tesi dottorato ARSENI
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tesi dottorato ARSENI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA ISTITUTO DI MEDICINA LEGALE CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN MEDICINA LEGALE, TOSSICOLOGIA FORENSE E MALPRACTICE CICLO XXIV TITOLO DELLA TESI LA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE NELLE PROFESSIONI SANITARIE TUTOR Chiar.mo Prof. Mariano Cingolani COORDINATORE Chiar.mo Prof. Daniele Rodriguez ANNO 2013 DOTTORANDO Dott.ssa Alessia Arseni INDICE PRESENTAZIONE ED OBIETTIVI DELLA TESI Capitolo1. ASPETTI GENERALI 1. Le professioni sanitarie di interesse 2. Il concetto di responsabilità 3. La responsabilità giuridica 4. Responsabilità deontologica 5. Responsabilità etica Capitolo 2. LA RESPONSABILITÀ E LE NORME DISCIPLINANTI L’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONALE 1. La responsabilità nei profili professionali 2. Un aspetto particolare del profilo professionale degli infermieri 3. La legge n. 42 del 1999: il superamento dell’ausiliarietà e del controllo da parte del medico 4. La legge 42 del 1999: il riconoscimento della responsabilità 5. La legge 251 del 2000: l’autonomia come “completamento” della responsabilità 6. Altre fonti normative in tema di responsabilità 7. Le direttive europee come fattore di confusione Capitolo 3. RESPONSABILITÀ E CODICI DEONTOLOGICI 1. Codificazione deontologica recente e riconoscimento nella produzione legislativa coeva 2. Codici deontologici e colpa professionale specifica 3. La responsabilità nei codici deontologici: aspetti generali 4. Quale responsabilità nei codici deontologici? 5. Responsabilità e codice deontologico dell’infermiere 6. Responsabilità e deontologia: innovazioni concettuali nel codice deontologico dell’infermiere Capitolo 4. RESPONSABILITÀ E CODICE PENALI 1. Responsabilità penale: sinossi dei delitti possibili nel corso dell’attività professionale 2. Responsabilità professionale e delitti colposi 2.1. Lesioni personali colpose 2.2. Omicidio colposo 2.3. La condotta 2.4. Il nesso di causalità materiale 3. Responsabilità professionale e delitti dolosi 3.1. Le qualifiche giuridiche del professionista sanitario 3.2. Omissione di soccorso 3.3. Rifiuto di atti di ufficio; omissione 3.4. Abusivo esercizio di professione Pag. 1 3 3 7 10 11 18 21 30 31 33 35 45 46 48 53 55 70 86 88 96 98 98 100 102 103 105 106 109 110 110 Capitolo 5. GIURISPRUDENZA IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEGLI ESERCENTI ALCUNE PROFESSIONI SANITARIE 5.1. L’interesse del tema 5.2. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’infermiere 5.2.1 Fonti normative specifiche per esercizio della professione 5.2.2 Lesioni personali colpose, omicidio colposo e interruzione colposa della gravidanza in relazione a carenze nella presa in carico nell’ambito dell’assistenza infermieristica 5.2.3 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a smarrimento di corpi estranei in corso di intervento chirurgico 5.2.4 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a incidenti vari 5.2.5 Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a errata somministrazione di farmaci 5.2.6 Esercizio abusivo della professione 5.2.7 Omissione rifiuto di atti d’ufficio 5.3 Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’ostetrica 5.3.1 Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione 5.3.2. Lesioni personali colpose, omicidio colposo in relazione alla omissione nella presa in carico 5.3.3. Omicidio colposo a carico del nascituro in relazione a carenze nella presa in carico 5.3.4 Lesioni personali colpose e danno biologico in relazione a omissioni nella presa in carico 5.3.5 Omicidio colposo in relazione a errori nella somministrazione di farmaci 5.4 Giurisprudenza in tema di responsabilità del fisioterapista 5.4.1 Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione 5.4.2 Lesioni personali colpose, in relazione a errori nell’ambito della professione 5.4.3 Esercizio della professione di fisioterapista 5.4.4 Esercizio abusivo di professione Capitolo 6. RESPONSABILITA’ E GESTINE DEL RISCHIO CLINICO 1. Riferimenti normativi italiani 2. Il rischio clinico e l’errore 3. Le fasi della gestione del rischio clinico: metodi e strumenti per l’identificazione e l’analisi di rischio 3.1 Strumenti di identificazione del rischio 3.2 Strumenti di analisi del rischio 3.2.1 FMEA ( Fairlure Mode and Effect Analysis) e FMECA 3.2.2. Root Cause Analysis (RCA) 3.2.3 AUDIT 3.3 Il trattamento e il monitoraggio dei rischi 112 112 112 114 123 129 132 139 143 144 144 149 152 161 181 184 185 192 199 205 205 207 211 211 215 216 216 217 217 4. Il ruolo del personale sanitario non medico nella prevenzione del rischio 4.1 Il ruolo del coordinatore in un programma di miglioramento della qualità 4.2 Le azioni di “governance” del coordinatore e le sue responsabilità 4.2.1 La gestione degli eventi critici e l’adozione di strategie di correzione 4.2.2 L’implementazione delle linee guida 4.2.3. La gestione dell’attività formativa 4.2.4 Gestione e sviluppo delle competenze degli operatori 5. La gestione del rischio clinico è un sistema di deresponsabilizzazione? CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA 218 218 220 220 221 222 223 228 230 234 PRESENTAZIONE ED OBIETTIVI DELLA TESI Negli ultimi 20 anni si è assistito ad un forte cambiamento normativo che ha interessato l’esercizio delle professioni sanitarie iniziato con il riordino della disciplina nel 1992 (DLG 502/92) e che ha condotto a cambiamenti sia nella formazione universitaria che nell’attività professionale, dando vita ad un nuovo sistema di professionisti sanitari infermieri, tecnici e della riabilitazione. La nuova formazione e la ridefinizione delle competenze e della autonomia, formulate secondo la logica dei profili e non più per compiti esecutivi, hanno tracciato questo nuovo sistema di professioni sanitarie disciplinate dal D.Lgs. 502 e norme collegate che formano l’oggetto della presente tesi. Il lavoro è finalizzato a valutare se sia nata una responsabilità che prima non esisteva e se ora vi sia una diversa connotazione della responsabilità rispetto al sistema precedente. Si è assistito, in questi anni, ad un processo di evoluzione e crescita delle professioni sanitarie con acquisizioni specifiche delle competenze e con esso si definisce anche l’abito di responsabilità con un duplice significato: da un lato, quello di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità per una condotta professionale riprovevole, dall’altro lato, quello di impegno per mantenere un comportamento congruo e corretto, in cui i presupposti scientifici, i valori etici, le regole deontologiche e le norme ne fondano le basi. Fare chiarezza sul significato, sulle regole di funzionamento, sui contenuti e sugli obiettivi nella diversa applicazione pratica di etica, deontologia e diritto è fondamentale per impostare una discussione rigorosa, non inquinata da fattori di confusione per la contaminazione con contenuti provenienti, insieme ed in modo indifferenziato, da fonti diverse, pertanto, nei capitoli che seguono sono presentate le norme specificamente attinenti l’esercizio delle professioni sanitarie, con particolare riferimento a quelle che più recentemente hanno introdotto il concetto di responsabilità; le norme di carattere generale, contenute nel codice penale, che delineano una parte del sistema di tutela 1 sociale del cittadino a fronte di condotte incongrue da parte del professionista; verrà quindi esaminata la casistica giurisprudenziale disponibile, da intendere come pratica attuazione degli strumenti di tutela sociale a fronte di condotte incongrue, con particolare riguardo ad alcuni professionisti maggiormente coinvolti, infermiere, ostetrica e fisioterapista. Infine, come evoluzione culturale, dell’imparare dall’errore, in una logica di miglioramento della qualità e delle prestazioni erogate a tutela del cittadino, saranno illustrati i principi ispiratori del sistema del clinical risk management con le eventuali ripercussioni sulle competenze dei professionisti sanitari e le ricadute nelle specifiche responsabilità. 2 CAPITOLO 1 ASPETTI GENERALI 1. Le professioni sanitarie di interesse Con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 era approvato il Testo unico delle leggi sanitarie. Il titolo II, dedicato all’ «Esercizio delle professioni e delle arti sanitarie e di attività soggette a vigilanza sanitaria», formalizzava rigidamente un sistema gerarchico degli operatori sanitari, che si è mantenuto, in parte ingarbugliato, in parte lacunoso, in parte contraddittorio, fino all’ultima decade del ventesimo secolo. Questo sistema è stato investito da un processo di cambiamento, il cui punto focale può essere considerato il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”. Infatti, il comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 502 introduceva una nuova disciplina globale, dettando indicazioni per la formazione universitaria del «personale sanitario infermieristico, tecnico e della riabilitazione» e precisando in particolare che «il Ministro della sanità individua con proprio decreto le figure professionali da formare ed i relativi profili». È questo nuovo sistema di professioni sanitarie infermieristiche, tecniche e della riabilitazione novellamente disciplinate dal D.Lgs. 502 e norme collegate che forma oggetto della presente tesi, proprio perché con le nuove modalità di formazione – non più basata esclusivamente sulle risorse del servizio sanitario nazionale ma riferita anche alla esperienza universitaria – e con la ridefinizione o, secondo le professioni, la definizione delle competenze secondo la logica dei profili, per aree funzionali e non per compiti esecutivi, occorre valutare se sia nata una responsabilità che prima non esisteva o se ora vi sia una diversa connotazione della responsabilità rispetto al sistema precedente. L’uso della locuzione professioni sanitarie è, pertanto, adottato nella tesi per caratterizzare le professioni sanitarie cui si riferisce il comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 502, specificamente caratterizzate da un elemento unificatore di 3 carattere normativo che è dato dal fatto che il loro esercizio è disciplinato da un profilo approvato con apposito decreto ministeriale. In tabella 1.1 è riportato uno schema riassuntivo, che tiene conto di alcune norme sopravvenute al D.Lgs. 502 e delle quali si darà conto successivamente, in particolare nel capitolo 2. Tabella 1.1 – Le professioni sanitarie di cui comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, raggruppate per aree, secondo le indicazioni della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” Area Professione infermieristicoostetrica infermiere ostetrica/o infermiere pediatrico Decreto ministeriale di approvazione del profilo professionale D.M. 14 settembre 1994, n. 739 D.M. 14 settembre 1994, n. 740 D.M. 17 gennaio 1997, n. 70 educatore professionale fisioterapista logopedista ortottista-assistente di oftalmologia podologo terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva terapista occupazionale tecnico della riabilitazione psichiatrica D.M. 8 ottobre 1998, n. 520 D.M. 14 settembre 1994, n. 741 D.M. 14 settembre 1994, n. 742 D.M. 14 settembre 1994, n. 743 tecnico audiometrista tecnico di neurofisiopatologia tecnico sanitario di laboratorio biomedico tecnico sanitario di radiologia medica D.M. 14 settembre 1994, n. 667 D.M. 15 marzo 1995, n. 183 D.M. 14 settembre 1994, n. 745 tecnico – assistenziale dietista igienista dentale tecnico audioprotesista tecnico ortopedico tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare D.M. 14 settembre 1994, n. 744 D.M. 15 marzo 1999, n. 137 D.M. 14 settembre 1994, n. 668 D.M. 14 settembre 1994, n. 665 D.M. 27 luglio 1998, n. 316 tecnica della prevenzione assistente sanitario tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro D.M. 17 gennaio 1997, n. 69 D.M. 17 gennaio 1997, n. 58 riabilitazione tecnicodiagnostica 4 D.M. 14 settembre 1994, n. 666 D.M. 17 gennaio 1997, n. 56 D.M. 17 gennaio 1997, n. 136 D.M. 29 marzo 2001, n. 182 D.M. 14 settembre 1994, n. 746 Dei profili professionali, si discuterà ancora nel capitolo 2. Qui conviene aggiungere qualche ulteriore puntualizzazione circa la formazione universitaria. Il processo di cambiamento relativo alle professioni sanitarie era già iniziato con la legge 19 novembre 1990, n. 341 “Riforma degli ordinamenti didattici universitari”. L’art. 1 descrive i titoli che le università rilasciano: diploma universitario; diploma di laurea; diploma di specializzazione; dottorato di ricerca. L’art. 7 prevede, in prospettiva, la soppressione delle scuole dirette a fini speciali e/o la loro la trasformazione in corsi di diploma universitario. Il primo ordinamento di corso di diploma universitario è quello in Scienze infermieristiche, riportato nella tabella XXXIX ter, di cui al D.M. 2 dicembre 1991. Coesistono tuttavia le tradizionali scuole per infermieri professionali, che operano in ambito regionale, rilasciando diplomi che conservano integro il loro valore abilitante ai fini dell’esercizio professionale. Le scuole regionali sono una sorta di canale formativo parallelo al corso di diploma universitario. Gli ordinamenti delle altre professioni sanitarie sono riportati nel decreto del ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica [MURST] 24 luglio 1996. Il D.Lgs. n. 502/1992 e successive modificazioni sancisce il passaggio esclusivamente alla formazione universitaria. Tra il 1994 e il 1998 le Regioni stipulano i protocolli d’intesa con le Università, che diventano così l’unico canale di accesso per la formazione delle professioni sanitarie ausiliarie. Il decreto MURST 3 novembre 1999, n. 509 “Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei” determina, fra l’altro, la tipologia dei titoli di studio rilasciati dalle università, ai sensi dell’articolo 17, comma 95°, della legge 15 maggio 1997, n. 127 e successive modificazioni e integrazioni. In base all’art. 3 del D.M. n. 509/1999 le università rilasciano, al termine dei rispettivi corsi, titoli di primo e di secondo livello: laurea e laurea specialistica. Il corso di laurea ha l’obiettivo di fornire adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonché acquisizione di specifiche 5 conoscenze professionali. Il corso di laurea specialistica punta ad una formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici. Nascono così le lauree, cosiddette triennali, delle professioni sanitarie. Il percorso della laurea specialistica prosegue con il decreto MURST del 2 aprile 2001, che definisce le competenze dei laureati specialisti, i quali possiedono «una formazione professionale avanzata per intervenire con elevate competenze nei processi assistenziali, gestionali, formativi e di ricerca» e «sono in grado di esprimere competenze avanzate di tipo assistenziale, organizzativo, gestionale, di ricerca in risposta ai problemi prioritari di salute della popolazione e ai problemi di qualità dei servizi». Queste competenze sono il riconoscimento dell’evoluzione del processo di crescita del ruolo e delle funzioni delle professioni sanitarie maturato negli anni. Nel 2003 Consiglio universitario nazionale elabora uno schema di ordinamento didattico per le singole classi specialistiche anche delle professioni sanitarie per garantire uniformità nella formazione specialistica sul territorio nazionale. Nel 2004 il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca [MIUR] con decreto del 9 luglio 2004 fissa le modalità e i contenuti delle prove di ammissione alle lauree specialistiche delle professioni sanitarie e con i decreti del 27 luglio 2004 e del 1° ottobre 2004 stabilisce i posti disponibili per le immatricolazioni. Nell’anno accademico 2004/05, sono attivati i primi corsi di laurea specialistica delle scienze delle professioni sanitarie in varie università italiane. Il decreto MIUR 22 ottobre 2004, n. 270, art. 3, modifica la denominazione da corso di laurea specialistica in «corso di laurea magistrale» (comma 1°) e introduce una indicazione profondamente innovativa rispetto al decreto MURST del 2 aprile 2001, cioè che «il corso di laurea magistrale ha l'obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l'esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici» (comma 6°). 6 2. Il concetto di responsabilità Il sostantivo responsabilità ha – sia in termini generali sia con riferimento all’esercizio di una professione sanitaria – un duplice significato: da un lato, quello di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità per una condotta professionale riprovevole, dall’altro lato, quello di impegno per mantenere un comportamento congruo e corretto. Il primo di questi due aspetti della responsabilità corrisponde ad un concetto che può essere collocato in un’ottica “negativa”, perché si è chiamati a rispondere, quando ormai l’errore o l’omissione è stato commesso, in contrapposizione all’ottica “positiva” del secondo aspetto, quello dell’essere responsabili, dell’assumersi cioè le responsabilità che l’esercizio professionale comporta. In tabella 1.2 è riportato uno schema riassuntivo. Tabella 1.2 - L'ambivalenza del termine responsabilità Ottica negativa Ottica positiva rendere conto del proprio operato davanti ad autorità giudicante; colpevolezza coscienza dell’impegno che comporta lo svolgimento di un incarico valutazione da parte di un giudicante ex post impegno dell'operatore sanitario ex ante Questi due aspetti della responsabilità non sono un’ alternativa semantica fine a se stessa o di mero rilievo retorico; costituiscono piuttosto i principi basilari di due stili di agire professionale, schematizzabili come in tabella 1.3. La colonna di sinistra riporta i principi del professionista sanitario che ispira la propria condotta alla coscienza della propria responsabilità; quella di destra i principi corrispondentemente alternativi ai quali finisce per attenersi il professionista che opera facendosi guidare dal timore di poter essere chiamato a render conto delle proprie azioni davanti ad un giudice. 7 Tabella 1.3 - Ottiche della responsabilità e rispettivi principi ispiratori della condotta professionale Ottica negativa Connessi principi ispiratori della condotta professionale Ottica positiva Connessi principi ispiratori della condotta professionale obiettivo: prevenzione di sanzioni per il professionista obiettivo: tutela della salute della persona centralità del professionista centralità della persona sentenze della magistratura come guida per l’esercizio professionale ed appiattimento della cultura scientifica prove di efficacia e conoscenze scientifiche aggiornate come guida per l’esercizio professionale professione espletata in chiave difensiva e conseguenti possibili danni alla persona da omesso intervento qualificato professione ispirata alla solidarietà con la persona esasperazione degli aspetti formali valorizzazione degli aspetti sostanziali In tema di responsabilità nell’esercizio professionale, dal punto di vista generale, è stato osservato che il termine professione, stando all’etimologia, ha un significato sostanzialmente identico a quello di responsabilità. Infatti: - professione deriva dal latino professio che a sua volta origina dal verbo profiteor che significa confessare ad alta voce o pubblicamente, proclamare, promettere; - responsabilità è riconducibile al verbo rispondere proveniente dal latino spondeo, che ha come primo significato l’assumere un impegno solenne a carattere religioso. Professione e responsabilità sono dunque componenti strutturali dell’identità dell’operatore e sono da interpretare come ineludibile dichiarazione di assunzione di impegno nei confronti della persona. Considerato il peculiare significato che, in relazione all’esercizio della professione, assume il termine responsabilità inteso in senso positivo, è da indicare quali siano i principi ai quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo dell’essere responsabili nella condotta professionale. 8 In genere, la condotta professionalmente responsabile discende dal rispetto di quanto indicato nei quattro punti seguenti: 1) presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della professione; 2) valori etici condivisi ed indicazioni che derivano dalla coscienza personale; 3) regole della codificazione deontologica; 4) norme di legge che disciplinano la professione. In merito ad 1), è sufficiente ricordare che è da tutti condiviso e raccomandato il principio di erogare interventi basati sulle prove di efficacia e sulla ricerca scientifica. I punti 2), 3) e 4) sono presentati nei paragrafi seguenti ed ampliati nei capitoli successivi. È fondamentale intendersi sugli aspetti della responsabilità, che si strutturano in modo diversificato rispetto alle fonti di cui ai tre punti appena citati, fonti che corrispondono, in strema sintesi, ai tre termini etica, deontologia e diritto, ciascuno dei quali esprime concetti complessi e si caratterizza per presupposti e contenuti rispettivamente diversi. La definizione e la precisazione di ciascuno di questi termini ha rilievo, posto che sono di uso corrente proprio per individuare gli ambiti di riferimento entro i quali prendere in considerazione la congruità delle condotte professionali, con gli obiettivi alternativi sia di individuare i principi cui riferirsi nell’eventualità di scelte difficili in situazioni problematiche, sia di giudicare l’operato professionale in caso di errore od omissione. Etica, deontologia e diritto hanno contenuti in parte propri, ed in parte compresi in un’area condivisa; può trattarsi di aspetti di carattere generale, relativi alla tutela della vita, della salute, della libertà, dell’autonomia, della giustizia, o di questioni particolari inerenti ad ambiti specifici, quali, per esempio, fecondazione assistita, aborto, sperimentazione, informazione all’assistito, autodeterminazione, direttive anticipate, riservatezza, eutanasia. Nessuna delle tre, dunque, si può differenziare, rispetto alle altre, per la tipicità dei contenuti. Etica, deontologia e diritto si caratterizzano piuttosto, sotto il profilo scientifico, per la peculiarità non solo della ricerca ma anche, nella 9 pratica clinica, della metodologia di approccio alla casistica, sia in relazione ai processi logici applicati sia per gli obiettivi. Fare chiarezza sul significato, sulle regole di funzionamento, sui contenuti e sugli obiettivi nella diversa applicazione pratica di etica, deontologia e diritto è fondamentale per impostare una discussione rigorosa, non inquinata da fattori di confusione per la contaminazione con contenuti provenienti, insieme ed in modo indifferenziato, da fonti diverse. Questa stessa chiarezza può contribuire anche a porre in risalto aspetti sovrapponibili nei diversi ambiti, ancorché espressi con linguaggio dissimile e scaturenti da presupposti diversi. La medicina legale quando interviene in queste situazioni si caratterizza per il fatto di trovarsi ad operare ponendo spesso a confronto fra i principi etici, le indicazioni delle codificazioni deontologiche e le norme di legge. 3. La responsabilità giuridica Come osservato nel paragrafo 1.3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo dell’essere responsabili nella condotta professionale vanno incluse le pertinenti norme di legge. Nell’ambito del diritto è compreso il complesso di norme, raccolte in un sistema organico, dettate e imposte ai cittadini, per regolarne le condotte. Il diritto è volto a garantire l’ordine sociale, disciplinando i rapporti tra i membri di una collettività in un determinato momento storico. Il campo delle norme di legge di possibile riferimento è in verità vastissimo. L’ordinamento legale riguarda aspetti generali e assume caratteri peculiari in relazione all’esercizio delle professioni sanitarie. Il professionista sanitario è vincolato sia agli aspetti generali della legge, in quanto prima che professionista egli è cittadino, sia a quelli speciali che, proprio per la tutela che il professionista è chiamato a garantire ad altre persone, comportano incombenze specifiche, che tendono ad incrementare quelle generali. Le norme generali sono uguali per tutti, mentre quelle particolari, disciplinanti nello specifico l’esercizio professionale, focalizzano una condotta 10 più pregnante e qualificata da parte del professionista, nel rispetto dei principi generali di riferimento. L’esistenza di norme di legge specifiche per i professionisti sanitari non significa che essi siano esentati dal rispettare anche le norme che li riguardano come cittadini. Certo non tutte le parti del diritto hanno interesse per la discussione della responsabilità dei professionisti sanitari in quanto tali, ma solo quelle che concernono l’esercizio della professione ed il sistema di tutela sanitaria e sociale del cittadino, cui il professionista è chiamato a collaborare. Queste valutazioni hanno suggerito di sviluppare la trattazione della responsabilità giuridica secondo la seguente impostazione. Nel capitolo 2 sono presentate le norme specificamente attinenti l’esercizio delle professioni sanitarie, con particolare riferimento a quelle che più recentemente hanno introdotto il concetto di responsabilità; nel capitolo 4 sono considerate le norme di carattere generale, contenute nel codice penale, che delineano una parte del sistema di tutela sociale del cittadino a fronte di condotte incongrue da parte del professionista; nel capitolo 5, è commentata la casistica giurisprudenziale disponibile, da intendere come pratica attuazione degli strumenti di tutela sociale a fronte di condotte incongrue. Va da sé che una siffatta impostazione non può essere ritenuta di adeguata tutela del cittadino, sicché nel conclusivo capitolo 6 sono illustrati i principi ispiratori del sistema del clinical risk management. 4. Responsabilità deontologica Come osservato nel paragrafo 1.3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo della condotta professionale responsabile, vanno incluse anche le regole della codificazione deontologica. Da tempo è radicata la concezione dell’esistenza di una deontologia caratterizzante ogni singola professione o attività umana, pur se è innegabile che i principi fondanti e le regole essenziali di qualsiasi codificazione 11 deontologica non possano non essere sovrapponibili ed assimilabili a quelli che incombono a qualsiasi cittadino. Si può dunque, in prima istanza, indicare la deontologia come il complesso dei doveri che informano la condotta del cittadino in genere, nonché, con riferimento al campo di interesse della presente tesi, la condotta di chi esercita una professione ed una professione sanitaria in particolare. In relazione alle professioni sanitarie, la deontologia può essere definita come il complesso dei doveri ai quali ispirare la propria attività professionale (ma anche la propria vita extraprofessionale) nella generalità dei casi e in alcune specifiche circostanze, nei rapporti con le persone assistite, con i cittadini in genere, con colleghi della propria o di altre professioni sanitarie, con il collegio o l’associazione professionale di riferimento, con le strutture sanitarie in cui si opera, con la società in genere. Il termine “deontologia” fu inventato da Jeremy Bentham, giurista e filosofo, nato a Londra nel 1748 ed ivi deceduto nel 1832. Il neologismo – nella corrispondente versione inglese – compare nel titolo del saggio pubblicato in due volumi dopo la sua morte da John Bowring nel 1834: Deontology or the Science of Morality. Bentham spiega in questo testo di usare il termine deontologia “per la sola ragione che non esiste, nella parte originaria della lingua inglese, una singola parola con la quale si possa esprimere lo stesso significato”. Egli indica in particolare che: “Per ‘deontologia’ intesa nel senso più ampio, si intende quel settore dell’arte e scienza che ha per suo oggetto il fare in ogni occasione ciò che è giusto e conveniente fare”. Precisa inoltre: “Il compito della deontologia consiste principalmente nella distribuzione degli obblighi: nel segnare sul campo dell’azione i luoghi nei quali si può ritenere convenientemente che sorga un obbligo; e, in caso di conflitto fra obblighi derivanti da fonti diverse, nello stabilire quale debba ottenere la preferenza e quale debba rinunciarvi. Gli 12 uomini hanno bisogno di venire informati degli obblighi che gravano su di loro”. È dunque possibile puntualizzare che il termine “deontologia”: 1. è stato coniato a tavolino e quindi, come tale, è privo di radici storiche; è elemento costitutivo del pensiero di un filosofo e pertanto rappresenta un paradigma, un’idea di riferimento, piuttosto che la presa d’atto di una tradizione o l’espressione di una cultura; 2. deriva dal greco e per la precisione da δέον [dèon], che significa “dovere”, e λόγος [lògos], che vuol dire “discorso”; 3. non è considerato dal filosofo in relazione all’esercizio di una qualsiasi delle professioni sanitarie all’epoca esistenti (il sostantivo “deontologia” fu comunque, col tempo, recepito per definire l’insieme delle regole doverose per il corretto esercizio di una data professione ed introdotto anche in Italia, in ambito medico prima e delle altre professioni sanitarie poi, per essere inserito nel titolo delle proprie codificazioni scritte delle norme comportamentali disciplinanti l’attività professionale.); 3. si è rapidamente diffuso, nelle varie traduzioni, tutte rispettose della terminologia greca da cui è stato fatto nascere. Fra tali doveri individuati dalla deontologia possono essere compresi sia quelli legali, sia quelli di carattere etico, sia, soprattutto per quanto riguarda i professionisti, quelli previsti da un’apposita codificazione curata dall’associazione di appartenenza dei professionisti stessi. Secondo questa impostazione onnicomprensiva, varie sono dunque le fonti della deontologia per il professionista: in altre parole, sempre secondo questa impostazione, le norme della deontologia in parte scaturiscono dalla filosofia morale e in parte dal diritto; la deontologia può essere, inoltre, autonomamente codificata dall’organo professionale, il quale, comunque, si ispira ai principi morali, e tiene conto delle norme di legge (discostandosene solo in qualche circostanza particolare, in nome di un principio etico ritenuto superiore al bene 13 tutelato dalla legge), senza comunque doversi necessariamente appiattire su di essa. Chi usa il termine deontologia in ambito professionale non lo riferisce al complesso dei doveri scaturenti dall’insieme delle tre fonti di cui si è detto, avendo piuttosto l’idea che la fonte sia unica, una sola delle tre fonti citate, cioè la apposita codificazione scritta elaborata in ambito professionale. Ricapitolando e semplificando, il termine deontologia può essere usato in modo più o meno estensivo, globalmente comprendente tutte le regole comportanti doveri qualunque ne sia la fonte o, più specificamente, riferito alle norme stabilite, di volta in volta, dal codice deontologico della professione di interesse. In sintesi, si fronteggiano due concezioni di deontologia in relazione alle fonti: I. quella costituita dall’insieme delle norme etiche, giuridiche nonché, ove codificate, deontologiche; II. quella rappresentata solo e soltanto alla deontologia codificata in ambito professionale. La prima accezione del termine crea commistione concettuale fra etica, deontologia e diritto; si impone pertanto la necessità di chiarire il valore delle norme rispettivamente etiche, giuridiche e del codice deontologico. La seconda accezione evita qualunque confusione fra etica, diritto e deontologia, ma può essere considerata eccessivamente limitativa, postulando come non attinenti alla deontologia norme che è doveroso rispettare, ma che non provengono dal codice di deontologia. È innegabile che sussista un complesso di doveri di carattere etico, così come sussiste analogo complesso di doveri desumibile dalle norme di legge o da quelle di un codice deontologico: vi sono cioè varie fonti della deontologia. Stante l’evidenza di questa osservazione, la questione non è affermare la prevalenza dell’una o dell’altra fonte, ma stabilire, semplicemente, quella che si intende prendere in considerazione. Posto che i doveri etici e quelli giuridici, vengono considerati nel contesto dell’etica e del diritto, pare inutile ridiscuterli in un ulteriore ambito, creando oltretutto confusione, talché conviene limitare il 14 concetto di deontologia, con riferimento a una data professione, al complesso delle norme elaborate da pertinente organismo professionale. È dunque vero che la deontologia non è solo codificazione deontologica, ma ragioni di praticità, volte soprattutto a evitare confusione, inducono a usare il termine di deontologia come sinonimo di deontologia codificata, secondo le professioni, dall’ordine o dal collegio o da associazione professionale rappresentativa. La codificazione deontologica, anche se necessariamente risente del diritto e dell’etica, assume caratteristiche ben precise, che, considerate nel loro insieme, fanno sì che essa sia ben distinguibile dal precetto giuridico e dalla norma etica. È da chiarire che cosa intimamente significhi il dovere di cui i professionisti si fanno carico con la codificazione, appunto, deontologica: se cioè, con la stessa, essi si impongano una serie di regole alle quali obbedire a prescindere da una convinta adesione ai principi che le sottendono o se dichiarino espressamente di assumersi un impegno in cui intimamente credono. Nel primo caso, la codificazione deontologica è una sorta di regolamentazione che ha quale obiettivo l’applicazione ai problemi concreti dei principi etici e di quelli giuridici. Nell’altra ipotesi, che cioè deontologia corrisponda a impegno, allora la codificazione deontologica è sostanzialmente espressione dell’etica professionale. A ben considerare, però, rispetto all’etica professionale la codificazione deontologica si assume l’ulteriore impegno di compenetrare i principi dell’etica con le istanze del diritto che attengono all’esercizio della professione e alla tutela del cittadino. Questo si realizza per valutare se le indicazioni di legge debbano essere accolte nel codice deontologico o se nella codificazione deontologica esistano spazi di espressione autonoma concretizzanti un impegno verso la persona assistita più consistente di quanto le leggi stesse chiedano al professionista sanitario. L’attenta riflessione critica non può non evidenziare l’aspetto di unilateralità della codificazione deontologica statuita in ambito professionale, e può essere di conseguenza insinuato il sospetto che essa sia promossa a tutela della professione od a protezione del rapporto con i clienti. In realtà, oggi, la 15 codificazione deontologica non può essere considerata un mezzo di difesa della categoria, ma è uno strumento di garanzia offerto alla persona per conoscere le condotte doverose dei professionisti. I vari codici deontologici delle professioni sanitarie non sono redatti secondo uno schema unitario né con uno stile omogeneo, né trattano gli stessi argomenti. L’organizzazione in titoli, capi o sezioni non è rispettivamente corrispondente. Il livello di dettaglio varia: alcuni testi sono piuttosto analitici, altri estremamente sintetici. E’ pertanto difficile presentarne il contenuto in una visione d’insieme rispettosa delle peculiarità; può essere fatto riferimento ai seguenti parametri generali: 1) indicazioni circa le caratteristiche generali e l’esercizio della specifica professione con le connesse attività doverose (talora rapportabili a corrispondenti norme di legge); 2) indicazioni di comportamento in situazioni specifiche (pure rapportabili a norme di legge); 3) valutazione di aspetti prettamente etici; 4) richiamo alle conseguenze disciplinari. Si tratta di una schematizzazione artificiosa ed opinabile e non sempre è facile distribuire i temi secondo le suddivisioni, potendo essere talora sfumati i confini fra 1) e 2) e 3). Per quanto concerne la professione medica, che è stata la prima, nel nostro Paese, ad aver recepito il concetto di “deontologia”, si osserva, in relazione ai tre punti precedenti, che l’adozione del termine “deontologia” per la codificazione dell’esercizio professionale (punto 3) si inserisce in un contesto culturale della professione medica, i cui principi fondamentali risalivano a un lontano passato (punto 1) e non si basavano sulla nozione del “dovere” (punto 2). Questa situazione può essere letta in vari modi. Un punto di vista è che la parola deontologia ebbe favorevole accoglienza in ambito medico solo quando 16 la cultura medica della relazione con il paziente iniziò ad andare incontro ai primissimi cambiamenti, talché, per il medico, riferirsi al principio del “dovere” meglio rispondeva a una relazione rinnovata, basata sui diritti del paziente e, di converso, sui doveri del medico, rispetto alle precedenti concezioni basate su modelli di carattere filantropico a impronta paternalistica ai quali il medico si era fino ad allora ispirato. A prescindere dalla individuazione delle ragioni per le quali il termine ha avuto successo, almeno in Italia, anche nella comunità dei medici prima e di tutte le altre professioni sanitarie poi, è fondamentale rendersi conto che il sostantivo è stato accolto proprio nel suo intrinseco significato “etimologico” che fa del “dovere” l’elemento significante. Il mondo medico fu il primo a recepire il termine, talché esso ha finito per condizionarne il significato, inglobandolo nella propria tradizione culturale sulla correttezza della condotta professionale, senza tuttavia limitarsi a collegare questa nuova concezione alla tradizione, ma finendo con il percepire la tradizione nella logica e nella prospettiva della deontologia. In altri termini, anche se il sostantivo “deontologia” è stato coniato solo nell’Ottocento, si è arrivati a parlare, e a scrivere, di storia della deontologia medica, facendola decorrere da periodi nei quali la deontologia, come parola, se non come concetto, ancora non esisteva. Si è tracciata questa storia facendola risalire all’antica medicina babilonese o greca, mentre è pacifico che la storia della deontologia non può che essere successiva al 1834, data di pubblicazione del testo di Bentham sulla “Deontologia”. Sono comunque da segnalare idee precorritrici e principi antesignani della moderna deontologia, perché il concetto di “dovere” del medico era già comparso in documenti ai quali il medico in passato si è ispirato per l’esercizio professionale. Proprio il nostro Paese ha dato i natali al creatore di una deontologia ante litteram. Si tratta di Leonardo Botallo, nato ad Asti nel 1530 e deceduto forse a Parigi nel 1587, autore di un Tractatus de medici et aegri munere – Trattato dei doveri del medico e del malato – pubblicato a Lione nel 1565. 17 5. Responsabilità etica Come osservato nel paragrafo 3, fra le fonti alle quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo dell’essere responsabili nella condotta professionale vanno inclusi i valori etici condivisi e le indicazioni che derivano dalla coscienza personale. L’etica è la parte della filosofia che studia il comportamento umano e le norme cui esso si ispira, analizzando le condotte della persona e le relative motivazioni, interrogandosi sulle caratteristiche e sul significato del bene e su come agire al fine di garantire il bene. L’etica è espressione di una riflessione in continuo divenire, che mal si presta a essere fissata in norme immutabili: essa è dunque affidata al pensiero filosofico e non a codificazioni scritte. Per quanto riguarda la responsabilità professionale, è sufficiente citare l’esistenza di due campi di riflessione, che possono essere considerati corrispondere a due delle moltissime branche applicative dell’etica o comunque a due dei moltissimi ambiti di studio e di ricerca a essa correlati; si tratta della bioetica e dell’etica professionale in sanità. L’etica professionale in sanità è stata prevalentemente considerata con riferimento alle singole professioni sanitarie tradizionali (ad esempio: medico, farmacista, ostetrica, infermiere), abitualmente intendendo con questa espressione il campo di applicazione dei principi etici generali all’esercizio di una data professione: sulla base comune dell’etica e dei suoi valori, sono considerati gli aspetti particolari legati alla quotidianità della professione, al fine di procedere a identificazione, analisi e valutazione delle possibilità di soluzione dei problemi connessi al prendersi cura di una persona in relazione alla dignità e autonomia dell’individuo, alla correttezza delle procedure e alla congruità degli obiettivi. Si tratta di una parte dell’etica elaborata prevalentemente all’interno di ogni singola professione sanitaria, con scarsa integrazione fra le varie professioni, talora con apporti esterni (cioè da parte di cultori della disciplina non appartenenti alla professione) che hanno contribuito a evitare derive e suggestioni dettate da spinte corporative. 18 Quanto alla bioetica, conviene ricordare alcune definizioni storiche. Nella prima edizione dell’Encyclopedia of Bioethics del 1978 figura questa definizione: “lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto detta condotta è esaminata alla luce di valori e principi morali”; questa definizione è completata dalla precisazione che nel testo citato è immediatamente successiva: “la bioetica è un’area di studi interdisciplinari …”. Nella successiva edizione riveduta della stessa Encyclopedia edita nel 1995 compare un’altra definizione: “lo studio sistematico delle dimensioni morali – ivi incluse visione morale, decisioni, condotta e procedure – delle scienze della vita e della cura della salute, con l’adozione di una varietà di metodologie etiche in un contesto interdisciplinare”. La caratteristica di interdisciplinarietà della bioetica potrebbe indurre perplessità circa il suo significato, qualora si intendesse la stessa come insieme di contributi che varie scienze, quali ad esempio filosofia, biologia, medicina, diritto, sociologia, antropologia, ingegneria, possono fornire all’analisi ed alla valutazione delle problematiche pertinenti. Questo errato presupposto creerebbe confusione, ad esempio, fra diritto e bioetica, in quanto il primo potrebbe essere considerato compreso nella bioetica, almeno per la parte in cui le due discipline affrontano tematiche sovrapponibili. In realtà, la bioetica è interdisciplinare perché è il luogo dell’incontro, del confronto e dell’interazione di diverse competenze scientifiche, senza alcuna pretesa da parte della bioetica di far proprie e di caratterizzarsi per queste competenze integrate. Perciò, la bioetica è disciplina del tutto autonoma, rispetto a deontologia e diritto, pur avvalendosi anche del contributo delle due citate discipline: è autonoma proprio perché non recepisce automaticamente alcun contenuto preconfezionato di dette discipline, ma realizza, di volta in volta, una procedura di analisi integrata che può avvalersi del loro contributo. Dalla seconda delle precedenti definizioni discende la precisazione che all’attività di studio si affianca anche una componente di carattere praticoapplicativo in senso clinico. La bioetica è infatti uno strumento metodologico 19 che, adottato nella pratica clinica quotidiana, permette di procedere a un’analisi dei casi problematici, con particolare riferimento a quelli che comportino conflitto di valori e che impongano (o sembrino imporre) scelte fra di essi, e a offrire prospettive di soluzione, anche al fine di prevenire o di facilitare l’analisi di futuri problemi consimili. In definitiva, i valori di riferimento cui ispirarsi nell’etica professionale non si differenziano da quegli stessi che sono di riferimento per il professionista, in ambito etico, quale persona. Anche la deontologia professionale detta norme che qualificano, nell’attività professionale, in specifico riferimento a una serie di situazioni concrete, i doveri che qualunque essere umano ha nei confronti degli altri. In nessuno dei tre ambiti, persiste, esiste una disciplina speciale che sia, rispetto a quella di carattere generale, diversificata in modo da essere, in qualche modo, di privilegio per il professionista sanitario. Anzi, la disciplina speciale determina per il professionista incombenze più gravose a tutela della salute dell’assistito di quanto, di solito, la norma generale preveda per il cittadino a favore di un altro cittadino. 20 CAPITOLO 2 LA RESPONSABILITÀ E LE NORME DISCIPLINANTI L’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE 1. La responsabilità nei profili professionali L’esercizio delle varie professioni sanitarie è disciplinato da specifici decreti ministeriali approvati a partire dal settembre 1994, secondo la previsione del comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”. Il dettaglio delle fonti normative è contenuto nella prima colonna della tabella 2.1, che riporta i passi pertinenti dei profili delle attuali 22 professioni sanitarie. I profili professionali hanno una struttura simile, ma adottano una terminologia in parte disomogenea. La similarità della struttura consiste nel fatto che il comma 1° dell’art. 1 di ogni profilo riporta indicazioni di carattere generale circa le funzioni del professionista; lo stesso comma 1°o, talora, il comma 2° richiama in genere l’eventuale rapporto fra l’attività professionale o, più spesso, parte dell’attività professionale e la prescrizione medica. I restanti commi dell’art. 1 descrivono i campi di azione e gli obiettivi delle prestazioni del professionista pertinente, senza puntualizzazioni particolareggiate delle singole attività. Gli articoli 2 e 3 di ogni profilo professionale indicano che il diploma universitario (ora divenuta laurea universitaria) abilita all’esercizio della professione e specificano quali sono i titoli di studio precedentemente conseguiti da considerare, di volta in volta, equipollenti al diploma universitario. Nella terza colonna della tabella 2.1 è riportato il comma 1° e talora una parte pertinente del comma 2° dell’art. 1 di ogni profilo professionale. 21 La disomogeneità della terminologia, riguarda soprattutto l’uso del sostantivo responsabilità o dell’aggettivo responsabile, come evidenziato nella quarta colonna della tabella 2.1. Dalla tabella 2.1 si evince che pochi sono i profili che citano la responsabilità del professionista. Si tratta di 6 profili su 22; sono compresi tutti e tre i profili dell’area infermieristico-ostetrica, tre profili dell’area tecnica, nessun profilo dell’area della riabilitazione. Indicazioni di interesse figurano nel D. M. Sanità 14 settembre 1994, n. 739 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'infermiere”; l'art. 1 di questo D.M. recita “l'infermiere è l'operatore sanitario ... responsabile dell'assistenza generale infermieristica”. Identica è la previsione dell’art. 1 del D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 70 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'infermiere pediatrico”. Per questi due professionisti, la responsabilità concerne globalmente tutto il piano assistenziale. Anche il D.M. Sanità 26 settembre 1994, n. 745 “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del tecnico sanitario di laboratorio biomedico” reca indicazioni analoghe per quanto concerne la responsabilità di questo professionista, che investe globalmente tutte le prestazioni di pertinenza. L’art. 1 del D.M. ora citato indica il professionista come “responsabile degli atti di sua competenza”, che sono subito dopo precisati: “attività di laboratorio di analisi e di ricerca relative ad analisi biomediche e biotecnologiche ed in particolare di biochimica, di microbiologia e virologia, di farmacotossicologia, di immunologia, di patologia clinica, di ematologia, di citologia e di istopatologia”. La stessa impostazione compare nel D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 58 “Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro”. Anche qui la responsabilità riguarda la globalità dell’intervento 22 professionale; l’art. 1 recita, infatti: “è responsabile, nell’ambito delle proprie competenze, di tutte le attività di prevenzione, verifica e controllo in materia di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di lavoro, di igiene degli alimenti e delle bevande, di igiene di sanità pubblica e veterinaria”. Non dissimile, ma caratterizzata da particolare enfasi, è la struttura del D.M. Sanità 14 settembre 1994, n. 667 “Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico audiometrista” e del D.M Sanità 14 settembre 1994, n. 668 “Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico audioprotesista.” In questi D.M., l’art. 1 indica, rispettivamente al comma 3° lettera a) ed al comma 2°, che il professionista “opera, su prescrizione del medico, mediante atti professionali che implicano la piena responsabilità e la conseguente autonomia”. È ovvio che la responsabilità investa globalmente tutti gli atti; è curioso il fatto che sia stato inserito l’aggettivo “piena”, che non può certo descrivere un più elevato grado di responsabilità di questi due professionisti (oltretutto: rispetto a che cosa o a chi?), ma che può essere interpretato come volontà dell’estensore della norma di enfatizzare il valore di questa responsabilità. Un discorso diverso concerne il D.M. 14 settembre 1994, n. 740 “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’ostetrica/o”. L’art. 1. Di questo D.M. indica dapprima che l’ostetrica/o “assiste e consiglia la donna nel periodo della gravidanza, durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con propria responsabilità” e continua poi precisando che “presta assistenza al neonato”. La costruzione del periodo appare ambigua perché sembra escludere la responsabilità con riferimento all’assistenza al neonato, limitandone la sussistenza alle prestazioni precedentemente elencate. Anche tenendo conto delle, pur poche, differenze testuali, tutti e sei i profili che citano la responsabilità del professionista attribuiscono al concetto di 23 “responsabilità” il significato positivo dell’assumere una condotta congrua rispetto alla necessaria competenza professionale volta alla tutela della salute della persona. In altri termini, è responsabile il professionista che, nell’esercizio delle attività contemplate dal profilo, sa realizzare un comportamento consono sia all’impegno tecnico-scientifico e relazionale caratterizzante la singola professione, sia a dare risposta adeguata ai bisogni della persona. Tabella 2.1 - La responsabilità nei profili dei singoli professionisti sanitari Professione infermiere Decreto ministeriale di approvazione del profilo professionale d.m. 14 settembre 1994, n. 739 ostetrica/o d.m. 14 settembre 1994, n. 740 fisioterapista d.m. 14 settembre 1994, n. 741 logopedista d.m. 14 settembre 1994, n. 742 Art. 1, comma 1°, ed eventuali passi di interesse Indicazione esplicita della responsabilità art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. … 3 - L’infermiere: … d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico terapeutiche; … art. 1. È individuata la figura dell’ostetrica/o con il seguente profilo: l’ostetrica/o è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, assiste e consiglia la donna nel periodo della gravidanza, durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con propria responsabilità e presta assistenza al neonato. art. 1. 1. È individuata la figura del fisioterapista con il seguente profilo: il fisioterapista è l’operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, che svolge in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali superiori, e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia, congenita od acquisita. art. 1. 1. È individuata la figura del logopedista con il seguente profilo: il logopedista è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge la propria attività nella prevenzione e sì: “è responsabile ...” 24 sì: “con propria responsabilità…” no no ortottistaassistente di oftalmologia d.m. 14 settembre 1994, n. 743 dietista d.m. 14 settembre 1994, n. 744 tecnico sanitario di laboratorio biomedico d.m. 14 settembre 1994, n. 745 tecnico sanitario di radiologia medica d.m. 14 settembre 1994, n. 746 tecnico ortopedico d.m. 14 settembre 1994, n. 665 nel trattamento riabilitativo delle patologie del linguaggio e della comunicazione in età evolutiva, adulta e geriatrica. … art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’ortottistaassistente di oftalmologia con il seguente profilo: l’ortottistaassistente di oftalmologia è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e su prescrizione del medico, tratta i disturbi motori e sensoriali della visione ed effettua le tecniche di semeiologia strumentale-oftalmologica. art. 1. 1. È individuata la figura professionale del dietista con il seguente profilo: il dietista è l’operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, competente per tutte le attività finalizzate alla corretta applicazione dell’alimentazione e della nutrizione ivi compresi gli aspetti educativi e di collaborazione all’attuazione delle politiche alimentari, nel rispetto della normativa vigente. art. 1. 1. È individuata la figura del tecnico sanitario di laboratorio biomedico con il seguente profilo: il tecnico sanitario di laboratorio biomedico è l’operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, responsabile degli atti di sua competenza, che svolge attività di laboratorio di analisi e di ricerca relative ad analisi biomediche e biotecnologiche ed in particolare di biochimica, di microbiologia e virologia, di farmacotossicologia, di immunologia, di patologia clinica, di ematologia, di citologia e di istopatologia. art. 1. 1. È individuata la figura del tecnico sanitario di radiologia medica con il seguente profilo: il tecnico sanitario di radiologia è l’operatore sanitario che in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile degli atti di sua competenza ed è autorizzato ad espletare indagini e prestazioni radiologiche. art. 1. 1. È individuata la figura professionale del tecnico ortopedico con il seguente profilo: il tecnico ortopedico è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, su prescrizione medica e successivo collaudo, opera la costruzione e/o adattamento, applicazione e fornitura di protesi, ortesi e di ausili sostitutivi, correttivi e di sostegno dell’apparato locomotore, di natura funzionale ed estetica, di tipo meccanico o che utilizzano l’energia 25 no no sì: “è … responsabile …” sì: “… è responsabile degli atti …” no podologo d.m. 14 settembre 1994, n. 666 tecnico audiometrista d.m. 14 settembre 1994, n. 667 tecnico audioprotesista d.m. 14 settembre 1994, n. 668 tecnico di neurofisiopatologia d.m. 15 marzo 1995, n. 183 terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva d.m. 17 gennaio 1997, n. 56. esterna o energia mista corporea ed esterna, mediante rilevamento diretto sul paziente di misure e modelli. art. 1. 1. È individuata la figura professionale del podologo con il seguente profilo: il podologo è l’operatore sanitario che in possesso del diploma universitario abilitante, tratta direttamente, nel rispetto della normativa vigente, dopo esame obiettivo del piede, con metodi incruenti, ortesici ed idromassoterapici, le callosità, le unghie ipertrofiche, deformi e incarnite, nonché il piede doloroso. art. 1. 1. È individuata la figura professionale del tecnico audiometrista con il seguente profilo: il tecnico audiometrista è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge la propria attività nella prevenzione, valutazione e riabilitazione delle patologie del sistema uditivo e vestibolare, nel rispetto delle attribuzioni e delle competenze diagnosticoterapeutiche del medico. … 3. Il tecnico audiometrista: a) opera, su prescrizione del medico, mediante atti professionali che implicano la piena responsabilità e la conseguente autonomia; art. 1. 1. È individuata la figura professionale del tecnico audioprotesista con il seguente profilo: il tecnico audioprotesista è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante svolge la propria attività nella fornitura, adattamento e controllo dei presidi protesici per la prevenzione e correzione dei deficit uditivi. 2. Il tecnico audioprotesista opera su prescrizione del medico mediante atti professionali che implicano la piena responsabilità e la conseguente autonomia. art. 1. 1. È individuata la figura del tecnico di neurofisiopatologia con il seguente profilo: il tecnico di neurofisiopatologia è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge la propria attività nell’ambito della diagnosi delle patologie del sistema nervoso, applicando direttamente, su prescrizione medica, le metodiche diagnostiche specifiche in campo neurologico e neurochirurgico (elettroencefalografia, elettroneuromiografia poligrafia, potenziali evocati, ultrasuoni). art. 1. 1. È individuata la figura professionale del terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, con il seguente profilo: il 26 no sì: “la piena responsabilità …” sì: “la piena responsabilità …” no no tecnico della riabilitazione psichiatrica d.m. 29 marzo 2001, n. 182 tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro d.m. 17 gennaio 1997, n. 58 assistente sanitario d.m. 17 gennaio 1997, n. 69 infermiere pediatrico d.m. 17 gennaio 1997, n. 70 Terapista occupazionale d.m. 17 gennaio 1997, n. 136 terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge, in collaborazione con l’equipe multiprofessionale di neuropsichiatria infantile e in collaborazione con le altre discipline dell’area pediatrica, gli interventi di prevenzione, terapia e riabilitazione delle malattie neuropsichiatriche infantili, nelle aree della neuro-psicomotricità, della neuropsicologia e della psicopatologia dello sviluppo. art. 2. 1. È individuata la figura professionale del tecnico della riabilitazione psichiatrica con il seguente profilo: il tecnico della riabilitazione psichiatrica è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare, interventi riabilitativi ed educativi sui soggetti con disabilità psichica. art. 1. 