizzativi, relazionali che procedurali. È comunque
necessaria la partecipazione al gruppo di lavoro, oltre che di un esperto, anche
dei professionisti sanitari coinvolti nell’evento, essendo irrinunciabili – per
l’analisi delle cause – la loro specifica esperienza e competenza. Il documento
conclusivo del gruppo di lavoro contiene le informazioni raccolte, l’analisi
svolta e le indicazioni per le azioni da applicare al fine di ottenere un
216
miglioramento. La RCA è una analisi retrospettiva che consente di
comprendere cosa, come e perché è accaduto un evento e alla individuazione di
misure correttive che ne impediscano il ripetersi.
3.2.3 AUDIT
L’AUDIT clinico è un processo finalizzato al miglioramento dell’assistenza
attraverso la sistematica revisione dei processi assistenziali.
Nel corso di incontri di équipe (multiprofessionali e multidisciplinari) sono
analizzati casi clinici o percorsi assistenziali, identificando le deviazioni dalla
best practice, attraverso le seguenti fasi: scelta della materia di esame, revisione
della letteratura pertinente, definizione dei criteri e degli indicatori standard,
osservazione e raccolta dei dati, analisi degli stessi, confronto con gli standard
di riferimento, progettazione e attuazione dei cambiamenti.
L’audit clinico può rappresentare una strategia di implementazione delle linee
guida o di altri tipi di evidenze o prove di efficacia. Con la revisione di pratica
assistenziale i professionisti possono identificare le priorità e pianificare le
azioni di miglioramento.
3.3 Il trattamento e il monitoraggio dei rischi
Dopo le fasi di individuazione e di analisi dei rischi, occorre procedere, con
l’utilizzo di griglie quantificative, alla loro mappatura, sulla base della
probabilità di accadimento dell’evento e della prevedibile gravità del danno,
identificando le aree di priorità di azione. Utilizzando le logiche del problem
solving, si procede a definire le operazioni da attuare le strategie definite.
Nella fase di monitoraggio si valuta il grado di raggiungimento degli obiettivi
prefissati mediante l’utilizzo di strumenti adeguati, secondo quanto di volta in
volta ritenuto più efficace. Gli strumenti più spesso utilizzati per il
monitoraggio, sono: l’incident reporting, la revisione della documentazione
clinica, la FMEA/FMECA.
217
4. Il ruolo del personale sanitario non medico nella prevenzione del
rischio
Il processo di Aziendalizzazione del Servizio saniario nazionale richiede
esplicitamente determinate capacità manageriali nella gestione dei servizi
sanitari, che si manifesta esplicitamente nelle politiche orientate al
miglioramento della qualità. In particolare questo aspetto si evidenzia nel
processori assistenza infermieristica che rappresenta una parte fondamentale
del processo di cura. Quale ruolo deve avere l’infermiere e altre figure non
mediche preposte all’assistenza in un contesto sanitario in cui il miglioramento
continuo della qualità dei servizi è uno degli obiettivi del sistema aziendale?
L’applicazione di politiche di governo clinico finalizzate al miglioramento
continuo della qualità delle prestazioni ricade nell’ottica della gestione del
rischio clinico con cui garantire prestazioni sanitarie di alta qualità e in
sicurezza. La gestione del rischio clinico diviene così un fondamento culturale
di tutti i professionisti sanitari che mettono in atto strategie di prevenzione e
rimozione dell’errore. In questo senso tutti gli operatori sanitari sono coinvolti
nel processo e ne sono responsabilizzati. In questo ambito alcune figure
professionali di coordinamento che hanno nelle loro competenze capacità
managerali e di leadership assumono un ruolo centrale nella gestione del
rischio clinico con specifiche responsabilità.