1. È individuata la figura professionale del tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, con il seguente profilo: il tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, è responsabile, nell’ambito delle proprie competenze, di tutte le attività di prevenzione, verifica e controllo in materia di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di lavoro, di igiene degli alimenti e delle bevande, di igiene di sanità pubblica e veterinaria. art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’assistente sanitario con il seguente profilo: l’assistente sanitario è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è addetto alla prevenzione, alla promozione ed alla educazione per la salute. art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’infermiere pediatrico con il seguente profilo: l’infermiere pediatrico è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile dell’assistenza infermieristica pediatrica. … 3. L’infermiere pediatrico: … e) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; art. 1. 1. È individuata la figura professionale del terapista occupazionale, con il seguente profilo: il terapista occupazionale è 27 no sì: “è responsabile …” no sì: “è responsabile …” no Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare d.m. 27 luglio 1998, n. 316 Educatore professionale d.m. 8 ottobre 1998, n. 520 Igienista dentale d.m. 15 marzo 1999, n. 137 l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, opera nell’ambito della prevenzione, cura e riabilitazione dei soggetti affetti da malattie e disordini fisici, psichici sia con disabilità temporanee che permanenti, utilizzando attività espressive, manuali rappresentative, ludiche, della vita quotidiana. art. 1. 1. È individuata la figura del tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare con il seguente profilo: il tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, provvede alla conduzione e alla manutenzione delle apparecchiature relative alle tecniche di circolazione extracorporea ed alle tecniche di emodinamica. art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’educatore professionale, con il seguente profilo: l’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’èquipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico-sociale dei soggetti in difficoltà. art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell’igienista dentale con il seguente profilo: l’igienista dentale è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge compiti relativi alla prevenzione delle affezioni orodentali su indicazione degli odontoiatri e dei medici chirurghi legittimati all’esercizio della odontoiatria. no no No Conviene ricordare che nel sistema dei mansionari, già disciplinante le attività di infermiere, ostetrica e tecnico sanitario di radiologia medica, il concetto di responsabilità figurava nei contesti citati in tabella 2.2. 28 Tabella 2.2 - Mansionari e responsabilità Mansionario D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 “Modifiche al regio decreto 2 maggio 1940, n. 1310, sulle mansioni degli infermieri professionali e infermieri generici” D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163 “Aggiornamento del regio decreto 26 maggio 1940, n. 1364, concernente il regolamento per l'esercizio professionale delle ostetriche” D.P.R. 6 marzo 1968, n. 680 “Regolamento per l'esecuzione della legge 4 agosto 1965, n. 1103, concernente regolamentazione giuridica dell'esercizio dell'arte ausiliaria sanitaria di tecnico di radiologia medica” Adozione dei termini “responsabile” e “responsabilità” art. 2. Le attribuzioni assistenziali dirette ed indirette degli infermieri professionali sono le seguenti: … E' consentita agli infermieri professionali la pratica delle iniezioni endovenose. Tale attività potrà essere svolta dagli infermieri professionali soltanto nell'ambito di organizzazioni ospedaliere o cliniche universitarie e sotto indicazione specifica del medico responsabile del reparto. art. 3. La vigilatrice d'infanzia oltre alle mansioni previste per gli infermieri professionali, limitatamente all'infanzia, è autorizzata a procedere alla somministrazione con sonda gastrica degli alimenti ai neonati; ed ha la responsabilità della preparazione, conservazione e somministrazione degli alimenti per i neonati, per i minori ad essa affidati, il tutto su prescrizione medica. mai art. 24. Il tecnico di radiologia su disposizione e sotto la responsabilità del medico radiologo, fermo restando il disposto degli articoli 9 e 97 del decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 1964, n. 185 [gli articoli riguardano l’esercizio professionale del medico radiologo], può curare direttamente l'esecuzione di esami radiografici semplici (torace, ossa, schermografia) anche senza la presenza del medico radiologo. È evidente che la responsabilità è citata, nei diversi riferimenti normativi, in relazione all’attività professionale del medico, che ricomprendeva quindi anche la sorveglianza sull’attività dell’operatore non medico di volta in volta considerato. Eccezione assolutamente straordinaria concerne la vigilatrice d’infanzia, per la quale, solo e soltanto, è testualmente contemplata “la responsabilità della preparazione, conservazione e somministrazione degli alimenti per i neonati, per i minori ad essa affidati, il tutto su prescrizione medica”. 29 2. Un aspetto particolare del profilo professionale degli infermieri Merita specifica menzione un passo contenuto sia nel D. M. Sanità 14 settembre 1994, n. 739 sia nel D.M. Sanità 17 gennaio 1997, n. 70 recanti i regolamenti concernenti l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere e dell'infermiere pediatrico. Il comma 3 dell’art. 1 di ciascuno dei due D.M. prevede, rispettivamente alla lettera d) ed alla lettera e) che, sempre rispettivamente, l’infermiere e l’infermiere pediatico “… garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”. Il disposto è profondamente innovativo rispetto a quanto contemplato, in materia, nel d.P.R. 225 del 1974 che recava l’ultima versione del mansionario dell’infermiere. Art. 2. Le attribuzioni assistenziali dirette ed indirette degli infermieri professionali sono le seguenti: … 2) somministrazione dei medicinali prescritti ed esecuzione dei trattamenti speciali curativi ordinati dal medico; 12) somministrazione dei medicinali prescritti ed esecuzione dei seguenti trattamenti diagnostici e curativi ordinati dal medico: … La formulazione dei punti 2 e 12 sembra non lasciare alcuna discrezionalità all’infermiere, di fronte, per esempio, ad una variazione delle condizioni cliniche dell’assistito. Il testo adotta una terminologia piuttosto rigida: al concetto di prescrizione (“prescritti”) si affianca quello di ordine (“ordinati”). Il fatto che ora, dal profilo professionale, sia posto in capo all’infermiere il dovere di garantire la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche sta a indicare il riconoscimento della dimensione intellettuale della professione e quindi del dovere dell’infermiere di attivarsi per valutare la coerenza o la persistente coerenza delle prescrizioni mediche rispetto, per esempio, ad un eventuale cambiamento di condizioni cliniche. È innegabile, in sintesi, che il profilo professionale attribuisca all’infermiere il ruolo di garante attivo a tutela della salute della persona rispetto alle prescrizioni mediche. È pertinente osservare che la dottrina giuridica ha sviluppato la teoria della posizione di garanzia, per cui coloro che, avendo una relazione diretta e 30 particolare con il bene giuridico, hanno l’obbligo giuridico di intervenire, poiché per costoro sussiste la corrispondenza normativa tra il non impedire e il cagionare l’evento di cui al comma 2° dell’art. 40 del codice penale. La posizione di garanzia si traduce nell’obbligo di attivarsi che incombe su chiunque intraprenda un’attività pericolosa per evitare i danni ad essa connessi. Il professionista sanitario in particolare assume una posizione di garanzia tipica nei confronti della persona affidata, posizione che consiste nell’obbligo di farsi attivamente carico di tutte le prevedibili implicazioni rischiose del suo intervento. Non di qualsiasi ipotetico, teorico, possibile rischio il professionista che assiste il paziente deve farsi carico, ma di solo quei rischi (tutti comunque) che sono prevedibili, valutabili e prevenibili (cioè evitabili) in base alla sua competenza. Pare di riconoscere una piena coincidenza, concettuale e terminologica, fra la teoria giuridica della posizione di garanzia e la testuale indicazione di attivarsi che incombe all’infermiere a garanzia della corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche. 3. La legge n. 42 del 1999: il superamento dell’ausiliarietà e del controllo da parte del medico Il differente approccio al tema della responsabilità concretizzatosi nei disomogenei testi dei 22 profili professionali non può più essere oggi oggetto di discussione, posto che il sistema è stato ordinato da una legge sopravvenuta, che va intesa come chiave di lettura, in punto di responsabilità dei professionisti sanitari, dei singoli decreti ministeriali recanti i profili professionali. La legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” contiene indicazioni profondamente innovative circa l’esercizio delle professioni sanitarie citate nel comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. n. 31 502/1992 che riguardano soprattutto la responsabilità di questi professionisti. art. 1. Definizione delle professioni sanitarie. 1. La denominazione professione sanitaria ausiliaria nel testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni nonché in ogni altra disposizione di legge, è sostituita dalla denominazione professione sanitaria. 2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono abrogati il regolamento approvato con D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, ad eccezione delle disposizioni previste dal titolo V, il D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163 e l’articolo 24 del regolamento approvato con D.P.R. 6 marzo 1968, n. 680 e successive modificazioni. … (omissis) … In primo luogo, l’art. 1 della legge n. 42 annulla la gerarchia fra due gruppi di professioni sanitarie; essa elimina l’attributo ausiliario dalla locuzione professioni sanitarie, sia nel testo unico delle leggi sanitarie, approvato con r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni, sia in ogni altra disposizione di legge, in cui esso figuri. Il comma 1° dell’art. 1 stabilisce che la denominazione professione sanitaria ausiliaria è sostituita da professione sanitaria: da tale sostituzione discende la negazione del concetto di ausiliarietà professionale. Il comma 2° dello stesso articolo prevede l’abrogazione del mansionario di tutte le professioni – infermiere, ostetrica e tecnico sanitario di radiologia medica – la cui attività era disciplinata con tale strumento regolamentare. Tale abrogazione non vuol dire che le attività contemplate nei mansionari non siano più di pertinenza di quel professionista, ma significa che per il professionista non esiste più il vincolo del mansionario, inteso soprattutto come strumento d’imposizione di limite alle sue funzioni e come espressione di una filosofia di attività professionale articolata per compiti, di carattere prevalentemente esecutivo. La negazione del concetto di ausiliarietà professionale e l’abrogazione, ove esistenti, dei regolamenti recanti un mansionario porta alla abolizione di qualsiasi rapporto di subordinazione fra professioni sanitarie ed in particolare rispetto alla professione medica. Implicitamente cade il tacito principio della vigilanza della professione medica nei confronti delle altre professioni sanitarie, una sorta di liberazione da un vincolo di subordinazione e controllo – sintetizzato nel concetto di 32 ausiliarietà e di limiti imposti dai mansionari – che permette il passaggio successivo dell’affermazione della responsabilità. 4. La legge n. 42 del 1999: il riconoscimento della responsabilità La legge n. 42 del 1999 integra i predetti provvedimenti di tipo abrogativo con indicazioni di carattere prescrittivo-positivo, che riguardano la definizione del campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie delle tre aree – infermieristica, tecnica o della riabilitazione – menzionate nel comma 3° dell’art. 6 del D.Lgs. n. 502/1992. art. 1. Definizione delle professioni sanitarie. … (omissis) … 2. … (omissis) … Il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post-base nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali. Per le citate professioni sanitarie, la legge n. 42 supera la concezione del ruolo ausiliario – appena abrogato – di tali professioni, nonché – laddove prima esistente – del mansionario; il comma 2° dell’art. 1 della legge indica, infatti, che il campo proprio di attività e di responsabilità è determinato dai contenuti: - dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali; - degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di laurea (triennale) universitaria e dei rispettivi corsi di formazione post-base; - degli specifici codici deontologici. È dunque responsabilità dei professionisti sanitari garantire competenza nello svolgimento di quanto contemplato nelle norme ora elencate, attivandosi per raggiungere tale obiettivo, senza alcun vincolo di subordinazione rispetto ad altri professionisti ed in particolare rispetto al medico. La responsabilità, nella legge n. 42, corrisponde al concetto pregnante e significativo dell’assumere una condotta congrua rispetto ai bisogni 33 dell’assistito, rispettando in particolare i contenuti del proprio profilo professionale, degli ordinamenti didattici del corso universitario e dei corsi di formazione post-base, nonché del proprio codice deontologico. La legge n. 42 opera dunque una esplicita citazione delle peculiari fonti normative della responsabilità. Una riflessione merita il fatto che l’elenco dei riferimenti ispiratori della responsabilità del professionista desumibili dalla legge n. 42 è, per certi versi, analoga a quella proposta nel paragrafo 1.2 per descrivere le basi della responsabilità in genere, ma non è sovrapponibile. Le differenze fra le due indicazioni stanno nel fatto che la legge n. 42 seleziona (e specifica) le norme che delineano il campo proprio della responsabilità di un determinato tipo di professionista, non quello generale inizialmente proposta in questa tesi nel paragrafo 1.2. In altre parole, il fatto che la legge n. 42 citi “soltanto” profili professionali, ordinamenti didattici e codici deontologici indica che tale legge entra nello specifico dettaglio, non già che intende escludere riferimenti di carattere generale, quali i presupposti scientifici delle attività e delle funzioni, i valori etici condivisi e le norme giuridiche (ancora una volta di carattere generale) non espressamente nominate. Il richiamo della legge n. n. 42 ai codici deontologici ha fatto nascere la questione se sia fatto riferimento a tutti i codici deontologici o solo quelli delle tre professioni con un collegio. Invero la legge n. 42 non opera alcuna distinzione, menzionando solo i codici deontologici, con ciò lasciando intendere che tali sono quelli così denominati a prescindere che provengano da un collegio o da una associazione di categoria professionale riconosciuta. 34 5. La legge n. 251 del 2000: l’autonomia come “completamento” della responsabilità Il principio dell’autonomia di talune professioni sanitarie professionale era affermato nella raccomandazione n. 6 della “Conferenza europea sul nursing”, tenuta dall’OMS a Vienna nel 1988: “Gli infermieri e le ostetriche, managers dell’assistenza infermieristica ed ostetrica, debbono godere di autonomia professionale”. In Italia, la legge n. 42 del 1999, con la duplice abrogazione dell’aggettivo “ausiliario” e la dichiarazione della responsabilità delle professioni sanitarie, aveva affermato, sia pure implicitamente, il principio dell’autonomia delle professioni. Infatti, affermare che nessuna professione sanitaria è ausiliaria ad un’altra professione, significa che ogni professione sanitaria è autonoma; affermare la responsabilità vuol dire che ogni professione deve garantire competenza in base a regole di condotta appropriate. Gli articoli 1, 2, 3, 4 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” dichiarano esplicitamente il principio dell’autonomia delle professioni sanitarie citate nell’art. 6, comma 3°, del D.Lgs. n. 502/1992. Nei predetti quattro articoli sono rispettivamente considerate le diverse classe di professioni; le tre classi contemplate nel D.Lgs. n. 502/1992 divengono quattro nella legge n. 251/2000: 1) professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica; 2) professioni sanitarie riabilitative; 3) professioni tecnico-sanitarie (nelle due aree tecnico-diagnostica e tecnico-assistenziale); 4) professioni tecniche della prevenzione. Per le professioni comprese in ciascuna classe si rinvia alla tabella 1.1. Il contenuto dei vari articoli non è del tutto sovrapponibile. Si riporta per brevità il testo del solo comma 1° di ciascun articolo. Art. 1. Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica. 35 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza. … (omissis) … Art. 2. Professioni sanitarie riabilitative. 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area della riabilitazione svolgono con titolarità e autonomia professionale, nei confronti dei singoli individui e della collettività, attività dirette alla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e a procedure di valutazione funzionale, al fine di espletare le competenze proprie previste dai relativi profili professionali. … (omissis) … Art. 3. Professioni tecnico-sanitarie. 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area tecnico-diagnostica e dell’area tecnico-assistenziale svolgono, con autonomia professionale, le procedure tecniche necessarie alla esecuzione di metodiche diagnostiche su materiali biologici o sulla persona, ovvero attività tecnico-assistenziale, in attuazione di quanto previsto nei regolamenti concernenti l’individuazione delle figure e dei relativi profili professionali definiti con decreto del Ministro della sanità. … (omissis) … Art. 4. Professioni tecniche della prevenzione. 1. Gli operatori delle professioni tecniche della prevenzione svolgono con autonomia tecnico-professionale attività di prevenzione, verifica e controllo in materia di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di lavoro, di igiene degli alimenti e delle bevande, di igiene e sanità pubblica e veterinaria. Tali attività devono comunque svolgersi nell’ambito della responsabilità derivante dai profili professionali. … (omissis) … Come riferito, il contenuto dei vari articoli non è del tutto sovrapponibile. Conviene soffermarsi dapprima sull’art. 1. Sono abbastanza evidenti analogie con il disposto della seconda parte del comma 2° dell’art. 1 della legge n. 42, come risulta dallo schema riportato in tabella 2.3 ove i simboli uguali nelle due colonne esprimono il contenuto analogo delle due norme circa la corrispondenza dei riferimenti ai profili professionali ed ai codici deontologici ed i simboli che figurano solo nell’una o nell’altra indicano due aspetti: uno incidentale ed uno di rilievo ai fini della discussione. Il simbolo † nella colonna della legge n. 42 evidenzia il mancato richiamo agli ordinamenti didattici nel contesto del disposto della legge n. 251, richiamo da ritenere del tutto pacifico e quindi sottinteso. Il simbolo ≠ nella colonna della legge n. 251 caratterizza il contenuto innovativo della legge stessa, laddove finisce per l’identificare la autonomia professionale con l’unico elemento che di fatto differenzia i presupposti della responsabilità rispetto a quelli dell’autonomia, vale a dire le metodologie (“di pianificazione per obiettivi dell’assistenza”). Non interessa qui di quali 36 metodologie si tratti, ma rileva che il concetto di autonomia sia riconducibile a quello di metodologia, o per essere un po’ più precisi, a quello di metodo. Il che è del tutto coerente con il significato sia di autonomia, sia di metodo. A riprova, occorre considerare quanto segue. Da un lato, autonomia, derivando dal greco antico αυτός νόμος, equivale a competenza nell’operare secondo le regole proprie della professione. Dall’altro, del metodo può essere ricordato l’approccio cartesiano. Nel suo Regulae ad directionem ingenii, Renè Descartes così si esprime: “Per metodo … intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente non si darà mai per vero ciò che è falso, e, senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, si perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui si sarà capaci.” L’elemento unificante è rappresentato dalle regole, in quanto costitutive dell’autonomia e del metodo. È dunque coerente che la legge n. 251, nel suo art. 1, identifichi l’autonomia professionale con un metodo professionale. In definitiva, la formulazione dell’art. 1 della legge n. 251 è di grande pregio, perché identifica una definizione di autonomia, di carattere positivo, centrata sulle caratteristiche proprie della professione, a prescindere dall’enfatizzare l’assenza di vincoli di subordinazione rispetto ad altre professioni, posto che le regole professionali non sono certo in contrasto con metodi di lavoro basati su partecipazione, condivisione e integrazione fra professionisti. È impensabile un concetto di autonomia basato sulla negazione proprio della interdipendenza professionale, interdipendenza che caratterizza oggi l’organizzazione sanitaria nella cura della persona. Autonomia corrisponde piuttosto al concetto di competenza nella realizzazione delle specifiche funzioni nell’integrazione con altri professionisti. 37 Tabella 2.3 – Confronto fra legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” e legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” Legge 26 febbraio 1999, n. 42 Legge 10 agosto 2000, n. 251 art. 1. … 2. … Il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui … è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei ► relativi profili professionali e degli † ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post-base nonché degli specifici ► codici deontologici, … art. 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area … svolgono con autonomia professionale … espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei ►relativi profili professionali nonché dagli ► specifici codici deontologici ed utilizzando ≠ metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza. Tuttavia, come anticipato, il contenuto dei successivi articoli 2, 3, 4 non è reciprocamente del tutto sovrapponibile. Le previsioni testuali in punto di autonomia delle professioni delle rimanenti tre aree non riprendono il concetto di metodo. Si parla, infatti, rispettivamente, per i professionisti dell’area della riabilitazione (art. 2), di autonomia, relativamente alle “competenze proprie previste dai relativi profili professionali”; per i professionisti dell’area tecnico-diagnostica e dell’area tecnico-assistenziale (art. 3) di “procedure tecniche necessarie alla esecuzione di metodiche diagnostiche su materiali biologici o sulla persona, ovvero attività tecnicoassistenziale, in attuazione di quanto previsto nei regolamenti concernenti l’individuazione delle figure e dei relativi profili professionali definiti con decreto del Ministro della sanità”; per i professionisti dell’area tecnica della prevenzione (art. 4) di “attività … nell’ambito della responsabilità derivante dai profili professionali”. In nessun articolo, comunque, il tema dell’autonomia professionale è tratteggiato con la medesima impostazione adottata per l’art. 1. Tuttavia, la ovvia necessità di leggere la norma complessiva con una chiave di lettura unitaria e la citazione, negli altri articoli, di alcuni termini quali “competenze”, “metodiche”, “responsabilità” induce a ritenere applicabile 38 anche ad altre aree di professionisti sanitari le considerazioni sviluppate in relazione all’art. 1. Questa interpretazione complessiva della dichiarazione formale dell’autonomia delle professioni sanitarie effettuato dalla legge n. 251 porta, per tutte le professioni, ad una definizione di valore positivo, basata sul metodo proprio (nonché su specifici contenuti e obiettivi) della professione, formulata senza richiamare la mancanza di vincoli rispetto ad altre professioni. Nelle relazioni con la professione medica, in particolare, si può avere – secondo le professioni – un’autonomia su prescrizione medica e/o un’autonomia su iniziativa personale; come indicato, questa duplice possibilità non è di tutte le professioni: in particolare, il profilo di alcune professioni fa dipendere la maggior parte delle rispettive attività da una prescrizione (o da una indicazione o da una valutazione) del medico-chirurgo (o di altro professionista sanitario: per esempio, odontoiatra), mentre il profilo di altre professioni, come nel caso dell’ostetrica/o e del tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, non cita mai la preventiva prescrizione medica. In ogni caso, il concetto di autonomia va inteso in sintonia con l’obiettivo fondamentale dell’esercizio professionale che è quello della tutela della persona sotto il profilo sanitario e sociale, obiettivo realizzabile solo con l’intervento coordinato ed integrato di svariate figure professionali. L’interpretazione unitaria basata sul riconoscimento del metodo proprio chiarisce inoltre un aspetto dei profili professionali approvati con decreti ministeriali. La produzione normativa ministeriale dei predetti profili professionali, infatti, nella descrizione delle funzioni professionali faceva (e fa) solo qualche sporadico riferimento, e solo nei profili di alcuni professionisti, all’autonomia del professionista. La legge n. 251 chiarisce che le funzioni enunciate nei decreti ministeriali recanti i profili professionali 39 sono tutte da intendere svolte in autonomia, anche se nel profilo stesso il termine non compare. Si rinvia alla tabella 2.4 per una visione di insieme, che permetta di considerare i contenuti dei vari profili professionali in relazione alla autonomia riconosciuta dalla legge n. 251. Tabella 2.4 – L’autonomia nei profili dei singoli professionisti sanitari Professione Decreto ministeriale di approvazione del profilo professionale Infermiere d.m. 14 settembre 1994, n. 739 Ostetrica/o d.m. 14 settembre 1994, n. 740 Fisioterapista d.m. 14 settembre 1994, n. 741 Logopedista d.m. 14 settembre 1994, n. 742 Passi che citano l’autonomia o indicano i rapporti con la prescrizione medica Art. 1. – 1. È individuata la figura professionale dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. … 3 - L’infermiere: … d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico terapeutiche; … Art. 1. 5. L'ostetrica/o è in grado di individuare situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico e di praticare, ove occorra, le relative misure di particolare emergenza. Art. 1. – 1. È individuata la figura del fisioterapista con il seguente profilo: il fisioterapista è l’operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, che svolge in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali superiori, e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia, congenita od acquisita. 2. In riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell’ambito delle proprie competenze, il fisioterapista: … Art. 1. – 3. In riferimento alla diagnosi ed alla prescrizione del medico, 40 Indicazione esplicita della autonomia Indicazione esplicita della prescrizione No Sì: “garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico – terapeutiche…” No Sì: “… situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico …” Sì: “in via autonoma, o in collaborazione …” Sì: “In riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico” Sì: “pratica autonomament e …” Sì: “In riferimento alla diagnosi ed Ortottistaassistente di oftalmologia d.m. 14 settembre 1994, n. 743 Dietista d.m. 14 settembre 1994, n. 744 Tecnico sanitario di laboratorio biomedico d.m. 14 settembre 1994, n. 745 Tecnico sanitario di radiologia medica d.m. 14 settembre 1994, n. 746 nell'ambito delle proprie competenze, il logopedista: … b) pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità comunicative e cognitive, utilizzando terapie logopediche di abilitazione e riabilitazione della comunicazione e del linguaggio, verbali e non verbali; … Art. 1. – 1. È individuata la figura professionale dell’ortottista-assistente di oftalmologia con il seguente profilo: l’ortottista-assistente di oftalmologia è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e su prescrizione del medico, tratta i disturbi motori e sensoriali della visione ed effettua le tecniche di semeiologia strumentale-oftalmologica. Art. 1. – 2. Gli specifici atti di competenza del dietista sono: … c) elabora, formula ed attua le diete prescritte dal medico e ne controlla l’accettabilità da parte del paziente; Art. 1. – 2. Il tecnico sanitario di laboratorio biomedico: a) svolge con autonomia tecnico professionale la propria prestazione lavorativa in diretta collaborazione con il personale laureato di laboratorio preposto alle diverse responsabilità operative di appartenenza; … Art. 1. – 2. Il tecnico sanitario di radiologia medica è l’operatore sanitario abilitato a svolgere, in conformità a quanto disposto dalla legge 31 gennaio 1983, n. 25, in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie, su prescrizione medica tutti gli interventi che richiedono l’uso di sorgenti di radiazioni ionizzanti, sia artificiali che naturali, di energie termiche, ultrasoniche, di risonanza magnetica nucleare nonché gli interventi per la protezionistica fisica o dosimetrica. … 41 alle prescrizioni del medico …” No Sì: “su prescrizione del medico …” No Sì: “diete prescritte dal medico …” Sì: “autonomia tecnico professionale …” Sì: “in diretta collaborazione con il personale laureato di laboratorio …” Sì: “in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie…” Sì: “su prescrizione medica …” Tecnico ortopedico d.m. 14 settembre 1994, n. 665 Podologo d.m. 14 settembre 1994, n. 666 Tecnico audiometrista d.m. 14 settembre 1994, n. 667 Tecnico audioprotesista d.m. 14 settembre 1994, n. 668 Tecnico di neurofisiopatologia d.m. 15 marzo 1995, n. 183 Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva d.m. 17 gennaio 1997, n. 56. Tecnico della d.m. 29 marzo Art. 1. – 1. È individuata la figura professionale del tecnico ortopedico con il seguente profilo: il tecnico ortopedico è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, su prescrizione medica e successivo collaudo, opera la costruzione e/o adattamento, applicazione e fornitura di protesi, ortesi e di ausili sostitutivi, … Art. 1. – 2. Il podologo, su prescrizione medica, previene e svolge la medicazione delle ulcerazioni delle verruche del piede e comunque assiste, anche ai fini dell’educazione sanitaria, i soggetti portatori di malattie a rischio. Art. 1. – 3. Il tecnico audiometrista: a) opera, su prescrizione del medico, mediante atti professionali che implicano la piena responsabilità e la conseguente autonomia; Art. 1. – 2. Il tecnico audioprotesista opera su prescrizione del medico mediante atti professionali che implicano la piena responsabilità e la conseguente autonomia. Art. 1. – 1. È individuata la figura del tecnico di neurofisiopatologia con il seguente profilo: il tecnico di neurofisiopatologia è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge la propria attività nell’ambito della diagnosi delle patologie del sistema nervoso, applicando direttamente, su prescrizione medica, le metodiche diagnostiche specifiche in campo neurologico e neurochirurgico (elettroencefalografia, elettroneuromiografia poligrafia, potenziali evocati, ultrasuoni). Art. 1. – 2. Il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, in riferimento alle diagnosi e alle prescrizioni mediche, nell’ambito delle specifiche competenze: … No Sì: “su prescrizione medica” No Sì: “su prescrizione medica …” Sì: “la conseguente autonomia …” Sì: “su prescrizione del medico ..” Sì: “la conseguente autonomia …” Sì: “su prescrizione del medico ..” No Sì: “su prescrizione medica” No Sì: “In riferimento alle diagnosi ed alle prescrizioni mediche …” Art. 2. – 1. È individuata la No No : “nell’ambito 42 riabilitazione psichiatrica 2001, n. 182 Tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro d.m. 17 gennaio 1997, n. 58 Assistente sanitario d.m. 17 gennaio 1997, n. 69 Infermiere pediatrico d.m. 17 gennaio 1997, n. 70 Terapista occupazionale d.m. 17 gennaio 1997, n. 136 Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatori a e perfusione cardiovascolare d.m. 27 luglio 1998, n. 316 figura professionale del tecnico della riabilitazione psichiatrica con il seguente profilo: il tecnico della riabilitazione psichiatrica è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare, interventi riabilitativi ed educativi sui soggetti con disabilità psichica. Art. 1. – 4. Il tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro svolge con autonomia tecnico professionale le proprie attività e collabora con altre figure professionali all'attività di programmazione e di organizzazione del lavoro della struttura in cui opera. Art. 1. – . 3. L'assistente sanitario: … f) attua interventi specifici di sostegno alla famiglia, attiva risorse di rete anche in collaborazione con i medici di medicina generale ed altri operatori sul territorio e partecipa ai programmi di terapia per la famiglia; … p) svolge le proprie funzioni con autonomia professionale anche mediante l'uso di tecniche e strumenti specifici; … Art. 1. – 3. L’infermiere pediatrico: … e) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnosticoterapeutiche; Art. 1. – 2. Il terapista occupazionale, in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell’ambito delle proprie competenze ed in collaborazione con altre figure socio-sanitarie: … Art. 1. – 2. Le mansioni del tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare sono esclusivamente di natura tecnica; egli coadiuva il personale medico negli ambienti idonei fornendo indicazioni essenziali o conducendo, sempre sotto indicazione medica, apparecchiature 43 di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare” Sì: “autonomia tecnico professionale …” No Sì: autonomia professionale Sì: collaborazione con i medici di medicina generale No Sì: “garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnosticoterapeutiche” Sì: “in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico …” No No Sì: “sempre sotto indicazione medica …” Educatore professionale d.m. 8 ottobre 1998, n. 520 Igienista dentale d.m. 15 marzo 1999, n. 137 finalizzate alla diagnostica emodinamica o vicariati le funzioni cardiocircolatorie. Art. 1. – 1. È individuata la figura professionale dell’educatore professionale, con il seguente profilo: l’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’èquipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico-sociale dei soggetti in difficoltà. Art. 1. – 1. È individuata la figura professionale dell’igienista dentale con il seguente profilo: l’igienista dentale è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge compiti relativi alla prevenzione delle affezioni orodentali su indicazione degli odontoiatri e dei medici chirurghi legittimati all’esercizio della odontoiatria. 3. L'igienista dentale svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie, pubbliche o private, in regime di dipendenza o liberoprofessionale, su indicazione degli odontoiatri e dei medici chirurghi legittimati all'esercizio della odontoiatria. 44 No No: “nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’èquipe multidisciplinare …” No Sì - due volte: “su indicazione degli odontoiatri e dei medici chirurghi legittimati all’esercizio della odontoiatria…” 6. Altre fonti normative in tema di responsabilità Si è precedentemente enfatizzato il valore della legge n. 42 del 1999 in punto di affermazione della responsabilità dei professionisti sanitari. Questo richiamo alla responsabilità operato dalla legge 42 non può considerarsi come un’indicazione normativa affatto nuova per il professionista sanitario in genere e per l’infermiere in particolare. Il concetto di responsabilità, con riferimento al solo all’infermiere, era infatti già comparso in un paio di norme dello Stato. Il concetto di responsabilità figurava nel D.P.R. 7 settembre 1984, n. 821 “Attribuzioni del personale non medico addetto ai presidi, servizi e uffici delle unità sanitarie locali”. Il capo VIII di tale D.P.R., relativo al “Personale infermieristico: operatore professionale di I categoria” riportava nell’art. 20 che “l’operatore professionale coordinatore … ha la responsabilità professionale dei propri compiti limitatamente alle prestazioni e alle funzioni che per la normativa vigente è tenuto ad attuare”; nell’art. 21 che “l’operatore professionale collaboratore … ha la responsabilità professionale dei propri compiti limitatamente alle prestazioni e alle funzioni che per la normativa vigente è tenuto ad attuare”; nell’art. 22 che “l’operatore professionale di II categoria … ha la responsabilità professionale dei propri compiti limitatamente alle prestazioni o funzioni che per la normativa vigente è tenuto ad attuare.” La seconda fonte normativa pertinente è il D.P.R. 13 marzo 1992 “Atto di indirizzo e di coordinamento alle Regioni ... in materia di emergenza sanitaria”, che, all'art. 4 (“Competenze e responsabilità nelle centrali operative”), secondo comma, prevede che “la responsabilità operativa è affidata a personale infermieristico professionale.” Pur se limitata alla dimensione operativa, compare esplicitamente la parola “responsabilità” in rapporto alla professione infermieristica. 45 7. Le direttive europee come fattore di confusione Il sistema organico delle responsabilità dei professionisti sanitari fin ora tratteggiato ha un aspetto problematico di carattere normativo che riguarda una sola professione. La questione è la seguente. La direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, concernente il riconoscimento reciproco di diplomi, certificati ed altri titoli di vari professionisti della salute, è stata recepita nel nostro ordinamento con D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 206 “Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali …”. Il D.Lgs. 206 considera varie professioni sanitarie senza provocare alcun problema. La sezione VI del capo IV del titolo III è dedicata alla “ostetrica”. L’art. 48 è di peculiare interesse Art. 48. Esercizio delle attività professionali di ostetrica. … (omissis) … 2. Le ostetriche sono autorizzate all’esercizio delle seguenti attività: a) fornire una buona informazione e dare consigli per quanto concerne i problemi della pianificazione familiare; b) accertare la gravidanza e in seguito sorvegliare la gravidanza diagnosticata come normale da un soggetto abilitato alla professione medica, effettuare gli esami necessari al controllo dell’evoluzione della gravidanza normale; c) prescrivere gli esami necessari per la diagnosi quanto più precoce di gravidanze a rischio; d) predisporre programmi di preparazione dei futuri genitori ai loro compiti, assicurare la preparazione completa al parto e fornire consigli in materia di igiene e di alimentazione; e) assistere la partoriente durante il travaglio e sorvegliare lo stato del feto nell’utero con i mezzi clinici e tecnici appropriati; f) praticare il parto normale, quando si tratti di presentazione del vertex, compresa, se necessario, l’episiotomia e, in caso di urgenza, praticare il parto nel caso di una presentazione podalica; g) individuare nella madre o nel bambino i segni di anomalie che richiedono l’intervento di un medico e assistere quest’ultimo in caso d’intervento; prenderei provvedimenti d’urgenza che si impongono in assenza del medico e, in particolare, l’estrazione manuale della placenta seguita eventualmente dalla revisione uterina manuale; h) esaminare il neonato e averne cura; prendere ogni iniziativa che s’imponga in caso di necessità e, eventualmente, praticare la rianimazione immediata; i) assistere la partoriente, sorvegliare il puerperio e dare alla madre tutti i consigliutili affinché possa allevare il neonato nel modo migliore; l) praticare le cure prescritte da un medico; m) redigere i necessari rapporti scritti. Meritano attenzione i punti b) e g), per i seguenti motivi. In base alla lettera b), la funzione di sorvegliare la gravidanza è subordinata all’accertamento di normalità della stessa da parte di un medico; tale prescrizione non è in sintonia con alcun disposto del D.M. n. 740 ed altera il 46 profilo di responsabilità che scaturisce dalla legge 26 febbraio 1999, n. 42, “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”. In base alla lettera g), l’ostetrica sembra perdere la competenza di valutare situazioni potenzialmente patologiche che il D.M. n. 740 le attribuisce, per ridursi ad individuare generiche anomalie; inoltre è tenuta a prestare assistenza al medico stesso in caso di intervento: l’espressione “assistere il medico” è equivoca e può suggerire una attività ausiliaria negata legge 26 febbraio 1999, n. 42. Offrono invece chiavi di interpretazione che ampliano le abituali funzioni dell’ostetrica (e la corrente interpretazione del D.M. n. 740) le seguenti lettere dell’art. 48: - c) perché contempla la prescrizione da parte dell’ostetrica degli esami necessari per la diagnosi quanto più precoce di gravidanze a rischio; - e) perché prevede la sorveglianza da parte dell’ostetrica dello stato del feto nell’utero con i mezzi, sia clinici sia tecnici, appropriati; - f) perché dà la facoltà all’ostetrica di eseguire, se necessario, l’episiotomia senza citare alcuna prescrizione medica. 47 CAPITOLO 3 RESPONSABILITÀ E CODICI DEONTOLOGICI 1. Codificazione deontologica recente e riconoscimento nella produzione legislativa coeva Negli ultimi anni del secolo scorso è iniziato nel nostro Paese un processo diffuso, per cui, per alcune professioni sanitarie, sono stati creati e, per alcune altre, sono stati riformulati codici di deontologia. Il dettaglio è desumibile dalla tabella 3.1. Questo processo innovativo è espressione della volontà, maturata nell'ambito delle professioni sanitarie, di disciplinare specificamente ciascuna attività professionale. In questa rinnovata produzione deontologica in ambito sanitario, è dato rilievo alla responsabilità del professionista, cui è attribuito un significato corrispondente non tanto all'indicazione di ottemperare ad una serie di doveri ed alla minaccia di sanzioni in caso di mancato rispetto degli stessi, quanto piuttosto al senso di solidarietà del professionista verso la persona assistita e alla volontà del medesimo di realizzare come impegno personale la condotta consona. Il professionista sanitario aderisce dunque ai precetti del proprio codice deontologico non per dovere, ma per scelta, perché guidato dal suo senso di responsabilità. I rapporti fra leggi dello Stato e produzione deontologica professionale sono stati e sono oggetto di riflessione. In Italia le leggi hanno tradizionalmente ignorato la codificazione deontologica. È dunque di particolare interesse il fatto che, sempre negli ultimi anni del secolo scorso, le leggi italiane hanno iniziato a considerare i codici deontologici delle professioni sanitarie. Quando la legge riconosce il valore del codice deontologico professionale, individua il fondamentale motivo che giustifica, anzi che rende necessaria, l’esistenza di tale codice, pur in presenza di leggi dello Stato che disciplinano l’esercizio della professione. Questo motivo può essere così sinteticamente espresso: non sempre la legge riesce a identificare nel 48 dettaglio e con la necessaria tempestività le situazioni problematiche dell’esercizio professionale, prevedendole in tutti gli aspetti diversificati in cui si possono presentare in pratica, riferendoli alle varie funzioni e alle varie attività, nonché a disciplinarli in modo da consentire soluzioni realizzabili, con competenza professionale e nel rispetto della persona. Vi sono tuttavia aspetti problematici: da un lato, vi è la possibilità che la deontologia, dato che il suo ruolo è individuato proprio dalla legge, si appiattisca sulle norme di legge, ripetendone i principi e applicandoli alle specifiche contingenze, finendo così col perdere la capacità di analizzare i problemi dal peculiare punto di vista connesso alla valutazione critica dell’esercizio professionale e all’analisi dei bisogni della persona che si assiste; dall’altro lato, può accadere che, la codificazione deontologia, forte della propria autonomia in materia di regole professionali, finisca con il produrre una disciplina che si discosta, per alcuni aspetti, dalle norme di legge generando i presupposti di conflitti di ardua soluzione. Dati questi problemi, occorre convenire sul seguente principio: da un lato, le peculiari regole professionali vanno governate alla luce delle norme di legge, senza che la deontologia professionale codificata divenga una sorta di regolamento di applicazione della norma di legge; dall’altro lato, è opportuno che la deontologia si ispiri a principi che impongono al professionista sanitario un comportamento nei confronti dell’assistito particolarmente solidale, più di quanto cioè prevedano le stesse leggi dello Stato. I codici deontologici sono menzionati per la prima volta dagli articoli 22 e 31 della legge 31 dicembre 1996, n. 675 sulla tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali, nonché dall’art. 17 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 135, che reca disposizioni integrative della predetta legge n. 675, ora sostituiti dall’art. 12 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 con cui è stato approvato il codice in materia di protezione dei dati personali. I predetti articoli contemplano per il Garante il compito di promuovere, nell’ambito delle categorie interessate, la 49 sottoscrizione di codici di deontologia, puntualizzando che fra queste categorie vi sono le professioni sanitarie e che questi codici riguardano, tra l’altro, modalità e caratteristiche del trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale della persona. Sempre promulgate nell’ultimo scorcio del secolo scorso, sono altre due leggi che considerano i codici di deontologia delle professioni sanitarie; si tratta della legge 26 febbraio 1999, n. 42, che riporta disposizioni in materia di professioni sanitarie, infermieristiche, tecniche e della riabilitazione, e la legge 10 agosto 2000, n. 251, che reca una ulteriore disciplina delle medesime professioni sanitarie. In particolare, l’art. 1 della legge 42 del 1999 prescrive che «il campo proprio di attività e di responsabilità» delle predette professioni sanitarie è determinato da varie fonti, fra le quali vi sono gli specifici codici deontologici. È di grande rilievo il fatto che, pur stante il carattere vincolante delle regole di tali codici deontologici, la legge 42 non dia alcuna disposizione circa le procedure di elaborazione, l’ambito di riferimento e i contenuti degli stessi. Da questo silenzio della legge discende che ciascuna professione è libera di stendere ed approvare il proprio codice deontologico secondo le regole che informano l’esercizio della professione stessa. Non è neppure previsto l’ente chiamato ad emanare il codice deontologico di una determinata professione. Ciò rileva perché non tutte le professioni sanitarie dispongono di un proprio collegio, in attesa che abbia attuazione la ormai datatissima delega che la legge 1° febbraio 2006, n. 43 ha conferito al Governo per l’istituzione di ordini professionali per le «professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnicosanitarie e della prevenzione». La legge 42 si riferisce pertanto a tutti i codici deontologici delle professioni sanitarie, siano approvati da collegi professionali o, in loro mancanza, da associazioni o società professionali. Il panorama italiano dei codici deontologici delle professioni sanitarie e dell’ente che li ha emanati è desumibile dalla Tabella 3.1. Si ricorda che se le professioni sanitarie di 50 interesse sono 22, vi è un codice unico per due professioni sanitarie, quella di infermiere e quella di infermiere pediatrico. Tabella 3.1 – Codici deontologici delle professioni sanitarie Codice e professione Collegio / Associazione Codice deontologico -- codice etico dell’’assistente sanitario Consiglio Direttivo Nazionale AsNAS, Associazione Nazionale Assistenti Sanitari Assemblea nazionale soci ANDID, Associazione Nazionale Dietisti Consiglio direttivo nazionale ANEP, Associazione Nazionale Educatori Professionali Direttivo nazionale AITR, ora AIFI, Associazione Italiana Fisioterapisti AIDI, Associazione Igienisti Dentali Italiani Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI Codice deontologico del dietista Codice deontologico degli educatori professionali Codice deontologico dei fisioterapisti Codice deontologico degli igienisti dentali Codice deontologico dell’infermiere Codice deontologico del logopedista Codice deontologico degli ortottisti - assistenti in oftalmologia Codice deontologico dell’ostetrica/o Codice deontologico ed etico dei podologi Codice deontologico dell’audiometrista [tecnico audiometrista] Codice deontologico del tecnico audioprotesista Codice deontologico del tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare Codice deontologico del tecnico di neurofisiopatologia Codice deontologico dei tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro Codice deontologico del tecnico Anno di promulgazione o di modifica della versione vigente 2003 Precedenti versioni 2012 1995 2003 2009 2002 2011 2004 2009 FLI, Federazione Logopedisti Italiani Assemblea nazionale soci AIOrAO, Associazione Italiana Ortottisti Assistenti di Oftalmologia Federazione nazionale collegi ostetriche Associazione Italiana Podologi 1999 AITA, Associazione Italiana Tecnici Audiometristi 2001 ANAP, Associazione Nazionale Audioprotesisti Professionali Consiglio Direttivo ANPEC, Associazione Nazionale Perfusionisti in Cardioangiochirurgia Assemblea nazionale soci AITN, Associazione Italiana Tecnici di Neurofisiopatologia UNPISI, Unione Nazionale Personale Ispettivo Sanitario d’Italia 2001 Consiglio Direttivo 2004 51 1995 1998 1960 1975 1999 2007 1999 2010 1998 2006 1978 1989 1997 2000 2007 2005 2000 2006 1968 1974 1996 ortopedico Codice deontologico del tecnico sanitario di laboratorio biomedico Codice deontologico del tecnico sanitario di radiologia medica Codice deontologico del tecnico della riabilitazione psichiatrica Codice deontologico dei terapisti occupazionali Codice deontologico dello psicomotricista [terapistia della neuropsicomotricità dell’età evolutiva] Nazionale ANTOI, Associazione Albo Nazionale Tecnici Ortopedici Italiani. ANTeL, Associazione Italiana Tecnici Sanitari di Laboratorio Biomedico Federazione Nazionale Collegi Tecnici Sanitari di Radiologia Medica Consiglio Direttivo Nazionale AITeRP, Associazione Italiana Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica Consiglio Nazionale AITO, Associazione Italiana Terapisti Occupazionali ANUPI, Associazione Nazionale Unitaria Italiana Psicomotricisti Terapisti della Neuropsicomotricità dell’Età Evolutiva 2009 2001 2004 1993 2009 2008 2012 1995 2001 La legge 251 del 2000 conferma il significato dei codici deontologici, ma non li considera espressamente per tutte le professioni sanitarie delle varie aree. Le caratteristiche delle attività di ciascuna delle quattro aree professionali sono descritte nei commi 1, rispettivamente, degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 251. Il comma 1 è strutturato in forma simile in ciascuno dei quattro articoli citati, ma non è rispettivamente sovrapponibile. Tutti richiamano, sia pure con un lessico di volta in volta leggermente differenziato il rispetto di quanto contemplato nei regolamenti concernenti l’individuazione dei relativi profili professionali, ma non tutti indicano che anche gli specifici codici deontologici sono alla base dell’espletamento delle funzioni proprie. Solo il comma 1 dell’art. 1 prevede, infatti, che infermieri ed ostetriche compiano le funzioni come individuate non solo dai relativi profili professionali, ma anche dagli specifici codici deontologici. Di conseguenza, i professionisti sanitari di cui agli articoli 2, 3 e 4 (area della riabilitazione, area tecnico-sanitaria e area tecnica della prevenzione) espleterebbero le loro funzioni a prescindere dai contenuti dei rispettivi codici deontologici. Una siffatta deduzione non è accettabile: l’omissione, pur reiterata, della legge 251 non priva di valore il disposto della 52 legge 42, che stabilisce che il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie è determinato anche dagli specifici codici deontologici. È oscura la ragione per cui un’indicazione circa i codici deontologici analoga a quella dell’art. 1 non figuri anche negli articoli 2, 3 e 4 della legge 251. Se ciò è stato fatto perché ritenuta superflua, allora avrebbe dovuto essere omessa anche nell’art. 1. Se ciò è stato fatto perché, delle professioni disciplinate dalla legge 251, solo infermieri e ostetriche dispongono di un codice deontologico approvato dalle federazioni nazionali dei rispettivi collegi professionali, allora si tratta di un presupposto errato, perché anche i tecnici sanitari di radiologia medica – considerati nel contesto dell’art. 3 –hanno un codice deontologico elaborato dal loro collegio professionale. 2. Codici deontologici e colpa professionale specifica Nonostante le ambiguità – più formali che sostanziali –, il riconoscimento dei codici deontologici operato dalle leggi dello Stato, conferisce ai codici stessi un valore anche giuridico. Si tratta di un riconoscimento profondamente innovativo, che costituisce una sorta di fase di passaggio nel rapporto fra diritto positivo e codificazione deontologica dei collegi e delle associazioni professionali. È tuttavia da tenere presente che, prima delle commentate tre leggi approvate a partire dal 1996, i codici deontologici erano comunque implicitamente già considerati, dal nostro ordinamento giuridico, un riferimento obbligato, in relazione al disposto dell’art. 43 del codice penale, in tema di individuazione della responsabilità per colpa in genere e quindi anche di quella del professionista sanitario, nel caso in cui la sua condotta determini un evento di danno a carico dell’assistito. Art. 43. Elemento psicologico del reato. – Il delitto: – è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; – è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; 53 – è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico. In base all’art. 43 del codice penale, il delitto colposo si configura quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si determina o a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (la colpa generica individuata dalla dottrina) ovvero – e questa è la parte d’interesse – per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica). È facile notare che l’inosservanza della norma deontologica integra la previsione della colpa specifica; di conseguenza, è possibile indicare che il nostro ordinamento ha di fatto considerato, sia pur non esplicitamente, sia pure con riferimento ad un ambito ben delimitato, il valore giuridico dei disposti dei codici deontologici ancor prima delle citate leggi approvate nel periodo 19962000. Infatti la violazione di una norma del codice deontologico può essere valutata come inosservanza di regolamento o disciplina. Se tale violazione è intesa come inosservanza di regolamento, occorre ampliare il senso del sostantivo “regolamento”, estendendolo fino a comprendere anche il regolamento interno; il codice di deontologia può essere considerato tale, perché emanato dal collegio professionale nei confronti degli iscritti all’Albo. Se la violazione del codice deontologico è intesa come inosservanza di disciplina, il ragionamento è ancor più semplice, perché la codificazione deontologica ha la natura di regola specificamente dettata per disciplinare una determinata attività professionale in base a valori etici, a tutela del cittadino e a garanzia del corretto esercizio di quella attività. Tale codificazione è dunque da considerare quale disciplina formalmente standardizzata, elaborata da organismo competente e la sua violazione integra inosservanza di disciplina, requisito della colpa specifica, indicato dall’art. 43 del codice penale. È da ribadire che l’inosservanza della disciplina dettata dal codice deontologico assume rilievo, in ambito giuridico ai sensi dell’art. 43 del codice penale, solo a condizione che abbia prodotto le conseguenze indispensabili ai fini della 54 configurazione di un qualche delitto: che cioè la condotta del soggetto agente in violazione del codice deontologico abbia causato un evento, quale la morte o l’insorgenza o la maggior durata di una malattia, la cui verificazione corrisponde ai delitti di omicidio colposo o, rispettivamente, di lesione personale colposa. 3. La responsabilità nei codici deontologici: aspetti generali I vari codici deontologici delle professioni sanitarie prendono in considerazione il tema della responsabilità in modo estremamente diversificato, talché una analisi dei contenuti è particolarmente complessa. La diversità fondamentale è data dal fatto che un medesimo concetto può essere trattato con l’indicazione dell’attività doverosa oppure premettendo espressamente alla indicazione della attività il principio per cui il professionista è “responsabile” di quella attività. Altri codici intitolano intere sezioni al concetto di responsabilità, riferendolo ad ambiti diversificati, e collocando le varie attività all’interno di queste sezioni, attribuendo così l’attività alla responsabilità. In tal senso i codici sono difficilmente confrontabili. Ferme restando queste difficoltà, e fermo restando che è comunque responsabilità del professionista l’attività di sua pertinenza, si è voluto comunque analizzare quale rilievo è dato alla responsabilità, intesa come termine esplicitamente considerato, nei vari codici deontologici. In tabella 3.2 sono riportati i passi dei 21 codici deontologici esistenti che riportano espressamente il sostantivo “responsabilità” o l’aggettivo “responsabile” o l’avverbio “responsabilmente” da esso derivati, i passi cioè in cui è chiaramente dichiarata la responsabilità del professionista nelle attività che è chiamato a svolgere. 55 Tabella 3.2 – Codici deontologici delle professioni sanitarie e responsabilità Codice deontologico [eventuali note] Assistente sanitario Articoli e testo in materia di responsabilità Art.1.OGGETTO E CAMPO DI APPLICAZIONE 1. Il presente Codice DeontologicoCodice Etico (di seguito C.D.-C.E.) individua impegni, doveri e responsabilità nell’esercizio della pratica professionale dell’Assistente Sanitario (di seguito A.S.), allo scopo di assicurare il corretto esercizio della professione, il decoro ed il prestigio della professione. Art.5.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE Art.6. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA PERSONA Art.8. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELLA COLLETTIVITÀ Art.9. RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DELL’ORGANIZZAZIONE DI APPARTENENZA Dietista Premessa … Le regole del presente codice sono vincolanti per tutti i dietisti. La mancata conoscenza delle norme del presente codice non esime dalla responsabilità disciplinare. CAPO I. Responsabilità professionale CAPO II. Responsabilità verso la società CAPO III. Responsabilità verso l’utente/cliente CAPO IV. Responsabilità verso gli altri operatori CAPO V. Responsabilità verso i colleghi Capo VI. Responsabilità disciplinare e sanzioni 1. La responsabilità disciplinare dei soci discende dall’inosservanza degli impegni assunti nei confronti dell’Associazione e dei principi del Codice Etico, con volontarietà della condotta, anche se omissiva. Educatore [I] 1. Nel presente Codice Deontologico (di seguito C.D.), partendo da principi etici e valori professionale che sono implicati nella relazione educativa, s'individuano responsabilità, doveri e impegni, applicabili nell'esercizio della professione d'Educatore Professionale (di seguito E.P.), [Il codice indipendentemente dalla situazione di lavoro, dall'utenza di riferimento, dall'organizzazione deontologico è dei servizi in cui si opera. suddiviso in otto [II] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE sezioni non L'Educatore Professionale, … 4. deve essere consapevole della portata della propria funzione numerate; all’interno così come del potere di cui è investito e deve saperli assumere con piena responsabilità. di esso le varie frasi [III] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELL'UTENTE sono talora precedute · l’educatore professionale … s'impegna affinché le informazioni, i dati, le cartelle o altro in suo da numeri arabi. possesso che riguardano l'utente o terzi sia mantenuto riservato. A tal fine, provvede alla Per facilitare la conservazione dei dati personali del cui trattamento abbia la responsabilità mediante l’adozione comprensione, in delle preventive misure di sicurezza individuate, e periodicamente aggiornate, dalla vigente tabella abbiamo normativa, in modo da ridurre al minimo i rischi di distruzione o perdita degli stessi, di accesso attribuito un numero non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. romano progressivo [IVI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLE FAMIGLIE alle otto sezioni] [VI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELL'EQUIPE [IVI] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO [IVII] RESPONSABILITA' NEI CONFRONTI DELLA SOCIETÀ Fisioterapista Art. 1.Definizioni e campo di applicazione. Il Codice Deontologico del Fisioterapista è l’insieme, condiviso, delle regole, dei principi e dei valori insiti nella relazione di cura ed una guida che orienta la responsabilità professionale intesa non solo nel suo significato giuridico ma, anche, nel suo più autentico e profondo significato etico. Il Fisioterapista, all’atto della sua iscrizione all’AIFI, si riconosce nelle indicazioni deontologiche e si impegna, attivamente e responsabilmente, a rispettarle ed a promuoverle nella relazione di cura, nei rapporti intra ed inter-professionali e in quelli con le istituzioni. Art. 2.Responsabilità disciplinare. La violazione delle regole di condotta contenute nel presente Codice Deontologico è fonte di responsabilità disciplinare che integra le eventuali ulteriori sanzioni previste dalle norme giuridiche e dai contratti di lavoro. Art. 3.Rispetto e promozione dei diritti fondamentali della persona umana. Il Fisioterapista rispetta e promuove, attivamente e responsabilmente, i diritti fondamentali della persona 56 Igienista dentale Infermiere Logopedista Ortottista umana sanciti dalla Carta Costituzionale e dalle fonti normative internazionali e sovranazionali fra cui la Convenzione di Oviedo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Convenzione O.N.U. sui diritti delle persone con disabilità, la Carta di Ottawa per la promozione della salute, la Carta Europea dei Diritti del Malato, nonché dalle dichiarazioni di principio e di presa di posizione della World Confederation for Physical Therapy WCPT, senza distinzioni e/o discriminazioni legate all’ età, al sesso, all’orientamento sessuale, alle condizioni sociali, all’etnia, alla nazionalità, alla cultura, alla professione di fede e all’orientamento politico. Art. 6 Doveri del fisioterapista. Il Fisioterapista esercita la professione con titolarità, in piena autonomia e responsabilità, coerentemente a quanto previsto dalle leggi vigenti. Art. 9. Formazione e ricerca. … Il Fisioterapista si impegna attivamente nella ricerca, attenendosi agli standard di buona pratica clinica e cura responsabilmente la diffusione dei risultati indipendentemente dall’esito della ricerca stessa. … Art. 12.Qualità e appropriatezza delle cure. Il Fisioterapista ha la responsabilità diretta delle procedure diagnostiche e terapeutiche adottate. Egli si impegna a ricercare la migliore efficacia, appropriatezza e qualità dei percorsi di cura e riabilitazione, promuovendo l’uso appropriato delle risorse e la sostenibilità delle cure. Art. 33.Clausola di coscienza. Fermo restando i principi dell’appropriatezza e dell’efficacia posti alla base della relazione di cura, il Fisioterapista può rifiutarsi di erogare prestazioni che siano in contrasto con la propria morale, preservando comunque la salute della persona; il professionista sarà responsabile legalmente e disciplinarmente delle proprie scelte. Art. 34.Problematiche di fine vita. … Nell’ambito delle cure palliative, anche pediatriche, prende in cura la persona assistita e si impegna ad esercitare la professione con competenza e responsabilità, garantendo gli interventi necessari ad alleviare la sofferenza e a migliorare la qualità della vita. … Art. 35.Decoro professionale. Il Fisioterapista si impegna a tutelare, attivamente e responsabilmente, il decoro personale proprio e della professione in ogni ambito e circostanza e si attiva, costantemente e senza vantaggio personale, a promuoverne il ruolo. Art. 42.Obblighi in materia di pubblicità. La pubblicità in materia sanitaria non può prescindere, nelle forme e nei contenuti, da principi di correttezza informativa, responsabilità e decoro professionale; deve essere obiettiva, veritiera, corredata da dati oggettivi e controllabili. … PREMESSA … Il Codice e costituito dai principi e dalle regole che gli igienisti dentali devono osservare e far osservare nell'esercizio della professione e che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano. Titolo II La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della persona utente e cliente Titolo III Responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della società Titolo IV La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti di colleghi ed altri professionisti Titolo V La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti dell'organizzazione di lavoro Titolo VI La responsabilità dell'igienista dentale nei confronti della professione 50. Nel caso di studi associati è responsabile, sotto il profilo disciplinare, il singolo professionista a cui si riferiscono i fatti specifici. Art. 1. L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica. Art. 3. La responsabilità dell'infermiere consiste nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo. Art. 13. L'infermiere assume responsabilità in base al proprio livello di competenza e ricorre, se necessario, all'intervento o alla consulenza di infermieri esperti o specialisti. Presta consulenza ponendo le proprie conoscenze ed abilità a disposizione della comunità professionale. Art. 47. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario, alfine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale. Art. 48. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione ai responsabili professionali della struttura in cui opera o a cui afferisce il proprio assistito. Art.7 - Ambiti professionali … 4. - Direzione Il Logopedista può ricoprire posizioni organizzative che richiedono lo svolgimento di funzioni con assunzione diretta di elevata responsabilità come, ad esempio, la direzione di servizi, dipartimenti, uffici o unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da un elevato grado di esperienza e autonomia gestionale ed organizzativa. Art.14.- Rapporti con i colleghi … 7. I Logopedisti che hanno maggiore competenza per anzianità professionale ed esperienza in ambiti logopedici specifici, assumono la responsabilità della formazione degli allievi Logopedisti e dei Colleghi agli inizi del percorso professionale. Art. 8. L’Ortottista-Assistente in Oftalmologia ha la responsabilità diretta delle procedure 57 Ostetrica/o Podologo Tecnico audiometrista Tecnico audioprotesista Tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare Tecnico di neurofisiopatologia professionali che svolge. 1.1. L’ostetrica/o è il professionista sanitario abilitato e responsabile dell’assistenza ostetrica, ginecologica e neonatale; la sua attività si fonda sulla libertà e l’indipendenza della professione. 1.3. L’assistenza garantita dall’ostetrica/o, si integra con le attività degli altri professionisti, attraverso interventi specifici di natura intellettuale e tecnico-scientifica, in ambito assistenziale, relazionale, educativo e gestionale, svolti con responsabilità, in autonomia e/o in collaborazione con altri professionisti sanitari. 1.5. L’ostetrica/o, responsabile della formazione e dell’aggiornamento del proprio profilo professionale, promuove e realizza in autonomia e in collaborazione la ricerca di settore. 2.7. L’ostetrica/o assume responsabilità sulla base delle competenze professionali acquisite anche avvalendosi dell’eventuale ed opportuna consulenza di altri professionisti, al fine di garantire le cure adeguate alla persona in relazione a specifici obiettivi di salute. Giuramento professionale. Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:… di perseguire come scopi esclusivi la tutela della salute fisica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno ogni mio atto professionale; … Art. 1. Definizione … Il podologo è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice, la cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare. Art. 22. Modalità e forme di espletamento dell’attività professionale … Il podologo, nell’ambito di ogni forma partecipativa o associativa dell’esercizio della professione: è e resta responsabile dei propri atti e delle proprie prestazioni; … Art. 2.- Gli Audiometristi, siano essi liberi professionisti o dipendenti di Enti pubblici o privati, sono tenuti alla conoscenza e all'osservanza del presente Codice Deontologico, la cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare. Art. 15.- Rapporti con altre istituzioni - … 2. l’ Audiometrista è e resta comunque responsabile dei propri atti e non deve subire condizionamenti nella sua autonomia professionale; … Art. 2. … Il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’assunzione delle responsabilità inerenti la professione. Art. 3.L'assunzione di responsabilità e la conseguente autonomia da parte del Tecnico Audioprotesista si esplicitano nell'effettuare una serie di indagini preliminari, strumentali e non, miranti alla valutazione della menomazione uditiva e della disabilità conseguente, nello scegliere fornire ed adattare gli ausili uditivi adeguati, nel verificare i risultati dell'applicazione, nel seguire l’assistito nel suo adattamento a breve ed a lunga scadenza, nel controllare nel tempo che il risultato dell’ausilio sia sempre adeguato alle aspettative dell’assistito. Art. 1.RESPONSABILITÀ PERSONALE Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare ha la responsabilità diretta delle procedure pertanto deve rispettare i limiti e le responsabilità del proprio ambito professionale ed esimersi dall’effettuare i casi per i quali non si ritiene sufficientemente competente. Art. 2.CONDOTTA PROFESSIONALE. … Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare che partecipa alla promozione e allo sviluppo di materiali, libri o strumenti relativi alla CEC deve farlo in modo professionale ed obiettivo, senza anteporre il proprio profitto personale alla responsabilità professionale Art. 3.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEL PAZIENTE. La responsabilità del Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare consiste nell’applicare tecniche e metodiche adeguate al paziente … Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare non deve far eseguire tecniche di CEC da studenti o altri senza esercitare su di essi un’appropriata supervisione e senza assumerne la piena responsabilità Art. 4.RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEI COLLEGHI … Art. 8. RAPPORTI CON L’UNIVERSITA’ E GLI STUDENTI DEI CORSI DI LAUREA Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare quando ne ha l’opportunità partecipa attivamente alle attività formative dei rispettivi corsi di laurea. È responsabile degli insegnamenti teorici, pratici, tecnologici, etici e deontologici della professione, contribuisce alla formazione degli studenti anche attraverso un’apposita attività tutoriale , di addestramento pratico ed editoriale. Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare accoglie gli studenti con attenzione e si adopera per la trasmissione delle proprie conoscenze, competenze ed abilità professionali. E ‘ responsabile degli atti compiuti dagli studenti a lui affidati. Art. 1. Le regole del presente codice deontologico sono vincolanti per tutti i Tecnici di Neurofisiopatologia (TNFP) iscritti all'Associazione Italiana Tecnici di Neurofisiopatologia (AITN). Il TNFP è tenuto alla loro conoscenza, e l'ignoranza delle medesime non esime dalla 58 Tecnico ortopedico Tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro Tecnico della riabilitazione psichiatrica [Il codice deontologico è suddiviso in itoli ed in capi; all’interno di ogni capo la numerazione degli articoli parte da 1. Per facilitare la comprensione, in tabella abbiamo indicato il capo dell’articolo citato] Tecnico sanitario di laboratorio biomedico responsabilità disciplinare. Art. 4. Il TNFP salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche da utilizzare per la sua attività, ed è perciò responsabile della loro applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che se ne ricavano. … Art. 8. … Assume atteggiamento ed impegno responsabile nella preparazione umana e professionale degli allievi, mettendo interamente a loro disposizione il proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza. Art. 10. Il TNFP ai diversi livelli di responsabilità segnala all'autorità competente gli eventuali disservizi, le carenze organizzative ed i ritardi nell'applicazione delle leggi, collaborando per la loro sollecita e puntuale attuazione. … Art. 1.- Il Codice di deontologia contiene l'insieme dei principi e delle regole cui il Tecnico Ortopedico deve uniformare l'esercizio della professione. Il Tecnico Ortopedico è tenuto alla conoscenza dei contenuti del presente Codice, la cui ignoranza non lo esonera da responsabilità disciplinare. Le prescrizioni del presente Codice Deontologico si applicano a tutti i Tecnici Ortopedici, indipendentemente dalle modalità di svolgimento dell'attività. Art. 20. - La pubblicità dell'attività professionale - Il Tecnico Ortopedico che si avvale di mezzi o veicoli pubblicitari deve improntare le sue iniziative all'elevato senso di responsabilità che la materia richiede. Egli deve uniformarsi alle disposizioni di legge che regolano la materia, ed in particolare, ai contenuti del d.lgs. n. 74/1992 ed alle norme ad esso correlate. Formula del giuramento professionale. Consapevole dell’importanza, della solennità e delle responsabilità che con questo atto mi assumo di fronte alla Legge ed agli Uomini io,Tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, giuro: … Art. 14. Rapporti con terzi. 1. Gli accordi, di qualsiasi natura, stipulati al fine dello svolgimento dell’attività professionale, sia essa in forma singola sia in forma associata, devono essere conformi alle regole della deontologia professionale; agli Ordini è affidata, sia in via preventiva sia successiva, la vigilanza sul puntuale rispetto di quanto previsto dal comma precedente. … 3. Il T.d.P., nell’ambito di ogni forma di partecipazione di cui al precedente comma 1:a. è sempre e comunque responsabile di tutti i propri atti e/o delle proprie omissioni; … [capo III] Art. 4.Il TeRP ha la responsabilità diretta delle procedure diagnostico-funzionali e terapeutiche che applica. [capo III] Art. 5.Il TeRP deve rispettare i limiti e le responsabilità del proprio ambito professionale, ed astenersi dall’affrontare la soluzione dei casi per i quali non si ritenga sufficientemente competente. [capo III] Art. 8. Il TeRP ha il dovere di utilizzare metodologie e tecniche la cui efficacia e sicurezza siano state scientificamente validate da Società Scientifiche. La scelta di pratiche non convenzionali deve avvenire nel rispetto del decoro e della dignità della professione ed esclusivamente sotto diretta ed esclusiva responsabilità personale. [capo IV] Art. 3.Il TeRP … assume atteggiamento e impegno responsabile nella preparazione umana e professionale degli allievi, mettendo direttamente a loro disposizione il proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza. TITOLO III. RESPONSABILITA’ NELL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE Art. 4 - Il TSLB nello svolgimento delle attività professionali è responsabile degli atti compiuti aventi finalità di diagnosi e di terapia e dei comportamenti assunti, secondo i principi di autonomia e collaborazione. Art. 8 - Le disposizioni del presente Codice sono vincolanti per tutti i TSLB, siano essi liberi professionisti o dipendenti di enti pubblici e privati. Il TSLB è tenuto alla loro conoscenza e l’ignoranza delle stesse non esime dalla responsabilità disciplinare. Art. 16 - Il TSLB, pur consapevole della propria autonomia e responsabilità professionale, ai fini del miglior servizio al paziente, collabora con le altre figure professionali, ne riconosce le specifiche competenze e si attiene ai principi di lealtà e di rispetto reciproco. Art. 17 - Il TSLB ha la responsabilità diretta delle procedure operative che applica, salvaguarda la propria autonomia collaborando nella scelta dei materiali e delle tecniche ed è responsabile del risultato analitico Art. 25 - Il TSLB, quale soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e sanitaria, assume un atteggiamento responsabile nell’attuazione del diritto alla salute. … Art. 30 - Il TSLB che partecipa alle attività formative dei rispettivi Corsi di Laurea è responsabile della formazione degli studenti attraverso attività tutoriale, addestramenti pratici ed insegnamenti tecnologici, tecnici, storici, sociali, etici e deontologici della Professione. 59 Tecnico sanitario di radiologia medica Terapista neuro e psicomotricità età evolutiva Art. 31 - Il TSLB, riconoscendo negli studenti il futuro della Professione, si adopera per conferire le proprie conoscenze, competenze ed abilità professionali ed è responsabile degli atti compiuti dagli studenti a lui affidati. 1.- Disposizioni generali 1.1.Il Tecnico Sanitario di Radiologia Medica (di seguito indicato con TSRM) è il professionista sanitario che, all’interno del percorso assistenziale, è responsabile nei confronti della persona degli atti tecnici e sanitari degli interventi radiologici aventi finalità di prevenzione, diagnosi e terapia. 2.- Principi etici del Tecnico Sanitario di Radiologia Medica … 2.4.Il TSRM, ritenendosi soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e sanitaria assume un atteggiamento responsabile nell'attuazione del diritto alla salute. 2.5.Il TSRM afferma l’impossibilità di scindere i concetti di responsabilità e autonomia, decisionale ed operativa. Pertanto, il TSRM è responsabile delle decisioni assunte autonomamente e degli atti compiuti in autonomia. 3.- Rapporti con la persona … 3.9. Il TSRM è responsabile della documentazione iconografica prodotta o consegnatagli dalla persona. Sulla documentazione iconografica prodotta la sua responsabilità si estende a tutte le fasi del processo: acquisizione, elaborazione, stampa ed archiviazione. Al fine di rendere individuabili con facilità e sicurezza gli autori delle prestazioni radiologiche, il TSRM utilizza i più sicuri sistemi di identificazione. 5.- Rapporti con i colleghi TSRM e le altre professioni, sanitarie e non … 5.2.Il TSRM, pur nella sua autonoma responsabilità tecnico professionale, ritiene essenziale ai fini del proprio servizio la collaborazione con le altre professioni sanitarie delle quali riconosce e rispetta le specifiche competenze. Con esse collabora al raggiungimento degli obiettivi di salute della persona. 5.3.In caso di richiesta di prestazioni che, sulla base della sua conoscenza tecnico professionale e dopo approfondita valutazione, tema possano risultare dannose per la salute della persona, il TSRM è tenuto a manifestare il proprio orientamento al medico radiologo. Nei casi di palese richiesta incongrua egli ha diritto di astenersi, assumendosene diretta responsabilità. 8. - Rapporti con gli studenti dei Corsi di Laurea. 8.1.Il TSRM partecipa direttamente alle attività formative dei rispettivi Corsi di Laurea. E’ responsabile degli insegnamenti tecnologici e tecnici nonché degli aspetti storici, sociali, etici e deontologici della professione. Il TSRM contribuisce alla formazione degli studenti anche attraverso un apposita attività tutoriale, di addestramento pratico ed editoriale. 8.2.Per il TSRM gli studenti rappresentano il futuro della professione. Li accoglie e ad essi dedica tempo ed attenzione garantendogli la trasmissione di conoscenze, competenze ed abilità professionali. Il TSRM è responsabile degli atti compiuti dagli studenti a lui affidati. Art. 1.… La non conoscenza delle norme non li preserva dalla responsabilità che l’inosservanza comporta; ogni atto professionale o personale, anche se compiuto al di fuori dell'ambito lavorativo, che sia in contrasto con i principi qui di seguito indicati, verrà perseguito attraverso le procedure e le sanzioni previste dal Regolamento Disciplinare. Art. 2. … Il TNPEE provvede alla conservazione dei dati personali del cui trattamento abbia la responsabilità mediante l’adozione delle preventive misure di sicurezza individuate e periodicamente aggiornate dalla vigente normativa in modo da ridurre al minimo i rischi di distruzione o perdita degli stessi di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. Terapista occupazionale Premessa … Il Codice Deontologico è la guida del Terapista Occupazionale per lo sviluppo dell’identità professionale e per l’assunzione di comportamenti professionali eticamente responsabili. È uno strumento che informa il cittadino sui comportamenti che può attendersi dal Terapista Occupazionale. … Il Terapista Occupazionale è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice, la cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare. A. RAPPORTI CON GLI UTENTI … A.2. Il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione sono condizioni essenziali per l’assunzione della responsabilità dei processi riabilitativi di competenza del Terapista Occupazionale. B. Responsabilità verso il paziente. … F. Obblighi deontologici del Terapista Occupazionale a rapporto di lavoro dipendente o libero professionale F.5.Il Terapista Occupazionale assume responsabilità in base al livello di competenza raggiunto e ricorre, se necessario, all’intervento e alla consulenza di esperti. Riconosce che l’approccio multidisciplinare è la migliore possibilità per far fronte ai problemi dell’assistito; riconosce altresì l’importanza di prestare consulenza, ponendo le proprie conoscenze, ed abilità, a disposizione della comunità professionale. 60 F.6 Il Terapista Occupazionale riconosce i limiti delle proprie conoscenze e competenze e declina la responsabilità quando ritenga di non poter agire con sicurezza. Ha il diritto e il dovere di richiedere formazione e/o supervisione per pratiche nuove o sulle quali non ha esperienza; si astiene dal ricorrere a sperimentazioni prive di guida che possano costituire rischio per la persona. F.9. Dalla mancata partecipazione alla formazione continua discendono responsabilità deontologiche e legali nei confronti dell’associazione e dei pazienti. I.2.Il Terapista Occupazionale, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi, provvede a darne comunicazione e per quanto possibile, a ricreare la situazione più favorevole. L. Pubblicità in materia sanitaria e informazione al pubblico L.1.Il Terapista Occupazionale è responsabile dell'uso che si fa del suo nome, delle sue qualifiche professionali e delle sue dichiarazioni. Norme Finali. … Il Terapista Occupazionale è, e resta, responsabile dei propri atti. Dallo studio della tabella 3.2 discendono svariate considerazioni analitiche. Sul tema della responsabilità si soffermano tutti i codici deontologici delle professioni sanitarie. Si rilevano impostazioni diversificate, come risulta dalle seguenti osservazioni. ■ Vari codici usano il termine responsabilità per caratterizzare titoli o sezioni: è il caso dell’assistente sanitario, del dietista, dell’educatore professionale, dell’igienista dentale, del tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, in parte anche del tecnico della riabilitazione psichiatrica e del terapista occupazionale. ■ In alcuni casi la parola responsabilità è accompagnata da un aggettivo: diretta, piena, personale, professionale, disciplinare. Alcuni aggettivi sono meramente enfatici, alcuni esprimono peculiarità di approccio al tema. ● L’aggettivo “diretta” è adottato nei seguenti codici di deontologia: fisioterapista (art. 12), ortottista (art. 8), tecnico fisiopatologia cardiocircolatoria (art. 1), tecnico della riabilitazione psichiatrica (capo III art. 4), tecnico sanitario di laboratorio biomedico (art. 17), tecnico sanitario radiologia medica (art. 5.3). Si tratta di specificazione pleonastica, che, forse, è stata introdotta per enfatizzare la responsabilità del professionista cui il codice si riferisce. ● L’attributo “piena” figura nei seguenti codici deontologici: educatore professionale (II - 4), fisioterapista (art. 6) tecnico di fisiopatologia 61 cardiocircolattoria e perfusione cardiovascolare (art. 3). Anche questa specificazione è pleonastica; anch’essa, forse, è stata adottata per non porre limiti alla responsabilità del professionista cui il codice si riferisce. ● L’aggettivo “personale” ricorre nei seguenti codici deontologici: tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare (art. 1); tecnico della riabilitazione psichiatrica (capo III - art. 8). Si tratta di specificazione superflua, che sta a sottolineare la responsabilità intrinsecamente in carico al professionista. ● I seguenti codici deontologici configurano la responsabilità come “professionale”: fisioterapista (art. 1), tecnico di neurofisiopatologia (art. 2), tecnico sanitario di laboratorio biomedico (art. 16). Anche questo aggettivo, ridondante, ha il mero significato di focalizzare e contestualizzare la responsabilità. ● Alcuni codici deontologici focalizzano la responsabilità “disciplinare” del professionista: dietista (premessa e capo VI), fisioterapista (art. 2), igienista dentale (art. 50), podologo (art. 1), tecnico audiometrista (art. 2), tecnico di neurofisiopatologia (art. 1), tecnico ortopedico (art. 1), tecnico sanitario di laboratorio biomedico (art. 8), terapista occupazionale (premessa), nonché, con un richiamo a sanzioni, terapista neuro e psicomotricità età evolutiva (art. 1 particolare) ● Altri codici deontologici citano la dimensione “etica” della responsabilità: fisioterapista (art. 1), tecnico audioprotesista (art. 2), terapista occupazionale (premessa). ● Un solo codice deontologico ricorda la responsabilità “giuridica”: fisioterapista (art. 1); essa è citata per ricordarne il valore parziale, rispetto alle altre dimensioni della responsabilità. ■ Alcuni codici deontologici considerano la responsabilità nei suoi termini generali, altri ne considerano alcuni aspetti particolari, la maggior parte dei codici si sofferma sia sui profili generali sia su alcuni particolari. 62 ● Considerano solo gli aspetti generali i seguenti codici deontologici: ortottista, podologo, tecnico audiometrista, tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. ● Si esprime esclusivamente su un aspetto specifico il solo codice del logopedista. ● Richiamano i profili generali ed almeno un aspetto specifico i seguenti codici deontologici: assistente sanitario; dietista; educatore professionale; fisioterapista; igienista dentale; infermiere; ostetrica/o; tecnico audioprotesista; tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; tecnico di neuro-fisiopatologia; tecnico ortopedico; tecnico della riabilitazione psichiatrica; tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di radiologia medica; terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva; terapista occupazionale. ■ Quanto alla scelta concettuale di fondo dei diversi codici deontologici sul termine responsabilità, risulta che esso è inteso prevalentemente in senso positivo ed in un minor numero di casi anche (o esclusivamente) in senso negativo. Sull’argomento si tornerà con maggior dettaglio nel paragrafo successivo. ● Quasi tutti i codici deontologici evidenziano la responsabilità intesa secondo l’ottica positiva. Il linguaggio è di volta in volta diverso, ma i concetti sono sovrapponibili: “responsabilità nell’esercizio della pratica professionale … allo scopo di assicurare il corretto esercizio della professione” (assistente sanitario, art. 1), “partendo da principi etici e valori che sono implicati nella relazione educativa, s'individuano nell'esercizio della responsabilità, professione doveri (educatore e impegni, professionale, art. applicabili 1), “la responsabilità professionale intesa non solo nel suo significato giuridico ma, anche, nel suo più autentico e profondo significato etico” (fisioterapista, art. 1), “il fisioterapista rispetta e promuove, attivamente e responsabilmente, i diritti 63 fondamentali della persona umana” (fisioterapista, art. 3), “la responsabilità dell'infermiere consiste nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo” (infermiere, art. 3), “l’ostetrica/o assume responsabilità sulla base delle competenze professionali acquisite … al fine di garantire le cure adeguate alla persona in relazione a specifici obiettivi di salute” (ostetrica, art. 2.7), “il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’assunzione delle responsabilità inerenti la professione” (tecnico audioprotesista, art. 2), “la responsabilità del tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare consiste nell’applicare tecniche e metodiche adeguate al paziente” (tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, art. 3), “il TNFP salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche da utilizzare per la sua attività, ed è perciò responsabile della loro applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che se ne ricavano” (tecnico di neurofisiopatologia, art. 4), “il TSLB, quale soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e sanitaria, assume un atteggiamento responsabile nell’attuazione del diritto alla salute” (tecnico sanitario di laboratorio biomedico, art. 25), “il TSRM, ritenendosi soggetto attivo nella determinazione della politica professionale e sanitaria assume un atteggiamento responsabile nell'attuazione del diritto alla salute” (tecnico sanitario di radiologia medica, art. 2.4), “il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione sono condizioni essenziali per l’assunzione della responsabilità dei processi riabilitativi di competenza del terapista occupazionale” (terapista occupazionale, A2). Tutti i già ricordati codici deontologici che usano il termine responsabilità per caratterizzare titoli o sezioni, adottano il concetto nella sua accezione positiva: sono da citare, in quanto appena sopra non menzionati, i codici deontologici del dietista, dell’igienista dentale, del tecnico della riabilitazione psichiatrica. 64 ● Alcuni codici deontologici considerano, oltre all’ottica positiva della responsabilità, anche quella negativa: si tratta sostanzialmente di quelli, già citati, che menzionano la responsabilità disciplinare. Solo il codice deontologico del tecnico ortopedico si esprime in termini di responsabilità solo e soltanto negativa (disciplinare). Data la peculiare scelta concettuale della codificazione deontologica dei professionisti sanitari in relazione al termine responsabilità, che viene inteso prevalentemente in senso positivo in relazione all’esercizio della professione, conviene ricordare quanto già detto nel paragrafo 2 del capitolo 1, che cioè una siffatta responsabilità scaturisce dal rispetto di quanto indicato nei quattro punti seguenti: 1. presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della professione; 2. valori etici condivisi e indicazioni che derivano dalla coscienza personale; 3. regole della codificazione deontologica; 4. norme di legge. In questa sede, con riferimento ai codici deontologici, è sufficiente soffermarsi sui primi due punti, poiché gli altri assumono rilievo e sono considerati in altre parti di questa tesi. In merito al punto 1, i codici deontologici condividono e raccomandano il principio di erogare interventi basati sulle prove di efficacia e sulla ricerca scientifica. Alcuni codici sono invero relativamente criptici. I passi più espliciti nei vari codici deontologici sono i seguenti: “l’A.S. si impegna a svolgere la propria professione secondo principi e metodi scientificamente corretti e validati … (assistente sanitario, art. 5), “il dietista verifica costantemente che il suo intervento nutrizionale sia fondato su dati scientificamente validati e aggiornati e/o basati sulle linee guida nazionali ed internazionali (dietista, art. 65 2), “l’esercizio professionale deve essere animato da rigore metodologico e rispondere alle continue acquisizioni scientifiche inerenti il campo di competenza. Il fisioterapista ha il dovere di promuovere e utilizzare metodologie e tecnologie la cui efficacia e sicurezza siano state scientificamente validate” (fisioterapista, art. 20), “l'infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull'esperienza e la ricerca (infermiere, art. 11), “la condivisione tra colleghi delle esperienze professionali e dei risultati di ricerca e di validazione terapeutica è obbligo del logopedista e favorisce l'evoluzione e la promozione della logopedia” (logopedista, art. 14 – 8), “l’ostetrica/o si attiva per garantire un’assistenza scientificamente validata ed appropriata ai livelli di necessità...” (ostetrica, 3.3), “il podologo nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche della podologia …” (podologo, art. 4), “l’esercizio professionale deve essere animato da rigore metodologico e rispondere alle continue acquisizioni scientifiche inerenti il campo di competenza” (tecnico riabilitazione psichiatrica, titolo II capo III art. 7), “l’audiometrista ha l'obbligo dell'aggiornamento e formazione professionale permanente al fine di mantenere la propria competenza professionale a livelli ottimali mediante idoneo aggiornamento nel campo della ricerca scientifica audiologica ed interdisciplinare, nonché professionale in risposta alle esigenze sociali (tecnico audiometrista, art. 5),“il tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare deve mantenere e migliorare le proprie conoscenze, tenendosi continuamente aggiornato dei progressi tecnici al fine di garantire l’applicazione di metodologie e tecnologie scientificamente validate, efficaci e sicure” (tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, art. 1), “l’esercizio professionale deve essere animato da rigore metodologico e adeguato alle continue acquisizioni scientifiche inerenti al campo di propria competenza” …(tecnico sanitario di laboratorio biomedico, art. 18), “nell’esercizio della professione il TSRM valuta ed agisce sulla base di evidenze scientifiche” (tecnico sanitario di radiologia 66 medica, 2.10), “il terapista occupazionale nell'esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche …” (terapista occupazionale, D.2). Il professionista sanitario responsabile deve quindi ispirarsi alle più recenti e migliori indicazioni scientifiche, prodotte dalle revisioni sistematiche della letteratura accreditata, in materia di efficacia e sicurezza della propria attività. Tale attività può essere guidata anche da protocolli e linee guida; si tratta di strumenti di lavoro che non hanno valore assoluto e permanente nel tempo, sicché le loro indicazioni devono essere integrate con evidenze scientifiche eventualmente sopravvenute rispetto alla loro stesura. Quanto al punto 2, i codici deontologici esprimono la consapevolezza che il professionista sanitario sempre più spesso svolge la propria attività in situazioni complesse, in rapporto non solo ad ambiti particolarissimi, proposti dal continuo progresso scientifico, ma anche a specifiche condizioni legate alla dignità ed alle volontà della persona assistita e che, in queste condizioni, il professionista si trovi a prendere decisioni per le quali è necessario che egli abbia chiari i valori etici di riferimento e la loro gerarchia, quando eventualmente entrino in reciproco conflitto. I codici deontologici più espliciti in argomento riportano i seguenti passi: “l’A.S. è tenuto a fornire ai colleghi con cui collabora informazioni sulle specifiche competenze e sulla metodologia applicata e chiede il rispetto delle norme etiche e deontologiche sottese alla professione” (assistente sanitario, art. 5.6), “il Dietista, nel caso di situazioni in contrasto con la coscienza personale e i principi etici che regolano la professione, s’impegna a trovare la soluzione operativa più idonea nel rispetto dell’autonomia e della dignità della persona” (dietista, art. 2); “… partendo da principi etici e valori che sono implicati nella relazione educativa, s'individuano responsabilità, doveri e impegni, …” (educatore professionale, art. 1), “il fisioterapista valorizza la relazione di cura riconoscendola quale luogo privilegiato in cui si incontrano forti istanze etiche, 67 umane e civili” (fisioterapista, art. 10), “il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei principi etici della professione, è condizione essenziale per l'esercizio della professione infermieristica” (infermiere, art. 5), “il comportamento dell’ostetrica/o si fonda sul rispetto dei diritti umani universali, dei principi di etica clinica e dei principi deontologici della professione” (ostetrica, 2.2), “il podologo nell’esercizio della professione deve … ispirarsi ai valori etici fondamentali assumendo come principio il rispetto della salute fisica, della libertà e della dignità della persona: non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura” (podologo, art. 4), “anche al di fuori dell’esercizio professionale, il TeRP è tenuto sempre ad osservare un comportamento che sia moralmente ed eticamente irreprensibile” (tecnico della riabilitazione psichiatrica, titolo II capo I), “il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’assunzione delle responsabilità inerenti la professione” (tecnico audioprotesista, art. 2), “… si ricorda che la reputazione del il tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare è fondata sulla sua competenza ed integrità ed è tenuto ad osservare sempre un comportamento che sia moralmente ed eticamente irreprensibile (tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, art. 2), “una retta condotta professionale deve sempre ispirarsi a principi etici ed a doveri sociali che rappresentano il sicuro patrimonio etico morale di ogni coscienza onesta” (tecnico ortopedico, premessa), “di fronte ai molteplici e crescenti dilemmi etici posti da società, scienza e tecnologia, tra le risposte proposte dai possibili orientamenti di riferimento (etico, religioso, scientifico, normativo, professionale, culturale ed economico), il TSRM sceglie quella che soddisfa dignità, libertà e bisogni di salute della persona” (tecnico sanitario di radiologia medica, 2.13), “anche al di fuori dell’esercizio professionale, il TSLB è tenuto ad osservare un comportamento moralmente ed eticamente irreprensibile” (tecnico sanitario di laboratorio biomedico, art. 12), “il terapista occupazionale nell'esercizio della professione deve … ispirarsi ai valori etici fondamentali, 68 assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura” (terapista occupazionale, D.2). I vari disposti, globalmente considerati, offrono alcuni spunti di riflessione. Sono svariate le situazioni che, nella pratica professionale, impongono di considerare questioni etiche di rilievo; ai correlati problemi occorre fornire risposte razionali, meditate, rispettose del punto di vista della persona assistita. Tali risposte sono frutto di dialogo e di analisi piuttosto che di prese di posizione irrazionali ed emotive o basate sulla prassi acritica o su banali luoghi comuni. Le decisioni del professionista sanitario devono avere uno sviluppo logico, orientato in base a valori e principi che ogni professionista deve avere chiari, ponderati e non legati all’emozione del momento. Tali principi e valori sono da considerare quali criteri-guida per affrontare ogni singolo caso, e non costituiscono certo preconcetti rigidi, che portano a effettuare scelte sempre uguali in ogni situazione in qualche modo simile, operando per schemi inflessibili, senza tener conto delle peculiarità di ogni singola persona e di ogni singola vicenda, le quali, invece, vanno valorizzate. È possibile operare una integrazione di ciò che è indicato in 1 con quanto riportato in 2. Infatti, i principi lì richiamati possono, almeno in parte, corrispondere all’adagio del comportarsi secondo scienza e coscienza. Tale espressione tradizionale, radicata nella cultura medica, è di grande significato, purché non sia utilizzata come se fosse una formula magica o, peggio, un principio apodittico al quale non è possibile contrapporre alcuna obiezione, come spesso fanno taluni professionisti della salute per giustificare i loro comportamenti discutibili e dei quali non sono in grado di precisare presupposti etici e/o scientifici. Quando si usa tale formula, occorre chiarire le prove di efficacia e i principi etici che ne giustificano l’uso nella specifica circostanza; 69 conseguentemente, in altre parole e con taglio critico: quale scienza e quale coscienza sono evocate da chi adotta questa espressione? 4. Quale responsabilità nei codici deontologici? Come già indicato nel paragrafo 1 del capitolo 1, la parola “responsabilità” ha, dal punto di vista generale, una duplice accezione: da un lato, quella di essere chiamati a rispondere ad una qualche autorità di una condotta riprovevole, dall’altro lato, quella di impegnarsi per mantenere un comportamento congruo e corretto. L’aspetto primo indicato della responsabilità rispecchia una concezione del termine che nasce da un’ottica “negativa”, in contrapposizione a quella che deriva dal punto di vista “positivo” dell’essere responsabili, dell’assumersi cioè le responsabilità che l’esercizio professionale comporta. Nel primo caso, il concetto di responsabilità rientra in un’ottica “negativa”, perché l’essere chiamati a rispondere, davanti a un’autorità giudicante, avviene quando ormai l’errore o l’omissione è stato commesso: è una responsabilità che si concretizza a posteriori senza aver più la possibilità di porre rimedio all’errore o all’omissione e consiste in una valutazione imposta dall’esterno e operata da un soggetto diverso dal professionista, cosicché il professionista, passivamente coinvolto, può non percepire il significato di tale valutazione, che è pertanto priva di qualsiasi valore pedagogico. Nel secondo caso, il concetto di responsabilità si colloca in un’ottica “positiva”, perché corrisponde alla consapevolezza degli obblighi connessi con lo svolgimento di un incarico: è una responsabilità che si concretizza per il professionista durante la fase di esecuzione delle proprie funzioni e ancor prima nel corso della progettazione dell’attività, consiste nell’impegno dello stesso soggetto a operare con competenza e rigore metodologico ed è volta a non determinare omissioni o errori. Ognuno dei due significati ora commentati corrisponde ad uno specifico obiettivo della codificazione deontologica: pedagogico da un lato e 70 sanzionatorio dall’altro. Ciascuno dei due obiettivi è espressione di un diverso aspetto dello spirito di qualsivoglia codice deontologico: 1. di guida, nello svolgimento intrinseco dell’attività professionale; 2. di repressione, allorché la condotta professionale non sia consona al dettato del codice deontologico. Nei vari codici deontologici, ciascuno dei due aspetti è presente in modo equilibrato; altre volte, nei diversi testi, si constata la prevalenza dell’uno o dell’altro aspetto. In linea generale, il secondo aspetto può essere identificato nella locuzione di “responsabilità disciplinare”. Più difficile è qualificare con una terminologia consueta e condivisa il primo aspetto, che corrisponde comunque ad una “responsabilità professionale”, nel senso che è intimamente legata all’esercizio professionale, ma questa locuzione ha in genere significato più estensivo e l’uso di responsabilità professionale nell’accezione per cui è ora proposta non sarebbe quindi inteso in questa stessa circostanziata accezione dall’interlocutore. Un’espressione come “responsabilità clinica”, pur se di portata limitata rispetto all’estensione delle funzioni delle professioni sanitarie – funzioni che non sono applicate solo alla clinica – potrebbe essere più adeguata. Non tutti i codici deontologici si soffermano sulla responsabilità disciplinare. Ciò non vuol dire che la responsabilità disciplinare del professionista sia priva di valore: è attendibile che nella stesura di alcuni codici si sia scelto di evitare di enfatizzare una terminologia che paradossalmente potrebbe condurre a condotte non adeguate a garantire il corretto esercizio professionale. Conferire risalto alla responsabilità nella sua dimensione disciplinare, infatti, può indurre nel professionista sanitario preoccupazione particolare per questa dimensione, inducendolo ad ispirare la propria attività all’obiettivo di evitare sanzioni e, di conseguenza, a svolgere la professione in modo difensivo, al fine di correre 71 rischi personali, portandolo così ad attivarsi il meno possibile ed a porre le proprie esigenze di tutela prima della salute dell’assistito. È comunque da considerare che ben diverse sono le conseguenze delle sanzioni disciplinari che provengano da un collegio rispetto a quelle comminate da una associazione. Le uniche quattro professioni sanitarie raccolte in collegio sono: infermieri ed infermieri pediatrici (entrambi IPASVI), ostetriche e tecnici sanitari di radiologia medica. Le sanzioni disciplinari comminabili a questi professionisti sono contemplate dal D.P.R. 5 aprile 1950, n.221 “Approvazione del regolamento per la esecuzione del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 233, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle professioni stesse”. Di specifico interesse è il capo IV, che tratta “delle sanzioni disciplinari e del relativo procedimento” e comprende gli articoli da 38 a 52. Di seguito si riportano solo alcuni di questi articoli. Art.38. I sanitari che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della professione o, comunque, di fatti disdicevoli al decoro professionale, sono sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Consiglio dell'Ordine o Collegio della provincia nel cui Albo sono iscritti. Il procedimento disciplinare é promosso d'ufficio o su richiesta del prefetto o del procuratore della Repubblica. Art.40. Le sanzioni disciplinari sono: 1. l'avvertimento, che consiste nel diffidare il colpevole a non ricadere nella mancanza commessa; 2. la censura, che é una dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa; 3. la sospensione dall'esercizio della professione per la durata da uno a sei mesi, salvo quanto é stabilito dal successivo art. 43; 4. la radiazione dall'Albo. Art.41. La radiazione é pronunciata contro l'iscritto che con la sua condotta abbia compromesso gravemente la sua reputazione e la dignità della classe sanitaria. Art.42. La condanna per uno dei reati previsti dal Codice penale negli artt. 446 (commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti), 548 (istigazione all'aborto), 550 (atti abortivi su donna ritenuta incinta) e per ogni altro delitto non colposo, per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, importa di diritto la radiazione dall'Albo. Importano parimenti la radiazione di diritto dall'Albo: a) l'interdizione dai pubblici uffici, perpetua o di durata superiore a tre anni, e la interdizione dalla professione per una uguale durata; 72 b) il ricovero in un manicomio giudiziario nei casi indicati nell'art. 222, secondo comma, del Codice penale; c) l'applicazione della misura di sicurezza preventiva preveduta dall'art. 215 del Codice penale, comma secondo, n. 1 (assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro). La radiazione nei casi preveduti dal presente articolo, é dichiarata dal Consiglio. Art.43. Oltre i casi di sospensione dall'esercizio della professione preveduti dalla legge, importano di diritto tale sospensione: a) la emissione di un mandato o di un ordine di cattura; b) l'applicazione provvisoria di una pena accessoria o di una misura di sicurezza ordinata dal giudice, a norma degli artt. 140 e 206 del Codice penale; c) la interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a tre anni; d) l'applicazione di una delle misure di sicurezza detentive prevedute dall'art. 215 del Codice penale, comma secondo, nn. 2 e 3 (ricovero in una casa di cura e di custodia o ricovero in manicomio giudiziario); e) l'applicazione di una delle misure di sicurezza non detentive prevedute nel citato art. 215 del Codice penale, comma terzo, nn. 1, 2, 3 e 4 (libertà vigilata - divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche - espulsione dello straniero dallo Stato). Non è previsto nel D.P.R. 221 un principio analogo a quello di tipicità (o tassatività) che ispira il codice penale (art. 1), che prevede, tra l’altro, che siano specificate le sanzioni corrispondenti ai singoli reati. Le sanzioni disciplinari contemplate dall’art. 40 del D.P.R. 221 sono l’avvertimento, la censura, la sospensione (da uno a sei mesi) dall’esercizio della professione, e la radiazione. Solo circa quest’ultima sanzione sono indicati i criteri generali da adottare per la sua applicazione. L’art. 41 recita infatti: “la radiazione è pronunciata contro l’iscritto che con la sua condotta abbia compromesso gravemente la sua reputazione e la dignità della classe sanitaria”. Nei codici deontologici delle professioni con collegio, le sole alle quali è applicabile il D.P.R. 221, il tema della responsabilità disciplinare o è ignorato, come nel codice deontologico dell’infermiere, o è trattato in modo assolutamente sintetico, senza comunque esplicitare la normativa di riferimento, che è evidentemente data per pacifica. È il caso dei codici dell’ostetrica e del tecnico sanitario di radiologia medica, i passi di interesse dei quali sono rispettivamente i seguenti: art. 23. Le norme deontologiche contenute nel presente Codice sono vincolanti; la loro inosservanza è sanzionata dal Collegio professionale; 73 art. 1.3 L'inosservanza di quanto previsto dal presente Codice deontologico e ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili con le sanzioni disciplinari previste dalle norme vigenti. Comunque, se è vero che due codici deontologici richiamano, sia pur implicitamente il D.P.R. 221, è pure vero che in nessun passo di questo D.P.R. sono menzionati i codici deontologici delle professioni (in genere; quindi anche delle sanitarie). In tabella 3.3 sono riportate le diciotto professioni sanitarie prive di collegio e le indicazioni dei rispettivi codici deontologici con le integrazioni provenienti dai rispettivi statuti o da altri documenti riconducibili allo statuto o al codice deontologico. Si evidenzia un quadro di particolare interesse. Quasi tutti i 18 codici deontologici – ad eccezione di quelli dell’educatore professionale e del tecnico di neurofisiopatologia – indicano, per se con diverse formule, che l'inosservanza dei precetti del codice deontologico è punita con sanzioni disciplinari. I 3 seguenti codici deontologici elencano le sanzioni: ▪ dietista: censura verbale, censura scritta, sospensione temporanea dallo status di socio, espulsione dall’associazione; ▪ logopedista: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza commessa), censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa), sospensione temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito da uno a sei mesi, radiazione dall'albo professionale, in caso di reati previsti dal codice penale; ▪ tecnico audiometrista: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza commessa), censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa), sospensione temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito da uno a sei mesi [non è contemplata alcuna espulsione – radiazione]. 74 Quasi tutti i rimanenti 13 codici deontologici – tranne quello del fisioterapista; sibillino è quello del tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro – rinviano allo statuto dell’associazione o ad altro documento regolamentare che integra il codice deontologico. Di questi codici, solo 4 evidenziano la necessità che le sanzioni siano proporzionate alla gravità della violazione delle norme deontologiche; si tratta dei seguenti: dietista, tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, tecnico ortopedico, terapista occupazionale. Quanto ai vari statuti ed alle altre norme regolamentari di rinvio, è possibile trarre i dati appresso riportati. È da indicare preliminarmente che non è stato possibile recuperare lo statuto delle associazioni di riferimento di tecnico ortopedico e tecnico della riabilitazione psichiatrica, nonché l’allegato allo statuto (che contiene i dati di interesse) dell’associazione dei terapisti occupazionali. La valutazione che segue riguarda dunque i rimanenti 15 statuti (18 professioni sanitarie senza collegio meno le 3 predette). Si procede nell’analisi degli statuti secondo lo stesso schema adottato per i codici deontologici. Non sempre nello statuto sono indicate espressamente le sanzioni; in particolare risultano questi dati espliciti negli statuti delle varie professioni: ▪ assistente sanitario: cessazione (perdita della qualifica di socio a causa di comportamenti comunque riprovevoli sul piano etico e deontologico) e sospensione (per un periodo non superiore all’anno); ▪ educatore professionale: ammonizione (richiamo formale all'osservanza dei doveri e invito a non ripetere quanto commesso), censura (per abusi o mancanze, compiuti senza dolo, lesivi del decoro e della dignità della professione), sospensione dall'esercizio di cariche associative al massimo di due anni (per violazioni del codice deontologico, di grave nocumento per utenti/clienti o enti, e/o con risonanza negativa per il decoro e la dignità della professione; a seguito di procedimenti giudiziari pendenti di natura penale), 75 radiazione dall'associazione (di durata non superiore a tre anni, per violazione del codice deontologico e/o comportamento non conforme al decoro e alla dignità della professione di gravità tali da rendere incompatibile la permanenza nel libro dei soci; per l’intero periodo previsto dalla sentenza nel caso di condanna con sentenza passata in giudicato a pena detentiva per fatti commessi nell'esercizio della professione); ▪ ortottista-assistente in oftalmologia: richiamo, deplorazione, espulsione; ▪ podologo: avvertimento (diffida a non ricadere nella mancanza commessa), censura (dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa), sospensione dall’esercizio della professione (per la durata in genere da 1 a 6 mesi a seconda della gravità del caso), espulsione o radiazione dall’associazione (quando con la sua condotta l’iscritto abbia gravemente compromesso la sua reputazione e la dignità dei podologi italiani); ▪ tecnico audiometrista: richiamo scritto, censura, espulsione (analogamente a quanto già riportato in relazione al codice deontologico); ▪ tecnico audioprotesista: richiamo scritto, censura, espulsione; ▪ tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare: avvertimento (richiamo al colpevole sulla mancanza commessa invitandolo a non ricadervi), ammonizione (dichiarazione formale della mancanza commessa e del biasimo incorso), espulsione (l’esclusione definitiva dall’associazione); ▪ tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro: ammonizione: (richiamo scritto sull’osservanza dei doveri e diffida a non ripetere il fatto), censura (dichiarazione di biasimo), sospensione temporanea (durata massima 6 mesi) dall’associazione, radiazione (espulsione definitiva dall’associazione); ▪ tecnico sanitario di laboratorio biomedico: ammonizione verbale, biasimo scritto, censura, sospensione dallo status di socio fino a un massimo di 12 mesi, proposta di esclusione al consiglio direttivo (la proposta di esclusione può accompagnarsi al provvedimento di sospensione); 76 ▪ terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva: esclusione (gravi violazioni delle norme dello statuto o atti incompatibili con i fini dellʼassociazione). Ricordato che per 3 professioni sanitarie le sanzioni sono menzionate nel codice deontologico, risulta in definitiva un quadro estremamente eterogeneo quanto a denominazione delle sanzioni, comunque facilmente riconducibile a 3-4 gradi di gravità dei provvedimenti, gradi che tendono a ripetersi simili nei vari statuti o codici deontologici. Ciò che conta, nella pratica, è che, comunque, qualsiasi sanzione, anche la più severa ha conseguenze solo e soltanto nei rapporti fra il professionista e la propria associazione e non incide sulla sua attività professionale. Ciò ben diversamente da quanto accade per i professionisti con collegio, sui quali incombono sanzioni disciplinari che hanno ripercussioni sull’esercizio della professione. Risulta comunque che per 3 delle professioni sanitarie senza collegio, né i codici deontologici né gli statuti delle associazioni di riferimento descrivono i provvedimenti disciplinari comminabili: fisioterapista, igienista dentale e tecnico di neuro fisiopatologia. Per le 3 professioni sanitarie, dello statuto delle quali non si dispone, il codice deontologico nulla riporta circa le tipologie di sanzioni. In alcuni statuti è evidenziata la necessità che le sanzioni siano proporzionate alla gravità della violazione; si tratta dei seguenti: educatori professionale, podologo (il testo è criptico, il principio riguarda solo la sanzione della sospensione) tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro (si reitera quanto scritto nel codice deontologico), tecnico sanitario di laboratorio biomedico, terapista delle neuropsicomotricità (anche qui il testo è criptico: l’esclusione riguarda gravi violazioni). 