4.1 Il ruolo del coordinatore in un programma di miglioramento della
qualità
Il coordinatore, ha una posizione unica, di snodo, all’interno di un sistema
aziendale, realizzando il passaggio dall’area tecnico-operativa all’area
gestionale abbinando e confrontando le preoccupazioni di utenti e personale
sanitario con quelle dell’organizzazione.
218
Al coordinatore vengono riconosciute competenze manageriali, riconducibili
allo stile di leadership adottato nei confronti dei collaboratori e competenze
gestionali individuate nella direzione, nella supervisione e nel coordinamento.
Con direzione si intende la individuazione dei percorsi da seguire per il
raggiungimento degli obiettivi, da indicare ai collaboratori e al tempo stesso
verificare che gli stessi agiscano seguendo le direttive ricevute. Nell’attività di
supervisione rientra il controllo del lavoro del gruppo per individuare
eventuali misure di correzione dei comportamenti da apportare, magari
sviluppando la competenza dei collaboratori.
Per quanto riguarda il coordinamento è l’attività che consente ai membri del
gruppo di lavorare insieme in maniera armoniosa e di ridurre i conflitti.
Le funzioni-attività del coordinatore prevedono:
o pianificazione,
o gestione;
o organizzazione;
o direzione;
o sviluppo delle risorse umane e del servizio;
o valutazione e controllo.
Tra le attività sopra elencate prevalgono quelle manageriali e formative, ma
non è privo di significato un rilevante interesse per il rapporto con l’utente,
ciascuna delle funzioni descritte può essere espressione di attività specifica
nell’ambito della gestione del rischio clinico.
Nel contesto di un programma di sicurezza, di miglioramento della qualità, le
capacità manageriali del coordinatore saranno orientate all’adozione di un
particolare stile di leadership, l’empowerment.
Il termine empowerment, letteralmente “rendere potenti”, può essere tradotto
con “favorire l’acquisizione del potere” o “rendere abili e capaci di”. Nel campo
della
scienza
organizzativa
empowerment
significa
una
diffusa
responsabilizzazione dei professionisti nella scelta delle modalità con le quali
impostare il proprio lavoro.
219
4.2 Le azioni di “governance” del coordinatore e le sue responsabilità
Il coordinatore è la persona preposta all’organizzazione dell’attività di
collaboratori come infermieri, operatori di supporto all’assistenza, fisioterapisti
perché conosce le loro attività, al fine del raggiungimento degli obiettivi
aziendali, favorendo l’interazione la creazione di un gruppo di lavoro,
assicurando informazione e partecipazione piuttosto che adottando un
comportamento autoritario, incoraggiando al dialogo e al confronto in
occasioni di incontro (riunioni, gruppi di lavoro, redazione di linee guida,
procedure e protocolli).
4.2.1 La gestione degli eventi critici e l’adozione di strategie di
correzione
Il coordinatore deve essere in grado di gestire gli eventi critici riconducibili a
errori attivi ma soprattutto gli errori latenti che interessano l’organizzazione e
che possono essere espressione di:
o
eccessivo carico di lavoro;
o
mancanza di supervisione;
o
errato inserimento del personale neoassunto,
o
organizzazione per compiti;
o
mancanza di leadership;
o
incongrua distribuzione di tempo per le prestazioni;
o
inadeguatezza degli strumenti e delle apparecchiature;
o
formazione carente;
o
mancanza di comunicazione.
Identificato l’errore ed effettuata l’analisi possibilmente in collaborazione con il
gruppo di lavoro, adotta strategie di correzione per ridurre la probabilità che
l’errore si ripeta o sia determinante di un danno di entità minore. Le misure di
correzione possono prevedere pertanto la messa in atto di sistemi di
supervisione o di standardizzazione di attività in modo tale di ridurre le
220
variabilità comportamentali legate alla pratica professionale con l’obiettivo di
uniformare i comportamenti assistenziali utilizzando strumenti operativi che
ne dimostrino l’efficacia dell’utilizzo, quali le Linee guida o i protocolli.
4.2.2 L’implementazione delle linee guida
Altro ruolo di responsabilità del coordinatore è nella implementazione delle
linee guida, sia in termini di responsabilità organizzative che di gestione delle
risorse umane. Il coordinatore ha una sua autonomia in questa attività,
riconoscendo le linee guida come il ponte ideale tra l’esercizio di una
professione (la pratica) e lo stato di conoscenze acquisite da una scienza,
rappresentano gli strumenti dell’efficacia clinica, prodotti dalla ricerca
scientifica e costituiscono l’orientamento su cui si basa l’attività infermieristica
basata sulle evidenze (EBN). Le Linee guida possono ridurre la variabilità
laddove a fronte dei benefici possibili per il beneficiario delle cure si perpetuano
comportamenti segnalatori di rischio o inefficaci. Non è pertanto sufficiente la
distribuzione della linea guida, bensì, è necessario che queste entrino a far
parte della pratica clinica e siano radicate in un sistema di cambiamento
complessivo volto al miglioramento dell’assistenza.
Ha responsabilità organizzative e responsabilità di gestione delle risorse
umane quindi con compito di guidare le riunioni affinché si svolgano con
metodo e producano risultati concreti e che prevedano anche la pianificazione
nella fase di diffusione/applicazione di linee guida o protocolli, all’interno di
una riunione formativa un piano di implementazione di una linea guida,
utilizzando, strategie che possono facilitare l’apprendimento dei collaboratori.
La fase del processo di miglioramento della qualità dell’assistenza mediante
l’implementazione di una linea guida a livello locale può avere dei vantaggi:
o
Spinta al cambiamento dei comportamenti;
o
Miglioramento della performance;
o
Miglioramento nel lavoro di gruppo;
o
Miglioramento nella soddisfazione ;
221
o
Miglioramento delle cure del paziente.
Nonostante ciò vi possono essere delle barriere che ostacolano la realizzazione
del cambiamento:
o
la mancanza di chiarezza sugli obiettivi,
o
la mancanza di risorse;
o
la mancanza di supporto facilitante;
o
un clima relazionale negativo;
o
la discontinuità degli assetti organizzativi aziendali.
4.2.3. La gestione dell’attività formativa
Il coordinatore dispone di autonomia nella gestione delle attività formative.
Una costante formazione mirata rappresenta la condizione indispensabile
affinche individui e gruppi acquisiscano e perfezionino le capacità di
organizzarsi, gestirsi e assumersi la responsabilità della qualità del lavoro
svolto.
La formazione procede per tutto l’arco della vita professionale comprendendo
attività finalizzate a migliorare le abilità cliniche, tecniche e manageriali e i
comportamenti degioperatori sanitari, adeguandoli al progresso scientifico e
tecnologico per il raggiungimento di una migliore efficacia e appropriatezza e
qualità delle cure. Diviene altresì fondamentale la formazione continua,
consistente in attività specifiche per la professione sanitaria, acquisite mediante
la partecipazione a corsi, congressi ecc.
Possono essere utilizzate strategie che prevedono interventi formativi locali
efficaci (formazione on de job) e quelli probabilmente efficaci.
Gli interventi formativi efficaci possono essere realizzati con :
o
Visite educative;
o
Incontri formativi interattivi;
o
Interventi multipli (audit e feedbak, processi di consenso locale)
Gli interventi formativi probabilmente efficaci possono essere
realizzati con :
222
o
Audit e feedbak;
o
Uso di opinion leader locali;
o
Processi di consenso locali.
È inevitabile che una attività formativa sarà efficace se l’infermiere
coordinatore utilizzerà in modo efficiente le risorse a disposizione.
È necessario per il personale sanitario progettare gli interventi sulla base della
formazione permanente perchè con questo metodo l’apprendimento è più
efficace se si parte da problemi concreti e se viene riconosciuta l’utilità del
percorso formativo rispetto al proprio contesto.