77 Due statuti esprimono un dettaglio ulteriore, indicando i criteri ai quali riferirsi per comminare tipo ed entità della sanzione. Si tratta degli statuti dell’educatore professionale e del tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Essi individuano gli stessi criteri, con una piccola differenza lessicale (non concettuale) nell’ultima voce: - intenzionalità del comportamento; - grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell'evento; - responsabilità connessa alla posizione di lavoro; - grado di danno o di pericolo causato; - presenza di circostanze aggravanti o attenuanti; - concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro; - recidiva (educatore professionale) - recidiva e/o reiterazione (tecnico per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro). Risulta che per le seguenti professioni sanitarie senza collegio professionale, né i codici deontologici né gli statuti delle associazioni di riferimento esprimono il principio della proporzionalità fra sanzione e gravità della violazione: assistente sanitario, fisioterapista, igienista dentale, logopedista, ortottista-assistenti in oftalmologia e tecnico di neuro fisiopatologia. Per le 3 professioni sanitarie, dello statuto delle quali non si dispone, il codice deontologico nulla dice circa il principio di proporzionalità. Tabella 3.3 – Codici deontologici delle professioni sanitarie che non dispongono di collegio e sanzioni disciplinari Codice e professione Codice deontologico -- codice etico dell’’assistente sanitario Sanzioni previste dal codice Statuto ed eventuali regolamenti integrativi Art.10. Sanzioni disciplinari. 1. L’inosservanza delle disposizioni del presente C.D.-C.E. è sanzionata con i provvedimenti previsti dall’art. 4, lett. c) e d) dello Statuto. Statuto. Art.4. … c) Cessazione. La qualifica di socio si perde: a) per dimissioni volontarie; b) per morosità persistente dopo sollecito; c) a causa di comportamenti contrari allo spirito e alle regole dell’Associazione, o comunque riprovevoli sul piano etico e deontologico. I provvedimenti comportanti la cessazione, 78 Codice deontologico del dietista Codice deontologico degli educatori professionali Capo VI. Responsabilità disciplinare e sanzioni . 2. … In caso di accertata violazione degli impegni assunti dal socio ai sensi dell’art. 10 dello Statuto, il Collegio irroga le sanzioni disciplinari. 3. Le sanzioni sono adeguate e proporzionate alla violazione delle norme deontologiche e degli impegni disciplinati dallo Statuto e dal Codice etico; devono tenere conto della reiterazione dei comportamenti nonché delle specifiche circostanze, soggettive e oggettive, che hanno concorso a determinare l’infrazione. Sono previste le seguenti sanzioni: - censura verbale - censura scritta - sospensione temporanea dallo status di socio - espulsione dall’associazione nei casi di maggiore gravità provvisti di motivazione, sono di competenza dei Consigli Direttivi. … d) Sospensione. Per le cause sub b) e c) previste per la cessazione, il socio può, sempre per decisione del competente Consiglio Direttivo, essere sospeso per un periodo non superiore all’anno. Avverso a tale provvedimento il socio ha le stesse facoltà previste per la cessazione e simili le procedure. Statuto. Art. 19. Collegio dei Probiviri. Il Collegio dei Probiviri … delibera in seduta segreta sulla irrogazione delle sanzioni disciplinari. … Art. 20. Sanzioni disciplinari. In caso di accertata violazione degli impegni assunti dall’iscritto ai sensi dell’art. 9 del presente regolamento, il Collegio dei Probiviri irroga la sanzione della censura verbale o scritta. Nei casi di maggiore gravità può decidere l’espulsione dall’Associazione. Avverso tale decisione è ammesso ricorso scritto all’Assemblea da presentarsi entro trenta giorni al Segretario che provvederà alla convocazione nei successivi novanta giorni. Regolamento Approvato dall’Assemblea Nazionale dei delegati (Lucca 18 aprile 2009) Art. 1. Sanzioni. 1. Alla socia ed al socio dell'associazione che si rende colpevole di abuso o mancanza nell'esercizio della professione o che comunque tiene un comportamento non conforme alle norme del Codice Deontologico, al decoro o alla dignità della professione viene inflitta, tenuto conto della gravita del fatto, una delle seguenti sanzioni: a) ammonizione; b) censura; c) sospensione dall'esercizio di cariche associative d) radiazione dall'associazione. 2. Il tipo e l'entità di ciascuna sanzione sono determinati in relazione ai seguenti criteri: - intenzionalità del comportamento; - grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell'evento; - responsabilità connessa alla posizione di lavoro; - grado di danno o di pericolo causato; - presenza di circostanze aggravanti o attenuanti; [Nessuna indicazione] 79 - concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro; - recidiva. Art. 2 – Ammonizione. 1. La sanzione dell'ammonizione viene inflitta nei casi di abusi o mancanze di lieve entità, compiuti senza dolo, che non hanno comportato riflessi negativi sul decoro e sulla dignità della professione; consiste nel richiamo formale dell'interessata/o all'osservanza dei suoi doveri e nell'invito a non ripetere quanto commesso. … Art. 3. Censura. 1. La sanzione della censura è inflitta nei casi di abusi o di mancanze, compiuti senza dolo, che siano lesivi del decoro e della dignità della professione. … 3. Tre provvedimenti di censura comportano d'ufficio la sospensione dall'esercizio dalle cariche associative per un periodo non inferiore a 90 giorni. Art. 4 . Sospensione. 1. La sospensione dalle cariche dell’Associazione avviene anche in caso di condanna con l’applicazione degli articoli 19 e 35 del Codice Penale. Essa ha durata per tutto il tempo stabilito dal giudice. Il Consiglio direttivo nazionale si limita a prenderne atto. 2. La sanzione della sospensione dalle cariche dell’Associazione è inflitta fino al massimo di due anni: a) per violazioni del codice deontologico, che possano arrecare grave nocumento a utenti/clienti o enti, e/o una risonanza negativa per il decoro e la dignità della professione; b) a seguito di procedimenti giudiziari pendenti di natura penale. 3. Nei casi di maggiore gravità, la sanzione della sospensione può essere inflitta in via cautelare provvisoria al momento dell'apertura del procedimento disciplinare in specie quando il procedimento viene iniziato su rapporto della Procura della Repubblica e comunque dopo aver sentito la parte interessata. 4. Tre provvedimenti di sospensione comportano la radiazione dall'Associazione. Art. 5 – Radiazione. 1. La radiazione dall'associazione avviene nel caso d’interdizione dalla professione come previsto e regolato dagli artt. 19 comma 1 e 2, e art. 30 e 31 del Codice Penale. Il consiglio direttivo nazionale si limita a prenderne atto. 2. La sanzione della radiazione dall’associazione viene inflitta: a. nei casi di violazione del codice deontologico e/o di comportamento non conforme al decoro e alla dignità della professione di gravità tali da rendere incompatibile la permanenza nel libro dei 80 Codice deontologico dei fisioterapisti Art. 2. Responsabilità disciplinare. La violazione delle regole di condotta contenute nel presente Codice Deontologico è fonte di responsabilità disciplinare che integra le eventuali ulteriori sanzioni previste dalle norme giuridiche e dai contratti di lavoro. Codice deontologico degli igienisti dentali 49. L'inosservanza dei precetti e degli obblighi fissati dal presente Codice deontologico e ogni azione od omissione comunque non consone al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili con le procedure disciplinari e relative sanzioni previste nell'apposito Regolamento dell’AIDI. Il procedimento disciplinare è promosso d'ufficio. Art.3. Ogni atto professionale o personale, anche se compiuto al di fuori dell'ambito lavorativo, che sia in contrasto con i principi qui di seguito indicati, verrà perseguito con le sanzioni disciplinari previste dalle leggi vigenti. Art.19. Visto il D.P.R. n.221 del 5 aprile 1950, le sanzioni disciplinari previste sono: Codice deontologico del logopedista 81 soci. La radiazione ha una durata non superiore a tre anni; b. nel caso di condanna con sentenza passata in giudicato a pena detentiva per fatti commessi nell'esercizio della professione, la radiazione ha durata per l’intero periodo previsto dalla sentenza di condanna. 3. La sanzione della radiazione comporta la contestuale cancellazione dall’elenco dei soci dell’Associazione, fermo restando l'obbligo per l'iscritto a corrispondere le quote di iscrizione dovute per il periodo in cui è stato iscritto. … Art. 6 – Incompatibilità. 1. Le sanzioni disciplinari della censura, della sospensione e della radiazione dall'associazione non sono deontologicamente compatibili con l'assunzione e/o il mantenimento delle cariche previste dallo statuto dell’Associazione stessa, sia a livello nazionale che regionale. … [Nessun rinvio del codice deontologico ad altre fonti associative] Statuto. Art. 16. Del collegio dei probiviri e dei procedimenti relativi alla comminazione dei provvedimenti disciplinari. … 9. Il Collegio giudicherà con libertà di forma, previa specifica contestazione degli addebiti disciplinari ed emetterà la sua decisione a maggioranza, con motivazione in fatto e diritto. L’associato sottoposto a procedimento potrà presentare scritti difensivi e documenti e chiedere di essere sentito dal Collegio; egli inoltre potrà farsi assistere da un suo rappresentante. Regolamento nazionale (approvato dal Consiglio Direttivo nella seduta del 16.12.2009) Art. 12: Attività del Comitato dei Probiviri … Il Comitato dei Probiviri viene chiamato a pronunciarsi, con le modalità infra indicate, nei seguenti casi e circostanze: … d) espressione di parere consultivo in ipotesi di apertura di procedimenti disciplinari a carico dei Soci. [Nessun rinvio del codice deontologico ad altre fonti associative] Statuto [Nessuna indicazione utile] Codice deontologico degli ortottisti assistenti in oftalmologia Codice deontologico ed etico dei podologi 1) l'avvertimento, che comporta diffida a non ricadere nella mancanza commessa; 2) la censura, che comporta dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa; 3) la sospensione temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito da uno a sei mesi; 4) la radiazione dall'Albo Professionale, in caso di reati previsti dal Codice Penale. … Art. 48. L'Ortottista - Assistente in Oftalmologia che violasse le norme del presente Codice Deontologico è sottoposto a procedimento disciplinare secondo le modalità previste dal vigente Statuto. Art. 2. Potestà disciplinare – Sanzioni . L’ inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti fissati dal presente Codice di Deontologia e ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro e al corretto esercizio della professione, sono punibili dagli Organi istituzionali dell’Associazione secondo quanto previsto dall’Allegato A. 82 Statuto. Art.24. Misure disciplinari. Il Collegio può applicare le seguenti misure disciplinari: richiamo; deplorazione; espulsione. Il Segretario del Collegio trasmetterà copia del verbale delle misure adottate al Presidente e al Segretario dell’AIOrAO. Allegato “A” – Procedimenti disciplinari e sanzioni relative. Art. 1. I podologi che si rendono colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque di fatti disdicevoli al decoro professionale e deontologicamente censurabili, sono sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Consiglio direttivo dell’Associazione professionale. Art. 6. Le sanzioni disciplinari applicabili sono: l’avvertimento, che consiste nel diffidare il colpevole a non ricadere nella mancanza commessa; la censura, che è una dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa; la sospensione dall’esercizio della professione per la durata da … a ... (in genere da 1 a 6 mesi a seconda della gravità del caso); l’espulsione o radiazione dall’Associazione quando con la sua condotta l’iscritto abbia gravemente compromesso la sua reputazione e la dignità dei podologi italiani. Art. 7. La condanna per uno o più reati per i quali la legge commina la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni comporta di diritto la espulsione o radiazione dall’Associazione. Importano parimenti la radiazione o l’espulsione: l’interdizione dai pubblici uffici; il ricovero in un manicomio giudiziario; l’applicazione della misura di sicurezza preventiva. Codice deontologico dell’audiometrista Art. 18. Visto il D.P.R. n. 221 del 5 aprile 1950, le sanzioni disciplinari previste sono: 1. l'avvertimento, che comporta diffida a non ricadere nella mancanza commessa; 2. la censura, che comporta dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa; 3. la sospensione temporanea dall'esercizio della professione per un tempo definito da uno a sei mesi. Contro di esse può essere presentato appello nei termini previsti dalla normativa di legge, mediante ricorso al Consiglio Direttivo dell’Associazione. Codice deontologico del educatori professionali podologi audiometrista tecnico audioprotesista Art. 18. L'inosservanza dei precetti e degli obblighi fissati nel presente Codice, sono punibili con le sanzioni disciplinari previste dal vigente Statuto dell’Associazione Professionale e dalle leggi vigenti. Codice deontologico del tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare ART. 11. Sanzioni . Il Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare che viola il Codice Deontologico verrà sottoposto a procedimento disciplinare. Le sanzioni sono quelle previste dallo Statuto dell’Associazione 83 Nei casi meno gravi il Consiglio direttivo dell’Associazione può comminare la sospensiva cautelativa. [Nessun rinvio del codice deontologico ad altre fonti associative] Statuto. Art.6. 1. La qualità di socio ordinario, studente o onorario si perde per esclusione deliberata dal consiglio direttivo con voto favorevole dei due terzi dei votanti, a seguito della violazione di norme deontologiche o di gravi fatti incompatibili con le finalità dell’associazione. Contro la decisione del consiglio direttivo, che verrà comunicata per iscritto, il socio espulso può ricorrere al Collegio dei Probiviri, con richiesta di convocazione entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione. … 2. Nei procedimenti diretti alla irrogazione delle sanzioni previste dal codice deontologico o alla esclusione il Consiglio Direttivo e il Collegio dei Probiviri nella prima seduta nominano il relatore e il segretario, fissano la data dell’audizione delle parti ne danno notizia a costoro almeno trenta giorni prima segnalando che possono intervenire personalmente per esporre le proprie ragioni, produrre scritti e presentare testi direttamente alla loro audizione. … Secondo la gravità dell’infrazione commessa, i provvedimenti a carico dell’inadempiente possono essere: a) richiamo scritto; b) censura; c) espulsione. Art. 5. Ciascun socio è tenuto a conoscere lo Statuto dell’Associazione e le regole etiche del Codice Deontologico che si impegna a rispettare. La mancata osservanza delle disposizioni del Codice Deontologico è giudicata dal Collegio dei Probiviri dell’Associazione; i Probiviri, svolta una diligente indagine e sentito su richiesta il socio, trasmettono il proprio parere al Consiglio Direttivo dell’Associazione per le decisioni finali. Secondo la gravità dell’infrazione commessa, i provvedimenti a carico dell’inadempiente possono essere: a) richiamo scritto; b) censura; c) espulsione. Statuto. Art. 12. Norme disciplinari. Nei confronti dei soci che si pongono in contrasto con le finalità dell’Associazione arrecando ad essa pregiudizio morale o materiale, avuto riguardo alla gravità dei fatti accertati, si applicano le seguenti sanzioni disciplinari: • avvertimento, che consiste nel richiamare il colpevole sulla mancanza commessa invitandolo a non ricadervi; Codice deontologico del tecnico di neurofisiopatologia [Nessuna indicazione] Codice deontologico dei tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro Art. 3. Sanzioni. 1. L’inosservanza di quanto disposto dal presente Codice la violazione di Leggi e Regolamenti, nonché ogni azione, ovvero ogni omissione, che siano comunque disdicevoli per il T.d.P., sono passibili delle sanzioni disciplinari previste dal presente Codice, dai regolamenti d’attuazione e dalla normativa. 2. Le sanzioni disciplinari devono essere irrogate tenendo conto della gravità delle azioni e/o delle omissioni compiute. 84 • ammonizione, che è una dichiarazione formale della mancanza commessa e del biasimo incorso; • espulsione, che è l’esclusione definitiva dall’Associazione; Il provvedimento disciplinare è iniziato a cura del Collegio dei Probiviri e deve essere svolto nel rispetto del principio del contraddittorio, assunte tutte le necessarie informazioni. L’avvertimento e l’ammonizione sono irrogate con provvedimento motivato dal Collegio dei Probiviri, il quale ne dà comunicazione al Consiglio Direttivo ed all’interessato con raccomandata con ricevuta di ritorno. L’esclusione è ratificata dal Collegio dei Probiviri al Consiglio Direttivo con provvedimento motivato, ed è comunicata all’interessato con raccomandata con ricevuta di ritorno. … [Nessun rinvio del codice deontologico ad altre fonti associative] Statuto [Nessuna indicazione utile] Statuto. Art. 29 . Codice deontologico. L' UNPISI è dotata di un Codice Deontologico che prevede sanzioni graduate in relazione alle violazioni poste in essere; autonomia dell'organo proposto all'adozione dei provvedimenti disciplinari e garanzia del diritto di difesa nel procedimento disciplinare e reso pubblico attraverso il sito dell'UNPISI. Art. 33. Procedimento disciplinare. 1. Gli associati che contravvengono alle norme riportate nel Codice Deontologico sono punibili con sanzioni o provvedimenti disciplinari. … Entro 90 giorni dalla contestazione dell’addebito il Collegio dei Probiviri delibera il provvedimento intrapreso comunicandolo all’interessato ed al Presidente dell’Associazione. Sul caso e sui provvedimenti potranno altresì essere informati eventualmente gli uffici e/o amministrazioni interessate. … Art. 34. Sanzioni e provvedimenti disciplinari. 1. La graduazione dei provvedimenti intrapresi sarà proporzionale alla gravità delle violazioni poste in essere; nell’adozione dei provvedimenti, quale criterio oggettivo, viene fatto riferimento, per tutti i soci alle norme disciplinari previste dalla nome di contrattazione collettiva e dalle norme sui procedimenti disciplinari. 2. All’associato che si rende responsabile di abuso o mancanza nell'esercizio della professione o che comunque tiene un comportamento non conforme alle norme del Codice Deontologico, al decoro o alla dignità della professione, il Collegio dei Probiviri, tenuto conto della gravità e del fatto, Codice deontologico del tecnico ortopedico Codice deontologico del tecnico sanitario di laboratorio biomedico Art. 2 - L'inosservanza dei precetti stabiliti nel presente codice deontologico ed ogni azione od omissione comunque contrarie al decoro, alla dignità ed al corretto esercizio della professione sono punibili con le sanzioni disciplinari contenute nello statuto dell'Associazione. … Le sanzioni devono essere adeguate alla gravità degli atti. Art. 35. Il TSLB che violi le norme del presente Codice Deontologico è sottoposto a procedimento disciplinare secondo le modalità previste dal vigente Statuto 85 commina una delle seguenti sanzioni adeguata e proporzionata alla violazione del codice deontologico: a) ammonizione: richiamo scritto verso l’interessato sull’osservanza dei propri doveri e diffida a non ripetere il fatto ascritto b) censura: dichiarazione di biasimo c) sospensione: sospensione temporanea (durata massima 6 mesi) dall’Associazione ; d) radiazione: espulsione definitiva dall’Associazione; 3. Il tipo e l’entità di ciascuna sanzione sono determinati in relazione ai seguenti criteri: a) intenzionalità del comportamento; b) grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell’evento; c) responsabilità connessa alla posizione di lavoro; d) grado di danno o di pericolo causato; e) presenza di circostanze aggravanti o attenuanti; f) concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro; g) recidiva e/o reiterazione. [Lo statuto non risulta pubblicato] Art. 5Hd) Procedimento disciplinare: Comitato di Garanzia e decisione … 2. Il Comitato di Garanzia, previa audizione dell’interessato eventualmente assistito da un legale o da altra persona di fiducia, si pronuncia definitivamente entro 60 (sessanta) giorni dalla succitata audizione con decisione motivata depositata al protocollo del Collegio dei Probiviri nella sede nazionale dell’Associazione. … Il Comitato di Garanzia definisce i procedimenti con decisione motivata che preveda il proscioglimento dagli addebiti, ovvero, in caso di accertata fondatezza degli stessi, una delle seguenti sanzioni, in funzione della gravità delle inadempienze: a) ammonizione verbale; b) biasimo scritto; c) censura; d) sospensione dallo status di socio fino a un massimo di 12 mesi; e) proposta di esclusione al Consiglio Direttivo. Codice deontologico del tecnico della riabilitazione psichiatrica Codice deontologico dei terapisti occupazionali Codice deontologico dello psicomotricista Titolo VII. Sanzioni e procedimenti disciplinari. Art.1. Il TeRP che violasse le norme del presente Codice Deontologico è sottoposto a procedimento disciplinare secondo le modalità previste dal vigente Statuto. Premessa. L'inosservanza degli obblighi e dei divieti fissati dal presente Codice Deontologico e ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili con le sanzioni disciplinari previste dalla legge e dallo Statuto dell’A.I.T.O. Le sanzioni, adottate nella forma e con le procedure previste dalla legge e dallo Statuto dell’A.I.T.O., devono essere adeguate alla gravità degli atti. Art. 1 … La non conoscenza delle norme non li preserva dalla responsabilità che l’inosservanza comporta; ogni atto professionale o personale, anche se compiuto al di fuori dell'ambito lavorativo, che sia in contrasto con i principi qui di seguito indicati, verrà perseguito attraverso le procedure e le sanzioni previste dal Regolamento Disciplinare. 3. La proposta di esclusione può accompagnarsi al provvedimento di sospensione. … [Non risulta pubblicato] Statuto. … Gli allegati: … 3) Procedure e Sanzioni Disciplinari … fanno parte integrante del presente Statuto. [non risultano pubblicate] Statuto. Art. 5. Provvedimenti disciplinari. 1. La qualità di Socio viene a cessare per i seguenti motivi: … c) esclusione: quando l'associato incorra in gravi violazioni delle norme dello Statuto o quando compia atti incompatibili con i fini dellʼAssociazione. Sulla perdita della qualità di Socio si pronuncia il Comitato Direttivo. Il Socio escluso può proporre opposizione ai Collegio dei Probiviri. 5. Responsabilità e codice deontologico dell’infermiere La normativa dello Stato, anche considerando il D.P.R. 821 del 1984 menzionato nel paragrafo 2.6, non è stata la prima a citare esplicitamente la responsabilità dell'infermiere o di altro professionista sanitario, essendo stata preceduta, nel 1977, dalle indicazioni del codice deontologico degli infermieri, il cui articolo 6 affermava la responsabilità dell'infermiere, qualificandola come “autonoma”, e correlandola alla collaborazione attiva con i medici e con gli operatori socio-sanitari in genere. Storicamente, è pertanto ben documentato lo specifico interesse degli infermieri, attraverso il loro codice deontologico, proprio al tema della 86 “responsabilità”, fin da quando, di questo termine, in rapporto alle professioni sanitarie non mediche, non vi era proprio traccia nelle leggi dello Stato. Per focalizzare l’epoca, siamo nel periodo immediatamente precedente l’istituzione del servizio sanitario nazionale. L’interesse degli infermieri al tema della responsabilità è continuato giungendo alla pubblica proclamazione, da parte della Federazione nazionale dei collegi IPASVI, del 1999 come anno della responsabilità. Non è casuale che la penultima versione del codice deontologico degli infermieri sia di quell’anno ed è da osservare la straordinaria enfasi conferita appunto al tema della responsabilità in quel codice deontologico. I termini responsabilità o responsabile ricorrono, complessivamente, per otto volte. Per il dettaglio degli articoli si rinvia alla prima colonna della tabella 3.4. Si è parlato di enfasi posta da quel codice deontologico nell’affermare la responsabilità dell'infermiere; è pacifico infatti che richiami alla responsabilità possono ben essere fatti, anche senza che sia testualmente menzionato il sostantivo responsabilità. È però importante proclamare apertamente il richiamo alla responsabilità nell’espletamento di funzioni fondamentali, anche per esplicitare il significato del termine “responsabilità” secondo il codice deontologico e quindi secondo i professionisti che lo adottano come punto di riferimento. Ed in quel codice era evidente il concetto di responsabilità, essendo stato il sostantivo usato sempre nella sua accezione positiva, quella cioè dell'assumere, anche con le pertinenti iniziative, una condotta congrua rispetto ai bisogni della persona assistita. La responsabilità, dunque, come risposta competente al bisogno della persona nel codice deontologico dell’infemiere del 1999 persiste dunque, espressa con minor enfasi, nell’attuale versione del codice rivolto a professionisti che, a distanza di tempo, ormai ampiamente condividono il concetto di responsabilità, che quindi può essere recepito nel codice in forma semplificata. Il confronto dei contenuti in materia di responsabilità nelle due ultime versioni del codice deontologico è riportato nella tabella 3.4. 87 Tabella 3.4 – La responsabilità nelle due ultime stesure del codice deontologico dell’infermiere Codice deontologico dell’infermiere 1999 Codice deontologico dell’infermiere 2009 1.1. L’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma abilitante e dell’iscrizione all’Albo professionale, è responsabile dell’assistenza infermieristica. 1.3. La responsabilità dell’infermiere consiste nel curare e prendersi cura della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo. 1.4. Il Codice deontologico guida l’infermiere nello sviluppo della identità professionale e nell’assunzione di un comportamento eticamente responsabile. È uno strumento che informa il cittadino sui comportamenti che può attendersi dall’infermiere. 2.1. Il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’assunzione della responsabilità delle cure infermieristiche. 3.2. L’infermiere assume responsabilità in base al livello di competenza raggiunto e ricorre, se necessario, all’intervento o alla consulenza di esperti. … 3.3. L’infermiere riconosce i limiti delle proprie conoscenze e competenze e declina la responsabilità quando ritenga di non poter agire con sicurezza. Ha il diritto ed il dovere di richiedere formazione e/o supervisione per pratiche nuove o sulle quali non ha esperienza; si astiene dal ricorrere a sperimentazioni prive di guida che possono costituire rischio per la persona. Art. 1. L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica. Art. 3. La responsabilità dell'infermiere consiste nell'assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo. Art. 13. L'infermiere assume responsabilità in base al proprio livello di competenza e ricorre, se necessario, all'intervento o alla consulenza di infermieri esperti o specialisti. Presta consulenza ponendo le proprie conoscenze ed abilità a disposizione della comunità professionale. Art. 47. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario, alfine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale. Art. 48. L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione ai responsabili professionali della struttura in cui opera o a cui afferisce il proprio assistito. 6. Responsabilità e deontologia: innovazioni concettuali nel codice deontologico dell’infermiere Il codice deontologico degli infermieri merita una considerazione specifica, perché offre spunti di riflessione peculiarissimi, non limitati al risalto maggiore o minore espressamente conferito al termine responsabilità. L’analisi di questo codice permette rilievi di carattere sostanzialmente culturale-qualitativo che ben si integrano con quelli di carattere formale-quantitativo elaborati dalla analisi comparata di tutti i codici deontologici delle professioni sanitarie. I concetti esposti in questo codice con formulazioni diversificate, riferiti ora all’infermiere come professionista, ora all’assistenza infermieristica come esercizio della professione, ora 88 alla responsabilità dell’infermiere, corrispondono comunque ad altrettante assunzioni di impegno da parte dell’infermiere. In quest’ottica si colloca l’uso del sostantivo “impegno” negli articoli 6, 8, 9 e 32 e di termini analoghi, riconducibili ai verbi attivarsi negli articoli 1, 16, 18, 19, 34 ed adoperarsi negli articoli 23, 30, 31, 34. L’assunzione di impegno nello svolgimento della professione, anche attivandosi ed adoperandosi, mostra analogie con il concetto di posizione di garanzia, elaborato dalla dottrina giuridica per delineare il fondamento del comportamento virtuoso del professionista sanitario. La posizione di garanzia, come già discusso nel paragrafo 2.2, è l’obbligo di attivarsi – che incombe su chiunque svolga un’attività che comprenda la gestione di pericoli – per evitare il verificarsi di tali pericoli e garantire la persona affidata alle sue cure, in base alle evidenze scientifiche ed alle risorse tecniche disponibili. Vi è tuttavia una differenza sostanziale fra le due impostazioni, pur se di contenuto analogo: la concezione deontologica dell’infermiere si basa sull’impegno, il dettato giuridico insiste sull’obbligo. L’approccio alla questione del codice deontologico dell’infermiere è definibile meta-giuridico, perché, pur nella coincidenza concettuale di fondo con il diritto, valorizza la responsabilità come impegno, e quindi come scelta, piuttosto che come dovere. Il codice deontologico dell’infermiere esprime dunque un cambiamento profondo della concezione stessa della deontologia. Come riportato nel paragrafo 1.4, il significato etimologico di deontologia è “discorso dei doveri”, derivando dal greco antico: da δέον [dèon], che significa “dovere”, e λόγος [lògos], che vuol dire “discorso”. Il termine, nel codice dell’infermiere, stravolge il proprio significato e diventa espressione di discorso della responsabilità, laddove “responsabilità” corrisponde al personale impegno professionale nell’interesse di salute della persona. L’infermiere aderisce ai precetti del codice deontologico non per imposizione, ma per scelta, perché si riconosce in essi, guidato dal suo senso di responsabilità. 89 È espressione di questa impostazione culturale della professione infermieristica l’art. 28 del codice deontologico: “L’infermiere rispetta il segreto professionale non solo per obbligo giuridico, ma per intima convinzione e come espressione concreta del rapporto di fiducia con l’assistito”. Questo articolo è il paradigma della nuova percezione della deontologia: che potrebbe essere definita deontologia della responsabilità, cioè della scelta del professionista ad impegnarsi nell’interesse della persona. Gli aspetti generali della responsabilità sono considerati in due articoli in particolare. L’art. 3 fornisce una sorta di definizione di responsabilità dell’infermiere, proposta secondo l’ottica positiva della tutela della persona e della solidarietà con l’assistito, nella triplice proiezione dell’assistere, del curare e del prendersi cura, nel rispetto dei quattro diritti: vita, salute, libertà e dignità . L’art. 7 aggiunge l’altro concetto fondamentale: quello dell’impegno, da parte dell’infermiere, ad attivare le risorse dell’assistito, condividendo con lui stesso il momento di difficoltà in cui versa, in modo solidale e con rispetto della sua dignità. L’art. 11 enuncia i concetti sui quali fonda la professione dell’infermiere: le conoscenze validate, le competenze ed il loro aggiornamento. Le prime sono le conoscenze scaturenti da prove scientifiche affidabili e sicure. Le competenze sono qui da intendere come insieme di conoscenze e capacità-abilità applicabili in ambito assistenziale infermieristico. L’art. 12 amplia l’ambito di responsabilità, affiancando alla ricerca la sperimentazione, e specificando la natura clinica ed assistenziale di entrambe: il “valore” di ricerca e sperimentazione è tale se gestito responsabilmente, tutelando sia “l’evoluzione delle conoscenze” sia “i benefici sull’assistito”. L’art. 13 analizza il concetto di responsabilità in proiezione pratica, alla luce del concetto di competenza, di cui all’art. 11. Dall’art. 11, che coniuga formazione permanente, riflessione critica sull’esperienza e ricerca, deriva un concetto di competenza assimilabile all’espressione “sapere, saper fare, saper essere”; 90 correlativamente, l’art. 13 esprime anche il concetto di “sapersi fermare” sempre, quando la propria competenza non è adeguata rispetto alla situazione da affrontare. L’art. 14 propone un aspetto della responsabilità, mai evidenziato in alcun codice deontologico: “le modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito” sono costituite da “interazione fra professionisti” e da “integrazione interprofessionale”. Nell’attuale fase di diffusa crisi relazionale fra professionisti sanitari e di difficoltà di definire alcune competenze dei rispettivi campi operativi, l’articolo è un richiamo al senso di responsabilità del professionista, affinché si confronti con gli altri per la definizione di contenuti ed obiettivi e la reciproca valorizzazione. L’art. 15 richiama la responsabilità dell’infermiere di curare la propria formazione permanente, qualora l’istituzione non accolga le richieste formali di formazione. L’art. 16 si sofferma su due precise attività: l’analisi dei dilemmi etici scaturenti dall’operatività quotidiana ed il ricorso alla consulenza etica. Di fronte ai dilemmi etici, l’infermiere deve assumere una posizione attiva. Il richiamo conclusivo all’ “approfondimento della riflessione bioetica” indica che l’analisi non deve limitarsi ad una riflessione personale, ma può essere condotta con il contributo di esperti. L’art. 17 afferma la responsabilità rispetto a condizionamenti da qualunque parte provengano: è sottinteso che si tratta di condizionamenti corrispondenti ad interessi in contrasto con i principi generali del codice deontologico. La risposta dell’infermiere in queste situazioni resta il dialogo ed il confronto con chi opera la pressione. L’art. 18 riguarda la responsabilità, duplice, di prestare soccorso e di attivarsi per garantire l’assistenza, in situazioni di emergenza-urgenza. L’impegno è rivolto ad una duplicità delle azioni: la prestazione intrinseca di soccorso e l’attivarsi per garantire l’ulteriore assistenza necessaria. 91 I successivi articoli riguardano la responsabilità dell’infermiere nei suoi aspetti applicativi specifici nella relazione con la persona. Si considerano ora i più rilevanti in materia di responsabilità. In base all’art. 19, l’“educazione”, che l’infermiere ha la responsabilità di promuovere, non è solo quella individuale, ma anche quella rivolta alla collettività. Con l’art. 20 inizia, nel codice deontologico, la trattazione della responsabilità in tema di informazione e di comunicazione. Una siffatta delimitazione del tema, per quanto descritta con due sostantivi (informazione e comunicazione), è tuttavia riduttiva di fronte alla ricchezza lessicale e concettuale che scaturisce da questo articolo e da quelli immediatamente successivi. Nell’art. 20, il processo di ascolto, informazione, coinvolgimento e valutazione condivisa ha valore in sé e per sé e non è necessariamente finalizzato ad eventuali decisioni dell’assistito. L’art. 21 traccia un percorso che scaturisce dalle indicazioni espresse dall’assistito, prevedendo, fra l’altro, il coinvolgimento, nel piano di cura, delle persone significative per l’assistito stesso, nel rispetto delle sue indicazioni al riguardo. L’art. 22 prevede che l’infermiere conosca “il progetto diagnostico-terapeutico”, e quindi si attivi per essere informato. L’art. 23 cita il valore dell’informazione integrata multiprofessionale: ciò significa che l’informazione non è prerogativa di una sola professione, ma che le diverse professioni devono contribuire, insieme, a realizzare un progetto informativo in relazione alle patologie ed ai bisogni della persona. Anche questa disposizione non ha precedenti in alcun altro codice deontologico di professione sanitaria: l’auspicio è che un analogo articolo sia adottato in tutti i codici deontologici delle professioni sanitarie. Per ora è responsabilità dell’infermiere rendere effettivo il dettato dell’art. 23 nella pratica quotidiana. L’art. 24 valorizza il processo di scelta da parte dell’assistito ed il ruolo informativo affidato alla responsabilità dell’infermiere. 92 L’art. 25 indica una ulteriore responsabilità, quella del rispetto della volontà, consapevole ed esplicita, dell’assistito di non essere informato sul suo stato di salute. Nell’art. 27 si parla della responsabilità dell’infermiere in relazione al fatto che egli è chiamato a garantire la continuità assistenziale anche contribuendo alla realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione degli strumenti informativi. Quest’ultima locuzione si riferisce alla documentazione infermieristica; la rete di rapporti interprofessionali sta ad indicare che essa è comunque indispensabile a fianco di tale documento per la comunicazione fra professionisti sanitari. L’art. 26 si ispira al già citato principio della tutela della riservatezza delle informazioni relative all’assistito. È enunciato un corollario del principio generale, della cui originalità si è già fatto cenno: la selezione responsabile dei dati personali da utilizzare; raccolta, gestione e passaggio sono infatti limitati solo a “ciò che è attinente all’assistenza”. L’art. 28 è l’emblema del senso di responsabilità nella percezione deontologica: una sorta di ponte che collega il codice deontologico attuale con le due versioni precedenti. Il testo è infatti sovrapponibile a quello dell’art. 3 della stesura del codice del 1977 e del comma 4.8 della redazione del 1999. L’art. 29 sottolinea la responsabilità dell’infermiere in ordine alla promozione delle migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari, allo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore nonché alle iniziative per la gestione del rischio clinico. L’art. 30 richiama le responsabilità in fatto di contenzione. Quest’ultima è indicata come “evento straordinario” ammissibile esclusivamente nei casi in cui sia sostenuto non solo da prescrizione medica, ma anche – e si tratta di un concetto innovativo che investe la responsabilità dell’infermiere – da “documentate valutazioni assistenziali”. L’art. 31 afferma che “sia presa in considerazione l’opinione del minore rispetto alle scelte assistenziali, diagnostico-terapeutiche e sperimentali, tenuto conto 93 dell’età e del suo grado di maturità” ed aggiunge la corrispondente responsabilità dell’infermiere, che cioè questi “si adopera” perché questo obiettivo sia perseguito. L’art. 32 è un’esemplificazione dell’impegno dell’infermiere, di assumersi responsabilità anche di carattere non strettamente sanitario, a prescindere dalle condizioni di salute. Vi è un riferimento implicito al minore, all’anziano ed alla donna, in quanto persone che più facilmente possono subire limitazioni nel contesto familiare o sociale nell’espressione di sé. Si tratta, comunque, di rendere concreto l’impegno alla solidarietà umana, da parte dell’infermiere. L’art. 33 è, per alcuni aspetti, un completamento dell’articolo precedente; riguarda maltrattamenti e privazioni a carico dell’assistito; l’atteggiamento responsabile da parte dell’infermiere è prescritto con grande equilibrio. L’art. 34 è dedicato all’impegno attivo dell’infermiere volto a prevenire e contrastare il dolore e ad alleviare la sofferenza. L’art. 35 indica la prestazione di assistenza come attività in cui l’infermiere si impegna, qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del “conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”. L’art. 36, che riguarda un aspetto dell’autodeterminazione dell’assistito, si conclude con una frase fondamentale: che gli interventi siano “coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita”. Se non si rispetta questo parametro e si giunge ad eccessi, allora nasce il diritto, per la persona assistita, a porre limiti a siffatti eccessi. È responsabilità dell’infermiere tutelare questo diritto, nei termini che sono espressi dall’assistito. L’art. 37 è dedicato alle manifestazioni di volontà anticipate. La responsabilità, al riguardo, dell’infermiere – quando l’assistito non è in grado di comunicare la propria volontà – è quella di tener conto di quanto espresso in precedenza dall’assistito stesso in modo chiaro e documentato, laddove il significato di “tener conto” è di valutare-considerare, non già di accettare acriticamente, le precedenti indicazioni della persona stessa. 94 Nell’art. 38 è espresso il fermo rifiuto a partecipare a trattamenti finalizzati a provocare la morte dell’assistito, ancorché la richiesta provenga da lui stesso. L’art. 39 afferma il sostegno da fornire ai familiari dell’assistito sempre, e in particolare in momenti di grande difficoltà, quali quelli legati all’evoluzione terminale della malattia e alla perdita della persona cara ed all’elaborazione del lutto. 95 CAPITOLO 4 RESPONSABILITÀ E CODICE PENALE 1. Responsabilità penale: sinossi dei delitti possibili nel corso dell’attività professionale Fra le tipologie di responsabilità giuridica che scaturiscono dalla violazione di una data norma dell'ordinamento vi è la responsabilità penale. L’espressione figura nell’art. 27 della Costituzione, che stabilisce che “la responsabilità penale è personale”. Essa è riconducibile alla commissione, personale, di un fatto configurante reato, laddove per tale si intende un comportamento che si concretizza in un’azione o omissione lesiva di un bene che l’ordinamento giuridico tutela e da cui fa discendere l’irrogazione di una pena. Anche il professionista sanitario può divenire soggetto attivo del reato e quindi titolare di responsabilità penale, con particolare riferimento a condotte che più facilmente possono realizzarsi nell’ambito della propria attività professionale e per le funzioni richieste dalla stessa. I reati che possono più frequentemente verificarsi in seguito a condotte poste in essere dal professionista sanitario in relazione all’esercizio professionale sono riportati in Tabella 4.1. Tabella 4.1 - Delitti ipotizzabili in relazione ad alcune condotte del professionista sanitario Delitti Testo dell’articolo, per quanto di interesse Esemplificazione della corrispondente condotta del professionista sanitario e, se previsto, del connesso evento di danno 590 chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito … errore od omissione che abbia causato o aggravato una malattia nell’assistito omicidio colposo 589 chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito … errore od omissione che abbia causato il decesso dell’assistito lesione personale dolosa 582 chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla attività intrinsecamente A) DELITTI CHE SUSSISTONO AL REALIZZARSI DI UN E V E N T O D I DANNO lesione personale colposa Articol o del codice penale 96 professionale lesiva quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito … chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa è punito … dell’assistito, ad esito fausto, ma effettuata senza il consenso dell’assistito stesso, capace di prendere decisioni violenza privata 610 attività professionale realizzata contro la volontà dell’assistito B) DELITTI DI SOLA CONDOTTA omissione di soccorso 593 … Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità. … mancata prestazione dell’assistenza occorrente nei confronti di qualsiasi persona inanimata, ferita o altrimenti in pericolo, al di fuori di obblighi istituzionali, nel solo caso che il professionista sanitario si imbatta nella persona rifiuto di atti di ufficio; omissione 328 Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni … di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito… mancata attività istituzionalmente doverosa, da praticare senza ritardo da parte del professionista sanitario, quando pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio rivelazione di segreto professionale 622 Chiunque, avendo notizia, per ragione … della propria professione …, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito… 326 Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito… comunicazione a persone diverse dall’assistito di qualsiasi dato relativo allo stesso assistito o ai suoi familiari ed amici appreso a motivo della professione rivelazione di segreto d’ufficio falsità ideologica in certificati 481 falsità ideologica in atti pubblici 479 Chiunque, nell'esercizio di una professione sanitaria … attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che … attesta falsamente fatti 97 comunicazione a terzi di fatti inerenti la pubblica funzione o il pubblico servizio rivestiti falsa attestazione nella documentazione sanitaria, quando libero professionista falsa attestazione in documentazione sanitaria, nell’ambito dello svolgimento di pubbliche funzioni dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito… omissione di referto 365 Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'autorità … è punito … mancata tempestiva segnalazione di delitti perseguibili d’ufficio all’autorità giudiziaria, da parte del professionista sanitario che presti opera od assistenza omissione di denuncia 361362 Il pubblico ufficiale [ o l'incaricato di un pubblico servizio], il quale omette o ritarda di denunciare all'autorità giudiziaria, o ad un'altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle mancata tempestiva segnalazione all’autorità giudiziaria di reati perseguibili d’ufficio, da parte del professionista sanitario, quando pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio 2. Responsabilità professionale e delitti colposi In ambito penale, l’espressione “responsabilità professionale”, nel linguaggio corrente, fa riferimento, a due ipotesi delittuose riconducibili a condotte colpose: l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose. 2.1. Lesioni personali colpose Il delitto di lesioni personale colpose è contemplato dall’art. 590 del codice penale. Art. 590. Lesioni personali colpose. - Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309. Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239. Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni. Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni. Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque. 98 Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale. Il delitto di lesione personale si configura quando una persona causa ad altri una malattia nel corpo o nella mente. La malattia è definibile come alterazione dello stato anteriore caratterizzata da evolutività. Si tratta in genere di una malattia prima non esistente, interamente originata dalla azione della persona. Per quanto riguarda l’attività professionale, il delitto si concretizza anche se un trattamento non corretto produce l’aggravamento di una malattia preesistente, purché la malattia venga ad assumere caratteristiche diverse e più gravi rispetto a quelle che avrebbe avuto in caso di condotta corretta. I rispettivi esempi sono: - malattia prima non esistente: lo shock anafilattico per erronea somministrazione di un farmaco, diverso da quello prescritto dal medico ed al quale l’assistito è allergico; - persistenza di malattia preesistente con caratteristiche autonome: l’aggravamento di una cistite conseguente alla erronea somministrazione di un farmaco, diverso da quello corretto prescritto dal medico, essendo il farmaco sbagliato comunque inefficace e non specificamente produttivo di alcun danno nell’assistito. La lesione personale ha connotazioni di gravità progressiva (con corrispondente progressivo inasprimento delle pene) in relazione a vari fattori, dei quali alcuni sono di rilievo sanitario e possono avere carattere temporaneo o permanente. In relazione ai fattori biologici, dal dettato dell’art. 583 del codice penale discende che la lesione personale: - è semplice, quando la malattia sia di durata non superiore a quaranta giorni; - è grave, quando la malattia e/o la incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni sia di durata superiore a quaranta giorni o/e quando consegua o il pericolo per la vita della persona offesa o l’indebolimento permanente di un organo; 99 - è gravissima, quando derivi una malattia certamente o probabilmente insanabile o/e quando conseguano varie tipologie di postumi permanenti di notevole entità (permanente e grave difficoltà della favella; deformazione o sfregio permanente del viso), o da perdite di funzioni (perdita di un senso; perdita di un arto, o mutilazione che renda l’arto inservibile, o perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare). 2.2. Omicidio colposo L’omicidio colposo è contemplato dall’art. 589 del codice penale. Art. 589. Omicidio colposo. - Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni. … (omissis) … Il professionista sanitario può essere responsabile del reato, quando realizzi una condotta colposa che causi o una malattia prima non esistente o l’aggravamento di una malattia preesistente, in ogni caso di gravità tale da determinare la morte. 4.2.3. Interruzione della gravidanza colposa L’interruzione della gravidanza è illegale, quando sussiste una delle circostanze criminose di cui alla legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Gli articoli di interesse sono i seguenti. Art. 17. - {I}.Chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni. {II}. Chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal comma precedente, diminuita fino alla metà. {III}. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è aumentata. Art. 18. - {I}. Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno. {II}. La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. {III}. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l’acceleramento del parto. {IV}. Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. {V}. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto. Art. 19. - {I}.Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. {II}. La donna è punita con la multa fino a euro 51. 100 {III}. Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni. {IV}. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi. {V}. Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile. {VI}. Se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. {VII}. Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma. Art. 20. - {I}. Le pene previste dagli articoli 18 e 19 per chi procura l’interruzione della gravidanza sono aumentate quando il reato è commesso da chi ha sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’articolo 9. Gli articoli 18 e 19 prospettano casi di interruzione di gravidanza conseguenti a comportamenti volontari: il primo contempla ipotesi delittuose nelle quali manca il consenso della donna, il secondo sanziona casi, nei quali sussiste tale consenso, ma l’interruzione di gravidanza si realizza senza rispettare le condizioni previste dalla legge n. 194 del 1978. L’art. 17 considera gli eventi conseguenti a condotta colposa. Fermi restando i principi generali del concetto di colpa, le circostanze in cui tale condotta più spesso si realizza riguardano incidenti stradali, malattie professionali, infortuni sul lavoro nonché errori od omissioni da parte di professionisti sanitari nelle attività di rispettiva pertinenza negli accertamenti o nei trattamenti relativi alla gestante. I delitti che risultano da questo articolo sono i seguenti: I) aborto cagionato per colpa (art. 17, primo comma): si verifica quando il responsabile pone in essere una condotta colposa (provoca ad esempio un sinistro stradale per imprudenza, investendo con un’autovettura una donna gravida che procede a piedi), che causa l’interruzione di gravidanza con morte del prodotto del concepimento; II) parto prematuro cagionato per colpa (art. 17, secondo comma): la condotta del responsabile corrisponde a quella del caso precedente, ma interessa una donna in stato di gravidanza avanzato, 101 con feto che ha raggiunto la maturità, talché la conseguenza dell’interruzione di gravidanza (la quale, in questo caso, deve derivare proprio dalle lesioni) è un parto prematuro con sopravvivenza del feto; 2.3. La condotta I delitti citati nei paragrafi precedenti possono essere determinati da condotte errate od omissive da parte del professionista sanitario; perché tali condotte assumano rilevanza giuridica è necessario: - che la condotta sia caratterizzata da colpa (art. 43 del codice penale); - che si verifichi un evento di danno alla persona: rispettivamente la morte o la malattia (articoli 589 e 590 del codice penale); - che esista nesso di causalità materiale fra condotta del professionista sanitario e morte o malattia (art. 40 del codice penale). La condotta – che può consistere in un’azione od in un’omissione – del professionista sanitario deve essere caratterizzata da colpa. La colpa corrisponde, alternativamente o cumulativamente, ad uno dei requisiti contemplati dall’art. 43 del codice penale; in caso di negligenza o di imprudenza o di imperizia, si parla di colpa generica; nell’eventualità di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, la colpa è specifica. Per negligenza si intende una riduzione di attenzione, accuratezza, premura o sollecitudine opportune in relazione al caso; per imprudenza, una carente ponderazione o cautela; per imperizia, una inadeguata conoscenza o preparazione scientifica (di base o connessa all’aggiornamento) o un’insufficiente abilità tecnica o competenza. Circa l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, le norme di fondamentale riferimento sono il proprio profilo professionale, la legge n. 42 del 1999, nonché il codice deontologico del professionista sanitario (si tratta di regolamento ed è espressamente indicato dalla legge 42 come fonte di 102 responsabilità); ad essi vanno aggiunti i pertinenti disposti della legge 10 agosto 2000, n. 251. Anche documenti quali linee guida, protocolli e procedure possono essere considerate aventi carattere di regolamento, ordine o disciplina, talché il loro mancato rispetto può configurare il requisito dell’inosservanza contemplato dall’art. 43 del codice penale. In presenza di protocolli o procedure non aggiornate, si pone talora la questione se seguire le indicazioni proposte da quei documenti o lasciarsi guidare dai principi della perizia, che impone interventi basati sulle prove di efficacia. Il possibile contrasto va risolto dal professionista sanitario, ispirandosi alle più recenti e migliori indicazioni scientifiche, prodotte dalle revisioni sistematiche della letteratura accreditata (ed eventualmente sistematizzate in linee guida). L’attività professionale è efficacemente guidata anche da protocolli e procedure; resta però fermo che si tratta di strumenti di lavoro che non hanno valore assoluto e permanente nel tempo, pertanto le loro indicazioni devono essere integrate con evidenze scientifiche eventualmente sopravvenute rispetto alla loro stesura. 2.4. Il nesso di causalità materiale Fra condotta colposa e evento di danno a carico della persona deve sussistere nesso di causalità materiale. Peculiare rilievo assume la problematica della causalità per omissione: si tratta di quella causalità riferibile ad una condotta consistente nella mancata attuazione di un comportamento, che si ha l’obbligo di realizzare. Nel reato commissivo, la relazione causale è apprezzabile con relativa facilità; è, invece, più complesso valutare se l’evento sia riferibile all’omissione di una condotta positiva che il soggetto avrebbe avuto l’obbligo giuridico di realizzare. In questi casi, occorre giudicare se la condotta positiva avrebbe impedito l’evento. In termini di realtà, il problema è insolubile, perché nessuno è in grado di 103 affermare che una certa condotta positiva, se fosse stata tenuta, avrebbe certamente impedito l’evento realizzatosi. In campo sanitario-biologico, non è possibile affermare che, se fosse stata somministrata una determinata terapia, certamente il paziente sarebbe sopravvissuto oppure non sarebbero intervenute le alterazioni patologiche, che si sono invece manifestate. La variabile biologica individuale e le complicanze sempre possibili sono ostacoli, insormontabili, alla conoscenza dell’evoluzione che avrebbe avuto la vicenda clinica se fosse stato applicato il trattamento corretto. L’impasse è superabile solo con la logica. Ferma restando la preliminare ricostruzione della serie causale che ha concretamente determinato l’evento, occorre procedere anche ad una ricostruzione ipotetica, con la quale si immagina realizzata la condotta positiva, cui il professionista sanitario era obbligato e che invece, nella realtà del caso, ha omesso. Questa ricostruzione ipotizza che l’agente sia intervenuto compiendo l’azione cui sarebbe stato tenuto; si considera poi l’incidenza causale di tale azione ipotetica, valutandone l’efficacia impeditiva dell’evento; si tratta di un giudizio controfattuale, mediante la formulazione di una prognosi postuma negativa dell’evento. Questo ragionamento, basato su ipotesi, si avvale necessariamente di criteri statisticoprobabilistici per stabilire se l’azione, qualora compiuta, sarebbe stata in grado di impedire l’evento, in quella specifica persona e date quelle concrete oggettive condizioni di operatività. In sintesi: il giudizio prognostico ex post si basa su una valutazione probabilistica, al fine di giudicare se l’omissione umana (per esempio, del professionista sanitario) abbia diminuito in misura apprezzabile le possibilità della persona di guarire o di evitare una maggior gravità della malattia e/o i suoi postumi invalidanti. In altre parole: in questi casi, il nesso di causalità materiale è il legame logico – ma non ontologico – che collega, in un vincolo di ipotetica (valutata probabilisticamente) consequenzialità, un determinato evento ad una data omissione umana, di cui l’evento diventa il prodotto. Per 104 creare questo legame logico, l’incidenza che la condotta omessa, se realizzata, deve avere sulla possibilità di evitare l’evento, non può essere trascurabile e neppure minima, ma deve essere apprezzabile. Il problema è valutare tale apprezzabilità e comprendere se essa sia in qualche modo quantificabile. In giurisprudenza ed in dottrina giuridica, con riferimento alla responsabilità del medico – l’unica organicamente analizzata fra quelle dei vari professionisti sanitari –, la valutazione di questa apprezzabilità non è stato univocamente affrontata. Il dibattito ha condotto ad un contrasto giurisprudenziale anche in seno alla Corte di Cassazione. All'indirizzo maggioritario, che aveva ritenuto sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” (arrivando tuttavia a quantificarle nella misura del 30%, che pare a chi scrive né seria né apprezzabile) per l'impedimento dell'evento, si è contrapposto un successivo orientamento, secondo il quale è richiesta la prova che un diverso comportamento dell'agente avrebbe impedito l'evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza” e cioè, in termini percentuali vicino a cento. La questione è stata oggetto di esame delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Pen., S.U. 11 Settembre 2002 n. 30328), che hanno risolto il contrasto avvicinandosi alla seconda delle tesi appena indicate. Il seguente passo conclusivo appare sinteticamente chiarificatore: “L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio.” 3 Responsabilità professionale e delitti dolosi In questo paragrafo sono sinteticamente presentati alcuni delitti, di natura dolosa, che possono essere commessi dal professionista sanitario nell’esercizio 105 professionale. L’esposizione è limitata ai delitti che compaiono nella rassegna di giurisprudenza nel capitolo 5. Sono opportune alcune premesse sulle qualifiche giuridiche del professionista sanitario, perché a condotte penalmente rilevanti analoghe, tenute nell’esercizio professionale, possono corrispondere per il professionista sanitario fattispecie delittuose diverse in funzione della qualifica giuridica di volta in volta rivestita. 3.1 Le qualifiche giuridiche del professionista sanitario Il professionista sanitario svolge la sua professione in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell'assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale. In relazione a queste differenti modalità di esercizio professionale, ai soli effetti della legge penale, in particolare quando chiamato a rispondere di alcuni reati, il professionista sanitario assume le seguenti, alternative, qualifiche giuridiche: - pubblico ufficiale (art. 357 del codice penale); - incaricato di un pubblico servizio (art. 358 del codice penale); - esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 del codice penale). I riferimenti normativi sono i seguenti. Art. 357. Nozione del pubblico ufficiale. - Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Art. 358. Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio. - Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale. Art. 359. Persone esercenti un servizio di pubblica necessità. - Agli effetti della legge penale, sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità: 1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi; 2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione. 106 Il professionista sanitario è persona esercente un servizio di pubblica necessità quando svolge la libera professione: in questa evenienza è infatti soggetto privato che esercita una professione sanitaria per l’esercizio della quale è necessaria la specifica abilitazione dello Stato (art. 359, punto 1). Circa il professionista sanitario che operi alle dipendenze del Servizio sanitario nazionale o in una struttura convenzionata, consta un numero limitato di sentenze che forniscano indicazioni sufficienti per definire con certezza la sua qualifica giuridica. Il predetto professionista sanitario è tuttavia da considerare alternativamente o pubblico ufficiale o persona incaricata di pubblico servizio, a seconda delle caratteristiche dell’attività specificamente svolta. In altre parole, il professionista sanitario dipendente del Servizio sanitario nazionale, per il tramite del quale è garantito ad ogni cittadino il diritto costituzionale alla tutela della salute, svolge comunque un pubblico servizio (art. 358) o, talora, una pubblica funzione (art. 357) amministrativa, proprio perché agisce in nome e per conto del Servizio sanitario stesso. Per distinguere i casi in cui si trova a rivestire l’una o l’altra di queste qualifiche, conviene considerare le definizioni proposte negli stessi articoli citati: - la pubblica funzione amministrativa è quella disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi; - il pubblico servizio consiste in un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale. La differenza fra pubblica funzione e pubblico servizio sta dunque nella natura e nella finalità dell’attività esercitata. È comunque poco utile distinguere le circostanze in cui il professionista sanitario pubblico dipendente sia pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Infatti, di norma, sono contemplate analoghe fattispecie delittuose per 107 condotte che il professionista sanitario può porre in essere, nello svolgimento tanto della funzione di pubblico ufficiale tanto dell’attività di incaricato di pubblico servizio. La tabella 4.2, relativa ai delitti ipotizzabili a carico del professionista sanitario pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio può essere di ausilio per chiarire il concetto. Tabella 4.2 - Delitti ipotizzabili per il professionista sanitario in qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio Delitto Articolo del codice penale relativo al pubblico ufficiale Articolo del codice penale relativo all’incaricato di pubblico servizio Rifiuto di atti di ufficio; omissione 328 328 Rivelazione di segreto d'ufficio 326 326 Falsità ideologica in atti pubblici 479 493 Omissione di denuncia 361 362 A condotte penalmente rilevanti analoghe, tenute nell’esercizio professionale, possono corrispondere per il professionista sanitario pubblico dipendente fattispecie delittuose diverse o aggiuntive rispetto a quelle previste per il professionista sanitario non pubblico dipendente, a volte – in base alle indicazioni testuali del pertinente articolo del codice penale – in quanto esercente un servizio di pubblica necessità, a volte in quanto professionista sanitario, a volte in quanto cittadino. Lo schema è riportato in tabella 4.3. Tabella 4.3 - Condotte penalmente rilevanti (sinteticamente indicate) e delitti rispettivamente ipotizzabili per il professionista sanitario in qualità, da un lato, di cittadino o di esercente una professione sanitaria e, dall’altro lato, di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio Condotta Cittadino mancata prestazione di assistenza falsa attestazione nella documentazione professionisti sanitari art. 593 c.p. Esercente professione sanitaria art. 481 c.p. 108 Pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio art. 328 c.p. art. 479 c.p. art. 493 c.p. rivelazione di segreto omessa comunicazione all’autorità giudiziaria di delitti perseguibili d’ufficio art. 622 c.p. art. 365 c.p. art. 326 c.p. art. 361 c.p. art. 362 c.p. 3.2. Omissione di soccorso Il delitto è contemplato dall’art. 593 del codice penale. È di peculiare interesse il secondo comma. Art. 593. Omissione di soccorso. - Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 2.500 euro. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata. L’art. 593 del codice penale impone una regola di carattere generale, valida per chiunque, anche non esercente una professione sanitaria, trovi un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo. Esso contempla l’alternativa fra la prestazione personale dell’assistenza occorrente e l’immediato avviso all’autorità, limitando l’obbligo di porre in essere l’una o l’altro a quelle situazioni in cui il professionista sanitario “trovi” la persona, ne percepisca cioè la presenza, perché sia entrato in contatto fisico diretto (sensoriale) con la persona stessa, avendola vista o avendone udito le invocazioni di aiuto. Nella nozione di “trovare” è compreso, non solo il rinvenimento casuale, per esempio sulla pubblica via, della persona da soccorrere, ma anche qualsiasi contatto fra professionista sanitario ed assistito. In altre parole, il professionista sanitario trova una persona in pericolo, sia recandosi al suo domicilio per svolgere una data funzione assistenziale programmata, sia (eventualità invero meno frequente) accogliendo la persona che i congiunti hanno trasportato da lui, quando la stessa sia inanimata o presenti una ferita o una situazione clinica comportante pericolo, come per esempio una precordialgia con irradiazione dolorosa all’arto superiore sinistro e collasso cardiocircolatorio. 109 3.3. Rifiuto di atti di ufficio; omissione Il delitto è contemplato dall’art. 328 del codice penale. Esso ha interesse nel caso del professionista sanitario dipendente pubblico, che, come premesso, riveste quanto meno la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Art. 328. Rifiuto di atti di ufficio. Omissione. - Il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto dell'ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa. Il disposto dell’articolo riguarda il professionista sanitario dipendente pubblico che rifiuti od indebitamente ritardi un atto professionale rientrante nelle sue funzioni assistenziali istituzionali e che “deve essere compiuto senza ritardo” per ragioni di igiene e sanità. I contenuti del pertinente profilo professionale corrispondono alle varie articolazioni dell’ “atto dell’ufficio” del professionista sanitario pubblico dipendente. Il professionista sanitario, che rifiuti o ritardi, in tutto o in parte, senza ragionevole motivo, quanto contemplato dal proprio profilo, è dunque chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 328 del codice penale, a prescindere da qualsivoglia evento dannoso a carico dell’assistito. 3.4. Abusivo esercizio di professione Il delitto di abusivo esercizio di una professione è contemplato dall’art. 348 del codice penale. Art. 348. Abusivo esercizio di una professione. - {I}. Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire duecentomila a un milione. 110 Concretizza il delitto l’esecuzione di atti che sono dalla legge riconosciuti di pertinenza esclusiva di una professione, il cui esercizio è sottoposto a particolare disciplina. L’interesse tutelato non attiene alle categorie professionali, ma è quello della società contro il pericolo derivante dall’esercizio professionale da parte di chi, sprovvisto di titoli adeguati, non offra garanzia di competenza. Per configurare il delitto, non è necessario che dalla condotta derivi un danno alla persona. La proposizione “esercita una professione” sembrerebbe implicare una continuità dello svolgimento dell’attività; le pronunce giurisprudenziali comprendono nel concetto di esercitare la professione anche l’atto (professionale) unico ed isolato. Il professionista sanitario può commettere il reato quando svolga attività professionali che non siano comprese fra quelle contemplate dalle norme che ne disciplinano l’attività, vale a dire in particolare il T.U. delle leggi sanitarie del 1934, il D.M. recante il proprio profilo professionale, la legge n. 42 del 1999, la legge n. 251 del 2000. 111 CAPITOLO 5 GIURISPRUDENZA IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEGLI ESERCENTI ALCUNE PROFESSIONI SANITARIE 5.1. L’interesse del tema In questo capitolo giurisprudenziale, si per procederà analizzare con il l’analisi di recepimento una della casistica normativa disciplinante l’esercizio professionale discussa nei precedenti capitoli e la sua applicazione nel concreto. Verranno esaminate sentenze che hanno coinvolto alcuni professionisti infermiere, ostetrica e fisioterapista scelti come maggiormente rappresentativi della professione sanitaria. È da precisare che in giurisprudenza si possono trovare sentenze in cui sono state coinvolte altre figure professionali, ma che si è scelto di non discutere poiché isolate (per quella professione) e quindi difficilmente valutabili.. Le sentenze sono riportate raggruppate per professione, indi per tipologia di addebito e di condotta, ulteriormente suddivise per ordine cronologico. Apposite tabelle riassumono nei diversi paragrafi le normative di riferimento con particolare riguardo al profilo professionale ed ai pertinenti articoli della legge 251/2000. 5.2. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’infermiere 5.2.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione Sono riportate nel box 5.1 due fonti normative indispensabili per la comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo. Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle norme di carattere generale citate in giurisprudenza, si rinvia alla trattazione sviluppata nel capitolo 2. Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate 112 correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della condotta professionale censurata. Box 5.1 – Il profilo professionale dell’infermiere e ambito di autonomia secondo l’art. 1 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” D. M. 14 settembre 1994, n. 739 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'infermiere”. Art. 1. 1. È individuata la figura professionale dell'infermiere con il seguente profilo: l'infermiere è l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale è responsabile dell'assistenza generale infermieristica. 2. L'assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l'educazione sanitaria. 3. L'infermiere: a) partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; c) pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico; d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; f) per l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto; g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell'assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale. 4. L'infermiere contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca. 5. La formazione infermieristica post-base per la pratica specialistica è intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale delle conoscenze cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni infermieristiche nelle seguenti aree: a) sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica; b) pediatria: infermiere pediatrico; c) salute mentale-psichiatria: infermiere psichiatrico; d) geriatria: infermiere geriatrico; e) area critica: infermiere di area critica. 6. In relazione a motivate esigenze emergenti dal Servizio sanitario nazionale, potranno essere individuate, con decreto del Ministero della sanità, ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica. 7. Il percorso formativo è definito con decreto del Ministero della sanità e si conclude con il rilascio di un attestato di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l'esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative. La natura preferenziale del titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in presenza di mutate condizioni di fatto. Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonchè della professione ostetrica”. Art. 1. (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica) 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza. … 113 5.2.2. Lesioni personali colpose, omicidio colposo ed interruzione colposa della gravidanza in relazione a carenze nella presa in carico nell’ambito dell’assistenza infermieristica ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 9638, 13 settembre 2000. Un marinaio di leva, D.D., ebbe un incidente alla stazione centrale di Bari il 2 settembre 1992 alle ore 5,15, dove cadde violentemente sbattendo la testa sul marciapiede; fu trasportato in stato di semi-incoscienza al pronto soccorso del Policlinico di Bari. L’infermiere C., presolo in consegna, pensò, stante la presenza di tracce di vomito, si trattasse di un ubriaco. L’uomo venne condotto nella sala di chirurgia dove si trovavano l’infermiere D. e l’infermiera R., assieme al dottor T.: quest’ultimo, impegnato con un’altra paziente, si limitò a disporre che fosse chiamato un internista (che stava al piano di sopra); in attesa, il marinaio fu trasferito nella sala d’aspetto del pronto soccorso. Nessuno degli infermieri, tuttavia, chiamò il medico, neanche P., giunto alle sei per il cambio e informato dei fatti. Il paziente rimase privo di assistenza fino alle 8,15, quando una assistente di polizia di servizio al pronto soccorso si accorse che era inanimato. Una TAC evidenziò un esteso ematoma extracerebrale, che, nonostante due interventi successivi, causò il decesso dell’uomo dopo quattro giorni. Il Pretore di Bari, in data 10 aprile 1996, ha ritenuto colpevoli di omicidio colposo e il medico T. e gli infermieri R., D. e C.. La Corte di Appello di Bari, in data 2 novembre 1998, conferma la sentenza. I condannati sono ricorsi in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza. La Suprema Corte accoglie il ricorso del dottor T., dato che egli, impegnato al momento in cui il marinaio D. è stato portato alla sua attenzione, ha disposto che venisse chiamato un internista ad occuparsi del paziente; e se in effetti gli internisti fossero stati chiamati, le cose sarebbero andate in modo diverso. Il medico ben poteva fare affidamento sulla esecuzione di quanto disposto, visti il destinatario (infermieri operanti in pronto soccorso) e la 114 natura dell’ordine (sarebbe bastato contattare uno degli internisti attraverso il citofono). La condotta degli infermieri è stata dalla Corte censurata: dal momento in cui è stato loro impartita una disposizione, dalla cui esecuzione sarebbe dipeso l’intervento di un medico a favore di un paziente, essi hanno accolto la responsabilità delle conseguenze che avrebbero potuto scaturire dalla non (o non tempestiva) esecuzione dell’ordine. Gli infermieri hanno assunto una posizione di protezione, di garanzia, che non poteva essere trasferita ai colleghi del turno successivo, dato che il compito affidato non richiedeva che pochi secondi (rimanendo così all’interno del loro turno). La Corte di Cassazione, per arrivare ad affermare la titolarità di una posizione di garanzia in capo a medici ed infermieri, ha fatto riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione: il primo, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, esige l’adempimento dei doveri di solidarietà anche sociale; il secondo articolo tutela il diritto alla tutela della salute dei cittadini. Ai professionisti sanitari è di conseguenza attribuita una posizione di protezione dell’integrità fisica delle persone che vengono affidate alle loro cure, una posizione che rappresenta - come scrive la Corte – un’”espressione di solidarietà”. È necessaria un’ultima precisazione lessicale, posto che la Corte utilizza l’espressione, ormai desueta, “paramedici” che, poco rispettosa della dignità alla figura degli infermieri, stride con l’impostazione culturale proposta dalla stessa Cassazione. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 9739, 1 marzo 2005. Un uomo riportò ustioni sul 50% del corpo, tra l’ottobre ed il novembre 1995 e fu sottoposto a due interventi chirurgici a distanza di un mese l’uno dall’altro. Dopo il secondo intervento chirurgico, andato a buon fine e terminato in serata, il paziente fu portato in reparto, dove fu sostanzialmente abbandonato a se stesso fino alle sette del mattino del giorno seguente, 115 quando fu trasportato in rianimazione dalle infermiere del nuovo turno: morì alle otto per arresto cardiocircolatorio irreversibile da shock infettivo e ipovolemico. Durante la notte la moglie del D. e un’amica infermiera avevano reiteratamente richiamato l’attenzione delle infermiere in servizio (C. e P.), ma non fu mai chiamato il medico di guardia interdivisionale (il dottor G.); i controlli, gli esami e le terapie prescritte dal dottor D. che aveva operato il paziente, non furono eseguiti in modo completo. Tutti gli imputati sono stati assolti in primo grado in considerazione della mancanza di prova della sussistenza dell’indispensabile nesso causale. In appello la decisione è ribaltata, sulla base di una nuova perizia medico-legale disposta dalla Corte e sulla conseguente acquisizione ad opera dei periti del “diario infermieristico” della notte del decesso. I medici e le due infermiere sono dunque condannati in via definitiva per omicidio colposo ai danni di S.. I dottori D. e G. sono stati condannati perché avrebbero dovuto comunque seguire il paziente nel post-operatorio, essendo stato sottoposto ad un intervento di alta chirurgia molto delicato, cui avrebbe dovuto seguire un’attenta osservazione dell’uomo: i medici avrebbero dovuto recarsi di tanto in tanto a controllarlo, invece di lasciarlo solo di notte con il personale infermieristico, o almeno eleggere qualcuno che potesse prendere il loro posto. Le infermiere, dal canto loro, non si sono accorte che il loro assistito si stava completamente dissanguando e disidratando; eppure la moglie le chiamò ripetutamente avvertendo che il marito accusava brividi, vomito e scarsità di urine, senza però ottenere nulla se non rassicurazioni. Hanno completamente abbandonato il paziente, venendo meno, come ha sottolineato la Corte, a quella posizione di garanzia che sorge in capo agli operatori sanitari rispetto a chi è loro affidato. Le due professioniste sanitarie ben avrebbero potuto richiamare l’attenzione del medico di guardia, che tra l’altro era presente al suo posto, e non limitarsi a proferire parole tranquillizzanti e fornire otto coperte. 116 La Suprema Corte ha affermato in modo preciso che le doverose attività che scaturiscono dall’esistenza di una posizione di garanzia, gravano anche sugli infermieri. ■ Corte di Appello di Milano, II sezione,16 dicembre 2005. In questo caso, insolitamente, l’unica imputata è un’infermiera. Nel gennaio 2000 una donna alla 36a settimana di gravidanza è ricoverata in ospedale nel reparto di ostetricia; è affetta da pre-eclampsia. Il consulente del PM indica che la patologia comporta una più alta probabilità che si verifichi un distacco intempestivo della placenta: unico rimedio in tal caso è il taglio cesareo, che risulterà tanto più efficace per salvare il feto ormai maturo, quanto più sarà effettuato tempestivamente rispetto al manifestarsi dei primi sintomi (il completo distacco dovrebbe avvenire gradualmente nell’arco di ore; anche se in alcuni casi il distacco è talmente repentino da non lasciare spazio ad alcun intervento). La donna fu costantemente monitorata fino all’ultimo tracciato tococardiografico delle 23,20, durante il quale il feto risultava ancora vivo e vitale. Verso la mezzanotte iniziarono i primi disturbi addominali, ma la paziente non trovò nel reparto personale infermieristico, fino all’incontro con l’infermiera del vicino reparto di neonatologia verso le ore 1,30. L’infermiera la rassicurò e disse che sarebbe andata a chiamare un medico; il medico arrivò che poco prima delle 3, quando ormai le condizioni della degente si erano fatte preoccupanti e i dolori molto forti: il tracciato effettuato subito dopo il sopraggiungere del medico non mostrava segni vitali; il feto fu estratto morto. La sentenza di primo grado condannava l’infermiera per il reato di cui all’art. 17 della legge n. 194/1978 – interruzione colposa della gravidanza –, perché ella non avrebbe avvisato subito il medico (bensì soltanto sulle 2,50), causando così la sua omissione la morte del feto, che un taglio cesareo tempestivo (cioè in un tempo vicino all’incontro con la paziente) avrebbe 117 evitato con alto grado di probabilità logica e razionale. La decisione della Corte di Appello è di segno contrario, e si pronuncia per l’assoluzione; le risultanze istruttorie non hanno fornito secondo il collegio giudicante la certezza del nesso eziologico tra l’azione dell’appellante e l’evento dannoso: l’accusa non è riuscita a provare che una tempestiva segnalazione delle condizioni della paziente da parte dell’imputata al medico di turno, avrebbe evitato la morte del feto al di là di ogni ragionevole dubbio, poiché non vi è alcuna certezza sul dato temporale inerente l’esordio della sintomatologia addominale (è solo un’ipotesi che sia collocabile intorno alle ore 24) né sull’esatto orario della morte. È pienamente provata la condotta colposa omissiva da parte dell’imputata. L’infermiera avrebbe in effetti incontrato la paziente intorno alle ore 1,30 in base al racconto di quest’ultima, comparato a quello dell’imputata e ai riscontri oggettivi. Il ritardo nell’avvisare il medico costituisce condotta molto grave, avendo la paziente reso noto che le sue condizioni di salute stavano peggiorando ed essendo risaputo che il reparto di ginecologia era caratterizzato da disservizi e carenze organizzative. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 20584, 12 febbraio 2010. Due medici e due infermiere sono imputati del delitto di omicidio colposo ai danni di un diciannovenne, sottoposto ad un intervento di chirurgia maxillofacciale. Poco dopo il termine dell’operazione si era verificata un’emorragia, arrestata con la somministrazione di un farmaco antiemorragico. Il giovane aveva lamentato da subito difficoltà respiratorie secondo quanto riferito dai genitori, i quali avevano notato anche un rigonfiamento del viso e del collo a partire da qualche ora dopo l’intervento. Si era poi accertato un aggravamento delle condizioni del paziente, per un’insufficienza respiratoria acuta, che determinò il decesso: da una lesione vascolare era originato un infarcimento emorragico della lingua e del pavimento della bocca con progressivo aumento del loro volume, che era andato a chiudere lo spazio 118 aereo orale ed orofaringeo. Le due infermiere erano entrate in servizio quando le condizioni del giovane si erano fatte più serie, ma avevano omesso di avvisare il medico reperibile. In primo grado, il Tribunale di Lecce ha dichiarato gli imputati colpevoli del reato di cui all’art. 589 c.p.; la Corte di Appello ha confermato. Nel ricorso, il capo dell’équipe operatoria ha sostenuto che la sua posizione di garanzia sarebbe stata trasferita sull’altro medico coimputato e sulle due infermiere, e che queste ultime fossero le sole responsabili di quanto avvenuto, essendo in grado di prestare l’assistenza postoperatoria necessaria ad un paziente sottoposto ad un intervento come quello praticato e quindi di avvisare il medico reperibile in caso di peggioramento delle condizioni. Le due infermiere hanno denunciato la contraddittorietà della sentenza impugnata: basando la responsabilità delle stesse sul fatto che non avrebbero dato adeguata importanza al gonfiore del viso e del collo del paziente, i giudici avrebbero loro attribuito una competenza diagnostica, in realtà attribuibile ai soli medici. La Corte ha preso in considerazione la posizione del medico capo équipe, sottolineando la prevedibilità della rottura del vaso sanguigno e l’immediato manifestarsi di circostanze indicanti complicanze: una lieve emorragia e difficoltà respiratorie. Inoltre ha affermato che il capo équipe, nel trasferire a terzi la sua posizione di garanzia, non aveva curato di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche al paziente, lasciato al personale definito “paramedico”, rivelatosi negligente ed assente. Precisa la Corte che gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della professione sanitaria possono ben essere delegati con esclusione della responsabilità del titolare originario, ma il delegato deve essere persona capace e competente nel settore ed il delegante deve comunque tener conto della gravità dello stato di salute del paziente. Essendo per questi motivi già in colpa, il medico non può invocare a propria scusante la condotta colposa altrui. 119 Quanto alle due infermiere, la Cassazione ritiene che il comportamento loro richiesto rientrasse perfettamente nella specifica competenza infermieristica: le due professioniste sanitarie avrebbero dovuto prestare attenzione alle reiterate richieste d’intervento dei familiari del paziente, allarmati in particolare dalle crescenti difficoltà respiratorie; essendo in possesso di sufficienti cognizioni tecniche, avrebbero anche dovuto percepire l’anomalia del gonfiore di viso e collo ed informare il medico reperibile. Confermata la responsabilità degli imputati – anche del medico reperibile che avrebbe comunque dovuto farsi maggior carico della gravità delle condizioni – i ricorsi sono stati respinti. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 24573, 20 giugno 2011. La sentenza scaturisce dal ricorso presentato avverso una sentenza di non luogo a procedere del GUP nel Tribunale di Trani, nei confronti di tre medici e due infermieri per il reato di omicidio colposo. Nel settembre 2005 un uomo coinvolto in un sinistro stradale era stato portato al pronto soccorso dell’ospedale civile di Canosa di Puglia alle sei del mattino. Il referto riportava frattura della tibia sinistra, contusioni escoriate multiple, ferita lacero-contusa al gomito sinistro ed alla regione mentoniera. Una radiografia del cranio non evidenziava alterazioni. Era eseguito intervento di ricomposizione della frattura all’arto inferiore destro. Nel corso della fase post operatoria, a partire dalle ore 16 circa, invano la moglie tentava di richiamare l’attenzione dei professionisti sanitari sulle condizioni in peggioramento del marito, che accusava stimolo al vomito, intensa sudorazione e sanguinamento. La gravità della situazione era rilevata da un medico del pronto soccorso soltanto alle 21,40: sottoposto a TAC, il paziente era trasferito in stato di coma ed insufficienza cardiocircolatoria terminale a causa di un trauma canico; il decesso avvenne, alcuni giorni dopo, nonostante una dell’ematoma. 120 craniotomia per evacuazione Il GUP escluse nel caso di specie la colpa professionale per tutti i medici che ebbero in cura il paziente: il medico che per primo l’aveva visitato in pronto soccorso (che non aveva disposto immediatamente la TAC e non aveva diagnosticato il trauma cranico commotivo), l’ortopedico che l’aveva operato alla tibia e quello di turno nel reparto d’ortopedia durante la fase postoperatoria (cui era stato contestato di aver esaminato superficialmente la cartella clinica del paziente, sottoponendolo ad un intervento in anestesia generale – sconsigliata –, senza poi svolgere alcun monitoraggio o valutazione neurologica). Il giudice, travisando completamente la natura dell’udienza preliminare1, si era basato unicamente sulle conclusioni del consulente della difesa (in modo apodittico, senza compararle con gli esiti delle altre consulenze tecniche), in sostanza affermando illogicamente l’inutilità del dibattimento, nel corso del quale – come ha specificato la Cassazione – ben potrebbero essere sottoposti al vaglio i diversi elementi contraddittori emersi (dissenso tra le versioni dei parenti e dei sanitari, e tra le conclusioni dell’una o dell’altra tesi scientifica). Circa il personale infermieristico – ancora una volta definito anacronisticamente paramedico –, il GUP ritiene che essi non rivestano alcuna posizione di garanzia, non avendo l’obbligo di avvertire il medico del reparto di qualsiasi lamentela, o di valutare e percepire le sintomatologie dei pazienti; inoltre, cancellando gli ultimi dieci anni di giurisprudenza e di rivoluzioni in ambito normativo, attribuisce loro una mera funzione ausiliaria del personale medico, senza alcuna autonomia valutativa sul “… l’udienza preliminare ha natura prevalentemente processuale, avendo, pur anche a seguito dell’intervenuto ampliamento dei poteri officiosi in tema di prova, lo specifico scopo di evitare dibattimenti inutili, piuttosto che quello di accertare l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato”. Corte di Cassazione, IV sezione penale, sentenza n. 24573/11. 1 In base all’art. 425, comma 3, cod.proc.pen, il non luogo a procedere andrebbe pronunciato soltanto qualora manchino ragionevolmente le condizioni su cui fondare una prognosi favorevole all’accusa (risulti insomma impossibile sostenere con successo la tesi accusatoria in dibattimento), anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori (insufficienza e contraddittorietà potenzialmente superabili in dibattimento). 121 quadro clinico del paziente in relazione alle cure ed interventi cui è stato sottoposto. Nell’annullare la sentenza impugnata, la Corte stigmatizza come “improponibile giuridicamente” tale assunto del GUP, che mortifica le competenze professionali dell’infermiere fraintendendo i principi di base applicabili in merito: “… rientra nel proprium dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico”. In questo, come in altri casi, il decesso è avvenuto anche perché gli infermieri non hanno prestato attenzione alle continue sollecitazioni dei familiari che, accorgendosi di una evoluzione peggiorativa della sintomatologia, richiedono la presenza di un medico: non qualunque lamentela deve essere comunque presa in considerazione, ma sicuramente quelle che appaiano “idonee a fondare un ragionevole dubbio sulle condizioni di salute del degente”. ■ Valutazioni riassuntive In queste sentenze è enfatizzato il fatto che gli infermieri, come tutti gli altri professionisti sanitari, sono ex lege portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti affidati alle loro cure: si tratta di una posizione di protezione consistente nella tutela di un bene giuridico, contro un pericolo che ne minacci l’integrità, un obbligo di attivarsi per evitare eventuali danni. Emerge in definitiva che è proprio dell’infermiere l’obbligo di effettuare appropriate valutazioni assistenziali, in particolare in relazione all’evoluzione del quadro clinico post-operatorio, e di coinvolgere altri professionisti qualora emergano complicanze o fatti tali da richiedere ulteriori competenze. La dottrina della posizione di garanzia nasce dall’art. 40, comma 2, del codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di 122 impedire, equivale a cagionarlo”; è dunque punito chi ha un preciso obbligo giuridico di impedire un evento, e solo per essi si ha una corrispondenza normativa tra il non impedire ed il cagionare l’evento. Quest’obbligo giuridico, che sorge in capo a chi ricopra una certa posizione, deve essere di conseguenza individuato, non essendo esplicitato dall’ordinamento. Si tratta di una sorta di speciale vincolo di tutela tra un soggetto garante ed un bene giuridico, ovviamente determinato dall’incapacità del titolare a proteggerlo autonomamente. La genesi della titolarità della posizione di garanzia è diversa a seconda che sia attribuita a soggetti che svolgono un’attività sanitaria rispetto alla generale applicabilità del principio. Nel primo caso la posizione di garanzia scaturisce dalla peculiarità della professione sanitaria, avente come scopo la salvaguardia della vita e della salute del paziente: risulta perciò sufficiente l’effettivo esercizio dell’attività svolta (di medico o infermiere) per far sì che sorgano gli obblighi connessi a tale funzione di fatto esercitata. La Corte, per fondare la posizione di garanzia dei professionisti sanitari, è ricorsa all’art. 2 della Costituzione, ma il dovere di solidarietà in esso sancito è generale e non un obbligo specifico: per taluno si tratta di un’eccessiva dilatazione degli obblighi specifici propri dei professionisti sanitari. Per ulteriori considerazioni specificamente attinenti la professione di infermiere ed il relativo profilo, si rinvia alle osservazioni sviluppate nel paragrafo 2 del capitolo 2. 5.2.3. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a smarrimento di corpi estranei in corso di intervento chirurgico ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 18568, 18 maggio 2005. Tre chirurghi e due strumentisti sono accusati del reato di lesioni colpose gravi, ex art. 583 c.p., per aver causato un laparocele, con indebolimento permanente della funzione contenitiva della parete addominale, in danno del loro paziente D.A., nel cui corpo era stata abbandonata una pinza nel corso 123 di un intervento chirurgico per un’occlusione intestinale, eseguito in équipe. In primo grado tutti gli imputati sono condannati; in appello è assolta per non aver commesso il fatto una delle infermiere, mentre è confermata la condanna per la strumentista B.R.. Quest’ultima non ha proposto ricorso in Cassazione, contrariamente a quanto hanno fatto i medici; i loro ricorsi sono respinti. In questa sentenza la figura dello strumentista è trattata solo marginalmente, non avendo nessuna delle due proceduto con ricorso in Cassazione, eppure la motivazione è molto interessante proprio in riferimento al loro ruolo, posto a confronto con quello dei chirurghi in sala operatoria. La Corte ha ribadito il convincimento dei giudici di primo e di secondo grado, in base al quale non sarebbe possibile qui applicare il cosiddetto principio dell’affidamento: tutti gli imputati avrebbero omesso per loro negligenza il doveroso reciproco controllo sull’uso delle pinze chirurgiche e chi è già di per sé in colpa non può far affidamento su altri. Il passo della motivazione di maggior rilievo è quello in cui la Corte riprende l’obiezione delle difese dei medici circa la mancata considerazione dell’errore nella conta dei ferri da parte della strumentista; da una tale presa in considerazione dovrebbe derivare, secondo la difesa dei chirurghi, un’esclusione della loro colpevolezza, da farsi ricadere unicamente su chi aveva il compito del conteggio degli strumenti chirurgici. La Corte – ribadendo quanto già argomentato dai giudici di secondo grado – ha affermato che i medici comunque conservano sugli ausiliari ai quali affidano l’esecuzione di un compito, un dovere di vigilanza. Tale dovere nel caso specifico non sarebbe stato osservato, e ciò ha contribuito a far sorgere la responsabilità in capo ai chirurghi. 124 ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 38360, 22 febbraio 2006. Un infermiere è definitivamente condannato per lesioni colpose gravi causate da una garza lasciata nell’addome della paziente. Risulta che durante un intervento di appendicectomia era dimenticata una garza all’interno della cavità addominale del paziente, all’epoca tredicenne; che nei mesi successivi si erano resi necessari due ulteriori operazioni per la rimozione del corpo estraneo e per effettuare la resezione di un’ansa intestinale per una lunghezza di 32 cm: tutto ciò aveva cagionato un indebolimento permanente della funzione digestiva. Accusati di cooperazione nel delitto di lesioni colpose, due chirurghi (già separatamente condannati con sentenza divenuta irrevocabile) e l’infermiere, facente parte dell’équipe chirurgica. L’infermiere è stato condannato sia in primo che in secondo grado. La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso, ha precisato che l’infermiere non aveva adeguatamente controllato che le garze introdotte nell’addome venissero tutte rimosse alla conclusione dell’intervento. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 15282, 11 aprile 2008. I tre imputati – chirurgo, strumentista, infermiere di sala – sono stati condannati in ogni grado di giudizio fino alla conferma in Cassazione per omicidio colposo, ex art. 589 c.p.. Nell’agosto del 2000, A.L., affetta da cancro, è stata sottoposta ad intervento di asportazione e ricostruzione della vescica: operazione eseguita in massima parte dal chirurgo V. (imputato), cui è subentrato il dottor P., insieme con la infermiera strumentista G. e l’assistente di sala L.. La donna ha poi effettuato la chemioterapia, fino a novembre, quando si è reso necessario un nuovo intervento urgente per eliminare un trombo; le analisi di quello stesso giorno evidenziavano anemia e filamenti metallici nell’addome. Pertanto, il giorno dopo, ad A.L., sottoposta a nuovo intervento chirurgico, è stata riscontrata una perforazione intestinale e la presenza di una pezza laparotomica in addome 125 riferibile all’intervento eseguito in agosto. Da quel momento la situazione è peggiorata fino alla peritonite e all’infarto intestinale, che ha provocato la morte della donna il 27 novembre. Le tesi difensive hanno insistito sulla insussistenza del nesso causale tra l’abbandono della pezza e l’infarto intestinale, ma sono state così confutate: sulla base dei rilievi autoptici, “l’esistenza di una relazione topografica fra le sedi della necrosi intestinale ischemica costituente l’infarto ed il coinvolgimento aderenziale connesso al corpo estraneo addominale; si sarebbe instaurato del magma aderenziale in addome, cagionato dal telo relitto, che avrebbe poi compromesso a diversi livelli la vascolarizzazione delle anse intestinali” (di lì quindi l’infarto). Il perito ha escluso l’esistenza di cause diverse, “posto che con ogni verosimiglianza, in condizioni di vascolarizzazione omogenea della massa intestinale, la sofferenza ischemica avrebbe necessariamente interessato in modo uniforme l’intestino e non in modo segmentato, come nel caso in questione”. La strumentista ha cercato di negare la propria responsabilità, attribuendola piuttosto all’infermiera di sala (non sterile ed avente una funzione di supporto), che si era occupata di ritirare le garza sporche, contandole e registrandone i quantitativi nell’apposita scheda. La strumentista è stata impegnata per ben 7 ore (tanto è durato l’intervento) a fornire ai chirurghi gli strumenti necessari, il che richiede una costante e totale attenzione, tanto da non permetterle di tenere a mente il numero delle bende utilizzate, né tanto meno di leggere la scheda redatta dall’assistente di sala. Quest’ultima si è difesa attribuendo il compito del conteggio esclusivamente alla strumentista e al chirurgo, e indicando che nella documentazione aveva riportato solo quanto le era stato comunicato da altri. La Corte di Cassazione osserva che la giurisprudenza di legittimità è indirizzata nel senso di considerare responsabile l’intera équipe medica nel caso di abbandono di un corpo estraneo nell’addome del paziente. Oltretutto nel presidio ospedaliero è risultato vigente un protocollo sulla modalità di 126 esecuzione dei conteggi delle garze e dei ferri chirurgici, che prevede che vi provvedano in primo luogo l’infermiere strumentista e l’infermiere di sala, con verifica finale del medico chirurgo. Nel caso in esame, questo controllo finale non è stato effettuato dal dottor V. quando ha finito la sua parte di intervento, perciò è stato condannato. Anche l’assistente di sala avrebbe potuto riscontrare l’esistenza della discordanza nei conteggi delle garze, dato che era nella sua disponibilità la relativa documentazione. La strumentista aveva compiti specifici in merito: pertanto avrebbe dovuto controllare che non vi fossero incongruenze con la scheda compilata dall’infermiera di sala; i pertinenti controlli non sono stati espletati, essendosi limitata a chiedere la conta all’assistente L.. Tutti i diversi controlli sono affidati all’intera équipe, “proprio per evitare che la pluralità dei difficili compiti a ciascuno demandati, le imprevedibili contingenze di un’attività intrinsecamente complessa come quella chirurgica, la stanchezza o la trascuratezza dei singoli, o altre circostanze possano comunque condurre ad un errore che ha conseguenze sempre gravi”. ■ Tribunale di Roma, XIII sezione civile, 10 marzo 2004. Una donna nel corpo della quale erano state lasciate due garze durante un parto cesareo, rimosse dopo due anni, è parte attrice nel processo. È convenuto il medico che aveva eseguito l’intervento. Il medico a sua volta chiama in causa, formulando domanda di regresso ex art. 1299 c.c. nel caso fosse stata riconosciuta la sua responsabilità, l’assistente e lo strumentista dell’équipe che aveva condotto a termine il cesareo. Il giudice, dopo aver accolto la domanda nei confronti del convenuto così come formulata, ha accolto anche le domande di regresso sia nei confronti dell’altro medico assistente che dell’infermiera strumentista. 127 Gli eventi si erano svolti pochi mesi prima dell’entrata in vigore del profilo professionale del 1994; il Tribunale ha fatto appello all’obbligo, imposto da una comune regola di prudenza, di predisporre e contare garze e ferri chirurgici passati al chirurgo, prima e dopo l’intervento. Sussistendo tale obbligo, l’infermiera non avrebbe potuto semplicemente fare affidamento sulla corretta esecuzione dell’intervento da parte del chirurgo: secondo la “teoria dell’affidamento” richiamata dall’organo giudicante non qualsiasi obbligo di controllo e vigilanza verrebbe meno. Il Tribunale ha perciò affermato come l’omissione della ferrista integrasse gli estremi della colpa, che poi determinato, quanto all’accertamento della quota di responsabilità addebitabile a ciascuno dei coobbligati, nella misura del 20%. ■ Valutazioni riassuntive. L’orientamento giurisprudenziale si è costantemente indirizzato nel senso di estendere l’attribuzione di responsabilità a tutti i componenti dell’équipe chirurgica, conferendo comunque importanza al principio dell’affidamento, in base al quale ciascuno può contare sul corretto comportamento degli altri componenti l’équipe chirurgica: principio che è conseguenza della specializzazione e divisione dei compiti tra medici ed infermieri. La Raccomandazione n. 2 del 2008 del Ministero della Salute volta a prevenire la ritenzione di materiale all’interno del sito chirurgico, indica che il conteggio e il controllo dell’integrità dello strumentario deve essere effettuato dal personale infermieristico (strumentisti ed infermieri di sala) o altro personale di supporto avente tale funzione; ma in ogni caso “il chirurgo verifica che il conteggio sia stato eseguito e che il totale di garze utilizzate e rimanenti corrisponda a quello delle garze ricevute prima e durante l’intervento”2. Paragrafo 4 della Raccomandazione n. 2 del 2008 del Ministero della Salute. Si specifica che il conteggio e il controllo dell’integrità dello strumentario deve essere effettuato dal personale infermieristico (strumentisti ed infermieri di sala) o altro personale di supporto avente tale funzione e il chirurgo deve in ogni caso verificare. 2 128 Se l’attività di conteggio e controllo del materiale chirurgico è demandata al personale infermieristico – ed è di sua esclusiva competenza – allora non si spiega il motivo per cui il medico debba sempre e comunque supervisionare quanto fatto dagli altri membri dell’équipe quasi fossero subalterni, quando dovrebbero agire in completa autonomia e responsabilità nel loro ambito. Se invece è un’attività di competenza anche del chirurgo, non è chiaro come questi impegnato in un delicato intervento chirurgico potrebbe prestare attenzione alla conta delle garze, mentre dovrebbe potersi affidare a quanto a lui comunicato dagli strumentisti. Persistono dunque preconcetti e mancato riconoscimento della professionalità che avrebbero dovuto avere termine dopo le leggi n.42/1999 e n. 251/2000. Oggi, per i fatti avvenuti a partire dal marzo 1999 o almeno dal settembre 2000, circa la conta dei ferri chirurgici – attività che attiene alla generale assistenza infermieristica – è responsabile il solo strumentista. 5.2.4. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a incidenti vari ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 7082, 27 luglio 1983. Ci sono altri incidenti che possono incorrere in sala operatoria. Uno di questi è rappresentato dalle lesioni causate dal non corretto posizionamento del corpo del paziente sul lettino prima dell’intervento. Una datata sentenza del 1983, la per la precisione, ha attribuito la responsabilità per la compressione del braccio destro del paziente provocata da viziato posizionamento sul tavolo operatorio, al medico anestesista. Un uomo, sottoposto ad intervento chirurgico di colecistectomia, riporta una lesione del nervo ulnare avente carattere di permanente indebolimento dell’organo della prensione. La lesione è causata da protratta compressione periferica sul nervo stesso a seguito dell’eccessiva contenzione del braccio destro con tutta probabilità in posizione viziata. 129 La preparazione del malato per la sala operatoria è un compito che da sempre spetta al personale infermieristico: “Il posizionamento del paziente in sala operatoria è un peculiare compito dell’infermiere di sala”. L’abrogato mansionario, vigente all’epoca dello svolgimento dei fatti, specificava che competeva all’infermiere assistere il medico nelle varie attività di sala operatoria. L’unico ritenuto responsabile, è stato ritenuto pertanto il medico anestesista che, per la sua particolare mansione, presenzia alle operazioni preparatorie eseguite nella pre-sala: il posizionamento del paziente sul letto operatorio deve svolgersi sotto stretto controllo medico in tutte le fasi e non soltanto a posteriori. Tale attività era per l’infermiere soltanto ausiliaria e di assistenza all’anestesista, cosicché soltanto quest’ultimo era considerato responsabile della regolarità della posizione dell’operando sul tavolo. ■ Tribunale di Monza, IV sezione civile, 17 gennaio 2007. La paziente A.D., dopo aver subito un’evidente lesione termica al secondo dito della mano destra durante un intervento di rinosettoplastica, conviene dinnanzi al Tribunale la struttura della A. S.r.l. di Monza per avere il ristoro dei danni biologici, estetici, esistenziali e morali subiti. La relazione del consulente tecnico accerta la responsabilità dell’infermiera incaricata di posizionare la piastra dell’elettrobisturi a contatto con la coscia destra della paziente: per la precisione, a causa della negligenza dell’operatrice sanitaria, il dito della mano destra aveva subito un’ustione per l’errato posizionamento del braccio destro lungo il corpo. Quella in esame è una manovra più semplice rispetto a quella del posizionamento del paziente sul tavolo operatorio, basta una diligenza minima affinché sia svolta in modo corretto, tanto più che l’anestesista potrà effettuare il controllo con difficoltà essendo il paziente posizionato sulla piastra stessa. È stata perciò esclusa la responsabilità professionale dei medici che eseguirono l’intervento facendo leva sull’affermazione secondo cui “l’infermiera professionale deve essere in 130 grado di eseguire correttamente i compiti, di sua pertinenza, che gli vengono affidati dai medici”. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 10868, 15 dicembre 1983. La sentenza si riferisce alla vicenda di una infermiera di sala operatoria che aveva eseguito un errato innesto dei tubi, portanti protossido di azoto ed ossigeno, dagli impianti centralizzati a quelli dell’apparato per anestesia: questo comportava la morte di una prima paziente cui era stato somministrato protossido di azoto anziché ossigeno e, prima che si avvedessero della causa del malore e quindi della morte, le lesioni per un secondo paziente. L’art. 4 del mansionario affidava agli infermieri professionali specializzati in anestesia – cui possono essere assimilati gli infermieri professionali non specializzati in anestesia, che di questi ultimi siano destinati specificamente alle mansioni di fatto – le mansioni di preparazione e controllo delle apparecchiature e del materiale necessario per l’anestesia generale, e di sorveglianza della regolarità del funzionamento degli apparecchi di respirazione automatica. Vi era perciò la responsabilità dell’infermiera di sala in ordine agli eventi dannosi, pur se l’inversione dei tubi fosse stata materialmente effettuata da altri; ella avrebbe comunque avuto il compito di controllare, esaminare, preparare le apparecchiature e sorvegliarne il funzionamento. Oltretutto, per accorgersi dell’inversione era sufficiente una comune prudenza: esistono apposite scritte di riferimento in corrispondenza delle bocche murali, i tubi di aggancio e le bombole di riserva sono di colore diverso a seconda del gas, gli innesti hanno una diversa sezione. Anche il medico anestesista è stato considerato colpevole per aver omesso di controllare, prima del trattamento anestetico, che tutte le apparecchiature fossero in regola e non vi fossero difetti di funzionamento; la colpa è stata ravvisata nella mancanza di diligenza nell’espletamento del suo compito, considerando anche la normativa ex art. 1 della legge 9 agosto 1954, n. 653: 131 “il medico anestesista pratica direttamente sui malati sotto la propria responsabilità gli interventi per anestesia, sorvegliando l’andamento del trattamento”. ■ Valutazioni riassuntive. Le indicazioni della sentenza del Tribunale di Monza in merito alla responsabilità degli infermieri sono in linea con la rinnovata figura di tali professionisti sanitari, anche se sono usate alcune espressioni – ad esempio “personale ausiliario” – non più pertinenti alle funzioni dell’infermiere. È da ricordare che nel 2009 è stato presentato dal Ministero della Salute il “Manuale per la sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e Cecklist”. Al punto 4 si tratta dell’argomento: “Preparare e posizionare in modo corretto il paziente”. Si raccomanda che la direzione sanitaria aziendale adotti una procedura (con previsione di specifico addestramento) “per il corretto posizionamento dei pazienti e per le tecniche da adottare nelle diverse tipologie di interventi, con particolare riferimento alle manovre da evitare”. Si afferma la responsabilità di tutta l’équipe operatoria per il corretto posizionamento del paziente, che deve essere individuato in base non solo al tipo di intervento e alla necessità di sorveglianza anestesiologica, ma anche al fine di evitare di “procurare danni fisici da compressione e/o stiramento di strutture nervose, articolazioni e/o tessuti”. È di seguito attestato che è compito dell’infermiere di sala operatoria posizionare il paziente, sotto il controllo e le indicazioni dell’anestesista e assicurare la protezione dei punti di compressione. 5.2.5. Lesioni personali colpose ed omicidio colposo in relazione a errata somministrazione di farmaci ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 5359, 6 maggio 1992. Gli imputati sono un’infermiera, l’infermiera caposala e il direttore del reparto ospedaliero in cui si sono svolti i fatti e un’altra: essi avrebbero 132 cagionato per colpa la morte di due degenti, somministrando loro sodio azide al posto del solfato di magnesio (sale inglese). La somministrazione materiale fu dell’infermiera, che aveva per negligenza introdotto nel bicchiere il sodio azide, il cui contenitore era stato lasciato sul carrello della terapia orale e quindi scambiato per il flacone di sale inglese. La caposala, cui la normativa assegnava mansioni di custodia delle sostanze velenose (art. 41 DPR n. 128 del 1969, allora vigente, oggi abrogato), aveva omesso di controllare che tale sostanza fosse chiusa nell’armadio chiuso a chiave o comunque conservato con particolare attenzione: la mancata custodia era condizione essenziale per il verificarsi dell’evento. Il direttore era assolto in appello perché non è stato ritenuto suo compito custodire le sostanze venefiche e controllare che anche le mansioni esecutive fossero svolte regolarmente. La Cassazione ha rigettato i ricorsi dell’infermiera e della caposala, confermandone la condanna. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 1878, 25 ottobre 2000. Sono imputati di omicidio colposo plurimo 5 professionisti di un medesimo reparto: due dirigenti medici; la caposala; un’infermiera; un’infermiera generica. Il decesso era stato causato da avvelenamento da potassio, per la somministrazione di fleboclisi contenenti tale sostanza in misura da 5 a 8 volte superiore a quella tollerata dall’organismo. Per preparare le flebo era stato usato il prodotto “K flebo” al posto della “Soluzione 4”, andata esaurita: entrambi contenevano potassio, ma il primo farmaco aveva una concentazione maggiore del secondo, talché era necessario cambiare dosaggio. Chi materialmente preparò le flebo fu l’infermiera generica, assolta in appello, su indicazione dell’infermiera; quest’ultima diede indicazioni alla generica sulla base delle istruzioni ricevute dal primo medico: il diverso 133 dosaggio somministrato e rivelatosi poi mortale era “7 fiale di K flebo in luogo di una di Soluzione 4”. Il primo medico non aveva redatto una prescrizione scritta e dettagliata, con l’esatto quantitativo di potassio o del numero di fiale del nuovo farmaco, e si era limitato a dare indicazioni a voce alla infermiera, senza verificare il corretto recepimento delle istruzioni e la loro successiva esecuzione. Il secondo medico, dopo aver richiesto una fornitura urgente di fiale di “K flebo”, non si era attivato per fornire al personale del reparto prescrizione esatta sul quantitativo di potassio da immettere nelle flebo. I due medici non solo non hanno fornito nessuna indicazione scritta, ma non si sono neanche preoccupati di controllare come proseguisse la terapia dopo il cambio di farmaco. La caposala, condannata in appello, ha visto poi accolto il suo ricorso in Cassazione. Richiamando la norma ex art. 41 del DPR n. 128/1969, la Corte ha escluso che tra i compiti del caposala vi fosse anche quello di controllare la prescrizione dei farmaci né a maggior ragione la preparazione delle flebo. L’attività di somministrazione dei farmaci è quasi interamente di competenza degli infermieri, perciò è stata esclusa la responsabilità della caposala. Di interesse è la posizione dell’infermiera che, pur tentando di difendersi descrivendo se stessa come semplice esecutrice delle istruzioni dei medici, non ha ottenuto l’accoglimento del ricorso. La Cassazione ha sottolineato che l’attività di preparazione del flacone non deve essere prestata in modo meccanicistico, bensì in un rapporto di collaborazione con il medico; qualora l’infermiere nutra perplessità sul dosaggio prescritto, ha l’obbligo di attivarsi in tal senso richiamando l’attenzione del medico per avere indicazioni certe e non contestabili. Dalla ricostruzione dei fatti, è emerso che l’infermiera non si è attivata lasciando per iscritto ai colleghi la prescrizione del “K flebo”, nonostante si trattasse di un farmaco diverso rispetto alla “Soluzione 4” adoperata in 134 precedenza; diversità di principio attivo di cui lei non poteva non essersi accorta dato che aveva compilato personalmente la richiesta di fornitura di “K flebo”, inserendovi tutti i dati presenti sul foglietto illustrativo del farmaco. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 24360,16 giugno 2008. Sono imputati di lesioni colpose gravissime (malattia superiore ai quaranta giorni e deformazione permanente del viso) in danno di una paziente sottopostasi ad intervento di rinoplastica, un chirurgo plastico e un infermiere strumentista. Il chirurgo aveva erroneamente somministrato (tramite infiltrazione sottocutanea) alla paziente una soluzione, alla quale era stato aggiunto un disinfettante contenente benzalconio cloruro in luogo di una soluzione fisiologica; aveva preparato la soluzione lo strumentista. Entrambi in primo grado sono stati considerati colpevoli, il chirurgo in particolare per non aver controllato l’operato dello strumentista che è incorso nel fatale scambio. In appello il medico è assolto sulla base del principio di affidamento: egli aveva fornito allo strumentista, persona esperta che già aveva partecipato a simili interventi, tutte le istruzioni per preparare la soluzione; inoltre non era emerso alcun elemento dal quale dedurre la necessità di un più accurato controllo o la ragionevole possibilità che potesse verificarsi un tale evento. Il Procuratore Generale e l’infermiere propongono ricorso in Cassazione. Quanto al chirurgo, la Cassazione osserva che il giudice d’appello ha impropriamente applicato il principio dell’affidamento: nei casi di compartecipazione alla medesima attività o qualora si agisca nello stesso ambito di attività o nel medesimo contesto, solo quando si ha la percezione (o si dovrebbe averla) che gli altri stiano violando le regole o si è in una situazione in cui è prevedibile l’altrui inosservanza di una regola cautelare, ne deriva l’obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Perciò questo dovere di controllo sussisteva in capo al medico, e lo confermerebbe il fatto 135 che nella sala operatoria erano presenti diverse sostanze tutto inodori e incolori, con un grave rischio di confondimento. Anche per quanto riguarda lo strumentista mancano i presupposti per l’assoluzione nel merito. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 32424, 10 luglio 2008. Ad un bimbo di meno di un anno, ricoverato per problemi di alimentazione, erano somministrati alcuni farmaci tra cui una fiala di Isoptin; immediatamente dopo sopravveniva un aggravamento, e il giorno seguente la morte. È accertato che il decesso fu causato dalla somministrazione per via endovenosa dell’Isoptin, che avrebbe invece dovuto essere somministrato per via orale: una somministrazione orale avrebbe evitato l’avvelenamento perché avrebbe garantito diverse modalità di assorbimento del principio attivo. Imputati erano il medico A.C., il medico specializzando S. e l’infermiera V.: A.C. ed S., pur consapevoli delle modalità con cui il farmaco avrebbe dovuto essere somministrato, mancavano di specificarlo sul “foglio di terapia”, anche se la confezione indicava l’endovenosa. Tutti e tre gli imputati hanno avuto confermata la condanna anche in Cassazione: i due medici avrebbero dovuto prescrivere con chiarezza la modalità di somministrazione, scrivendola sul foglio di terapia e comunque avrebbero dovuto verificare che l’infermiera avesse correttamente inteso ciò che era da fare: il loro comportamento, unitamente all’indicazione riportata sulla confezione, ha fatto sì che si creasse una situazione di ambiguità, su cui si è poi innestata anche la condotta negligente dell’infermiera. Quest’ultima avrebbe dovuto chiedere chiarimenti ai medici, data la non completezza della prescrizione e le preoccupazioni espresse dalla madre del bimbo, che aveva informato l’infermiera del fatto che l’Isoptin era stato in precedenza somministrato al figlio per via orale. Né i medici né l’infermiera hanno prestato l’attenzione esigibile. 136 ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 36554, 28 maggio 2009. Un’infermiera e un medico sono accusati di omicidio colposo in danno di un loro paziente, deceduto in seguito ad una rapida endovenosa di cloruro di potassio. L’infermiera aveva somministrato la flebo su prescrizione del medico e la morte era avvenuta immediatamente per collasso cardiocircolatorio. Quest’ultimo, convenuto in separato giudizio, decideva di patteggiare la pena. In primo grado il giudice ha sostenuto che la somministrazione avrebbe dovuto essere effettuata lentamente per via periferica e previa diluizione, per prevenire il pericolo di un blocco del cuore. Pur se la terapia era stata decisa dal medico, l’infermiera non è esente da colpa dato che l’errore verte su cognizioni tecniche elementari appartenenti al suo bagaglio scientifico e di esperienza; ella avrebbe dovuto almeno chiedere spiegazioni sulle conseguenze di una tale modalità di somministrazione del farmaco. Dopo la condanna del primo giudice, in appello non è stato ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato data la scarsa esperienza dell’imputata che mai aveva utilizzato prima quel farmaco, e ciò non le ha consentito di assumere una posizione di controllo (esprimendo dei dubbi) delle decisioni di un medico ritenuto estremamente affidabile. Il Procuratore Generale della Repubblica propone ricorso in Cassazione, che è dichiarato inammissibile. Il ricorrente denunciava la mancata osservanza della circolare del Ministero della Sanità n. 28 del 12 aprile 1986, che prescrive l’obbligo per gli infermieri di richiedere al medico opportune precisazioni in caso di dubbi sulle modalità di somministrazione endovenosa di un farmaco. Invero, secondo la Corte, l’imputata non poteva nutrire dubbi: il medico aveva messo per iscritto con precisione la terapia, indicandone le modalità, perciò non appariva necessario alcun chiarimento. L’infermiera si era affidata alla competenza e all’esperienza del medico, andando esente da colpa. 137 ■ Valutazioni riassuntive. L’attività in cui più frequentemente l’infermiere può incorrere in errore è la somministrazione di farmaci. Per errore di terapia è da intendere ogni evento prevenibile che può causare o portare ad un uso inappropriato del farmaco o a un pericolo per il paziente; cinque sono le categorie di errore: errore 1) di prescrizione, 2) di trascrizione/interpretazione, 3) di preparazione, 4) di distribuzione, 5) di somministrazione. È da sottolineare che, coerentemente con il processo di professionalizzazione in corso, il profilo professionale specifica che “l’infermiere garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”. In base all’art. 2 del mansionario approvato con D.P.R 14 marzo 1974, n. 225 all’infermiere professionale competeva la “somministrazione dei farmaci prescritti”; somministrazione consentita solo per via intramuscolare, percutanea, endovenosa. L’attuale profilo professionale stabilisce dunque che è di competenza dell’infermiere la “corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche” e non la mera esecuzione delle prescrizioni mediche. L’infermiere ha pertanto funzione garantista delle procedure dettate secondo la miglior scienza ed esperienza attuali. Dopo l’abrogazione del mansionario, che sul punto era più drastico (il tema è dettagliato nel paragrafo 2 del capitolo 2), continua a essere comunque necessaria la presenza della prescrizione medica. Essa deve essere scritta e completa di tutti i suoi elementi costitutivi: il tipo di farmaco (nome commerciale del farmaco), la forma farmaceutica (fiale, compresse, etc.), il dosaggio, i tempi di somministrazione, la via di somministrazione, la sottoscrizione del medico (data e firma). La prescrizione in sé e per sé è di competenza medica; la corretta somministrazione è di competenza infermieristica: l’infermiere perciò risponde degli errori legati alla corretta somministrazione, tenendo conto delle condizioni cliniche, anamnestiche ed attuali, dei pazienti. 138 Le esposte sentenze tendono ad indicare che la Corte di Cassazione sia sensibile alle nuova normativa del profilo professionale, che fa carico all’infermiere di “garantire” la corretta somministrazione dei farmaci, ricorrendo eventualmente al medico per la soluzione di dubbi. 5.2.6. Esercizio abusivo della professione ■ Tribunale di Bergamo, sezione penale,19 marzo 2003. Sono imputati ex art 348 c.p. una dozzina di infermieri che avevano esercitato la professione senza essere iscritti all’Albo nel collegio Infermieri professionali Assistenti sanitari - Vigilatrici d’infanzia: in seguito ad accertamento, richiesto dall’IPASVI di Bergamo, era emerso (in data 3 giugno 1999) che gli imputati – tutti infermieri –, assunti dalle rispettive Aziende Ospedaliere tra il 1971 e il 1980, avevano effettuato l’iscrizione all’IPASVI soltanto successivamente alla segnalazione effettuata dallo stesso Collegio; perciò, visto il considerevole lasso di tempo trascorso esercitando la professione senza iscrizione all’Albo, sarebbero incorsi nel reato di esercizio abusivo della professione infermieristica. Il Tribunale decise per l’assoluzione degli imputati evidenziando come l’iscrizione all’Albo non solo costituisca una semplice facoltà e non un obbligo, ma anche come tale facoltà sia prevista solo per gli infermieri pubblici dipendenti che svolgano – sotto autorizzazione – la libera professione o abbiano chiesto autorizzazione a svolgerla. Il giudice si era basato unicamente sul decreto legislativo n. 233 del 1946, ritenendo lo stesso fonte primaria di riferimento sul tema, tale da prevalere sulle altre molto più recenti, tra cui il Profilo professionale dell’infermiere, normativa regolamentare di secondo grado: dispone l’art. 10 del D. Lgs. 233/1946 che “I sanitari che siano impiegati in una pubblica amministrazione ed ai quali, secondo gli ordinamenti loro applicabili, non sia vietato l'esercizio della libera professione, possono essere iscritti all'albo. Essi sono soggetti alla disciplina dell'Ordine o Collegio, limitatamente all'esercizio della libera professione”. 139 Per quanto riguarda, invece, gli infermieri che svolgono – come i convenuti in giudizio – la loro attività unicamente come dipendente nell’ambito del sistema sanitario nazionale, per essi non sarebbe necessaria l’iscrizione all’Albo. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 492, 1˚ aprile 2003. Alcuni infermieri dipendenti di strutture del servizio sanitario della provincia di Sondrio erano stati rinviati a giudizio per esercizio abusivo della professione, poiché non risultavano iscritti all’Albo professionale nel Collegio IPASVI. Assolti in entrambi i gradi di giudizio, gli imputati ricorrono in Cassazione per ottenere la formula assolutoria più ampia della “non sussistenza del fatto” (rispetto alla formula con cui erano stati assolti in appello “perché il fatto non costituisce reato”). La Corte accolse il ricorso interpretando il D. Lgs n. 233/1946 come riferentesi ai liberi professionisti – ancorché venga usata la sola parola professionisti – e non ai professionisti sanitari in generale: laddove l’art. 8 dispone che “per l’esercizio di ciascuna delle professioni sanitarie è necessaria l’iscrizione al relativo albo”, la Corte ha inteso obbligatoria l’iscrizione solo per i liberi professionisti, combinando il disposto appena citato con l’art. 3 del medesimo D.Lgs. che stabilisce che il Consiglio direttivo di ciascun Ordine e Collegio esercita “il potere disciplinare nei confronti dei sanitari liberi professionisti iscritti all’albo”. Gli infermieri, che esplicano la loro attività alle dipendenze della pubblica amministrazione o di un altro ente, invece, dovrebbero rispondere disciplinarmente soltanto alla propria amministrazione, non sono soggetti al controllo di un ordine professionale, la cui stessa ragion d’essere starebbe nel tutelare la collettività accertando le capacità di determinati professionisti e sottoponendo gli stessi ad un regime di responsabilità deontologica. L’iscrizione all’Albo per i dipendenti pubblici non avrebbe alcuno scopo, se non qualora questi esercitino anche la libera professione, e solo limitatamente ad essa potrebbe esplicarsi la vigilanza dell’Ordine che rimane 140 preclusa per coloro che già sono soggetti al controllo della propria pubblica amministrazione nell’ambito della relativa attività. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 6491, 13 febbraio 2009. È imputato l’avvocato P.M. per concorso nel reato di abusivo esercizio della professione di infermiere: il legale, rappresentante della “Nuova Assistenza Cooperativa Sociale” s.r.l., aveva preso in appalto la gestione del servizio infermieristico nel reparto di riabilitazione della “Casa di Cura Salus s.r.l.”, e aveva fatto lavorare presso tale struttura sanitaria infermieri – in possesso di regolare titolo abilitante – dipendenti della Cooperativa non iscritti all’Albo. Egli era riconosciuto colpevole del reato ascrittogli sia in primo grado sia in appello. La Cassazione accoglie il ricorso presentato, essendo l’iscrizione all’Albo professionale “un atto di accertamento costitutivo, operante erga omnes, dello status di professionista ed è imposta soltanto a coloro che esercitano la libera professione mediante contratti d’opera direttamente con il pubblico dei clienti”. Il richiamo è sempre all’art.8 del D. Lgs. N. 233 del 1946, e alla sua ratio che consisterebbe nella necessità di portare a conoscenza del pubblico le persone autorizzate ad esercitare la professione infermieristica e di garantire la vigilanza dei Collegi competenti per quanto riguarda gli aspetti disciplinari e tariffari. La stessa necessità non sussisterebbe per gli infermieri legati da un rapporto dipendente – sia con una struttura pubblica che privata –, dato che essi rispondono disciplinarmente al loro datore di lavoro (e superiore gerarchico) ed hanno uno stipendio fisso. La garanzia verrebbe quindi offerta direttamente dalla struttura sanitaria in cui opera l’infermiere. Anche in questo caso i fatti risalgono ad un periodo antecedente la legge n. 43 del 2006. La Cassazione non accenna alle intervenute modifiche legislative. 141 ■ Tribunale Penale di Pisa, n. 628, 21 maggio 2010. È imputata un’infermiera che, dopo aver conseguito in Olanda il diploma di abilitazione all’esercizio della professione, dal 1990 lavora in una casa di cura in Italia, senza essersi iscritta all’albo professionale, neanche dopo l’entrata in vigore della legge 1˚ febbraio 2006 n. 43. Non vi è dubbio che la condotta costitutiva del reato sia, almeno in parte, successiva a quella legge che avrebbe dovuto sancire in via definitiva la necessità per qualunque infermiere – dipendente o libero professionista che sia – di iscriversi all’Albo tenuto dall’IPASVI. Il tribunale, pur tuttavia, continua a richiamare la giurisprudenza della Suprema Corte e quindi ad applicare quella datata legge n. 233 del 1946 giungendo all’assoluzione dell’imputata, riportando le medesime parole della sentenza della Cassazione n. 6491/2009 poco sopra citata. In sostanza sarebbe sufficiente il possesso del titolo abilitante per poter esercitare la professione presso una struttura sanitaria pubblica o privata, perché l’utenza può far affidamento sulla garanzia offerta dalla struttura stessa, la sola alla quale dovrebbe rispondere disciplinarmente l’infermiere. ■ Valutazioni riassuntive. Le sentenze prime citate riguardano fatti sicuramente antecedenti alla legge n. 43 del 2006, che pare aver chiarito la questione, nel senso dell’obbligatorietà dell’iscrizione all’Albo IPASVI per tutti gli infermieri a prescindere che siano dipendenti pubblici. Nelle due decisioni sono del 2003, comunque Tribunale e Corte di Cassazione ben avrebbero potuto richiamare nelle motivazioni la normativa vigente all’epoca della stesura delle sentenze, per poter presentare anche quella che avrebbe dovuto essere l’evoluzione successiva della vicenda. Nonostante la sua vigenza all’epoca dei fatti, il Profilo professionale non è stato preso in considerazione dai giudici, se non per ribadirne la non 142 applicabilità al caso concreto, data la prevalenza della normativa primaria (D. Lgs. 233/1946) sulla normativa regolamentare. Inoltre è stata disattesa non solo la dottrina giuridica – concorde nel ritenere l’iscrizione all’Albo necessaria per l’attribuzione della qualità di professionista –, ma altresì il parere del Consiglio di Stato che osservava come fosse irragionevole che un sanitario ritenuto inidoneo dal proprio Ordine ad esercitare la (libera) professione potesse essere legittimato ad esercitarla come pubblico dipendente (o come privato dipendente). 5.2.7. Omissione o rifiuto di atti d’ufficio ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale n. 39486, 27 settembre 2006. La vicenda riguarda un’infermiera generica, dipendente ospedaliera, condannata sia in primo grado sia in appello per essersi indebitamente rifiutata di effettuare le operazioni di pulizia di un degente sottoposto ad intervento di resezione colica, il cui letto e le parti intime erano imbrattate con le feci fuoriuscite dalla sacca di contenimento delle stesse (posizionata in maniera errata da un infermiere professionale). L’infermiera aveva dichiarato di provare vergogna per la differenza di sesso; ma questo non è stato ritenuto un motivo legittimo per astenersi da un atto che avrebbe dovuto essere compiuto senza ritardo per ragioni di igiene e sanità. Il ricorso in Cassazione è respinto: la Corte descrive il comportamento dell’infermiera generica – aderendo alla ricostruzione dei giudici di merito – come palesemente ingiustificata, essendosi l’operatrice allontanata dal reparto per circa mezz’ora (l’infermiera aveva dichiarato di essersi allontanata perché impegnata nella distribuzione del vitto) invece di provvedere prontamente alle operazioni di pulizia. La Corte ha affermato che è dovere dell’infermiera generica attivarsi per la pulizia del paziente, osservando per inciso che il riposizionamento della sacca è un’operazione di normale routine e di facilissima esecuzione. L’impegno nella distribuzione del vitto non ha valore alcuno, poiché l’operazione di pulizia del paziente 143 avrebbe occupato pochi minuti e si trattava di incombenza che aveva la priorità. Nel tentativo di difendersi l’infermiera aveva anche richiamato l’art. 6 del mansionario, in base al quale l’infermiere generico provvede direttamente alle operazioni di pulizia del paziente su prescrizione del medico: nel caso, il medico non aveva specificato alcunché. Secondo la Corte, però, questa disposizione non implica che la prescrizione medica debba avvenire di volta in volta per ogni singolo paziente del reparto, ben potendo essere impartita in via generale in base ai turni di servizio degli infermieri. 5.3. Giurisprudenza in tema di responsabilità dell’ostetrica 5.3.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione Sono riportate nel box 5.2 le fonti normative indispensabili per la comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo. Circa il D.M. 15 settembre 1975 recante “Istruzioni per l’esercizio professionale delle ostetriche” è da notare che esso non è formalmente correlato al D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163 “Aggiornamento del regio decreto 26 maggio 1940, n. 1364, concernente il regolamento per l’esercizio professionale delle ostetriche”, abrogato dall’art. 1 della legge 26 febbraio 1999, n. 42. Né la legge n. 42 del 1999 né alcuna altra norma ha abrogato questo D.M., il cui contenuto è dunque valido, se non superato da regole introdotte con le norme sopravvenute, a condizione comunque che esso non sia considerato come esprimente le attività alle quali l’esercizio professionale dell’ostetrica deve limitarsi. Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle norme di carattere generale citate in giurisprudenza, si rinvia alla trattazione sviluppata nel capitolo 2. Non compare nel box 5.2, in quanto nessuna sentenza lo cita, il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 206 “Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali …”, pur disciplinante la professione di ostetrica e di cui si è riferito nel paragrafo 7 del capito 2. 144 Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della condotta professionale censurata. Box 5.2 – Il profilo professionale dell’ostetrica, le persistenti istruzioni per l’esercizio professionale delle ostetriche e l’ambito di autonomia secondo l’art. 1 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” D.M. 15 settembre 1975, “Istruzioni per l’esercizio professionale delle ostetriche”, come modificato dal D.M. 15 giugno 1981. Art. 1. {I}. A norma del D.P.R. 7 marzo 1975, n. 163, l’ostetrica può svolgere i seguenti compiti: 1) assistenza alla donna durante la gestazione, parto ed il puerperio; 2) assistenza al neonato; 3) vigilanza della madre e del bambino nel quadro della difesa sanitaria della famiglia; 4) assistenza medico sociale, in collegamento con centri che operano in questo settore; 5) assistenza infermieristica, nei limiti stabiliti dalle vigenti disposizioni per gli infermieri professionali, col divieto di prestare assistenza ad infermi affetti da malattie contagiose (art. 7 del regolamento). Art. 2. {I}. Per quanto concerne l’assistenza ai parti l’ostetrica ha l’obbligo di: 1) annotare ogni parto e ogni aborto, al quale abbia assistito, negli appositi registri (registro dei parti e registro degli aborti) che, a richiesta, le saranno forniti dall’autorità sanitaria comunale (art. 8 del regolamento); 2) portare mensilmente tanto il registro dei parti che quello degli aborti all’ufficio comunale per il prescritto “visto” mensile dell’ufficiale sanitario. Tali registri alla fine di ciascun trimestre sono trattenuti dall’ufficiale sanitario e sostituiti con altri nuovi (art. 8 del regolamento); 3) redigere e rilasciare gratuitamente il certificato di assistenza al parto conforme al modello stabilito dal Ministero della sanità, da servire per l’ufficio di stato civile (art. 18 regio decreto-legge 15 ottobre 1936, n. 2128, sull’ordinamento delle scuole di ostetricia e sulla disciplina giuridica della professione di ostetrica); 4) denunciare al sindaco e all’ufficiale sanitario ogni nascita di neonato deforme (art. 139 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 e art. 9 del regolamento), sempreché la denuncia non venga fatta dal medico, il cui intervento deve essere in tali casi richiesto ai sensi dell’art. 4 del citato regolamento; 5) segnalare sollecitamente all’ufficiale sanitario la nascita di immaturi e di deboli vitali promuovendo l’immediato ricovero per gli eventuali interventi assistenziali. {II}. L’ostetrica deve essere provvista per l’assistenza ai parti della busta ostetrica di cui all’art. 10 del regolamento. {III}. Detta busta deve contenere: 1) un grembiule di tessuto bianco di bucato, a maniche corte, che giungano sopra i gomiti, di forma e dimensioni da coprire tutta la persona, con chiusura posteriore; 2) una cuffia di tela bianca, di bucato; 3) un termometro clinico; 4) uno stetoscopio; 5) uno spazzolino per le mani; 6) una saponetta; 7) una bottiglia di gr. 300 di alcool; 8) due paia di guanti di gomma sterili; 9) una boccetta di vetro contenente circa gr. 30 di tintura di iodio officinale fresca, o di acido picrico in soluzione alcolica 5%, o altro disinfettante indicato dal Ministero della sanità; 10) un rasoio di sicurezza; 11) almeno cinque pacchetti, da gr. 50 ciascuno, di cotone idrofilo sterilizzato; cinque pacchetti da 50 quadratini (cm. 10 x 10) e cinque fascette (m. 5 x cm. 7) di garza sterilizzata; 145 12) cateteri vescicali femminili di gomma, di vario calibro; 13) uno speculum vaginale; 14) due forbici smusse; 15) una pinza da zaffamento; 16) quattro pinze emostatiche ed una di medicazione; 17) anellini di gomma o le apposite pinze già sterili per la legatura del funicolo; 18) un pelvimetro; 19) un nastro metrico; 20) uno sfigmomanometro; 21) una pesa per il neonato; 22) una abbassalingua; 23) un tubetto di pomata oftalmica antibiotica; 24) due cannule di vetro munite di tubo di gomma, per aspirare il muco dalla retrobocca del neonato; 25) alcune siringhe di vetro oppure quelle già sterili di plastica; 26) alcune fiale di cardiotonici, uterotonici, coagulanti, antispastici, bicarbonato di sodio all’8%; 27) il materiale necessario per la ricerca e la valutazione dell’albumina e del glucosio nelle urine; 28) un enteroclisma completo o i clisteri già pronti in commercio. {IV}. I medicinali indicati ai numeri 9), 23), 26) e 27) sono rilasciati dai farmacisti, a semplice richiesta scritta, firmata dalle ostetriche. {V}. Il comune, a norma dell’art. 55 del testo unico delle leggi sanitarie e degli articoli 62 e 63 del regolamento approvato con regio decreto 19 luglio 1906, n. 466, deve fornire all’ostetrica condotta la busta contenente il materiale elencato nel precedente articolo. Art. 3. {I}. L’ostetrica chiamata ad assistere una gestante, qualunque sia il mese di gravidanza, deve rendersi conto dello stato generale di salute della donna, informandosi di eventuali malattie, pregresse o attuali, degli stati di sofferenza o disturbi di cui la gestante possa essere affetta in dipendenza o meno dello stato di gestazione. In particolare dovrà: a) procedere ad un’accurata raccolta dell’anamnesi, con particolare riguardo ai fattori di rischio; b) fare l’esame ostetrico; c) fare eseguire l’esame dell’azotemia e della glicemia (da praticarsi al terzo, sesto e nono mese); d) far eseguire l’esame delle urine; e) determinare la pressione arteriosa e controllare il peso e la diuresi. (I controlli di cui alla lettera d) ed e) dovranno praticarsi una volta al mese fino all’ottavo mese, ogni quindici giorni nel corso del nono mese, comunque quando vi sia presenza di edemi, cefalea, ecc.); f) far eseguire l’esame sierologico del sangue per la ricerca della sifilide ignorata; g) far determinare il gruppo sanguigno, il fattore RH e far eseguire controlli emocitometrici per evidenziare eventuali anemie ferroprive o megaloblastiche. {II}. I rilievi di cui sopra verranno trascritti sulla “tessera sanitaria” attualmente distribuita dall’O.N.M.I. {III}. Nel primo trimestre di gestazione o, comunque, quando l’ostetrica viene a conoscenza di uno stato di gravidanza, deve far sottoporre la donna ad una visita medica generale. {IV}. In caso di qualsiasi irregolarità risultante dai controlli predetti, l’ostetrica richiederà l’intervento del medico e in caso di rifiuto della gestante, ne informerà riservatamente l’ufficiale sanitario. Art. 4. {I}. L’ostetrica quando rilevi anche semplicemente sospetti di aborto in atto o già spontaneamente espletato, da qualsiasi causa o con qualsiasi mezzo determinato, deve astenersi da ogni intervento ed attendere l’intervento medico. {II}. Ove la donna rifiuti di chiamare il medico, l’ostetrica ne informerà riservatamente per iscritto, l’ufficiale sanitario. Art. 5. {I}. L’ostetrica deve concorrere a combattere eventuali pregiudizi e abitudini dannose della gestante ed indurla a seguire, per il benessere proprio e del nascituro, le norme igieniche più appropriate per il suo stato al fine di assicurare il buon andamento della gravidanza, le migliori condizioni per il normale sviluppo del feto e per il normale decorso del parto. {II}. Darà pure consigli sull’alimentazione più appropriata della gestante, sull’igiene personale, sulla prevenzione della morbosità congenita da fattori fisici e chimici, rappresentati oltre che dai vari tossici, dai farmaci soprattutto se somministrati nelle prime dodici settimane della gravidanza, sulla necessità di evitare lavori faticosi e strapazzi fisici di qualsiasi genere specialmente nelle ultime sei settimane precedenti al parto. {III}. Nei luoghi dove esistono centri di preparazione al parto, l’ostetrica farà opera di persuasione affinché le gestanti li frequentino. Ove invece non esistano, l’ostetrica darà essa stessa alle gestanti le nozioni di psicoprofilassi ostetrica, affinché il parto si svolga nelle migliori condizioni psico-fisiche. Essa renderà inoltre edotte le donne assistite di tutte le provvidenze mutualistiche ed assistenziali di cui hanno diritto. ASSISTENZA AL PARTO. Art. 6. {I}. In prossimità della data presunta del parto l’ostetrica deve assicurarsi che la camera della partoriente sia ripulita e sgombra di mobili ed oggetti inutili; che sia predisposta la biancheria personale e del letto della partoriente (di bucato) in quantità sufficiente ai bisogni. 146 {II}. Ove l’ambiente sia inidoneo o vi sia deficienza di materiale o di mezzi indispensabili, deve consigliare il ricovero della partoriente in ospedale o in sale di maternità. {III}. Quando il materiale del pacco ostetrico non sia sterile, avrà cura di far bollire l’ovatta, la garza, i panni ed ogni altro presidio da usare nell’espletamento del parto. Art. 7. {I}. Durante l’assistenza al parto, l’ostetrica deve usare, previa disinfezione delle mani, i guanti di gomma, precedentemente sterilizzati. Avrà a disposizione l’alcool per usarlo tutte le volte che le mani, con o senza guanti, siano venute accidentalmente a contatto con oggetti non asettici. Art. 8. {I}. L’ostetrica deve richiedere l’intervento medico ogni qualvolta rilevi o sospetti nella partoriente malattie generali (cardiopatie, nefriti, anemie, ecc.); distocie di qualsiasi natura, ritardi o emorragia nel secondamento, o comunque avverta che il parto non procede in modo del tutto normale. Art. 9. {I}. Durante il secondamento l’ostetrica si limita a sorvegliare e controllare, con esame esterno, le contrazioni e la retrazione emostatica dell’utero ed a raccogliere la placenta al momento dell’espulsione, evitando ogni trazione sul cordone ed il massaggio dell’utero, a meno che non sia richiesto da emorragia in atto. {II}. Deve sempre esaminare attentamente la placenta e le membrane appena espulse, perché nel caso constati che siano incomplete o non del tutto normali, deve conservarle per sottoporle all’esame del medico. {III}. L’intervento del medico deve essere richiesto nei casi di lacerazioni verificatesi nel canale del parto, di nascita di infante deforme e di feto nato morto, anche se il parto è stato spontaneo. Art. 10. {I}. Indipendentemente dalle facoltà previste dall’art. 7 del regolamento è consentito alle ostetriche di eseguire: 1) il cateterismo vescicale; 2) la rottura delle membrane ovulari, soltanto se richiesta da condizioni generali del parto o locali, purché la dilatazione della bocca uterina sia completa, la presentazione di vertice è profondamente impegnata; 3) la rottura delle membrane a dilatazione ancora incompleta della bocca uterina nel solo caso di placenta previa laterale, con emorragia in atto, quando il feto sia in situazione longitudinale e non sia possibile l’immediato intervento medico; 4) l’assistenza al parto podalico, spontaneo; 5) l’esecuzione della versione per manovre esterne durante la gravidanza o nel travaglio del parto iniziale, a membrane integre, nella presentazione di spalla; 6) la spremitura del feto nell’utero per facilitare l’espulsione, quando la testa fetale già ruotata, affiori alla vulva; 7) l’episiotomia per facilitare l’espulsione del feto quando la parte presentata affiori alla vulva; 8) la spremitura dell’utero sicuramente retratto e contratto, nel periodo del secondamento, ed a placenta sicuramente staccata oppure, in caso di emorragia, quando non sia possibile l’intervento immediato del medico; 9) la spremitura dell’utero nel post-partum per ottenere la fuoriuscita dei coaguli se provocano perdita di sangue, previo accertamento che l’utero sia retratto; 10) lo zaffo della vagina, in caso di emorragia; 11) le iniezioni di antispastici in caso di ipercinesi nell’attesa dell’arrivo del medico per il viaggio al luogo di cura; 12) le iniezioni utero-toniche dopo l’eventuale svuotamento dell’utero dai coaguli sanguigni, nei casi di atonia, nel post-partum; 13) le iniezioni di analettico o cardiotonici nell’attesa del medico; 14) il prelievo di sangue capillare e venoso durante la gravidanza per facilitare gli esami necessari per una corretta assistenza alla gravida stessa; 15) il prelievo vaginale per l’esame citologico; 16) illustrazione dei vari metodi contraccettivi (metodi naturali, diaframma vaginale, ecc.). {II}. Ogni altro intervento manuale o strumentale è vietato all’ostetrica. Art. 11. {I}. Subito dopo espletato il secondamento si tratterrà ancora qualche tempo (due ore almeno) per sorvegliare la permanente retrazione emostatica del corpo uterino, dedicando questo tempo alle prime cure al neonato, ai sensi del precedente art. 14. ASSISTENZA AL PUERPERIO. Art. 12. {I}. Nei primi cinque giorni dopo il parto l’ostetrica è tenuta a visitare la puerpera due volte al giorno, mattina e sera, annotando metodicamente la temperatura ed il polso e controllando l’apparato genitale (involuzione dell’utero, aspetto dei genitali esterni, lochiazione, emorragie, ecc.). {II}. Nei casi di temperatura febbrile, di polso troppo frequente, di lochiazione fetida, troppo a lungo ematica o in qualunque modo anormale, deve chiedere l’immediato intervento del medico e, nell’eventuale assenza di esso, segnalare d’urgenza il caso all’ufficiale sanitario, ai sensi e per gli effetti degli articoli 139 e 254 del testo unico delle leggi sanitarie. {III}. Nelle prime sei settimane dopo il parto svolge la sorveglianza tendente ad evitare lo stabilirsi di una patologia uterina, o annessiale o mammaria o della malattia trombo-embolica. {IV}. Qualora l’assistenza domiciliare non sia sufficientemente assicurata, consiglia il ricovero di urgenza dell’inferma all’ospedale, sollecitandone il provvedimento dall’autorità sanitaria. Art. 13. {I}. L’ostetrica che ha prestato le sue cure ad una donna colpita da processo infettivo puerperale, è tenuta a darne subito avviso all’ufficiale sanitario comunale e ad attenersi rigorosamente alle prescrizioni di esso, a norma delle disposizioni del regolamento per la profilassi delle malattie infettive. 147 ASSISTENZA AL NEONATO ED AL BAMBINO. Art. 14. {I}. Ai sensi dell’art. 6 del regolamento, l’ostetrica, espletato il parto, deve praticare la profilassi oftalmica, istillando all’angolo interno del sacco congiuntivale di ciascun occhio una goccia di collirio antibiotico. {II}. Nei giorni seguenti deve vigilare lo stato degli occhi del neonato, reclamando subito l’intervento del medico, ove constatasse arrossamenti o altri segni di infiammazione. {III}. La pulizia del neonato, subito dopo la nascita, sarà praticata con acqua a circa 31° centigradi avendo cura di non bagnare il moncone del cordone ombelicale e gli occhi del neonato per evitare possibili infezioni. Art. 15. {I}. L’ostetrica deve consigliare l’abbigliamento più idoneo per il neonato, tenuto conto della stagione e delle condizioni di ambiente, preoccupandosi di evitare il raffreddamento del nella stagione fredda; il sovrariscaldamento nella stagione calda. {II}. Deve dare opportuni suggerimenti circa l’igiene dell’ambiente, indicando il punto più adatto della camera per disporvi la culla ed il modo di ricambiare l’aria senza che il neonato sia colpito da correnti. Art. 16. {I}. L’ostetrica deve spiegare opera per assicurare al neonato l’allattamento materno, a meno che il medico non lo controindichi, dettando le norme per bene regolare l’allattamento, indicando la posizione da dare al poppante, l’orario e la durata delle poppate, il modo di controllare con la doppia pesata la quantità di latte ingerito. {II}. In caso di anomalie a carico della mammella della madre (arrossamento, indurimento, ragadi, ecc.), o di patine biancastre alla bocca del neonato, dovrà richiedere l’intervento del medico. Art. 17. {I}. L’ostetrica quale vigilatrice della madre e del bambino. {II}. L’ostetrica cui viene affidato il compito di vigilatrice della madre e del bambino, secondo quanto è stabilito all’art. 2 del regolamento, deve: diffondere le norme pratiche di igiene materna vigilandone e curandone l’applicazione; nei casi di anomalie o disturbi nella funzione genitale come ritardi nella prima mestruazione, amenorrea, dismenorrea, menorragia, metrorragia, leucorrea, sterilità, ecc.; di segni manifesti o sospetti di infezione sifilitica o blenorragia, di segni iniziali che possono far sospettare tumori dell’utero come perdite vaginali sanguigne atipiche, e, dopo la menopausa, aumento del volume dell’addome, ecc.; o di tumore della mammella (noduli mammari, retrazione del capezzolo) deve consigliare la consultazione di un medico o, se possibile, indirizzare la donna ai consultori ostetrici o materni, astenendosi dal dare consigli terapeutici e manifestare opinioni che non rientrano nel campo della sua competenza professionale come dal dare indicazioni oltre quelle generiche concernenti le ordinarie pratiche di pulizia e di igiene e le cautele da usare per evitare eventuali contagi familiari, ecc. Nel caso di accertata difficoltà per la donna di accedere agli appositi ambulatori, l’ostetrica può effettuare prelievi di materiale dalla vagina per l’esecuzione di esami citologici e può eseguire prelievi di sangue capillare e venoso. Art. 18. {I}. L’ostetrica deve: far propaganda per combattere i pregiudizi e le abitudini nocive al buon allevamento dei bambini; sorvegliare lo stato di nutrizione di essi, provvedendo a periodici controlli del peso e consigliando la visita del medico in caso di mancato accrescimento; vigilare a che le istruzioni impartite dai consultori pediatrici e dal medico siano eseguite; collaborare attivamente alle varie iniziative riguardanti l’educazione sanitaria, l’educazione sessuale, la regolamentazione delle nascite. {II}. La vigilanza deve estendersi al vestiario del bambino, alla pulizia giornaliera, all’ambiente di vita, allo sviluppo fisico e psichico, rilevando e segnalando ogni deficienza per i provvedimenti di assistenza. D.M. 14 settembre 1994, n. 740 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'ostetrica/o”. Art. 1. 1. È individuata la figura dell'ostetrica/o con il seguente profilo: l'ostetrica/o è l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale, assiste e consiglia la donna nel periodo della gravidanza, durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con propria responsabilità e presta assistenza al neonato. 2. L'ostetrica/o, per quanto di sua competenza, partecipa: a) ad interventi di educazione sanitaria e sessuale sia nell'ambito della famiglia che nella comunità; b) alla preparazione psicoprofilattica al parto; c) alla preparazione e all'assistenza ad interventi ginecologici; d) alla prevenzione e all'accertamento dei tumori della sfera genitale femminile; e) ai programmi di assistenza materna e neonatale. 3. L'ostetrica/o, nel rispetto dell'etica professionale, gestisce, come membro dell'equipe sanitaria, l'intervento assistenziale di propria competenza. 4. L'ostetrica/o contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca. 5. L'ostetrica/o è in grado di individuare situazioni potenzialmente patologiche che richiedono intervento medico e di praticare, ove occorra, le relative misure di particolare emergenza. 6. L'ostetrica/o svolge la sua attività in strutture sanitarie, pubbliche o private, in regime di dipendenza o libero-professionale. 148 Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”. Art. 1. (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica) 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell'assistenza. … 5.3.2. Lesioni personali colpose / omicidio colposo in relazione alla omissione nella presa in carico ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 522, 10 maggio 1978. X.Y., al settimo mese della sua quarta gravidanza, accortasi di avere delle perdite, chiamò l’ostetrica G.G.; questa, affermando che si era verificata rottura del sacco amnio-coriale, accompagnò l’assistita in clinica. Qui entrò in gioco il dottor M.G. che, nonostante la rilevazione della dilatazione del collo dell’utero e l’imminenza del parto, diede assicurazione sulla non necessità di un ricovero e sul normale posizionamento del feto, e che quindi il parto avrebbe potuto essere portato a termine tranquillamente a domicilio. Dopo 5 giorni, X.Y., già in condizioni non ottimali, avvertì l’ostetrica, che nel pomeriggio iniziò l’assistenza al parto, cercando di provocare l’espulsione del feto. Le condizioni della partoriente erano andate peggiorando, ne conseguì un parto difficile e con prospettive di esito infausto, perciò l’ostetrica dispose il ricovero nella clinica villa L., dove X.Y. venne sottoposta ad urgente intervento chirurgico di laparotomia con isterectomia sub-totale ed annessiectomia. Sia in primo che in secondo grado entrambi l’ostetrica e il medico sono stati condannati per aver cagionato, in concorso tra loro con condotte autonome ed indipendenti, lesioni personali gravi e gravissime alla paziente: in particolare “l’ostetrica professionista, ometteva di richiedere, in violazione dell’art. 5 del R.D. 26 maggio 1940 n. 1364, l’intervento di un medico e di disporre il ricovero della partoriente sia nei giorni precedenti sia allorché, 149 assistendo la X.Y. nel parto a domicilio, si era accorta che il parto stesso non procedeva in maniera del tutto normale”. L’ostetrica nel ricorso in Cassazione ha sostenuto che fossero stati omesse le indagini circa la sussistenza degli elementi idonei ad integrare gli estremi della colpa professionale. La Corte ha ritenuto infondato il ricorso: nel caso in esame, in cui le condizioni della gestante non esigevano la soluzione di complessi problemi diagnostici o terapeutici, bene hanno fatto i giudici di merito a condannare i due sanitari per colpa generica. È stato richiamato in sentenza, costatandone la violazione, l’art. 5 del R.D. del 26-5-1940 n. 1364, secondo cui l’ostetrica assistente il parto avrebbe dovuto richiedere l’intervento del medico qualora avesse avvertito che il parto non stesse procedendo in modo del tutto normale; e difatti nel caso di specie è stata riscontrata nel corso dei due procedimenti di merito la presenza di diversi segnali di infezione in corso, l’elevata temperatura corporea e le macchie giallo-verdastre. La Corte ha specificato non integrarsi l’ipotesi della prestazione professionale implicante la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà per cui il professionista risponderebbe soltanto per dolo o colpa grave. L’attenuazione della responsabilità nel caso non è stata ritenuta sussistere, dato che la prematura rottura delle acque e l’elevato stato febbrile della partoriente, avrebbero costituito palesi segnali – secondo la comune esperienza, di agevole constatazione – di insorgenza di complicazioni per la partoriente, tanto da dover indurre a richiedere immediato intervento medico. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 5665 del 15 maggio 1992 L’ostetrica è imputata di omicidio colposo in concorso con un medico ginecologo, per non aver diagnosticato una parziale ritenzione placentare nella puerpera, omettendo qualsiasi tipo di terapia e di assistenza, 150 nonostante le precarie condizioni, che avevano poi condotto alla morte la donna. La Corte di Appello, dopo l’assoluzione dell’ostetrica in primo grado per insufficienza di prove e un’affermazione di colpevolezza del medico, ha dichiarato non doversi procedere in relazione al delitto di omicidio colposo per essersi il reato estinto per prescrizione, condannando tuttavia gli imputati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili nella misura del 60% per il ginecologo e del 40% per l’ostetrica. La responsabilità di quest’ultima è emersa durante il dibattimento in secondo grado di giudizio: la Corte ha ritenuto che ella avrebbe dovuto sollecitare un nuovo intervento medico ed insistere per il trasporto in ospedale, avendo privato essa stessa della sua assistenza la donna dopo il parto. La Cassazione, adita con ricorso, ha affermato di non esserci contrasto tra il riconoscimento della colpa del medico e quella dell’ostetrica, “trattandosi di soggetti distinti con autonome professionalità ai quali sono state contestate condotte colpose diverse”. Inoltre le condizioni fisiche dell’assistita (sensazione di freddo, svenimenti, perdita di pressione) – in accordo con la precedente pronuncia in appello – sono state considerate tali da dover indurre l’ostetrica ad insistere per l’intervenisse medico ed un celere ricovero in ospedale: per motivare tale affermazione si è pure tenuto conto del fatto che l’ostetrica, avendo assistito al parto, non avrebbe potuto non accorgersi della non integrità della placenta espulsa. La Cassazione ha sottolineato che il quadro patologico complessivo della paziente avrebbe dovuto indurre l’ostetrica ad una maggior assistenza e sollecitudine, che non sono state invece messe in atto: quest’inerzia imprudente e negligente, dell’ostetrica, unitamente alla condotta del medico, hanno fatto sì che i sintomi, causati dall’incompleta espulsione della placenta, si aggravassero progressivamente, fino a condurre la donna al decesso. 151 ■ Valutazioni riassuntive. Le due sentenze affrontano la situazione di richiesta di intervento medico da parte dell’ostetrica, su cui la giurisprudenza ha centrato l’attenzione riguardo alla responsabilità dell’ostetrica. Il limite dell’atto medico, ha fin dalla prima fonte di riferimento del mansionario, fatto da sfondo alla responsabilità dell’ostetrica in caso di parto non naturale: l’ostetrica era e continua ad essere (dato che la normativa di riforma non ha innovato sul punto) la professionista di riferimento del parto fisiologico, mentre nel caso di parto patologico è il medico il professionista centrale. È, pertanto, compito dell’ostetrica avvertire il medico nel caso riscontri anomalie che comportino il passaggio da parto fisiologico a patologico: in tal senso si esprimevano le abrogate fonti mansionariali, sia quella del 1940 che quella del 1975, e ciò continua a disporre il profilo professionale del 1994, così come il codice deontologico del 2010 che richiama il dovere di collaborazione con altri professionisti sanitari in vista della salvaguardia della salute della donna e del bambino. In entrambe le sentenze, la responsabilità dell’ostetrica è stata individuata nella mancata solerzia nell’attivarsi con conseguente intempestivo intervento del medico, che avrebbe potuto mettere in atto una terapia adeguata che, in base ad un ragionamento controfattuale, avrebbe potuto evitare lesioni alla puerpera o la sua morte. Tale obbligo, presente sia nel R.D. n. 1364/1940 all’art. 5 che nel D.P.R. n. 163/1975 all’art. 4, è stato poi mantenuto, simile anche se non sovrapponibile, nel profilo professionale all’art. 1, comma 5. 5.3.3. Omicidio colposo a carico del nascituro in relazione a carenze nella presa in carico ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 21709, 29 gennaio 2004. 152 Il reato contestato all’ostetrica è quello di omicidio colposo del nascituro per aver tenuto una condotta colposa. Si è trattato di una condotta negligente e imprudente omissiva caratterizzata dal mancato allertamento del medico, nonostante il monitoraggio cardiotocografico della paziente indicasse una progressiva sofferenza fetale. Il medico è quindi intervenuto con notevole ritardo, non riuscendo ad impedire il decesso del feto. L’ostetrica avrebbe dovuto, infatti, avvertire con massima sollecitudine il medico, non appena emersi segni di sofferenza con rischio per la madre o per il nascituro. La partoriente, ricoverata in ospedale al termine di una normale gravidanza, era sottoposta a monitoraggio cardiotocografico, che risultò ,in un primo momento normale, per poi segnalare un andamento “ondulatorio attenuato” e quindi “silente”, fino a registrare molteplici decelerazioni tardive. Nella consulenza richiesta dal P.M., è stato evidenziato come tali elementi fossero da ritenersi univocamente indicativi di una sofferenza fetale; le indagini hanno quindi accertato il nesso di causalità tra la condotta colposa della professionista sanitaria e l’evento del decesso del feto. La Corte di appello di Roma nel 2003 ha confermato la precedente sentenza del Tribunale di Roma quanto alla riconoscimento della responsabilità dell’ostetrica in ordine al delitto di omicidio del nascituro; e così ha fatto pure la Cassazione, ponendo in tale occasione alcuni principi cardine in materia. La sentenza della Cassazione ha sancito come la sorveglianza del battito cardiaco fetale intrapartum nella gravida sana, a basso rischio, sia una competenza appartenente all’ostetrica: l’affidamento di tale attività in totale autonomia all’ostetrica, ne rappresenta la sua diretta responsabilità nel rispondere in prima persona dei fatti compiuti. “Rientra” – infatti – “nell’ordinaria competenza dell’ostetrica la possibilità di riconoscere con tempestività alterazioni della frequenza cardiaca fetale, rivelatrici di una sofferenza che deve essere immediatamente riferita al sanitario del reparto o comunque al personale medico disponibile o reperibile”. 153 La rilevazione e valutazione delle variazioni emergenti dall’esame del battito cardiaco del feto indicative di possibili fattori di rischio è considerata dalla Suprema Corte una competenza caratterizzante la professionalità dell’ostetrica, in relazione alla quale non è richiesta una diagnosi medica. Perciò l’omessa attivazione di coinvolgimento medico nel caso di rilievi patologici ha costituito violazione di competenze ostetriche, ed ha supportato il reato di omicidio colposo, avendo condotto al decesso del nascituro. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 19163, 16 dicembre 2005. I due imputati, un medico ed un’ostetrica, secondo l’accusa avrebbero cagionato il decesso del feto, non avendo rilevato colposamente, il grave stato di sofferenza ipossica del feto. Il medico avrebbe mal interpretato i tracciati cardiotocografici della partoriente e quindi non ha attivato un monitoraggio continuo della frequenza cardiaca fetale e dell’attività uterina; la ostetrica avrebbe dovuto invece richiedere il tempestivo intervento di un medico all’insorgenza dei primi sintomi di sofferenza. In primo grado il Tribunale di Trapani ha affermato la responsabilità dei due imputati, perché una maggiore attenzione alle presenti variazioni del tracciato e alla situazione complessiva, avrebbe consentito di rilevare i segni di sofferenza del feto e perciò di evitarne il decesso procedendo alla sua tempestiva estrazione mediante cesareo. Dalla ricostruzione dei fatti è emerso che, ad un primo tracciato cardiotocografico normale effettuato la sera del ricovero, il giorno successivo vennero eseguiti dall’ostetrica ad altri due tracciati: il secondo di questi, effettuato nel tardo pomeriggio, presentava un “andamento saltatorio” che, pur non rilevando patologie, avrebbe dovuto essere seguito da controlli più approfonditi giustificando eventualmente il ricorso al taglio cesareo. La Corte d’Appello di Palermo, invece, con sentenza del 29 aprile 2002, ha assolto gli sia l’ostetrica che il medico per non aver commesso il fatto: il 154 perito nominato dal giudice, concordando con la difesa, riteneva che il terzo tracciato fosse tale da porre esclusivamente indicazione a ripetere i controlli a distanza di un’ora. Cosa che, in effetti, l’ostetrica aveva fatto, tuttavia, già al successivo esame, non erano presenti segni di vitalità del feto. Quest’ultimo, secondo quanto sostenuto dal perito, sarebbe deceduto in tempi molto rapidi a causa di una non diagnosticabile brevità del cordone ombelicale, causa prima della sofferenza fetale. Sempre secondo questi, con tutta probabilità, nessuna manovra di emergenza avrebbe potuto evitare il decesso (repentino) del feto, per tali motivi gli imputati sono stati assolti da qualunque responsabilità. Il ricorso avverso la sentenza d’Appello è stato respinto dalla Corte di Cassazione perché nella decisione impugnata non sono stati rilevati vizi di motivazione ed inoltre è stato dimostrato in modo convincente come la rapidissima evoluzione degli eventi sia stata esclusivamente conseguenza della malformazione del funicolo, tanto da interrompere qualsiasi eventuale nesso di causalità tra la morte durante il travaglio e le condotte dei professionisti sanitari imputati. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 35027, 16 luglio 2009. L’ostetrica è imputata del delitto di omicidio colposo per non essersi correttamente attivata alla rilevazione delle anomalie della frequenza cardiaca fetale documentate dallo cardiotocografo, e quindi aver cagionato il decesso del feto. La Corte d’Appello di Roma (sentenza del 21 luglio 2008), ha dichiarato non doversi procedere essendo il reato estinto per prescrizione, ma ha comunque confermato quanto previsto civilmente per il risarcimento dei danni. Con il ricorso in Cassazione, il difensore dell’imputata ha sostenuto che il reato ascrivibile non fosse di omicidio colposo bensì di lesioni colpose gravissime in danno alla madre – reato comunque estinto per prescrizione –, poiché la morte della bambina era avvenuta in utero e non era mai nata: ciò 155 ha affermato la sentenza di primo grado, contrariamente a quella di appello secondo cui non è stata data prova certa che il decesso fosse avvenuto prima della separazione dal corpo della madre. Inoltre è stata denunciata l’omissione della motivazione sugli specifici motivi e la contraddizione tra le motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado. La Corte ha rigettato il ricorso. Quanto al primo motivo è stata ribadita la correttezza della contestazione di omicidio colposo: se da un lato il giudice d’Appello ha affermato l’assenza di prova certa del decesso del feto prima della separazione dal corpo della donna, non è da ritenersi tale momento coincidente con l’effettiva acquisizione di autonomia dalla madre, quanto piuttosto con l’inizio del travaglio. Quanto alla seconda censura la Corte non ha ravvisato alcuna contraddizione nelle due sentenze di merito, dato che la seconda ha meglio precisato e completato la prima: il giudice di prime cure si è soffermato maggiormente sulla non corretta esecuzione – od omissione – del tracciato cardiotocografico; in secondo grado invece l’attenzione è stata posta sul mancato allertamento del medico, sulla mancata reazione di fronte alla caduta di tono cardiaco, sia pur constatando che la registrazione aveva ripreso bene. La IV sezione ha richiamato la precedente sentenza del 2004 n. 21709, ribadendo la responsabilità per omicidio colposo dell’ostetrica che, a fronte di un monitoraggio cardiotocografico – la cui lettura è di competenze dell’ostetrica –indicante una sofferenza fetale, non ha avvertito tempestivamente il medico, provocando il decesso del feto. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 17556 del 22 gennaio 2010 Un medico ginecologo ed un’ostetrica sono condannati sia in primo grado che in appello, in un caso in cui si è verificato il decesso di un feto alla trentacinquesima settimana, avvenuto per asfissia da compromissione della funzionalità placentare. 