Resta valido quanto affermato dall’epidemiologo A. Cochrane che scrisse nel
1978: “si dovrebbe considerare inefficace ogni nuovo trattamento, fino a che
non si possa provare il contrario”, è pertanto doveroso, nelle fasi di
progettazione, prevedere l’adozione di sistemi di monitoraggio o di verifica
dell’apprendimento o di rilevazione del cambiamento in conseguenza sia
dell’attività formativa effettuata.
4.2.4 Gestione e sviluppo delle competenze degli operatori
Si ritiene che all’interno delle capacità della gestione delle risorse umane
rientri nelle competenze del coordinatore la valutazione, l’identificazione e lo
sviluppo delle competenze del personale afferente al suo gruppo di lavoro.
All’interno delle organizzazioni è sempre più centrale l’uso delle risorse umane
ed è necessario precisarne la valenza operativa e individuarne i tratti che
possano caratterizzare soluzioni tecniche e gestionali congruenti.
Le competenze non sono un dato di natura, ma l’esito di un processo di
apprendimento continuamente mutevole. Le competenze devono essere
scoperte, stimolate, indirizzate, conservate e difese dall’obsolescenza. Un’altra
componente fondamentale sia in senso tecnico-giuridico, ma anche nel senso
psicologico-organizzativo, è la relazione. Le imprese devono imparare a
gestire una pluralità di relazioni con le risorse umane e quindi con le
223
competenze. Oltre al tipo di relazione è fondamentale anche la qualità della
relazione. La misura delle competenze non può prescindere da quest’ultima,
infatti una elevata qualità della relazione, tramite lo sviluppo e la
valorizzazione delle risorse, può sopperire ad un meno elevato livello di
competenze individuali, conferendo così all’insieme dell’impresa o sistema o
gruppo, una notevole competenza. Per contro un’elevata competenza
individuale associata ad una relazione debole, dà luogo ad una scadente
competenza aziendale. La gestione delle relazioni (es. empowerment, commitment,
ecc.), è il campo nuovo e tutto da esplorare nella gestione delle risorse umane.
La valorizzazione della prestazione, sia nella sua espressione monetaria che
psicologica, è un altro elemento importante nella gestione e organizzazione
delle imprese.
Per competenza individuale si intende la capacità di azione che gli individui
utilizzano per far fronte alle diverse situazioni che caratterizzano le loro
attività lavorative. Il ruolo dell’uomo nell’organizzazione è cambiato: agli
individui non è più richiesto un contributo fisico, da “prestatori d’opera”, ma
una capacità culturale, intellettuale e professionale qualificata, da “prestatori
d’intelligenza”, tale da favorire un comportamento innovativo e maggiormente
flessibile delle imprese di appartenenza. In questo contesto le competenze degli
individui all’interno delle organizzazioni diventano sempre più uno dei
principali fattori competitivi, influenzando in modo diretto e determinante le
prestazioni aziendali. Il legame tra competenze individuali e prestazioni è
particolarmente critico per le imprese ad alta intensità di conoscenza, che
utilizzano conoscenze altamente specializzate quali input dei propri processi di
produzione o erogazione, quali appunto quelle sanitarie.
Per questo tipo di imprese le prestazioni ed il vantaggio competitivo sono
legati strettamente al livello di conoscenza e di competenza delle persone che
ne presidiano le attività.
224
Il miglioramento delle prestazioni aziendali è legato alle capacità del
management di sviluppare metodi di gestione del personale in grado di
rispecchiare le peculiarità delle risorse umane utilizzate.
Un problema aperto, sia sul piano teorico che su quello operativo è quello del
legame tra competenze distintive, cioè le competenze a livello organizzativo e
competenze individuali.
Studiando il complesso rapporto tra azione organizzativa ed azione individuale,
si è evidenziato che queste due azioni sono costruite insieme.
Le competenze individuali cioè, non hanno senso come qualità intrinseche degli
individui, ma sono proprietà della relazione che si stabilisce tra organizzazione
ed individuo, sono le capacità d’azione che gli individui attivano per far fronte
alle
diverse
situazioni.
Al
contempo
le
competenze
distintive
di
un’organizzazione, intese come capacità di impiegare congiuntamente risorse e
processi organizzativi per ottenere elevate prestazioni aziendali, sono
strettamente
legate
alle
competenze
dei
singoli
individui
presenti
nell’organizzazione.
Studi pubblicati hanno descritto le capacità d’azione individuali raggruppandole
nelle seguenti quattro classi:
(I) capacità professionali: che comprendono l’insieme di capacità e conoscenze
su cui l’individuo esercita un pieno controllo, come ad esempio le capacità
tecniche, e che gli permettono di raggiungere gli obiettivi dell’azienda;
(II) capacità relazionali: che comprendono l’insieme di capacità sulle quali
l’individuo fa leva per attivare capacità e risorse possedute da altri;
(III) capacità organizzative: che comprendono l’insieme di capacità che
l’individuo attiva e che gli consentono di utilizzare al meglio le risorse messe a
disposizione dall’organizzazione, al fine di ottimizzare la relazione fra queste e i
risultati;
(IV) capacità personali: che comprendono l’insieme di capacità che
consentono all’individuo di avere un comportamento adeguato in presenza di
situazioni difficili e complesse.
225
Secondo
l’approccio
tradizionale,
che
ha
fortemente
condizionato
l’impostazione, lo sviluppo e l’applicazione di sistemi e procedure per la
valutazione del personale, le competenze individuali equivalgono alle capacità
richieste
all’individuo
dalla
posizione
che
egli
ricopre
all’interno
dell’organizzazione.
Tale approccio presenta evidenti limiti quando il contesto ambientale
dell’organizzazione è soggetto a rapidi e imprevisti mutamenti. In tali
condizioni infatti diventano mutevoli ed imprevedibili le situazioni che i singoli
individui si trovano a dover affrontare, e vengono a cadere i presupposti di
predefinibilità e prescrittività delle azioni individuali.
I limiti dell’approccio basato sul legame biunivoco posizione/competenza
diventano particolarmente evidenti nel caso delle attività ad alta intensità di
conoscenza.
Un superamento di tali limiti si ha con l’approccio situazionale che prende
maggiormente in considerazione, rispetto all’approccio basato sulle posizioni,
l’imprevedibilità e la variabilità che caratterizzano le condizioni entro cui si
svolge l’attività di un individuo. Secondo l’approccio situazionale quindi, le
competenze individuali sono definite come le capacità di un individuo di
attivare risorse proprie e dell’organizzazione per fronteggiare con successo le
diverse situazioni in cui egli è coinvolto. In questo senso si può dedurre che per
rendere operativo e misurabile all’interno delle organizzazioni tale concetto,
occorre soffermarsi sugli aspetti metodologici per la rilevazione delle
competenze individuali, e tale processo di descrizione delle competenze è quindi
intrinsecamente legato al processo di valutazione delle competenze.
Un sistema di management delle competenze dovrebbe prevedere la gestione e
lo sviluppo delle competenze disponibili in sintonia con le scelte aziendali
seguendo fasi strategiche quali: la definizione delle competenze necessarie
tecnico-professionali (es. problem solving),organizzative (pianificazione delle
attività, gestione degli imprevisti) e relazionali; la definizione delle competenze
già esistenti mediante la rilevazione con sistemi di indicatori predisposti; il
226
confronto tra le due fasi precedenti, vale a dire il teorico e l’esistente; la
definizione di scelte strategiche aziendali di investimento (formazione con
corsi); adozione di un sistema premiante con il riconoscimento delle
competenze acquisite e infine la diffusione delle competenze e la fissazione delle
stesse mediante stesura di protocolli, procedure.
Esiste un forte interesse da parte del management aziendale verso la ricerca di
approcci metodologici che, attraverso la ricognizione e visualizzazione delle
competenze, consentano di riprogettare gli strumenti di gestione del personale
per renderli più adeguati agli orientamenti strategici ed alle peculiarità delle
risorse umane.
Purtroppo il concetto di competenza è ancora qualcosa di non operativo per la
carenza di metodologie per identificare, rappresentare, misurare le competenze
e, di conseguenza, costruire intorno ad esse nuove modalità di gestione. Tra i
motivi che rendono particolarmente difficile tale cambiamento, c’è sicuramente
il fatto che l’approccio basato sulle posizioni di lavoro è stato sperimentato nel
corso di anni e anni di applicazioni, ed ha dato luogo ad una serie di modalità di
gestione organizzativa (analisi delle mansioni, analisi delle posizioni, sistemi di
valutazione delle prestazioni, ecc.) che, pur se messi in crisi, sono di facile
utilizzo nelle aziende.
Diversamente, per il concetto di competenze, è minore l’esperienza di
valutazioni e reclutamenti in base alle competenze individuali. Forse poiché se
ne teme la validità, l’imparzialità nelle decisioni o l’efficacia dei costi.
Gli attuali sistemi di valutazione delle prestazioni certamente si basano
sull’oggettività, sul visibile, sul concreto, ma l’installazione di un sistema di
selezione basato sulle competenze potrebbe essere il primo passo per un
controllo di qualità e un miglioramento della stessa che potrebbe portare
all’eccellenza.
227
5. La gestione del rischio clinico è un sistema di de-responsabilizzazione?
Vi è la possibilità che la nuova prospettiva, legata alla gestione del rischio
clinico, che sottolinea il rilievo causale delle carenze organizzative – magari
diffuse, magari di scarso rilievo, se considerate isolatamente, ma tali da indurre
eventi dannosi quando i loro effetti negativi si concretizzano nello stesso caso,
simultaneamente o in successione – conduca alla deresponsabilizzazione del
singolo professionista, il quale può tendere ad attribuire ogni responsabilità,
genericamente, alla cattiva organizzazione. Si ritiene tuttavia che questa analisi
sia solo espressione di un approccio superficiale e che in realtà non tenga conto
di tutte i nuovi e integrativi aspetti di responsabilità emersi e descritti nei
paragrafi precedenti che sembrano condurre ad una nuova forma di
responsabilità, vale a dire quella di partecipare attivamente al processo di
gestione del rischio clinico, inteso come processo di crescita personale, di
condivisione di principi ed obiettivi e di adesione ed attuazione dei mezzi con
cui si realizza. Alcune figure professionali come quella del coordinatore,
(infermieristico, ostetrico, fisioterapista), nel loro ruolo e competenza, per
garantire la qualità dell’assistenza e del servizio erogato, in una strategia
dichiarata di miglioramento della qualità dell’assistenza erogata, delineano
nuovi ruoli professionali gravati da crescenti e specifiche responsabilità.
È fondamentale la caratteristica culturale del team clinico e del contesto
organizzativo; cultura della sicurezza, cultura dell’errore, cultura della
documentazione clinica e cultura interdisciplinare sono gli ingredienti per
realizzare, nei diversi contesti, percorsi strutturali ed efficaci di gestione del
rischio clinico.
Ogni livello formativo di base, postbase, permanente ha il dovere di curare
maggiormente rispetto al passato la cultura della sicurezza, permettendo la
creazione di una forma mentis diffusa, idonea alla gestione del rischio clinico.
“Errare è umano” ma sempre più si è visto che sono disponibili strumenti per
ridurre il rischio di errore, la responsabilizzazione residua per ciascun
operatore sanitario ricade nel dovere di attivarsi ad applicare sistemi e percorsi
228
già strutturati di gestione del rischio o di identificare eventuali strategie di
correzione a partire da ogni singolo operatore.
Alcune figure di coordinamento avranno inoltre l’onere di agire da formatore e
facilitatore non solo nella parte tecnica ma anche relazionale, per favorire e
facilitare la comunicazione tra le varie figure per ridurre eventuali rischi di
errore clinico correlati alla comunicazione.
Una “buona gestione” delle risorse umane, è determinante ai fini della
definizione del livello di qualità, dell’assistenza in generale e dell’assistenza
infermieristica da garantire. La gestione delle risorse umane si riflette
trasversalmente e significativamente, su tutte le dimensioni che concorrono a
caratterizzare la qualità: efficacia (attesa e pratica), competenza, efficienza,
umanizzazione e sicurezza.
229
CONCLUSIONI Il materiale preso in considerazione e discusso nella tesi porta a ricostruire uno
scenario complesso. Complesso soprattutto perché l’affermazione della
responsabilità del professionista sanitario, ampiamente dichiarata nelle fonti di
riferimento, ha talora mostrato aspetti contraddittori nella proiezione
applicativa giudiziaria.
Non vi è dubbio che sussista una straordinaria coerenza fra norme giuridiche
che regolano l’esercizio delle singole professioni e norme deontologiche
corrispondenti. Nessun dubbio neppure circa il fatto che il richiamo etico alla
responsabilità come impegno nei confronti della persona trovi nelle norme
appena citate congrua applicazione negli aspetti clinico-applicativi. La
complessità non riguarda dunque la stesura delle norme scritte – sia pure con
proiezioni diversificate – né la riflessione su quelle non scritte, né i rispettivi
rapporti reciproci, ancorché le previsioni testuali – a parità di argomento – non
siano sempre perfettamente sovrapponibili.
La complessità riguarda piuttosto la percezione (almeno nei primi tempi) da
parte del contesto sociale – di cui è espressione la giurisprudenza esaminata –
di questo corale – nelle norme – richiamo alla responsabilità. E la reiterata
dichiarazione, nelle norme appunto, della responsabilità altro non è se non il
riconoscimento di una competenza maturata negli anni con l’evoluzione
scientifica dei fondamenti delle varie professioni; non si tratta certo di una sorta
di imposizione alla responsabilità proveniente dall’alto (cioè da parte
dell’estensore
delle
norme)
a
prescindere
dalla
consapevolezza
del
professionista.
È ormai pacifico che il dettato normativo, considerato in sé, non pone dubbi: i
vari testi sono estremamente chiari nel loro richiamo alla responsabilità dei
professionisti sanitari considerati sia globalmente sia singolarmente.
230
La lettura che la giurisprudenza propone della norma è invece non coerente con
il dato testuale, talora proponendo dubbi, talvolta ignorando i riferimenti
normativi più recenti e quindi sembrando non voler accogliere gli spunti
innovativi, che invece non possono non essere accolti.
Siamo di fronte ad una lentezza da parte degli organi giudicanti ad accogliere le
innovazioni o ad una non accettazione di queste innovazioni? Il rischio,
qualunque sia l’interpretazione corretta, è che le regole nuove restino lettera
morta sulla carta.
Il che non solo può essere alla base di un assurdo conflitto fra norme di
riferimento e loro valutazione in ambito processuale, ma anche determina una
incertezza nell’agire professionale di ogni giorno, perché chi opera avrà il
timore che la norma potrà essere disattesa in un eventuale giudizio.
Il professionista sanitario, in altre parole, aderirà al principio della sua
responsabilità, dichiarato a lettere di fuoco dalla norma giuridica, deontologica
ed etica o si adeguerà ad una condotta supina, piegata al principio che la
responsabilità resta comunque sempre del medico, come talune sentenze
tendono ad indicare? E il medico, consapevole della responsabilità
dell’infermiere, potrà discostarsi dalla norma per attuare un controllo non
dovuto nei confronti dell’infermiere, sottraendo tempo e competenza alle
funzioni che gli sono proprie?
Invero, nelle sentenze considerate si nota una crescente attribuzione di
responsabilità sia all'infermiere sia alle altre figure professionali considerate,
anche se – in particolare per l'infermiere – sembra che questa assunzione di
responsabilità sia delineata con maggior fermezza se supportata anche da
protocolli o procedure aziendali. Appare comunque, per quanto riguarda il tema
“caldo” della somministrazione di farmaci, che sia accolto il principio che sia
responsabilità dell’infermiere di “garantire” la corretta somministrazione e che
egli non possa limitarsi alla somministrazione come mero esecutore materiale,
231
dovendo piuttosto procedere alla autonoma attuale valutazione delle condizioni
cliniche, anamnestiche ed attuali del paziente. Medesima progressione nell’approccio viene riservato all'ostetrica alla quale è
pienamente riconosciuta l'autonomia nella gestione del parto in situazioni
fisiologiche, non solo nella parte esecutiva ma anche valutativa e di
interpretazione, con riferimento, per esempio, ai tracciati cardiotocografici o
alla capacità di rilevare situazioni potenzialmente patologiche (che richiedano la
tempestiva richiesta di intervento medico).
Anche al fisioterapista la giurisprudenza è giunta progressivamente a
riconoscere responsabilità in coerenza con quanto previsto dalla normativa
attuale, postulando il dovere di accertarsi delle condizioni cliniche del paziente,
indipendentemente dal contenuto della prescrizione medica. Il fisioterapista
non è un mero prestatore di opera, ma deve nella sua attività acquisire elementi
valutativi utili nella presa in carico del paziente per assumersi pienamente le
responsabilità della sua opera.
In numerose sentenze emergono problematiche di tipo organizzativo, le quali,
oggi, almeno in parte, troverebbero soluzione applicando le indicazioni
specifiche nelle raccomandazioni ministeriali. In questa logica di imparare
dall'errore e di analisi e riduzione dei rischi nelle aziende sono stati
incrementati sistemi di gestione del rischio clinico. Le difficoltà prevalenti nella realizzazione di tali attività sono emerse dalla
difficoltà del personale sanitario, per anni esposto a richieste di risarcimento o
di denunce penali, di affrontare l'errore non come momento di ricerca del
colpevole, ma come momento di crescita e miglioramento della qualità delle
prestazioni. La formazione in tal senso diventa pertanto primum movens di tale
cambiamento culturale, seguito dalla acquisizione di nuove competenze e abilità
nella gestione della organizzazione, delle risorse, della tecnologia. In questa
logica, su tutti i professionisti sanitari grava la nuova responsabilità di attivarsi
nella applicazione di strumenti finalizzati alla identificazione, analisi e
232
prevenzione del rischio, in accordo con quanto previsto dalle politiche aziendali;
è possibile indicare che sono in corso di sviluppo, per alcune figure di
coordinamento infermieristico, ostetrico o fisioterapico, nuove competenze con
conseguenti nuove responsabilità di pianificazione, di gestione, organizzazione,
direzione e sviluppo delle risorse umane e di formazione. In questa ottica, solo una visione superficiale della applicazione delle politiche
di gestione del rischio clinico può condurre ad una deresponsabilizzazione del
professionista che può tendere ad attribuire ogni responsabilità genericamente
alla cattiva organizzazione, mentre si vanno via via delineando nuovi ambiti di
responsabilità di professionisti sanitari, chiamati sempre più spesso a
partecipare ad iniziative volte a comprimere il rischio clinico. 233
BIBLIOGRAFIA
La bibliografia di riferimento viene suddivisa per capitoli. I capitoli 1, 2, 4
vengono raggruppati perché spesso inerenti più argomenti dei capitoli
richiamati.
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