156 La gravida, alla trentacinquesima settimana di gravidanza, si era recata in ospedale con dolori, in tale occasione erano stati effettuati due tracciati cardiotocografici, il secondo dei quali dall’ostetrica imputata. A distanza di diverse ore, a fronte della persistenza della sintomatologia, era stato eseguito un ulteriore tracciato che aveva accertato l’assenza del battito cardiaco fetale: la donna era stata sottoposta a parto cesareo e il feto estratto era privo di vita. La causa della morte accertata fu distacco intempestivo di placenta. Il difensore dell’ostetrica ha denunciato in Cassazione la mancanza di considerazione per le limitate competenze dell’ostetrica, anche in relazione alle linee guida redatte dal primario del reparto di Ginecologia dell’Ospedale in questione: secondo le quali non sarebbe stato compito dell’ostetrica valutare il tracciato, avendo un “ruolo di mero esecutore materiale dell’esame strumentale”. Inoltre, qualora l’imputata avesse comunicato al medico le anomalie risultanti dal tracciato, il ginecologo avrebbe comunque deciso di non intervenire. La Corte ha innanzitutto precisato che entrambi i tracciati eseguiti sulla paziente avevano mostrato una riduzione del battito cardiaco del nascituro e quindi uno stato di sofferenza fetale, si sarebbe, quindi, dovuto prestare attenzione a tali alterazioni, attraverso un monitoraggio continuo e l’effettuazione di un’indagine da parte del medico sulle cause di tali decelerazioni: se ciò fosse stato fatto, i professionisti sanitari, verificando la permanenza di elementi negativi in ordine al benessere fetale, avrebbero potuto orientarsi per un precoce parto cesareo. La colpevolezza della condotta dell’ostetrica è stata affermata nei due gradi di giudizio di merito e confermata dalla Cassazione, dato che dopo aver effettuato il secondo tracciato si era limitata a portare il risultato al medico, aggiungendo che si trattava di condizione nella norma. La Suprema Corte ha anche in questa occasione ribadito che compito di un’ostetrica non è soltanto quello di mera esecuzione dei tracciati cardiotocografici, ma anche quello di 157 leggerli: la capacità di interpretare il tracciato rientra senza dubbio tra le competenze di questa professione sanitaria, perciò l’ostetrica avrebbe dovuto rilevare le anomalie e allertare il medico comunicandogli la sua interpretazione. La difesa dell’ostetrica è stata ritenuta pertanto priva di fondamento. La stessa aveva riferito al ginecologo che si trattava di andamento positivo del tracciato, inducendolo lo stesso a non richiedere ulteriori verifiche data la fiducia del medico nelle capacità di lettura del tracciato della ostetrica, a conferma che tale attività era considerata dagli stessi medici come rientrante nelle competenze dell’ostetrica. ■ Corte d’Appello de L’Aquila , 24 giugno 2011. La sentenza conferma l’assoluzione per due medici ginecologi, un anestesista e un’ostetrica, imputati di omicidio colposo ai danni di un neonato. La gestante si era recata in ospedale, lamentando i segnali tipici di un parto imminente, per la stessa era già stata programmata l’intervento di “analgesia del parto”; l’anestesista, portata la donna in sala parto, praticava l’epidurale con due somministrazioni. A questo punto la paziente veniva staccata dall’apparecchio cardiotocografico che le era stato precedentemente applicato in sala travaglio per verificare la frequenza cardiaca del feto. Qualche ora più tardi, alla nascita del bambino, i medici ne constatavano il decesso per ipossia, dopo un’inutile rianimazione. Secondo l’accusa il decesso del feto sarebbe avvenuto per un mancato monitoraggio continuo della frequenza cardiaca in sala parto e lo stesso Tribunale di Pescara, sezione distaccata di Penne (pronunciatosi in primo grado), ha specificato come sarebbe stato raccomandabile mantenere un continuo esame cardiotocografico in caso di analgesia epidurale, tanto in questo caso in cui vi era stata somministrazione di ossitocina. In sala travaglio, durante il monitoraggio, erano state evidenziate delle decelerazioni del battito, ma questo quadro, anche se avrebbe potuto 158 richiedere una maggiore attenzione, non è stato ritenuto dai periti indicativo di condizione patologica tale da far prevedere la sopravvenuta grave bradicardia. La causa dell’asfissia è stata individuata precisamente nel restringimento del funicolo di lunghezza pari a soli 26 cm, con trombosi dei vasi all’interno del cordone ombelicale. I periti non hanno trovato, tuttavia, un’intesa sulla durata dell’ipossia/asfissia, e pertanto non hanno rilevato la possibilità per i sanitari di intervenire ed evitare il decesso. Per tali motivi, sia il Tribunale che la Corte d’Appello de L’Aquila hanno assolto gli imputati, non avendo raggiunto la prova della loro responsabilità penale. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 13922, 8 marzo 2012. La sentenza origina dal ricorso contro una sentenza di non luogo a procedere del GUP del Tribunale di Firenze, pronunciata nei confronti alcuni medici ginecologi ed un’ostetrica. L’imputazione era omicidio colposo nei confronti di un neonato estratto con parto cesareo già in stato di arresto cardiaco e deceduto il giorno seguente per l’insorgere di una “polmonite da meconio”. I tracciati cardiotocografici eseguiti durante la fase del travaglio avevano mostrato segni di difficoltà respiratoria del feto, per questo è stata contestata ai medici e all’ostetrica la mancata rilevazione degli indici di sofferenza emersi strumentalmente e la conseguente mancata effettuazione di ulteriori accertamenti, e la conseguente tardiva espletazione del parto cesareo. La morte è stata attribuita ad una MOF (multi organ failure) conseguita a “corangiosi”, insorta da un’alterazione placentare a patogenesi sconosciuta. I periti d’ufficio, pur concordando sul fatto che un parto cesareo più tempestivo avrebbe evitato con alta probabilità il decesso del neonato, hanno ritenuto che giungere alla diagnosi sopra riportata, sarebbe stato particolarmente difficile, stante la non univocità degli indici di sofferenza fetale. 159 Il GUP ha aggiunto che nei riguardi dell’ostetrica non era stata mossa alcuna contestazione in concreto. La Corte di Cassazione, pur ribaltando la decisione del GUP rispetto ai ginecologi, ha ritenuto di non procedere nei confronti dell’ostetrica: non solo il PM non aveva mosso contro di lei precisi addebiti, ma dalla ricostruzione dei fatti è emerso che la stessa era entrata in servizio poco prima del parto (2 ore) e che la decisione di procedere o meno con il cesareo era stata presa unicamente dai medici, e quindi soltanto le condotte di questi ultimi si sarebbero inserite nel percorso causale che aveva condotto al decesso del neonato. Il procedimento nei confronti dei ginecologi è stato così dalla Corte rinviato al Tribunale di Firenze affinché si concludesse, e si potesse così addivenire ad una analisi più precisa dei singoli comportamenti dei medici e sulla possibilità per loro di effettuare una diagnosi ed un intervento più tempestivi tali da evitare il decesso del neonato. ■ Valutazioni riassuntive La sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 21709/2004 riveste particolare interesse nel panorama giurisprudenziale sulla responsabilità dell’ostetrica, anche perché gli eventi si collocano nel periodo di combinata vigenza delle fonti normative: mansionario e profilo professionale, prima della legge n. 42/1999. La Corte sancisce, attingendo alle comuni regole d’esperienza, come rientri nelle competenze dell’ostetrica la lettura del tracciato cardiotocografico e la rilevazioni di eventuali anomalie. Anche le successive cinque sentenze (IV sezione penale della Cassazione n. 19163/2005, n. 35027/2009, n. 17556/2010, n. 13922/2012 e Corte d’Appello de L’Aquila del 24 giugno 2011) che trattano del reato di omicidio colposo del neonato o del nascituro, essendo in una fase di travaglio di parto, riguardano casi in cui l’organo giudicante si è trovato a decidere sulla 160 mancata rilevazione di anomalie nel corso del parto, in conseguenza di un non continuo o assente monitoraggio cardiotocografico. Anche in queste sentenze, emerge la convinzione della Corte che l’ostetrica sia perfettamente in grado di riconoscere eventuali alterazioni nel battito cardiaco fetale, attraverso la lettura dei tracciati cardiotocografici, e quindi di comunicare la sua valutazione al medico in modo tale da allertarlo. 5.3.4. Lesioni personali colpose / danno biologico in relazione a omissioni nella presa in carico ■ Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, n. 403, 12 luglio 2010. La sentenza tratta di un caso di responsabilità per lesioni gravissime e permanenti ai danni di un neonato da parte di un medico ed un’ostetrica. Questi ultimi erano stati chiamati a giudizio in un separato processo civile, insieme con l’azienda ospedaliera in cui svolgevano il loro servizio, per risarcire in solido i danni causati ad un bambino la cui madre avevano seguito prima e durante il parto (avvenuto, si precisa, nel gennaio del 1983): il minore era risultato affetto da tetraparesi spastica. Sia in primo che in secondo grado era riconosciuta la responsabilità dei due professionisti e dell’ospedale, per l’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie erogate alla madre del bambino sia in previsione del parto che durante il travaglio, come anche allo stesso neonato dopo la nascita. A questo punto l’azienda ospedaliera aveva versato la somma dovuta in base alla sentenza della Corte d’Appello di Brescia. Successivamente la Procura regionale ha convenuto i due sanitari, pendente ancora il ricorso per Cassazione, affinché fossero condannati per il pregiudizio erariale arrecato alla Gestione Liquidatoria della detta Azienda ospedaliera, nella misura rispettivamente del 70% il medico e del 30% l’ostetrica. 161 La Procura ha dedotto, basandosi sui riscontri istruttori eseguiti durante il procedimento civile di primo grado, che la gravissima invalidità del minore sia conseguita ad una ipossia intrapartum non diagnosticata, né trattata dopo il parto. E’ stato ritenuto che la carente ed inadeguata organizzazione del servizio sanitario nei confronti della partoriente fosse stato tale da determinare anche aggravare la lesione neurologia. Il medico, aveva seguito la madre nella gravidanza, nel corso della quale si era reso necessario un ricovero per ipertensione gestazionale. All’atto del ricovero per travaglio lo stesso medico non aveva disposto esami mirati, né aveva ritenuto necessaria l’assistenza di un medico durante il parto. L’ostetrica, presente in sala parto con un’infermiera, aveva omesso di registrare alla nascita i codici APGAR, utili a fornire valide indicazioni sulla salute del neonato. Quest’ultimo nell’immediatezza del parto non era stato sottoposto a nessuna indagine valutativa nonostante le sue condizioni neurologiche non ottimali. L’ostetrica ha eccepito nella memoria con cui si è costituita in giudizio, l’inammissibilità della domanda prima del passaggio in giudicato della sentenza civile, e inoltre il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti per la preesistenza di una condanna (non definitiva) del giudice civile nei confronti degli stessi convenuti, responsabili in solido con l’azienda sanitaria ma senza alcuna graduazione di colpa. È inoltre denunciato che l’azione della Procura sarebbe tesa ad escludere la responsabilità dell’ente ospedaliero in ambito civile, essendo stato richiesto il regresso per l’intero ai condebitori (pur con percentuali diverse per ciascuno): tale esclusione sarebbe parsa arbitraria per via del fatto che la stessa Procura regionale ha evidenziato gravi carenze nell’organizzazione del servizio sanitario. La Corte dei Conti ha dichiarato inammissibile la domanda giudiziale per carenza d’interesse, contraddicendo le deduzioni del PM, secondo cui il fatto stesso che l’azienda sanitaria avesse effettuato il pagamento avrebbe costituito requisito soddisfacente dell’attualità del danno. Richiamando 162 precedenti pronunce giurisprudenziali, il Collegio ha affermato come in questo caso il diritto di credito intestato all’ente pubblico di cui si è lamentata la lesione, difettasse dei requisiti di certezza ed attualità, dato che l’accertamento giurisdizionale contenuto nella sentenze di merito avrebbe potuto essere ribaltato in sede di legittimità: in sostanza era stata attivata la responsabilità indiretta dei sanitari dell’Azienda ospedaliera prima che fosse accertata la responsabilità civile diretta dell’ente stesso, pur essendo la lesione (da cui sarebbe scaturita la responsabilità indiretta) subordinata al verificarsi dell’evento futuro ed incerto del rigetto del ricorso in Cassazione. La Procura ha agito per tutelare le ragioni del pubblico erario – dato che l’ente pubblico Azienda ospedaliera aveva già risarcito i danni derivanti dalle condotte illecite di due suoi dipendenti – ma il presupposto della responsabilità indiretta è stato sancito non poter essere altro che l’incontrovertibilità del giudicato e non il depauperamento dell’ente, che d’altro canto aveva ottemperato a una sentenza sì esecutiva ma con pagamento a titolo provvisorio. ■ Tribunale di Novara, 8 marzo 2011. Il caso si riferisce alla nascita di un bambino avvenuta nel settembre 2002 in un ospedale, al termine di una gravidanza di quaranta settimane, che per le sue condizioni critiche, era sottoposto a intubazione e rianimazione. Nelle settimane successive il neonato continuato ad patire un danno neurologico (encefalopatia ipossico-ischemica, unita a convulsioni neonatali) che si diagnosticherà poi essere irreversibile, con necessità di supporto assistenziale continuo. I genitori del bambino ha proceduto con una richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’ospedale, di alcuni medici e di un’ostetrica, lamentando una gestione del travaglio e del parto non congrue. La donna riferiva di non era stata sottoposta ad induzione del parto secondo i protocolli aziendali, di non era stata visitata da un medico nonostante la difficoltà nelle contrazioni solo 163 un’ora prima del trasferimento in sala parto e di non aver avuto il monitorato del battito cardiaco, inoltre in occasione dell’estrazione del feto era stata utilizzata la ventosa ostetrica per due volte, invece di procedere con taglio cesareo, data la grave sofferenza fetale. L’ostetrica in particolare non aveva né monitorato la paziente, né effettuato i controlli del battito cardiaco fetale, né aveva interpellato un medico per verificare gli esiti dell’induzione al parto. Il Tribunale ha confermato quanto rilevato dal consulente tecnico nominato d’ufficio circa le numerose mancanze nelle condotte dei professionisti sanitari. Alla partoriente era stato somministrato un farmaco per indurre il parto in due fasi a distanza di ore, ma la seconda volta l’indizione non era stata preceduta da un controllo come di norma viene eseguito. In seguito all’inizio della fase attiva del travaglio non era applicato un monitoraggio cardiotocografico. Il medico di guardia intervenuto aveva somministrato inopportunamente anche dell’ossitocina, dopo un tempo troppo breve dalla seconda somministrazione del primo farmaco. L’infusione di ossitocina non era sospesa neanche quando, al momento della esecuzione, seppur tardiva, del tracciato cardiotocografico, erano rilevate caratteristiche patologiche dello stesso. Tuttavia i medici intervenuti non avevano deciso per un parto cesareo d’urgenza – considerato necessario dai consulenti tecnici d’ufficio – e il bambino era nato più di un’ora dopo la rilevazione della sofferenza fetale attraverso due applicazioni della ventosa ostetrica con un’attività respiratoria molto flebile. Il Tribunale di Novara ha stabilito nella misura pari soltanto al 3% la responsabilità dell’ostetrica, a fronte di una responsabilità dell’azienda ospedaliera del 55%, del 30% e 12% per gli altri due medici chiamati a giudizio. 164 ■ Tribunale di Bari, II sezione civile, n. 2605, 26 luglio 2011. In questo caso, un bimbo nasce con parto cesareo, nel 1993, riportando tetraparesi spastica e ritardo neuromotorio, e successiva diagnosi di grave encefalopatia epilettica con crisi farmacoresistenti da sofferenza anossicaischemica perinatale. Ai fini della invalidità civile gli era stata riconosciuta un’invalidità permanente assoluta. Dalla ricostruzione dei fatti è emersa una grave imperizia dell’ostetrica nella valutazione del tracciato cardiotocografico. Fin dai primi tracciati dopo il ricovero era costantemente presente un tracciato non molto reattivo e nell’ultimo eseguito prima del parto compariva una lunga decelerazione. A questo rilievo avrebbe dovuto conseguire l’immediata esecuzione del cesareo, che invece avvenne ingiustificatamente ben due ore dopo, senza caratteristiche d’urgenza. L’ostetrica non si era attivata per richiedere un intervento medico, nonostante l’ultimo tracciato lasciasse pochi spazi all’interpretazione. Secondo la relazione del consulente tecnico d’ufficio: questa inerzia e il conseguente parto ritardato avrebbero comportato ed aggravato la sofferenza fetale, e causato la gravissima situazione psicofisica del minore. L’ostetrica, invocando l’applicazione del DPR n. 163 del 1975 vigente all’epoca dei fatti, ha assunto che tale disciplina dipingeva l’ostetrica come una semplice assistente del ginecologo con limitati compiti materiali, tra cui non sarebbe stata ricompresa l’interpretazione del cardiotocogramma, bensì solo la mera applicazione dell’apparecchio. Il giudice ha affermato che l’art. 4 del citato DPR disponeva che l’ostetrica sarebbe stata obbligata a richiedere l’intervento del medico ogni volta che avesse rilevato dei fattori di rischio per la madre e per il feto; inoltre ha richiamato la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 21709/2004 che, in un caso simile (anche se risoltosi col decesso del nascituro), ha stabilito la responsabilità dell’ostetrica che aveva ritardato ad avvertire il medico nonostante il tracciato indicasse una progressiva sofferenza fetale. 165 Nella sentenza, nella ricostruzione del nesso causale è specificato che, qualora si fosse intervenuti subito dopo l’ultimo cardiotocogramma, e non a distanza di due ore, non si sarebbe verificato il danno. Un’ulteriore difesa dell’ostetrica ha riguardato la connotazione della responsabilità come extracontrattuale e non come contrattuale. Contrariamente alla responsabilità di natura contrattuale dell’ospedale, secondo la parte convenuta la responsabilità vincolante l’ostetrica nei confronti del paziente sarebbe esclusivamente aquiliana, così da poter far valere la prescrizione in tal caso già trascorsa (5 anni invece che i 10 per far valere un obbligo di natura contrattuale). L’eccezione non è stata accolta e il giudice che ha precisato come la responsabilità dell’ostetrica verso il paziente dovesse essere inquadrata nell’ambito contrattuale poiché “essendo dipendente della stessa Casa di Cura, la sua responsabilità è compresa in quella del suo datore di lavoro nel quale la stessa svolgeva la sua attività lavorativa” (c.d. responsabilità sociale). Il Tribunale di Bari ha accolto la domanda della parte attrice ed ha condannato in solido sia la clinica che l’ostetrica. ■ Corte dei Conti, Regione Toscana, 6 ottobre 2003. Due medici ginecologi e un’ostetrica sono citati per rispondere, a titolo di responsabilità amministrativa, per il danno erariale causato all’ASL n. 11 di Empoli, essendo stata quest’ultima condannata a risarcire i danni subiti dal neonato al momento della nascita presso il presidio ospedaliero. I tre professionisti sanitari avevano prestato la loro assistenza alla gravida, che si era recata il 30 agosto 1987 all’ospedale per partorire il suo secondogenito, il quale in seguito al parto riportò lesioni traumatiche a carico del plesso brachiale sinistro, comportanti dei postumi permanenti compromettenti la futura capacità lavorativa. Il parto, si è svolto naturalmente per via vaginale e si era presentato con la complicanza della distocia di spalla che consiste nell’arresto della spalla anteriore durante la fase espulsiva del travaglio di 166 parto dopo la fuoriuscita della testa fetale: si erano rese pertanto necessarie manovre di disimpegno della spalla del neonato, tra l’altro nato con un peso di 4,5 Kg. Nel giudizio civile era emersa la correlazione tra le manovre di disimpegno della spalla e le lesioni subite, manovre così violente da causare il distacco dei nervi. Secondo la consulenza del medico legale, i medici avrebbero dovuto intervenire con il taglio cesareo richiesto dalla partoriente, che aveva già subitola medesima esperienza con il primogenito nato anch’esso con un peso di 4 Kg. La Procura ha chiesto di conseguenza alla Corte dei Conti la condanna di tutti e tre i convenuti, nella misura del 10% per l’ostetrica e del 90% per i due medici (in ragione del 50% ciascuno), basandosi sulla loro negligenza ed imperizia nel prestare assistenza alla donna e a suo figlio. L’ostetrica si è difesa, sostenendo che materialmente aveva effettuato le manovre di disimpegno del feto, coadiuvato il medico e ricevendo da questo precise disposizioni tecniche; la ginecologa nella sua difesa riteneva che la responsabilità fosse totalmente sull’ostetrica, che avrebbe agito sostanzialmente senza l’intervento medico. La difesa dell’ostetrica fondava riconoscendo una funzione ausiliaria all’ostetrica, in particolare in situazione di patologia del parto, come in questo caso, in cui l’intervento medico era comunque stato richiesto e ottenuto. Il tipo di difesa formulata dagli avvocati si giustifica solamente in base al fatto che il parto era avvenuto nel 1987, vigente ancora il mansionario ed essendo ancora l’ostetrica una professione ausiliaria prima della riforma del 1999. La Corte ha infine affermato che l’ostetrica avrebbe contravvenuto a precise norme mansionariali disciplinanti attività e comportamenti consentiti, avendo la stessa effettuato una prestazione di competenza soltanto del medico, tra l’altro presente. 167 L’ingerenza dell’ostetrica nella esecuzione di una prestazione medica, l’inerzia e la leggerezza del secondo medico in sala parto, e anche del medico accettante al momento del ricovero, hanno indotto la Corte a pronunciarsi riconoscendo un addebito di responsabilità del 15% all’ostetrica, del 55% al ginecologo di sala parto, del 35% al ginecologo che ha ricoverato la paziente. ■ Tribunale di Palmi, sezione civile, 21 novembre 2005. Si tratta di un caso di sofferenza neonatale e paralisi ostetrica totale all’arto superiore sinistro. La lesione al momento dell’estrazione neonatale, sarebbe stata causato dal comportamento colposo dei professionisti sanitari presenti al parto. I genitori della bambina hanno chiamato in giudizio due medici ed un’ostetrica, unitamente all’Asl n. 10 di Palmi, affinché fossero condannati in solido al pagamento delle somme dovute come risarcimento in quanto dall’esame della cartella clinica, non sono emersi i dati relativi alla pelvimetria materna che avrebbero dovuto indurre ad optare per il parto cesareo che non avrebbe determinato le lesioni patite dal minore. Il Tribunale ha escluso da un lato la responsabilità dell’ostetrica, affermando dall’altro lato quella dei due medici che con le loro condotte negligenti avrebbero colposamente causato la paralisi del braccio. In linea generale, sulla scorta di quanto affermato dal consulente tecnico d’ufficio, in occasione di un parto distocico i professionisti sanitari dovrebbero dapprima eseguire (in tempi brevi) delle comuni manovre di modica trazione e rotazione nel tentativo di favorire il disimpegno e l’espulsione delle spalle se l’esito è negativo, sarebbe necessario passare a manovre ostetriche di notevole difficoltà quali: Mc Roberts, Jacquemier, Rubin e Wood. Il Tribunale, validando le conclusioni della consulenza, ha ritenuto, che l’errore nel caso concreto si fosse prodotto nel corso delle manovre iniziali, attraverso una trazione eccessiva del feto. Dalla cartella clinica non era emerso l’esecuzione di manovre particolarmente complesse, bensì risultava 168 essere stata eseguita la manovra di Kristeller con episiotomia, manovra che, oltre a non essere appropriata nell’ipotesi di distocia di spalla con sbarramento dell’arto, non sarebbe comunque stata valutata dal consulente come idonea a produrre il danno di specie. La consulenza tecnica di ufficio ha concluso inoltre che al momento del ricovero, una più approfondita valutazione delle dimensioni del feto (peso alla nascita 4,650 Kg) avrebbe dovuto indurre i medici a praticare il taglio cesareo, come scelta prudente, riconoscendo quindi una condotta colposa del personale sanitario in epoca antecedente al parto. La letteratura scientifica riporta che un peso del feto superiore a 4 Kg è un fattore di rischio rilevante della distocia (che rimane in ogni caso evento imprevedibile della fase espulsiva) e pertanto dovrebbe indurre i medici quanto meno a vagliare la possibilità di un parto non naturale. Pur riconoscendo che la scelta del cesareo non dovrebbe essere automatica, in questo caso non era stata presa in considerazione, in quanto non era stata eseguita un’analisi ecografica con rilevazione dei dati biometrici che avrebbe consentito di rilevare che si trattava di un feto macrosomico. ■ Tribunale di Reggio Emilia, II sezione, 14 novembre 2007. L’Arcispedale di S. Maria Nuova di Reggio Emilia, una ostetrica ed un medico ginecologo sono citati per un risarcimento del danno causato ad un minore al momento del parto avvenuto il 26 agosto 1997, in cui è conseguita la paralisi del plesso brachiale dell’arto superiore sinistro, con postumi permanenti invalidanti la futura capacità lavorativa del minore. Dall’analisi della vicenda, è emerso, nonostante le difese finalizzate a far ritenere che il parto fosse avvenuto in modo regolare, che al momento del parto i professionisti sanitari si trovarono di fronte ad una sofferenza fetale acuta, documentata dalla fuoriuscita di liquido tinto e maleodorante alla rottura della borsa amnio-coriale, associato allo stato di depressione cardiorespiratoria del bambino nell’immediatezza della nascita. La situazione 169 descritta, per facilitare ed accelerare l’espulsione del neonato, rese necessario eseguire la manovra di Kristeller, potenzialmente idonea a cagionare stiramenti o lesioni. I consulenti tecnici d’ufficio hanno concluso ritenendo che la manovra di Kristeller effettuata dall’ostetrica era una soluzione corretta, l’errore professionale è consistito nell’omessa esecuzione di una episiotomia profilattica, un allargamento del canale del parto volto a prevenire eventuali traumi fetali. Secondo questa interpretazione l’episiotomia avrebbe potuto, “con alta probabilità, evitare o quanto meno attenuare in maniera considerevole le lesioni” patite dal neonato. Non avendo effettuato ciò che era richiesto in conformità alla diligenza e perizia ordinariamente esigibile, le pratiche approntate dal personale sanitario sono state riconosciute come causa dell’evento lesivo. L’episiotomia suggerita dalla perizia tecnica rientra tra le attività di competenza ostetrica e vi rientrava anche prima delle riforme legislative degli anni novanta/duemila: l’art. 10 del D.M. 15 settembre 1975 “Istruzioni per l’esercizio professionale delle ostetriche” indicava tra le attività demandate all’ostetrica proprio “l’episiotomia per facilitare l’espulsione del feto quando la parte presentata affiori dalla vulva”; in ogni caso, a norma dell’art. 4 del D.P.R. 7 marzo 1975 n. 163, l’ostetrica assistente il parto aveva l’obbligo di richiedere l’intervento medico qualora fossero rilevati fattori di rischio per la madre e/o per il suo bambino. Le condotte omissive, sia dell’ostetrica che della ginecologa, responsabile al momento della nascita e astenutasi dall’intervenire nell’attività di assistenza prestata dalla prima in situazione di dichiarata emergenza, hanno fanno sorgere la colpa professionale in capo alle convenute, perché improntate ad imperizia e negligenza. 170 ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 13942, 3 aprile 2008. In questo caso l’ostetrica è imputata di lesioni colpose, per aver determinato una irreversibile paresi al braccio sinistro alla neonata a causa di errata assistenza al parto. In primo grado, con sentenza del 26 gennaio 2005, il Tribunale di Napoli condannava l’ostetrica per il reato di cui all’art. 590 c.p., per aver eseguito manovre grossolane e con troppa forza per agevolare l’espulsione del feto. La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza del 29 marzo 2006, ha assolto l’ostetrica ritenendo che questa si era resa conto di trovarsi di fronte ad un parto complicato da macrosomia fetale e aveva chiesto l’intervento di uno dei due ginecologi di turno. Essendo i medici impegnati in altre attività, l’ostetrica trovandosi in una situazione di emergenza aveva condotto il parto da sola. In occasione del ricorso in Cassazione, il Procuratore Generale e il difensore della parte civile (la madre) hanno posto questioni attinenti non solo all’effettivo compimento di manovre anomale da parte dell’imputata, ma altresì alla sua stessa legittimazione a compiere tali manovre in caso di parti non fisiologici, stante l’assoluto divieto di cui al D.P.R. n. 163/1975, art. 4 e al D.M. n. 740/1994. La Corte ha rigettato i ricorsi. Il Regolamento per l’esercizio professionale delle ostetriche – DPR n. 163/1975 –, ora abrogato, imponeva il dovere di astenersi dal praticare interventi manuali o strumentali diversi da quelli specificamente consentiti dalle disposizioni dell’art. 10 del Regolamento stesso; inoltre si imponeva all’ostetrica di richiedere l’intervento medico in caso emergessero complicanze (obblighi a tutt’oggi comunque vigenti, perché ripresi dalla successiva normativa, in particolare dal profilo professionale di cui al D.M. n. 740/1994). Per quel che concerne il nesso causale, il fatto tuttavia non è stato inquadrato né nell’ipotesi di causalità omissiva né commissiva: l’ostetrica aveva richiesto l’intervento medico dopo aver riscontrato la presenza di fattori di rischio, quindi non si è potuta ravvisare colpa nello svolgere in 171 condizioni di indifferibile urgenza un’attività specializzata pur non avendo la necessaria specializzazione in merito. In questo caso, ciò che induce ad una riflessione non sono le conclusioni cui è addivenuta la Suprema Corte, quanto la normativa a cui la stessa fa riferimento, tenuto conto che la vicenda in questione si era svolta nel 2001. La Corte richiama il Regolamento per l’esercizio professionale delle ostetriche, il DPR n. 163/1975, che era stato abrogato dalla legge n. 42/1999, entrata in vigore nel marzo dello stesso anno. In conclusione non si comprende il motivo che abbia indotto gli organi giudicanti a basarsi per la loro pronuncia su tali disposizioni. ■ Tribunale di Trani, sezione civile, n. 278, 22 aprile 2010. Il caso riguarda una bambina nata nell’aprile del 1992 nasce nell’Ospedale civile di Molfetta, con una paralisi di tipo ostetrico all’arto superiore sinistro, con un’invalidità permanente stimata successivamente pari al 20%. Dall’esame della vicenda risulta che la madre, giunta in ospedale, era sottoposta, a stimolazione del parto dalla ginecologa e lasciata senza assistenza in sala travaglio; su richiesta della gravida l’ostetrica era giunta quando il feto era già in via d’espulsione. La neonata era nata cianotica e con il cordone intorno al collo e in sala parto, per disimpegnare la nascitura, l’ostetrica e la ginecologa avrebbero posto in essere delle manovre improprie. All’esito dei controlli era riscontrata la lesione dell’arto superiore sinistro. I genitori della bambina hanno convenuto in giudizio i due sanitari che avevano condotto il parto e l’ASL di appartenenza affinché fossero condannati in solido tra loro a risarcire i danni arrecati, previo accertamento della colpa professionale. Si era appreso successivamente che la ginecologa in questione in realtà fosse un sedicente medico, priva di laurea, a carico della quale era già stato avviato un procedimento penale. 172 Il consulente tecnico di ufficio nella sua relazione ha ritenuto che le cause dello stiramento delle radici nervose del braccio della neonata avrebbero potuto essere due: una manovra di trazione eccessiva per risolvere una distocia di spalle oppure un fenomeno naturale dinamico intrapartum dipendente da una discesa troppo precipitosa della testa del feto nel bacino materno. Ha aggiunto quindi che nella prima ipotesi si sarebbe posta in evidenza la responsabilità dell’ostetrica che, trovandosi di fronte ad una situazione in cui la spalla aveva impattato contro la sinfisi pubica (così che era rimasta fuori solo la testa e il resto del corpo bloccato), probabilmente aveva compiuto delle trazioni errate od eccessive dirette ad agevolare il disimpegno. Nella seconda ipotesi, invece, sarebbe completamente esclusa la responsabilità dell’ostetrica dato che le lesioni si sarebbero prodotte prima della fuoriuscita dell’estremo encefalico. Il giudice ha specificato come fosse a carico del danneggiato la prova del nesso di causalità, e come fosse necessario far riferimento ad un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica. Il Giudice, a fronte di tali ipotesi scientifiche, ritenendo che lo stiramento spontaneo all’interno del canale intra partum fosse un’ipotesi di scuola, di più difficile verificazione, mentre una maggiore probabilità scientifica fosse riconoscibile alla ipotesi di una manovra impropria della professionista per disimpegnare la spalla, ha concluso riconoscendo la sussistenza del rapporto causale tra l’insorgenza della patologia e la condotta dell’ostetrica. La sentenza del Tribunale ha attribuito la colpa alla sola ostetrica assistente il parto, escludendo quella della ginecologa che, pur essendosi spacciata per un medico quando non aveva mai neanche conseguito la laurea, si era limitata ad eseguire una semplice sutura sulla paziente. Quanto alla responsabilità civile, è stata ritenuta sussistere anche quella dell’ente ospedaliero. 173 ■ Corte d’appello di Roma, sezione III civile, n. 847, 1º marzo 2011. I genitori di una bimba nata nel 1994 citavano il direttore sanitario della clinica e la clinica stessa per il risarcimento dei danni subiti dalla neonata vale a dire una paralisi ostetrica superiore sinistra, addebitata alle inadeguate prestazioni dei professionisti sanitari durante il parto. Furono inoltre chiamati in causa dai convenuti i tre medici e l’ostetrica che avevano seguito la donna al momento del parto. Il tribunale di Roma con sentenza del 23 marzo 2005 ha rigettato la domanda degli attori, ha dichiarato cessata la materia del contendere nei confronti del direttore sanitario, ha accolto la domanda di risarcimento danni verso la clinica per infondatezza della chiamata in causa effettuata dalla neonatologa che aveva solo visitato la neonata a parto concluso. Gli attori hanno appellato la sentenza riproponendo le proprie domande nei riguardi della clinica, dei due medici non ancora usciti dal processo e dell’ostetrica. La consulenza tecnica d’ufficio ha riportato che la neonata in questione aveva manifestato immediatamente una patologia post-traumatica consistente in un deficit neurologico verosimilmente da ascriversi all’evento parto; la cartella clinica risultava lacunosa, era stato comunque inserito il riferimento ad un’inerzia uterina e alla manovra di Kristeller senza menzionare da chi fosse stata eseguita, il parto era definito spontaneo ma non erano stati indicati ruolo ed operato dei due medici e dell’ostetrica che l’avevano portato a termine. Essendo la cartella ostetrica priva di elementi che permettessero di trarre conclusioni obiettive, era difficile stabilire la patogenesi del danno e impossibile rilevare eventuali singole responsabilità; è stata inoltre rilevata una discrepanza tra l’affermazione della paziente secondo cui il parto sarebbe stato immediata conseguenza della manovra di Kristeller e il divario di 22 minuti emerso dagli atti tra la spinta sulla pancia e l’espulsione. 174 I consulenti di parte attrice hanno attribuito la paralisi ad una distocia di spalla, tra l’altro prevedibile visto anche il peso considerevole della paziente; mentre la tesi del consulente tecnico d’ufficio, affermava che secondo la descrizione dei fatti fornita dalla madre non vi fossero avvaloranti l’ipotesi della distocia, perché in una simile evenienza una spinta sul fondo uterino (manovra di Kristeller) non avrebbe potuto far altro che bloccare ulteriormente la spalla. Il Tribunale di Roma aderendo alla tesi dei consulenti tecnici e pur riconoscendo che il danno alla bambina si era prodotto durante il parto, non fosse possibile identificare il tipo di distocia in concreto verificatosi, né esprimere giudizi su eventuali misure terapeutiche poste in essere. Si è sottolineato comunque che la mancanza di rilevazione preventiva del peso fetale (ben 4,450 Kg) aveva influito sulle scelte ostetriche, che ad una più attenta analisi forse avrebbero dovuto propendere per il parto cesareo, data anche l’inerzia uterina e la lunghezza della fase espulsiva. È rimasto infine il problema degli adempimenti contrattuali dei professionisti sanitari e del rapporto causale tra questi e il danno lamentato, in relazione a cui si è precisato come permanesse a carico del debitore dimostrare che inadempimento non vi era stato o che, seppur vi fosse stato, non era stato eziologicamente rilevante. Sono emersi dalla relazione di consulenza tecnica diversi inadempimenti quali: cartella clinica lacunosa e a tratti incomprensibile, esami ecografici non menzionati, mancanza tracciati cardiotocografici, assenza di firme e del nome di chi aveva eseguito la manovra di Kristeller (sulla cui necessità sussistevano dubbi), mancato sollevamento di dubbi in relazione ad un’eventuale megalosomia malgrado l’eccedenza ponderale della madre, chiarimento insussistente sulla stimolazione uterina tramite somministrazione di Syntocinsia che hanno impedito come già detto un sicuro accertamento medico-legale. Partendo dal fatto che un tale difetto di diligenza non avrebbe in ogni caso dovuto tradursi in un ulteriore danno per il paziente avente diritto ad 175 un’adeguata prestazione sanitaria, la casa di cura e uno dei medici che non ha fornito indicazioni per provare che la sua attività andava esente da colpa, sono stati condannati in solido a risarcire i danni. Il Collegio giudicante ha aderito alle motivazioni della professionista sanitaria che si è definita ancora ausiliaria essendo il parto avvenuto nel 1994, e ha rigettato quindi la domanda nei suoi confronti e non l’ha ritenuta colpevole, dato che la stessa non avrebbe ricevuto istruzioni prevedendosi il parto come fisiologico e non sarebbe stato suo compito prendere decisioni cliniche o verificare la mancanza di documentazione riguardo il periodo di gestazione, e neanche avanzare dubbi diagnostici sulla difficoltà del parto. Nel leggere la sentenza alla luce delle successive normative di settore, ci sono delle affermazioni che ad oggi potrebbero lasciare qualche perplessità: in particolare quando è affermato che non sarebbe stato compito dell’ostetrica controllare la presenza della documentazione in merito alla gravidanza e nemmeno ella avrebbe potuto avanzare dubbi sulla diagnosi in relazione alle difficoltà del parto. La decisione sembra descrivere una “mera esecutrice di istruzioni mediche” in contrasto con altre sentenze e con la normativa di riferimento attuale. ■ Tribunale di Napoli, XI sezione penale, n. 13946, 24 gennaio 2012 La valutazione del caso è relativa alla nascita di un bambino con paralisi dell’arto superiore sinistro causate da un’errata manovra ed eccessiva trazione della testa e del collo del nascituro nell’atto di disimpegnare le spalle dello stesso. Per tale motivo è stata formulata imputazione nei confronti di un ginecologo ed un’ostetrica per lesioni colpose gravi consistite nella paralisi dell’arto superiore sinistro con conseguente deficit funzionale irreversibile (indebolimento permanente) della spalla e del braccio di sinistra. L’accusa ha addebitato all’ostetrica una condotta commissiva per l’errata ed eccessiva manovra; al ginecologo, una condotta colposamente omissiva per 176 non essere intervenuto egli stesso sulla partoriente per agevolare l’espulsione del feto, che si era presentato con diametro bisacromiale non in perfetto allineamento con i diametri del bacino materno, e data la natura non proprio eutocica del parto nonché uno stato di sofferenza fetale. La ricostruzione del Pubblico Ministero ha descritto un parto caratterizzato da qualche anormalità tra cui un giro di cordone intorno alla gola del nascituro, il liquido amniotico fetido, l’effettuazione della manovra di Kristeller in seguito a rallentamento delle contrazioni, l’utilizzo della ventosa meccanica, la presenza di tumefazione cefalica il giorno dopo il parto, ma il giudice ha considerato mere congetture gli elementi di sospetto e non ha evidenziato profili certi di responsabilità per colpa a carico degli imputati. Egli ha affermato in sentenza come non sussistessero motivi per poter dire che il parto fosse distocico, data anche la brevità della fase espulsiva; inoltre sono apparse frutto di suggestione le dichiarazioni della madre riguardo il rallentamento delle contrazioni che aveva indotto ad effettuare la manovra di Kristeller; la descrizione del liquido amniotico come fetido si è rivelata essere derivata da un errore materiale, e l’utilizzo del forcipe un semplice equivoco sull’interpretazione di una sigla in cartella; non sono stati rinvenuti infine segni di sofferenza fetale. Si è precisato come si fosse nell’impossibilità di ricostruire adeguatamente le manovre poste in atto dall’ostetrica, né stabilire se fossero state eseguite in modo improprio. Per di più non si è escluso la sussistenza di altre cause relativamente alle lesioni, come ad esempio le forze pressorie intrauterine. ■ Valutazioni riassuntive. La sentenza della sezione giurisdizionale per la regione Lombardia della Corte dei Conti n. 403/2010 e quella della sezione II del Tribunale di Bari n. 2605/2011 si riferiscono ad eventi svoltisi in un periodo antecedente 177 l’entrata in vigore del profilo professionale (1983 nel primo caso e 1993 nel secondo). In entrambe le sentenze, sebbene gli organi decidenti abbiano fatto obbligatorio riferimento al D.P.R. n. 163/1975 allora vigente, l’ostetrica non è relegata ad un mero ruolo di assistente del medico ginecologo, dovendo essere in grado di rilevare fattori di rischio per la madre ed il feto (art. 4); tra l’altro il giudice del Tribunale di Bari richiama anche la sentenza della Cassazione n. 21709/2004. La sentenza del Tribunale di Novara n. 209/2011 si orienta nello stesso senso. In questo caso, i fatti che avevano condotto a lesioni neurologiche nel neonato risalgono al 2002; l’ostetrica è condannata a risarcire i danni arrecati in solido con altri professionisti e con l’azienda ospedaliera, non avendo monitorato la paziente in fase di travaglio da parto indotto, non avendo effettuato il controllo del battito cardiaco fetale né avendo ichiesto l’intervento di un medico per verificare l’andamento dell’induzione al parto. In tal senso vale a dire individuare situazioni potenzialmente patologiche in relazione all’allertamento del medico è previsto oggi dal profilo professionale al comma 5 dell’art. 1 Circa la serie di sentenze inerenti la complicanza della distocia di spalla che può insorgere durante il parto, la prima è quella della sezione giurisdizionale per la regione Toscana della Corte dei Conti del 6 ottobre 2003, che riguarda fatti avvenuti nel 1987. La difesa dell’ostetrica è fondata sulla dimostrazione della sua funzione ausiliaria, in particolare in situazione di patologia del parto, sul suo ruolo di mera assistenza al medico tramite manovre manuali di disimpegno del feto, sulla sua subordinazione rispetto ai medici e alle loro decisioni. La condanna da parte della Corte al pagamento di quanto corrisposto dall’ASL alle parti offese a titolo di risarcimento danno, in ragione del 15%, è motivata sulla base dell’art. 4 del D.P.R. n. 163/1975: è affermato che l’ostetrica avrebbe dovuto astenersi dal praticare 178 qualsiasi manovra vista la complicazione insorta e avrebbe dovuto avvertire il medico e lasciarlo intervenire. Il Tribunale di Palmi, nella sentenza del 21 novembre 2005, relativa a fatti del 1992, respinge la domanda della parte attrice di risarcimento danni da parte dell’ostetrica, essendo la responsabilità delle scelte sulla modalità del parto e della correttezza delle manovre praticate a carico totalmente dei medici presenti per disimpegnare le spalle del nascituro. La sentenza della II sezione del Tribunale di Reggio Emilia del 14 novembre 2007 riguarda un caso del 1997, periodo di combinata vigenza del mansionario e del profilo professionale. La decisione del giudice, quindi, non può non fondarsi sul mansionario e sulle istruzioni correlate, e pur tuttavia, dalla lettura del testo e dalle difese approntate, non emerge alcuna considerazione che l’ostetrica sia figura con un ruolo di secondo piano all’interno del percorso nascita: non ricorre alcun termine che richiami un ruolo ausiliario. L’ostetrica è ritenuta responsabile, insieme alla ginecologa, della paralisi del plesso brachiale dell’arto superiore sinistro accorso al neonato durante il parto: la professionista sanitaria aveva omesso di praticare l’episiotomia profilattica allorché si era resa necessaria la manovra di Kristeller a causa di una sofferenza fetale; essendosi poi verosimilmente presentata la complicanza della distocia di spalla, a maggior ragione, prima di effettuare qualsiasi manovra, avrebbe dovuto essere praticata preventivamente l’episiotomia. Quest’ultima, come anche la manovra di Kristeller, rientra tra le attività demandate all’ostetrica (art. 10 D.M. 15 settembre 2005). La sentenza della IV sezione penale della Cassazione, n. 13942/2008, presenta una anomalia rispetto alla normativa cui la Corte fa riferimento al fine di decidere la causa in quanto, nonostante i fatti si svolgano nel giugno 2001, la Cassazione non solo non prende in considerazione la legge n. 42/1999 e la legge n. 251/2000, bensì ancora il D.P.R. n. 163/1975, unitamente al profilo professionale. La decisione appare corretta, dato che 179 trattasi di un caso di forza maggiore in cui l’ostetrica aveva dovuto necessariamente intervenire pur constatando l’evidente non fisiologicità del parto: rimasta inascoltata la richiesta d’intervento fatta al medico ginecologo di turno, l’imputata aveva posto in essere una manovra verosimilmente grossolana (e comunque non di sua competenza) per estrarre il nascituro, molto più grosso del normale, provocando un’irreversibile paresi al braccio sinistro. D’altro canto, è vero che il D.M. n. 740/1994 impone all’ostetrica di individuare le situazioni potenzialmente patologiche ed in tal caso di allertare il medico, ma è altrettanto vero che lo stesso comma 5 dell’art. 1 continua con l’affermazione della competenza dell’ostetrica nel praticare ove occorra le relative misure di emergenza. La sentenza n. 278/2010 del Tribunale di Trani riguarda come convenute nel giudizio civile assieme all’ASL coinvolta, un’ostetrica ed una ginecologa. I fatti erano avvenuti nel 1992, la normativa di riferimento è il mansionario più il decreto contenente le istruzioni per l’esercizio professionale, che contempla all’art. 10 l’esecuzione della manovra che ha materialmente causato il danno in coerenza con le conclusioni della sentenza. La ginecologa non è ritenuta responsabile della lesione del plesso brachiale nel neonato, avendo solo praticato una sutura alla madre. L’ostetrica è riconosciuta responsabile per errata assistenza durante il parto spontaneo distocico: dai consulenti tecnici l’ipotesi considerata più probabile e verosimile è quella di una manovra di trazione del feto, per liberare la spalla anteriore, impropria ed eccessiva; e tale conclusione non è stata superata da ricostruzioni su possibili cause alternative fornite dalla parte convenuta. Anche la sentenza n. 847/2011 della III sezione civile della Corte d’Appello di Roma decide in merito ad eventi antecedenti l’entrata in vigore del profilo professionale, giungendo però a non considerare responsabile l’ostetrica della paralisi superiore sinistra del neonato, essendo la stessa una semplice ausiliaria, che non può neanche proporre dubbi diagnostici sulla difficoltà del 180 parto, che nel caso era complicato da una macrosomia fetale (e forse da una distocia di spalla) decisione che sembra essere poco aderente alle indicazioni normative. La sentenza n. 13946/2012 della XI sezione penale del Tribunale di Napoli riguarda un caso del 2002 di paralisi della spalla e del braccio sinistro di un neonato. L’accusa si fonda sulla colpa commissiva dell’ostetrica per l’effettuazione di una manovra di disimpegno errata ed eccessiva, e sulla colpa omissiva del medico ginecologo per il mancato intervento in un caso come questo di parto non propriamente eutocico. In questo caso sono stati assolti gli imputati per mancanza di profili certi di responsabilità nella ricostruzione degli eventi. Dalle sentenze discende l’idea che l’ostetrica abbia sicuramente, oggi come in passato, un ruolo cardine in caso di parto fisiologico, con competenze delineate e autonomia decisionale e come invece debba richiedere l’intervento del ginecologo qualora il parto presenti elementi patologici. 5.3.5. Omicidio colposo in relazione a errori nella somministrazione di farmaci ■ Tribunale di Modena, II sezione civile, n. 490, 24 marzo 2011. La sentenza riguarda un caso di risarcimento danni per responsabilità nel reato di omicidio colposo, causato da un errore nella somministrazione di un farmaco. Il caso riguarda un neonato, che aveva subito lesioni gravissime da asfissia durante il travaglio, a cui era stato dato un farmaco diverso da quello prescritto provocandone la morte a distanza di tre settimane dalla nascita. I genitori hanno convenuto in giudizio l’ostetrica e l’Azienda ASL di Modena, per richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso. Era già intervenuta una sentenza penale di patteggiamento, che avrebbe costituito una fonte di prova con la quale completare il quadro istruttorio e non un vincolo per il giudice civile. In sintesi, l’esistenza dell’errore sanitario e della sua rilevanza causale erano dati per acquisiti. 181 In base alla ricostruzione effettuata dalla parte attrice, il Tribunale civile di Modena ha potuto accertare che al termine di una normale gravidanza, l’attrice si era presentata in ospedale per una visita e in tale occasione era documentata la presenza di scarso liquido amniotico; dopo aver eseguito un tracciato cardiotocografico erano indotte le contrazioni; dopo alcune ore, nonostante le contrazioni fossero diventate molto forti e vicine tra loro, la dilatazione era apparsa ancora minima; il ginecologo aveva prescritto allora un farmaco miorilassante per favorire la dilatazione del collo dell’utero: l’ostetrica aveva somministrato per errore alla paziente un farmaco diverso da quello indicato, che aveva determinato contrazioni potenti e protratte, e la conseguente insorgenza di ipertono uterino e bradicardia fetale. Il bambino era nato con sintomi di severa asfissia intrapartum: non era rilevata attività respiratoria spontanea che non si attivò neanche dopo la rianimazione cardiaca. L’ormai compromessa situazione aveva comportato poi la morte del neonato. Nella sentenza in esame il giudice ha proceduto quindi alla quantificazione del danno morale, biologico ed esistenziale. Stante l’affermata responsabilità della convenuta ostetrica, ne è derivata anche la solidale responsabilità risarcitoria dell’ente ospedaliero alle cui dipendenze lavorava la professionista. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 12347, 29 gennaio 2008. Il caso si riferisce al delitto di lesioni colpose gravi causato da un’errata somministrazione di farmaci. Sia il Tribunale di Torre Annunziata che la Corte d’Appello di Napoli hanno riconosciuto la responsabilità per colpa dell’ostetrica per le gravissime lesioni personali cagionate ad una neonata nel corso di travaglio di parto e consistite in microcefalia, asimmetria e strabismo. Durante i processi di merito è stato accertato che l’ostetrica aveva somministrato alla partoriente un farmaco per aumentare l’intensità e la frequenza delle contrazioni uterine, 182 in misura e con modalità incongrue. Inoltre, il farmco era stato somministrato per via orale, e non per via endovenosa che avrebbe consentito l’eventuale sospensione. In questo modo si era assunta competenze riservate al medico. L’errore provocò una grave asfissia alla nascitura, e neanche il successivo intervento del medico con un farmaco contrastante il primo era riuscito a bloccare l’effetto di subcontrazione uterina che si era ormai innescato. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal responsabile civile, richiamando tra l’altro il Profilo professionale dell’ostetrica (DM 14 settembre 1994 n. 740), in base al quale quest’ultima può condurre e portare a termine i soli parti eutociti, dovendo invece rivolgersi al medico allorquando individui situazioni potenzialmente patologiche (art. 1, comma 1-5). La Corte ha sottolineato come nel caso in questione l’ostetrica non si era trovata di fronte ad un parto eutocito, visto che si era presentata la necessità di accelerare il ritmo delle contrazioni uterine: ella avrebbe dovuto allertare immediatamente il personale medico, che aveva la capacità di prescrivere il trattamento farmacologico. ■ Valutazioni riassuntive. Le due sentenze riguardano la somministrazione di farmaci da parte delle ostetriche. Queste ultime hanno, come gli infermieri tale competenza, che va però circoscritta al settore ostetrico-ginecologico; le stesse norme di esercizio professionale valide per gli infermieri, si ritiene siano valide anche per le ostetriche, nonostante il loro profilo professionale non si occupi in modo specifico di somministrazione di farmaci. Pur tuttavia vista la formazione universitaria (nell’ottica della legge n. 42/1999 il concetto di attività si declina come capacità, che deve acquisirsi primariamente attraverso lo studio) e il codice deontologico, che si conferma essere uno dei criteri guida unitamente al profilo professionale, che fa spesso riferimento 183 alla partecipazione dell’ostetrica al programma terapeutico nel farsi carico della salute del paziente, appare coerente ritenere che l’ostetrica abbia le competenze e la responsabilità, di somministrare medicinali in base alle prescrizioni del medico. 5.4. Giurisprudenza in tema di responsabilità del fisioterapista 5.4.1. Fonti normative specifiche per l’esercizio della professione Sono riportate nel box 5.3 due fonti normative indispensabili per la comprensione di alcuni aspetti delle sentenze presentate in questo paragrafo. Per gli altri aspetti di interesse contenuti nelle norme di carattere generale citate in giurisprudenza, si rinvia alla trattazione sviluppata nel capitolo 2. Le varie sentenze sono di seguito presentate suddivise in sottoparagrafi con riferimento ad alcune aree tematiche, convenzionalmente individuate correlando i vari reati alle circostanze cliniche e alle caratteristiche della condotta professionale censurata. Box 5.3 – Il profilo professionale del fisioterapista e ambito di autonomia secondo l’art. 2 della legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica” D. M. 14 settembre 1994 , n. 741 “Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale del fisioterapista”. Art. 1. 1. È individuata la figura del fisioterapista con il seguente profilo: il fisioterapista è l'operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, che svolge in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali superiori, e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia, congenita od acquisita. 2. In riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell'ambito delle proprie competenze, il fisioterapista: a) elabora, anche in equipe multidisciplinare, la definizione del programma di riabilitazione volto all'individuazione ed al superamento del bisogno di salute del disabile; b) pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità motorie, psicomotorie e cognitive utilizzando terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali; c) propone l'adozione di protesi ed ausili, ne addestra all'uso e ne verifica l'efficacia; d) verifica le rispondenze della metodologia riabilitativa attuata agli obiettivi di recupero funzionale. 3. Svolge attività di studio, didattica e consulenza professionale, nei servizi sanitari ed in quelli dove si richiedono le sue competenze professionali; 4. Il fisioterapista, attraverso la formazione complementare, integra la formazione di base con indirizzi di 184 specializzazione nel settore della psicomotricità e della terapia occupazionale: a) la specializzazione in psicomotricità consente al fisioterapista di svolgere anche l'assistenza riabilitativa sia psichica che fisica di soggetti in età evolutiva con deficit neurosensoriale o psichico; b) la specializzazione in terapia occupazionale consente al fisioterapista di operare anche nella traduzione funzionale della motricità residua, al fine dello sviluppo di compensi funzionali alla disabilità, con particolare riguardo all'addestramento per conseguire l'autonomia nella vita quotidiana, di relazione (studio-lavoro-tempo libero), anche ai fini dell'utilizzo di vari tipi di ausili in dotazione alla persona o all'ambiente. Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonchè della professione ostetrica”. Art. 2. (Professioni sanitarie riabilitative) 1. Gli operatori delle professioni sanitarie dell'area della riabilitazione svolgono con titolarità e autonomia professionale, nei confronti dei singoli individui e della collettività, attività dirette alla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e a procedure di valutazione funzionale, al fine di espletare le competenze proprie previste dai relativi profili professionali. …. 5.4.2. Lesioni personali colpose, in relazione a errori nell’ambito della professione ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, 10 aprile 1998, n. 859. Il fisioterapista è stato in primo grado condannato per il reato di cui all’art. 590 c.p., perché, per colpa consistita in imperizia, imprudenza e negligenza, aveva cagionato lesioni ad un uomo, avendo provocato una nuova frattura all’omero sinistro (il leso si era rivolto al fisioterapista a causa dei postumi di una prima frattura, dopo rimozione dell’ingessatura) guaribile in una trentina di giorni. Con sentenza del 16 maggio 1997, la Corte di Appello di Ancona ha ribaltato il verdetto, assolvendo il professionista sanitario perché il fatto non costituisce reato. La Corte conferma la sussistenza del rapporto di causalità tra l’azione che il fisioterapista aveva operato sul braccio e la frattura dell’omero del paziente. Non è comunque certa la colpa dell’imputato, non essendo nemmeno accertata l’esecuzione di manovre improprie: così, data l’infondatezza dell’elemento soggettivo del reato, si è pervenuti all’assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p.. È stato osservato che la condotta dell’imputato dovesse essere valutata sul presupposto che egli avesse saputo solo dell’esigenza di sottoporre il paziente a kinesiterapia secondo la prescrizione del medico ortopedico, in base a quanto sostenuto dal fisioterapista; invece, l’affermazione del paziente d’aver fornito tutta la documentazione clinica, non è stata valutata del tutto attendibile. È stato 185 ritenuto, inoltre, non gravante sul fisioterapista un onere d’informazione circa le cause di irrigidimento del gomito, poiché è stato considerato sufficiente che egli fosse stato a conoscenza del fatto che al paziente era stato precedentemente applicato un apparecchio gessato. La Cassazione giudica errata l’esclusione di un obbligo di informazione a carico del fisioterapista (a prescindere dalla produzione di idonea documentazione). Sottolinea infatti che “incombe sul fisioterapista, nell’espletamento della sua attività professionale, un obbligo di accertamento delle condizioni del paziente traumatizzato prima di compiere manovre riabilitative che possono rivelarsi dannose, sicché, in mancanza di idonea documentazione medica lo stesso fisioterapista ha il dovere di assumere tutte le informazioni richieste dal trattamento che si accinge a praticare”. La sentenza impugnata è quindi annullata e rinviata per un nuovo esame, al giudice civile, essendo stata proposta impugnazione dalla sola parte civile. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 35318, 12 giugno 2008. Il fisioterapista era già stato condannato sia in primo grado dal Tribunale di Lecce – Sezione distaccata di Maglie – nel 2006, sia dalla Corte d’Appello di Lecce nel 2007, perché per imprudenza ed imperizia aveva cagionato alla persona offesa lesioni personali nel corso di un trattamento fisioterapico: a causa di una violenta torsione del collo, aveva determinato distorsione cervicale con cervicobrachialgia sinistra in soggetto con cervicoartrosi e discopatia, il che aveva comportato uso del collare per due settimane. Il ricorso in Cassazione è stato rigettato. La Suprema Corte ha rilevato che gli stessi giudici di merito avevano con sicurezza accertato che, durante una seduta di massaggi praticati dalla fisioterapista imputata, la parte offesa aveva avvertito un importante dolore al collo – tanto da urlare – all’atto dell’effettuazione di una duplice torsione dello stesso: di ciò erano stati subito informati i medici del presidio ospedaliero. 186 È risultato quindi certo che le lesioni fossero state causate da una manovra troppo violenta del fisioterapista che, in quanto professionista autonomo e perciò stesso responsabile in proprio del suo operato, ha visto confermata in via definitiva la sua condanna ad una pena pecuniaria per l’imputazione di cui all’art. 590 c.p.. ■ Corte di Cassazione, IV sezione penale, n. 27978, 24 giugno 2008. Si tratta di un caso di lesioni colpose causate da un fisioterapista nel corso di un trattamento. Essendo intervenuta remissione di querela, la Corte ha annullato la decisione intervenuta in Appello per estinzione del reato ex art. 590 c.p. Conviene comunque considerare lo svolgimento del processo nelle fasi precedenti, in base alla ricostruzione effettuata dalla Cassazione. Il fisioterapista S.C. è stato dichiarato colpevole del delitto di lesioni personali colpose in danno di un paziente, una prima volta dal Tribunale di Roma con giudizio abbreviato; con sentenza della Corte d’Appello di Roma del 15 ottobre 2007, è stata confermata la condanna al pagamento di una multa, oltre al risarcimento danni da liquidarsi in separata sede. Secondo la tesi accusatoria (comunque accolta dai giudici di merito), l’imputata, durante una seduta fisioterapica di “trazione” cervicale, avrebbe effettuato il trattamento in questione in modo “prolungato e massimale”, e non con una più corretta trazione graduale: ciò avrebbe comportato lo stiramento delle radici cervicali C7-C8. Il dibattimento si è concentrato sull’“idoneità della trazione cervicale a produrre le lesioni indicate, valutate le modalità accertate da periti e da consulenti di parte”. La consulenza tecnica disposta dalla Corte d’Appello, ha rilevato come il medico curante della R. avesse prescritto una “trazione cauta”, mentre la fisioterapista si era allontanata una volta iniziato il trattamento così da non poter porre rimedio al processo distrattivo; la sofferenza radicale dei nervi aveva avuto origine con detto intervento, perché le precedenti lesioni erano di più modesta entità e non compatibili 187 con un dolore così intenso (anche il consulente della difesa aveva indicato che le nuove lesioni avevano accentuato una pregressa patologia cronica); le lesioni sono poi risultate compatibili con l’applicazione di un peso di 2Kg e comportanti 180 giorni di malattia e ulteriori 180 giorni di incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni. La Corte di merito ha dunque ritenuto che l’esecuzione di una “trazione normale” – e non “cauta” come da indicazione medica – rappresentasse imprudenza ed imperizia, tanto da porsi come antecedente causale dell’evento. Nel ricorso proposto, il fisioterapista ha rilevato, per quanto riguarda il nesso causale, che il peso di 2 Kg fosse da ritenersi esiguo, tanto che il giudizio civile ha escluso proprio il nesso di causalità tra il trattamento e le lesioni; per quanto riguarda la condotta, la non correttezza dell’argomento della “trazione cauta”, perché le trazioni devono avere un andamento progressivo. ■ Tribunale di Roma, XIII sezione, 10 luglio 2006. Si tratta di una causa civile, in cui sono convenuti in giudizio il fisioterapista che materialmente aveva eseguito la seduta fisioterapica e l’AIRRI, l’associazione che aveva fornito il professionista per la riabilitazione. Al termine della seduta il paziente, persona anziana del peso di oltre 100 Kg e non in grado di deambulare autonomamente, cade procurandosi la frattura del femore per culpa in vigilando del fisioterapista. Il giudice ha condannato in solido entrambi i convenuti al risarcimento danni (patrimoniali e non) a favore degli eredi dell’attore nel frattempo deceduto, richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “l’obbligo di assistenza scaturente da un contratto di cura non si esaurisce nella mera prestazione delle cure mediche, ma include la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela che siano destinatarie 188 dell’assistenza, per le quali detta protezione costuisce la parte essenziale della cura”. ■ Tribunale di Bari, I sezione, 11 dicembre 2006. Si tratta di una causa penale con costituzione di parte civile. Un fisioterapista dipendente ospedaliero è imputato del reato di lesioni colpose in danno di una paziente affetta da grave patologia che l’aveva costretta a letto per diverso tempo, motivo per cui aveva iniziato sedute di fisioterapia alle quali si recava in sedia a rotelle. In base a quanto sostenuto dalla parte offesa il fisioterapista non l’avrebbe sostenuta nello spostamento dal lettino alla cyclette, tirandole anzi la gamba, tanto da causare perdita dell’equilibrio e conseguente caduta, con frattura della caviglia e tre mesi di permanenza a letto. Tre testimoni hanno invece dichiarato che il fisioterapista non aveva smesso un attimo di sostenere la paziente standole sempre di fianco ma, di fronte ad una repentina perdita di equilibrio, non era stato in grado di evitare del tutto la caduta. Il Tribunale ha assolto l’imputata, non essendo stato possibile fondare la colpa su elementi certi ed oggettivi. ■ Valutazioni riassuntive. La prima sentenza citata in materia di lesioni personali colpose causate da errate manovre del fisioterapista, è la n. 859/1998 della IV sezione penale della Cassazione. Pur se non era vigente la legge n. 42/1999 (né tanto meno la n. 251/2000), ma solo il profilo professionale del 1994, questa decisione rimane comunque attuale anche alla luce dei successivi interventi normativi. La Corte attribuisce al fisioterapista il dovere di accertarsi delle condizioni del paziente traumatizzato prima di compiere qualsiasi manovra e di assumere tutte le informazioni richieste dal trattamento che deve praticare in caso di documentazione medica assente o insufficiente: il professionista 189 deve infatti elaborare il programma di riabilitazione volto sia all’individuazione che al superamento del bisogno di salute del disabile, per poi praticare autonomamente l’attività terapeutica, e da questo deriva che evidentemente ci debba essere un precedente passaggio per analizzare lo stato psico-fisico del paziente e capire pienamente il tipo di problematica di cui soffre. Il punto di riferimento della diagnosi e prescrizione del medico, non può quindi esimere il professionista della riabilitazione da una propria ed autonoma “raccolta dati” che in parte si può sovrapporre all’anamnesi medica; ciò pur tuttavia potrà e dovrà esser fatto anche in caso di prescrizione medica completa, dato che anche la dottrina da tempo avverte come il fisioterapista non possa limitarsi soltanto ad eseguire quanto prescritto dal medico (in particolare nell’ipotesi in cui il trattamento prescritto dal medico non appaia idoneo al caso di specie), dovendo comunque poi egli assumersi la responsabilità della terapia che esegue. Il profilo professionale, in particolare il comma 2 dell’art. 1, tratta del rapporto tra fisioterapista e medico prescrittore e formulante diagnosi: il primo, nell’ambito delle proprie competenze, elabora la definizione del programma di riabilitazione, anche in équipe multidisciplinare; l’attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità, è poi praticata autonomamente. Da ciò, anche se non specificato testualmente nella sentenza della Suprema Corte, discende l’obbligo per il fisioterapista di accertarsi delle condizioni del paziente prima di compiere qualsiasi manovra. Il comma 2 art. 1 dispone che le funzioni del fisioterapista devono essere eseguite in riferimento alla diagnosi e alle prescrizioni del medico, ma ciò evidentemente non può prescindere da una autonoma raccolta di dati che si può in parte sovrapporre all’attività del medico. Il tutto nello spirito di “una proficua collaborazione basata sulle reciproche competenze”. La collaborazione con il medico ed altri professionisti, come ad esempio si realizza nei reparti di riabilitazione intensiva, può essere assimilata all’attività svolta in équipe; si può di conseguenza richiamare il principio 190 dell’affidamento, in particolare dell’affidamento cosiddetto temperato o relativo. Nel lavoro di équipe, la regola ordinaria è che ognuno risponde dell’inosservanza delle legis artis del proprio specifico settore, perché si deve aver fiducia nel corretto comportamento altrui; vi è però anche un obbligo di controllo e di sorveglianza, e quindi di relativo intervento, quando il soggetto partecipante abbia possibilità di rilevare circostanze tali da mostrare errori di condotta. Ciò vale in riferimento alla normativa vigente, mentre in precedenza era prevista una condizione di subordinazione in cui il medico poteva affidare attività all’ausiliario, su cui doveva vigilare. Ne derivava per il medico un addebito di corresponsabilità per il fatto commesso dall’ausiliario, tranne nelle condotte colpose dell’ausiliario nello svolgimento di funzioni che questi poteva autonomamente esercitare. Oggi, titolarità ed autonomia che il legislatore ha riconosciuto ai singoli professionisti sanitari sembrerebbero dunque sollevare il medico dai predetti compiti di vigilanza”. Le altre due sentenze della IV sezione penale della Cassazione su casi di errati trattamenti fisioterapici, la n. 35318/2008 e la n. 27978/2008, si soffermano sul fatto che anche manovre troppo violente o prolungate comportano la responsabilità del fisioterapista in caso il paziente subisca una lesione o veda aggravarsi la patologia in corso. Attenzione che non può mai mancare per tutta la seduta fisioterapica, anche nel lasso di tempo in cui il fisioterapista non stia materialmente effettuando il trattamento. Dalle sentenze della XIII sezione civile del Tribunale di Roma del 10 luglio 2006 e della I sezione del Tribunale di Bari dell’11 dicembre 2006, discende che la protezione delle persone che abbiano una deambulazione difficoltosa è parte essenziale della cura stessa. Se un paziente con menomazioni durante la fisioterapia, sorge una presunzione di culpa in vigilando (obbligo ordinario di vigilanza) a carico del fisioterapista, che si può superare soltanto 191 dimostrando di aver offerto un’assistenza vigile e continua (e quindi che la caduta è avvenuta per cause di forza maggiore). 5.4.3. Esercizio della professione di fisioterapista ■ TAR Toscana, II sezione, n. 552, 11 giugno 1998. Il ricorso concerne la contestazione di un ordine di servizio da parte di alcuni professionisti sanitari (tra cui fisioterapisti, ma nessun medico) operanti in un centro diurno di riabilitazione di un’azienda sanitaria: la direzione generale dell’azienda aveva emanato l’ordine di servizio incaricando i suddetti professionisti delle somministrazione per via orale agli assistiti di farmaci prescritti dal medico curante; fra i farmaci vi erano antidepressivi, ansiolitici e cardiotonici. Il TAR ha sancito l’illegittimità di un tale ordine di servizio, perché la somministrazione di farmaci richiede qualifica ed esperienza professionale, come quella infermieristica, in relazione alla quale sussiste un certo grado di responsabilità. Il Collegio ha precisato che il profilo professionale del fisioterapista fa riferimento, contrariamente al profilo professionale dell’infermiere, alla somministrazione di farmaci; né sono presenti negli ordinamenti didattici dei diplomi universitari, corsi dedicati alla formazione dei fisioterapisti circa le tecniche di somministrazione, la conoscenza degli effetti collaterali e le controindicazioni rispetto all’effettiva situazione del paziente. ■ TAR Sardegna, I sezione, n. 1511, del 9 ottobre 2009. Alcune società eroganti prestazioni di “medicina fisica e riabilitazione” per il Servizio Sanitario Nazionale e i loro sindacati professionisti medici SAPMI (Sindacati Autonomi Professionisti Medici Italiani) – sezione Sardegna – e SIMFIR (Sindacato Italiano Medici Fisici Riabilitatori), presentano ricorso al TAR per ottenere l’annullamento di alcune delibere della Giunta della Sardegna (n. 13 del 4 marzo 2008 e n. 21 dell’8 aprile 2008) con cui la 192 Regione aveva disciplinato le attività esercitabili nell’ambito degli “studi professionali di fisioterapia”: in particolare era consentita l’effettuazione di prestazioni terapeutiche riconducibili al profilo professionale del fisioterapista di cui al D.M. 741/1994, con uso di apparecchiature elettromedicali con parti applicate che avrebbero potuto comportare rischio per il paziente; inoltre, al fine dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria di studi professionali di fisioterapia, era stabilita la necessità di una costante presenza del fisioterapista durante lo svolgimento dell’attività. La tesi delle società ricorrenti (unitamente ai loro sindacati) – tutti studi medici di medicina fisica e riabilitazione convenzionati con il SSN – era che gli studi professionali di fisioterapia (pur erogando le stesse tipologie di prestazioni) disponessero grazie a queste delibere di una disciplina più favorevole rispetto a quella che li riguardava, in particolare per la mancata previsione della presenza del medico (essendo sufficiente, cioè, la presenza del solo fisioterapista) nel corso di sedute implicanti l’uso di apparecchi elettromedicali potenzialmente rischiosi per la salute del paziente. Nella prima udienza del giorno 11 marzo 2009, il Collegio ha disposto l’integrazione del contraddittorio anche nei confronti dell’Associazione Italiana Fisioterapisti (AIFI), in rappresentanza della categoria professionale avente evidente interesse alla conservazione dell’atto impugnato. Di fronte della lamentata mancata previsione della presenza del medico, il TAR in primo luogo richiama il profilo professionale, la legge n. 42/1999 e l’art. 2 della legge 251/2000, focalizzando così l’attenzione soprattutto sull’autonomia e sul campo di attività e responsabilità proprio del fisioterapista. In secondo luogo, il TAR fa riferimento alla legge della Regione Sardegna n. 10 del 2006, il cui art. 6 (“autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie”) contempla che sia la Giunta regionale a stabilire ed aggiornare, con apposita deliberazione, “i requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture 193 pubbliche e private, nonché,…, degli studi professionali singoli e associati, mono o polispecialistici di cui al comma 2 dell’articolo 8 ter del decreto legislativo n. 502 del 1992, e successive modifiche e integrazioni, sulla base dei principi e dei criteri direttivi contenuti nel comma 4 dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 502 del 1992, e successive modifiche e integrazioni”. In conformità a questo disposto, con le impugnate delibere del 2008, la Giunta regionale aveva dettato una disciplina specifica per gli studi di fisioterapia. Il TAR argomenta poi del grado di autonomia da riconoscere ai fisioterapisti nell’espletamento delle loro attività negli studi professionali. L’analisi delle delibere evidenzia l’assenza di limitazioni circa le attività manuali; per l’utilizzo delle apparecchiature elettromedicali con parti applicate, le delibere sono più articolate: qualora tali apparecchiature comportino “un rischio” per la sicurezza del paziente, l’utilizzo va riservato al medico; qualora comportino solo “un certo grado di rischio”, l’attività è ammessa anche per i fisioterapisti in via autonoma. Il TAR ha ritenuto che, se il legislatore statale ha conferito al fisioterapista un ampio spazio di autonomia, correttamente la Giunta regionale ha indicato che in quello spazio potessero essere utilizzate senza supervisione medica – e perciò con piena responsabilità del fisioterapista stesso –apparecchiature elettromedicali strettamente connesse all’esercizio della professione, purché queste non implicassero il superamento di un livello moderato di rischio per la sicurezza del paziente. Il TAR ha infine focalizzato la sua posizione affermando che “richiedere la presenza di un medico nell’ambito dello studio professionale del fisioterapista avrebbe svilito la sfera di azione e di autonomia di tale professionista”. I ricorsi per queste motivazioni sono stati respinti. ■ TAR Piemonte, II sezione, n. 516, 20 maggio 2011. L’AIFI presenta ricorso contro la Regione Piemonte chiedendo l’annullamento della deliberazione di Giunta regionale 6 aprile 2009 n. 9194 11161 – nonché di tutti gli atti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi – che aveva definito i “requisiti minimi degli studi dei fisioterapisti libero professionisti”. L’atto regionale aveva sancito che nell’attività sanitaria di riabilitazione, nell’ottica di una presa in carico globale della persona, dovesse essere predisposto dal medico un progetto riabilitativo individuale, poi realizzato dal fisioterapista tramite uno o più programmi riabilitativi: si tratta di un programma riabilitativo realizzato dal fisioterapista, in attuazione però (ed è il nodo della questione) del progetto riabilitativo individuale redatto dal fisiatra. Il ricorrente ha lamentato che dette previsioni fossero lesive per le competenze del fisioterapista: sarebbe stata in particolare snaturata l’autonomia del professionista, delineata dal profilo professionale, dalla legge n. 42/1999 e dalla legge n. 251/2000. La lesione dell’autonomia assume una duplice caratterizzazione: 1) la previsione che l’attività del fisioterapista deve necessariamente svolgersi in équipe è in contrasto con l’art. 1 del profilo professionale che contempla interventi da compiere sia in via autonoma sia in collaborazione con altre figure professionali; 2) la subordinazione dell’attività del fisioterapista alla presenza di un progetto riabilitativo redatto dal fisiatra, mentre le leggi n. 42/1999 e n. 251/2000 si riferirebbero piuttosto ad un campo proprio di attività e responsabilità, essendo i fisioterapisti professionisti sanitari dell’area della riabilitazione con titolarità ed autonomia. Il Collegio, considerando il contenuto del profilo professionale del fisioterapista, ha precisato che, seppur l’attività venga svolta in via autonoma o in collaborazione con altre figure sanitarie, questa dovrebbe pur sempre essere esercitata “in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell’ambito delle proprie competenze”. Il TAR non ha avuto dubbi sul fatto che il fisioterapista debba operare in necessario coordinamento con le indicazioni provenienti dal medico, che risulterebbe responsabile ultimo 195 della diagnosi sul paziente e delle prescrizioni idonee alla cura. Secondo il TAR, il d.m. n. 741 descrive un professionista la cui autonomia conoscerebbe il rilevante limite dell’imprescindibile collaborazione e coordinamento con altri professionisti; spetterebbe al fisioterapista la “definizione del programma di riabilitazione”, in via esclusiva, ma rimanendo nel solco tracciato dal medico con la prescrizione diagnostica. ■ TAR Lazio, sezione terza quater, n. 1704 del 20 febbraio 2012. Il ricorso è proposto dalla S.I.MF.E.R. – Società Italiana di medicina Fisica e Riabilitativa – e dal S.I.M.M.Fi.R. – Sindacato Italiano Medici di medicina Fisica e Riabilitativa – contro il Ministero della Salute per l’annullamento (previa sospensiva) del D.M. 16 dicembre 2010 n. 52268 avente ad oggetto l’”erogazione da parte delle farmacie di specifiche prestazioni professionali”. Il D.M. contemplava la “possibilità per le farmacie di erogare specifiche prestazioni di carattere prevalentemente assistenziale avvalendosi, ove necessario, di fisioterapisti”: tale possibilità era subordinata alla triplice condizione che si trattasse di prestazioni a carico del SSN, che fossero prescritte da medici di medicina generale, e che i fisioterapisti svolgessero – all’interno della farmacia o al domicilio del paziente – solo attività rientranti nelle loro competenze legislativamente previste. La censura mossa dai ricorrenti al D.M. è che il fisioterapista sarebbe stato autorizzato a compiere attività riabilitative, identiche a quelle offerte negli ambulatori medici, ma senza la presenza o il costante controllo del medico specialista in medicina fisica e riabilitazione: ciò avrebbe comportato un ineguale trattamento per le farmacie, trasformate in ambulatori o poliambulatori, senza i necessari controlli e autorizzazioni. Il Collegio ha completamente respinto il ricorso esordendo con un’affermazione tassativa: “Non esiste … una norma che imponga al fisioterapista, allorché eroga prestazioni rientranti nella propria competenza, di agire alla presenza o quanto meno sotto il controllo dello specialista”. I 196 ricorrenti non hanno indicato alcuna norma a sostegno di questa prerogativa dello specialista. Il TAR ha inoltre indicato il ruolo del medico generico all’interno del SSN: il medico generico, formulata la diagnosi, può scegliere di prescrivere egli stesso il programma terapeutico che poi il fisioterapista attuerà sotto il suo controllo; oppure può sollecitare l’intervento dello specialista, che formuli diagnosi e definisca terapia, qualora risulti necessario per la complessità della patologia in esame. Il D.M. impugnato contempla solamente la prima ipotesi e casi in cui ci si trovi di fronte a patologie di ridotto rilievo. Il TAR ha sottolineato che, in base al D.M., fosse comunque necessario sia che il programma terapeutico affidato al fisioterapista rispettasse le sue competenze, sia che permanesse un certo controllo del medico generico il quale, prima avrebbe dovuto instaurare un rapporto collaborativo con il professionista della riabilitazione nella predisposizione di detto programma, ma poi verificare anche che questo venisse compiutamente attuato. Tale attività di assistenza all’utente del SSN che cerchi un fisioterapista, cui affidare la realizzazione di un programma di recupero, non avrebbe trasformato, come invece sostenuto dai ricorrenti, la farmacia in un ambulatorio, perché l’attività principale rimane comunque quella commerciale. Tutte le argomentazioni sollevate dalla SIMFER e dal SIMMFiR sono risultate dunque pretestuose. È stata respinta la richiesta della presenza continua dello specialista alle attività di riabilitazione; il giudice amministrativo ha ammonito che, se il fisiatra vuol “invadere” il campo del fisioterapista svolgendo pure le “minori prestazioni” che non richiedono il bagaglio di conoscenze ed esperienze professionali del medico specialista solo per meri calcoli di convenienza economica, non può invocare misure a sua protezione. 197 ■ Valutazioni riassuntive. Il TAR di Cagliari, nella sentenza n. 1511/2009, per risolvere la controversia, delinea il quadro normativo esistente per quanto riguarda la figura del fisioterapista. Il Collegio si sofferma sul concetto di autonomia, nell’art. 1 del profilo professionale e nell’art. 2 della legge 251/2000: è sottolineato come il legislatore abbia attribuito un rilevante spazio di autonomia alla figura del fisioterapista, da cui si fa discendere quindi anche la possibilità di utilizzo di “apparecchiature elettromedicali strettamente connesse all’esercizio della specifica professione sanitaria” (ciò su cui in sostanza si dibatteva). La Giunta regionale ha correttamente indicato che negli studi di fisioterapia alla presenza del solo fisioterapista si svolgano attività implicanti l’uso di tecnologie, purché queste non comportino il superamento di un livello moderato di rischio per la sicurezza del paziente. La presenza di un medico avrebbe compromesso l’autonomia di un professionista la cui attività è dalla legge n. 42/1999 riconosciuta come non più ausiliaria; il fisioterapista deve assumersi la piena responsabilità di ogni trattamento e anche del corretto utilizzo dei supporti tecnologici eventualmente utilizzati. Il TAR di Torino, nella sentenza n. 517 del 2011, fornisce invece un’interpretazione dell’art. 1 del profilo professionale non in sintonia con la precedente pronuncia. Concordando con l’impugnata delibera della Giunta regionale che ha imposto che negli studi professionali il fisioterapista eserciti la propria attività (il programma riabilitativo, che dovrebbe elaborare questo sì in via esclusiva) in base al progetto riabilitativo individuale redatto dal fisiatra, il TAR ha precisato che l’autonomia di cui si parla nel suddetto disposto non è assoluta ma deve esplicarsi in necessaria collaborazione con le altre figure sanitarie: in particolare il fisioterapista elabora il programma di riabilitazione “in riferimento alla diagnosi e alle prescrizioni del medico” (comma 2), dove l’espressione in riferimento è qui concepita come necessaria 198 subordinazione al progetto del medico (ciò di cui più si lamentava il ricorso presentato). La delibera in oggetto prescrive tra l’altro la supervisione del medico fisiatra, non un medico generico, laddove il profilo professionale, che fa riferimento ad un medico, non parla di uno specialista. Il TAR del Lazio, nella sentenza n. 1704/2012, invece afferma, in un caso molto diverso, come non esista una “norma che imponga al fisioterapista, allorché eroga prestazioni rientranti nella propria competenza, di agire alla presenza o quanto meno sotto il costante controllo dello specialista”, pur se il ricorso miri a far riconoscere un diritto in questo senso del fisiatra. Il decreto ministeriale impugnato, che ha autorizzato le farmacie ad erogare prestazioni di carattere prevalentemente assistenziale avvalendosi ove necessario di fisioterapisti, ha comunque imposto la necessaria presenza della prescrizione del medico di medicina generale, essendo in ciò maggiormente in linea con la normativa di settore rispetto alla decisione di cui sopra. Il TAR di Firenze, nella sentenza n. 552/1998, sancisce in via definitiva l’impossibilità per i fisioterapisti di somministrare farmaci, attività di competenza principalmente infermieristica. 5.4.4. Esercizio abusivo di professione ■ Cassazione, IV sezione, n. 4454, 11 gennaio 2001. La sentenza origina dal ricorso contro un’ordinanza del Tribunale di Parma che, in veste di giudice del riesame, ha revocato un provvedimento di sequestro preventivo di un locale adibito a studio professionale. L’accusa del P.M. era che nello studio, privo di autorizzazione, erano esercitate terapie riabilitative, da parte di due soggetti che esercitavano la professione di fisioterapisti, abusivamente perché privi della necessaria abilitazione: erano stati infatti ivi trovate “12 persone intente ad eseguire esercizi di riabilitazione fisica, aventi finalità terapeutiche in relazione a pregressi eventi traumatici o a postumi di interventi chirurgici”. 199 Il giudice del riesame, nel revocare il provvedimento di sequestro, ha osservato come ci sia una particolare area di intervento comune sia al fisioterapista che al chinesiologo, figura non rientrante tra le professioni sanitarie, dotata comunque di uno statuto in base al quale la chinesiologia è attività finalizzata al recupero motorio, mantenimento e potenziamento muscolare attraverso esercizi di ginnastica; il fisioterapista svolge interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali superiori e di quelle viscerali conseguenti ad eventi patologici: è in riferimento all’area della c.d. motricità che l’attività del fisioterapista si interseca con la professione del chinesiologo. La scriminante è stata individuata nella correlazione dell’attività fisioterapica a situazioni di disabilità motorie, psicomotorie e cognitive, correlazione che non sussiste per la chinesiologia: qualora la persona intenda semplicemente raggiungere una migliore forma fisica non appare necessaria l’attività del fisioterapista, e quindi la presenza di una persona munita di una specifica abilitazione. Il Tribunale di Parma ha sottolineato che non emergesse in modo univoco che fossero effettivamente svolte “terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali”, che contraddistinguono l’opera del fisioterapista. La Cassazione ha confermato dunque l’ordinanza del tribunale del riesame, rigettando il ricorso del P.M., ribadendo la correttezza della analisi effettuata sulle competenze della professione di fisioterapista e l’attività di chinesiologo. ■ Corte di Cassazione, sezione VI penale, 25 settembre 2003. Un medico generico iscritto all’Albo, che aveva esercitato la professione di fisioterapista in assenza di abilitazione nel suo studio, dove erano state sequestrate delle apparecchiature destinate alla riabilitazione. Con ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria è stato confermato il provvedimento di 200 sequestro, contro cui ha ricorso in Cassazione l’imputato, secondo cui l’abilitazione all’esercizio dell’attività medica rappresenterebbe titolo costitutivo anche per l’esercizio della professione di fisioterapista. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso aderendo alle tesi della difesa. Essendo l’art. 348 c.p. una norma penale in bianco, si è fatto riferimento ad altre disposizioni di legge che stabilissero le condizioni in difetto delle quali l’esercizio di determinate professioni risultasse abusivo: la Cassazione ha richiamato in particolare il D.L.vo n. 502/1992 e il conseguente D.M. 741/1994 recante il profilo professionale del fisioterapista. Tale normativa è stata considerata come riferentesi ai non laureati (appunto perché all’epoca i professionisti sanitari ausiliari non erano laureati) e non al medico “che in quanto titolare della laurea in medicina e chirurgia è abilitato ad esplicare assistenza sanitaria in funzione di prevenzione, diagnosi e cura, di guisa che il diploma di specializzazione della riabilitazione non può essere previsto tra i requisiti, la cui mancanza impedisca a qualsiasi medico di esercitare la terapia della riabilitazione”. In altre parole, la Cassazione partendo dal presupposto che la medicina riabilitativa è una branca della sanità in generale, ha affermato che il medico iscritto all’albo professionale può ben espletare la sua professione anche in questo settore, non essendo allo stato necessario alcun diploma di specialità. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 20438, 6 marzo 2009. La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso contro l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Vicenza ha rigettato la richiesta di annullamento dell’ordinanza di convalida del sequestro preventivo effettuato dalla Guardia di Finanza di Schio sulle attrezzature usate dall’indagato e sull’immobile destinato a studio professionale. P.A. era stato accusato di svolgere l’attività di fisioterapista senza abilitazione: il P.A. aveva una qualifica di tecnico massaggiatore e nel suo studio erano stati trovati tre pazienti affetti da patologie ossee in attesa di cure fisioterapiche; i 201 beni sequestrati erano apparsi del tutto coerenti rispetto allo svolgimento dell’attività di fisioterapista. Il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile, perché il praticare massaggi a scopo curativo integrerebbe l’ipotesi accusatoria: le reazioni sulla persona del paziente del metodo di cura adottato in relazione alla patologia non avrebbero potuto essere valutate nel caso di specie non essendo stato presente un soggetto abilitato alla professione sanitaria di fisioterapista; quanto al metodo di cura è stata sancita la necessità di controllo medico. Stante la pericolosità del tipo di attività svolta su persone affette da diversi morbi, e dato che l’immobile adibito a gabinetto per massaggi era stabilmente destinato a tale scopo, il sequestro a fini preventivi è stato ritenuto giustificato. ■ Cassazione, VI sezione penale, n. 47028 10 novembre 2009. Un soggetto che aveva conseguito il titolo di massoterapeuta, era stato condannato, in entrambi i giudizi di merito, per esercizio abusivo di professione sia di medico sia di fisioterapista. La Corte, dichiarando inammissibile il ricorso, ha ribadito che la ricostruzione dei fatti accertata in sede di merito aveva evidenziato come l’imputato non si fosse limitato ad eseguire interventi rilassanti e di benessere, ma avesse attuato massaggi per lenire e curare patologie di vario tipo secondo un proprio programma di sedute, indicando talvolta una diagnosi – per cui è stato individuato l’abusivo esercizio di professione medica – o sulla base della manifestazione dolorosa o dall’esame di lastre, radiografie e referti. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 39292, 27 settembre 2011. Il Tribunale di Agrigento, in sede di riesame, aveva confermato con l’ordinanza del 14 marzo 2011 il provvedimento del G.I.P. del 24 febbraio 2011, che aveva disposto il sequestro preventivo di un centro fisioterapico, perché la principale socia del centro stesso era indagata per esercizio abusivo 202 di professione sanitaria; nella struttura si sarebbe esercitata attività riabilitativa da parte di soggetti privi della laurea triennale richiesta e in assenza di medici fisiatri. Due dipendenti, masso terapeuti, non erano in possesso della qualifica di fisioterapista, pur avendo eseguito in alcune occasioni trattamenti fisioterapici per i quali non erano abilitati. Per questi elementi, unitamente al rischio di reiterazione della condotta delittuosa, il Tribunale a confermare il sequestro e la Corte di Cassazione ha dichiarare inammissibile il ricorso. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n. 5005, 14 dicembre 2010. Caso analogo è quello inerente al sequestro preventivo del centro estetico e fisioterapico Elite Fisiosport s.n.c., il cui amministratore Z.A. aveva ivi esercitato abitualmente la professione di fisioterapista in modo abusivo: nel locale sottoposto a sequestro erano state rinvenute (e sequestrate anch’esse) apparecchiature per applicazione di ultrasuoni, per elettrostimolazioni e per laserterapia. ■ Corte di Cassazione, VI sezione penale, n 436568, 2011. Il caso interessa il sequestro di uno studio di bionaturopatia con relative apparecchiature e medicinali, il cui proprietario era stato indagato per esercizio della professione sanitaria di fisioterapista in assenza del richiesto titolo abilitativo: in particolare egli avrebbe effettuato massaggi alla cervicale, utilizzato apparecchio di agopuntura e prescritto medicinali omeopatici. Ancora una volta la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato contro l’ordinanza del Tribunale di Frosinone, del 23/06/2011, di conferma del sequestro preventivo. 203 ■ Valutazioni riassuntive. La Cassazione, nella sentenza n. 4454/2001, ha affermato come non dia luogo al reato di esercizio abusivo l’attività di chinesiologia, tesa a favorire il recupero motorio ed il mantenimento e potenziamento muscolare attraverso esercizi di ginnastica. La Corte, basandosi sul profilo professionale del fisioterapista, ha specificato che la sua professione ha per oggetto lo svolgimento di “terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali” richiedenti l’esistenza di “disabilità motorie, psicomotorie e cognitive”: lo spartiacque tra le due professioni andrebbe ravvisato dunque nelle condizioni di salute della persona che si sottopone alla cura del fisioterapista o del chinesiologo. Invero, anche se il profilo professionale si riferisce a specifiche situazioni di “disabilità motorie, psicomotorie e cognitive”, gli interventi del fisioterapista sono di cura e di riabilitazione, ma anche di prevenzione; quindi alcuni ambiti di operatività di tale professione potrebbero sovrapporsi a quelli in cui svolge la sua attività il chinesiologo. La IV sezione penale della Cassazione, con sentenza del 25 settembre 2003, accoglie le doglianze di un medico generico cui erano state sequestrate delle apparecchiature riconducibili all’attività di fisioterapista, svolta senza la necessaria abilitazione, essendo stato ravvisato in ciò il fumus del reato di esercizio abusivo di detta professione. La Corte afferma che la necessità di possedere un diploma universitario abilitante “che costituisce titolo preferenziale per l’esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative”, vale solo per i non laureati e non per i medici, la cui laurea li abilita ad esercitare nell’ambito della medicina riabilitativa. La sentenza trascura completamente la legge n. 42/1999: difatti si fa riferimento al fisioterapista come professionista sanitario ausiliario e non si considera che tale figura avrebbe un campo proprio di attività e responsabilità. 204 CAPITOLO 6 RESPONSABILITA’ E GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO Negli anni l’incremento dei casi di rivalsa in ambito sanitario da parte dell’utenza sia con richieste di risarcimento che con attivazione di persi in ambito penalistico ha indotto nel personale sanitario un atteggiamento di timore o anche di cultura “della colpa”, in cui gli operatori hanno sviluppato una paura nei confronti dell’errore sviluppando comportamenti difensivi finalizzati alla tutela dell’operatore stesso e non del paziente. In questo clima di diffidenza è stata traslata dal sistema industriale la cultura di miglioramento della organizzazione dallo studio e analisi dell’errore. Vale a dire apprendere dall’errore, come metodo di applicazione per la gestione del rischio, al fine di superare l’accaduto per arrivare ad una cultura di prevenzione degli errori che, partendo dall’evento, analizza il come e il perché lo stesso si sia verificato, per poi cercare di rafforzare le difese con sistemi di compensazione e di tolleranza dei possibili errori. La gestione del rischio clinico è inserita in un sistema più ampio di clinical governance in cui questa rappresenta un complesso di sistemi finalizzati al miglioramento della qualità dell’organizzazione, della sicurezza dei pazienti e di tutti gli stakeolders (parti interessate), identificando, valutando e riducendo i rischi. 1. Riferimenti normativi italiani. Nell’ambito delle attività avviate dal Ministero della Salute in tema di Qualità dei servizi sanitari, sono stati istituiti, in tempi successivi, presso la Direzione generale della Programmazione sanitaria, dei Livelli essenziali di assistenza e dei Principi etici di sistema, plurimi gruppi di lavoro con diverse finalità: studiare la prevalenza e le cause del rischio clinico e formulare indicazioni generali per la sua riduzione e l'individuazione delle priorità, delle azioni e delle tecniche per la gestione del rischio clinico; individuare soluzioni operative per la definizione di 205 un sistema di monitoraggio degli eventi avversi e determinare le modalità di formazione per gli operatori sanitari; monitoraggio degli eventi avversi ed elaborazione di raccomandazioni e di documenti per la formazione. Il Ministero della Salute, Dipartimento della qualità della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema - Ufficio III – ha elaborato dodici “raccomandazioni” in relazione a numerosi eventi sentinella3: n. 1 Sul corretto utilizzo delle soluzioni di kcl e altre soluzioni concentrate contenenti potassio (03.2008); n. 2 prevenire la ritenzione di garze, strumenti o altro materiale all’interno del sito chirurgico (03.2008); n. 3 corretta identificazione dei pazienti, del sito chirurgico e della procedura (03.2008); n. 4 prevenzione del suicidio di pazienti in ospedale (03.2008); n. 5 prevenzione della reazione trasfusionale da incompatibilità AB0 (03.2008); n. 6 raccomandazione per la prevenzione della morte materna correlata al travaglio e/o parto (03.2008); n. 7 prevenzione della morte, coma o grave danno derivati da terapia farmacologica (03.2008); n. 8 prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari (11.2007); n. 9 raccomandazione per la prevenzione degli eventi avversi conseguenti al malfunzionamento dei dispositivi medici/apparecchi elettromedicali (04.2009); n. 10 raccomandazione per la prevenzione dell’osteonecrosi della mascella/mandibola da bifosfonati (09.2009); n. 11 morte o grave danno conseguenti ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero) (01.2010); n. 12 prevenzione degli errori in terapia con farmaci “look-alike/sound-alike” (08.2010). Il Piano sanitario nazionale 2006-2008, approvato con d.p.r. 7 aprile 2006, dedica specifica attenzione al tema del rischio clinico e prevede nel § 4.44 3 Gli eventi sentinella sono eventi avversi di particolare gravità, inattesi, potenzialmente rivelatori, per quanto relativamente poco frequenti, di gravi criticità del sistema. 4 4.4 … Altro aspetto fondamentale è quello della gestione del rischio clinico a salvaguardia e tutela della sicurezza dei pazienti e del personale. In stretta relazione a ciò è necessario che le attività di audit clinico siano effettivamente integrate nella missione aziendale, abbandonando la logica elitaria che li ha finora accompagnati. … Il rischio clinico e la sicurezza dei pazienti 206 l’attivazione di sistemi di monitoraggio degli eventi avversi, la formazione del personale al fine di acquisire per tutti gli operatori la consapevolezza e favorire l’implementazione della cultura della sicurezza e dell’errore come fonte di apprendimento, attivazione del monitoraggio degli eventi sentinella, secondo quanto previsto dal Protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella (luglio 2009), l’operatore sanitario coinvolto nell’evento avverso comunica al referente del rischio clinico o alla Direzione aziendale l’avvenuto evento, quest’ultimo avvierà una indagine interna per stabilire se si tratta di evento sentinella segnalerà nell’immediatezza il caso al Ministero e inizierà una contestuale analisi per comprendere i fattori che hanno contribuito al determinarsi dell’evento. Analizzate le cause e i fattori contribuenti e redatto il piano di Azione (il tutto entro 45 giorni) invierà un report conclusivo. 2. Il rischio clinico e l’errore Il “rischio” (R) è la condizione o l’evento potenziale che modifica l’esito atteso di un processo; è misurato come prodotto fra la probabilità che accada uno specifico evento (P) e l’entità del danno connesso (D); nel calcolo del rischio, si considera anche la capacità di prevedere l’evento e contenerne le conseguenze (K), legata alla formazione, alla informazione ed alla organizzazione: Sulla gestione del rischio clinico esistono iniziative regionali da valorizzare e generalizzare che assumono come obiettivo quello di coniugare il tradizionale punto di vista “assicurativo” tipico della responsabilità dei professionisti a quello più generale della “sicurezza del paziente” che attiene ai livelli di qualità del sistema dei servizi e che ha pertanto un impatto diretto sulle capacità di offerta dei livelli di assistenza. Negli ospedali italiani si cominciano a sperimentare e a diffondere Unità per la gestione del rischio. Il rischio clinico è la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè subisca un qualsiasi danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate, che causa un peggioramento delle condizioni di salute o la morte. Una gestione efficace del rischio clinico presuppone che tutto il personale sia consapevole del problema, che sia incoraggiata la segnalazione degli eventi e che si presti attenzione ai reclami e al punto di vista dei pazienti. Le strategie di gestione del rischio clinico devono utilizzare un approccio pro-attivo, multi-disciplinare, di sistema, e devono prevedere attività di formazione e monitoraggio degli eventi avversi. La formazione, che deve prevedere un livello nazionale, regionale ed aziendale, deve consentire a tutti gli operatori di acquisire la consapevolezza del problema del rischio clinico, per favorire la cultura della sicurezza che considera l’errore come fonte di apprendimento e come fenomeno organizzativo, evitando la colpevolizzazione del singolo. Le attività di monitoraggio, devono essere condotte secondo un criterio graduato di gravità di eventi, prevedendo che i tre livelli, nazionale, regionale ed aziendale, possano promuovere le rispettive azioni, secondo un disegno coerente e praticabile. Deve essere attivato un monitoraggio degli eventi sentinella, cioè quegli eventi avversi di particolare gravità, indicativi di un serio malfunzionamento del sistema, che causano morte o gravi danni al paziente e che determinano una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del Servizio Sanitario. L’efficace gestione del rischio clinico porterà oltre ad importanti risultati di carattere sanitario anche rilevanti risvolti economici. 207 R=PxD K Il “rischio clinico” è la probabilità (P) che un paziente sia vittima di un evento avverso5 e patisca, a causa dell’intervento sanitario, un danno (D), consistente in una nuova malattia o in un peggioramento della malattia preesistente (un più lungo decorso della stessa o una maggior gravità dei postumi) o nella morte. Il rischio è la probabilità che si verifichi un evento avverso, pertanto, la gestione del rischio clinico si fonda sostanzialmente sull’analisi degli eventi avversi. In questa logica si spiega da dove trae il suo fondamento la cultura dell’apprendere dall’errore, spostando quindi l’interesse non più finalizzato alla ricerca del colpevole. In questa logica di interpretazione l’errore è secondo il glossario di riferimento nazionale il “fallimento nella pianificazione e/o nell’esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato”. L’errore può essere a sua volta classificato in modi diversi: ERRORI SENZA COLPA - presentazione non-usuale o mascherata della malattia - errori correlati al paziente (non cooperativo, ingannatore) ERRORI LEGATI AL SISTEMA - difetti tecnici e problemi di apparecchiature - difetti organizzativi 5 Evento inatteso correlato al processo assistenziale e che comporta un danno al paziente, non intenzionale e indesiderabile. Gli eventi avversi possono essere prevenibili o non prevenibili. Un evento avverso attribuibile ad errore è un evento avverso prevenibile. 208 ERRORI COGNITIVI - conoscenze difettose - raccolta difettosa di dati - sintesi difettosa (da: M.L. Graber, Arch Intern Med 2005) Errori cognitivi: E. prelogici: procedurali intellettivi cognitivistici E. logici: generazione delle ipotesi processazione delle ipotesi formulazione delle ipotesi E. extralogici: psicologico-affettivi difensivi conflitti nelle decisioni di gruppo conflitti d’interesse Errori operativi: E. accidentali (sviste, distrazioni, ecc.) E. sistematici (procedure codificate, ecc.) da: G. Delvecchio ‘Decisione ed errore in medicina’ 2005 Nell’ambito dell’approccio sistemico diviene rilevante la distinzione tra diverse tipologie di errori: Attivi: i fallimenti associati direttamente alle prestazioni degli operatori di prima linea, i cui effetti sono immediatamente percepibili e, dunque, facilmente individuabili; Latenti: associati ad attività distanti dal luogo dell’incidente, sia in termini di tempo sia di luogo, quali le attività manageriali, normative e organizzative. Da questo approccio sistemico, nasce l’idea che il verificarsi di un incidente sia frutto di una concatenazione di eventi che hanno superato tutte le difese che sono state messe in atto. Poiché gli errori attivi non potranno mai essere eliminati in modo definitivo, aumentare l’affidabilità e la sicurezza di un sistema significa influire sulle criticità latenti, sulle quali gli errori attivi si innescano. 209 L’errore può quindi causare un evento avverso, cioè un evento indesiderabile non intenzionale, dannoso per il paziente. L’attività di risk management o di gestione del rischio clinico si sviluppa in più fasi: conoscenza ed identificazione dell’errore, analisi degli errori, correzione delle cause, monitoraggio delle misure messe in atto per la prevenzione dell’errore, implementazione e sostegno attivo delle soluzioni proposte. Il sistema di analisi è finalizzato alla riduzione dell’incidenza degli eventi avversi, mediante l’identificazioni di eventuali fattori umani, organizzativi, tecnologici come fonte di errore, cercando sistemi di applicazione che riducano al massimo l’incidenza del comportamento umano, ma che hanno dimostrato avere la loro prevalente azione migliorativa agendo direttamente sui settori tecnologici, organizzativi, procedurali, culturali piuttosto che quelli umani. La sua applicazione in ambito sanitario richiede un fondamentale cambio di paradigma e una variazione culturale: considerare l’errore come fonte di apprendimento per evitare il ripetersi delle circostanze che hanno portato a sbagliare. La metodologia di analisi della gestione del rischio clinico è raggiungibile solo in un contesto culturale e organizzativo in cui tutti i professionisti sanitari medici e non, abbiano raggiunto un livello di maturità adeguato in cui la sicurezza, la prevenzione degli eventi avversi, l’organizzazione siano fondamenti delle loro attività. Solo in questa ottica potranno essere superati i timori e le paure personali vincolate alla responsabilità giuridica, consentendo agli stessi di non celare eventuali condotte errate proprie o altrui ma di favorire l’analisi e il confronto in una direzione comune di miglioramento per evitare il ripetersi dell’evento. 210 3. Le fasi della gestione del rischio clinico: metodi e strumenti per l’identificazione e l’analisi di rischio Le fasi della gestione del rischio prevedono: l’identificazione dei rischi; l’analisi dei rischi, trattamento e monitoraggio dei rischi. Le varie fasi sono interconnesse e raggiungibili mediante l’applicazione di strumenti di seguito schematicamente rappresentati. 3.1 Strumenti di identificazione del rischio I metodi e gli strumenti sono stati sviluppati nel corso degli ultimi dieci anni e si sono sviluppati soprattutto nei paesi anglosassoni e introdotti in molte realtà italiane. I principali strumenti per l’identificazione del rischio sono: a) Incident reporting b) Revisione della cartella clinica e delle schede di dimisione c) segnalazione degli eventi sentinella d) esame del contenzioso e) Patient safety walkround a) Incident reporting L’incident reporting è un sistema di segnalazione spontanea, è una modalità strutturata per la raccolta di informazioni relative al verificarsi di eventi indesiderati, la segnalazione riguarda: gli eventi avversi (attività che hanno determinato un danno) i “no harm events”, vale a dire attività potenzialmente lesiva ma che non ha causato il danno e i “near misses” o quasi evento costituito da attività lesiva, interrotta prima della concretizzazione del danno. L’incident reporting non è di facile utilizzo, poiché, pur garantendo l’anonimato, incontra resistenze da parte dei professionisti sanitari chiamati a redigerlo, per il timore che la segnalazione non sia svincolata da connessi procedimenti disciplinari o segnalazioni all’autorità giudiziaria. In tal senso è opportuno precisare che il responsabile del clinical risk management, da ritenere o pubblico 211 ufficiale o incaricato del pubblico servizio, ha l’obbligo della segnalazione all’autorità giudiziaria, con riferimento alla ricezione dell’incident reporting, solo in caso di reati perseguibili di ufficio (secondo i disposti degli artt. 361 e 362 c.p. e dell’art. 331 c.p.p.): egli non deve pertanto segnalare all’autorità predetta le condotte che non hanno condotto ad un danno per la persona, né gli eventi avversi riconducibili ad errore professionale, che abbiano determinato una malattia, che in questo caso configurerebbe il reato di lesioni personali colpose, che sono perseguibili a querela di parte. L’incident reporting, oltre che per l’identificazione del rischio, è uno strumento utile anche nelle fasi di monitoraggio del processo esaminato. b) Revisioni delle cartelle cliniche e delle schede di dimissione La revisione delle documentazione clinica è una analisi retrospettiva per l’identificazione degli eventi e permette di identificare eventuali ingongruità, scostamenti dalle linee guida o dai protocolli. E’ uno strumento che viene applicato a campione che richiede per la sua realizzazione una preliminare definizione dei criteri di campionamento e degli indicatori da rilevare. E’ caratterizzato da un approccio multidisciplinare e nella sua applicazione determina un aumento della consapevolezza degli operatori sui rischi con condivisione dei requisiti formali e sostanziali della cartella clinica con conseguente cambiamento dei comportamenti. Tuttavia è limitato dalla numerosità del personale che occorre e dal tempo necessario per l’indagine oltre che dalla formazione degli operatori e dalla correttezza e completezza delle registrazioni presenti nella documentazione. Il processo di revisione della cartella può essere usato per monitorare i progressi della prevenzione degli eventi avversi, quando ad esempio si introducono processi o procedure nuove e, attraverso la revisione si valuta il livello di adozione delle stesse. 212 c) Segnalazione degli eventi sentinella Gli eventi sentinella sono eventi avversi di particolare gravità, inattesi, potenzialmente rivelatori, per quanto relativamente poco frequenti, di gravi criticità del sistema. Nel 2005, l’allora Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, aveva già attivato il monitoraggio degli eventi sentinella con l’obiettivo di realizzare, con le Regioni e le Province Autonome e con le Aziende sanitarie, una modalità condivisa di sorveglianza e gestione degli eventi sentinella. In seguito all’Intesa della Conferenza permanente rapporti Stato Regioni del 20 marzo 2008, concernente la gestione del rischio clinico e la sicurezza dei pazienti e delle cure, è stato attivato, presso il Ministero della Salute, l’Osservatorio nazionale sugli eventi sentinella attraverso il Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità (SIMES). Secondo il Protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella, elaborato dal Ministero della Salute, nel contesto dell’ Osservatorio nazionale sugli eventi sentinella è stata individuata la seguente lista di eventi sentinella: 1. procedura in paziente sbagliato; 2. procedura in parte del corpo sbagliata (lato, organo o parte); 3. errata procedura su paziente corretto; 4. strumento o altro materiale lasciato all’interno del sito chirurgico che richieda un successivo intervento o ulteriori procedure; 5. reazione trasfusionale conseguente ad incompatibilità AB0; 6. morte, coma o gravi alterazioni funzionali derivati da errori in terapia farmacologica; 7. morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto; 8. morte o disabilità permanente in neonato sano di peso >2500 g non correlata a malattia congenita; 9. morte o grave danno per caduta di paziente; 10. suicidio o tentato suicidio di paziente in ospedale; 11. violenza su paziente; 12. atti di violenza a danno di operatore; 213 13. morte o grave danno conseguente ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero); 14. morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice triage nella centrale operativa 118 e/o all’interno del pronto soccorso; 15. morte o grave danno imprevisti a seguito dell'intervento chirurgico; 16. ogni altro evento avverso che causa morte o grave danno. d) Esame del contenzioso Nelle strutture sanitarie è presente in larga percentuale una unità che gestisce il contenzioso, vale a dire l’insieme dei casi per i quali è s stata avanzata una richiesta di risarcimento per responsabilità professionale in via giudiziale o extragiudiziale o un’azione penale. E’ uno strumento che consente di identificare eventuali aree di rischio a livello aziendale utili in un contesto di mappatura delle azioni correttive da applicare. e) Patient Safety Walkround Il Safety Walkround è uno strumento caratterizzato dalla effettuazione di “giri” da parte di personale formato e con specifico mandato istituzionale effettua nelle diverse unità operative sanitarie al fine di raccogliere mediante una intervista strutturata informazioni utili a identificare situazioni di rischio o eventi occorsi o quasi eventi ma anche eventuali misure di correzione possibili o eventuali azioni di contenimento già applicate. Il personale viene quindi invitato a raccontare eventi, fattori concomitanti, fattori causali o concomitanti, problemi potenziali e possibili soluzioni. Questo strumento consente di ottenere la raccolta di informazioni utili a prevenire le circostanze che possono indurre un evento avverso, e contestualmente le soluzioni al problema con immediata modifica e miglioramento ed è contestualizzato alla sede esaminata. Il sistema proposto stimola il personale ad osservare comportamenti e pratiche con occhio critico e riconoscere i rischi da un nuovo punto di vista. L’applicazione del metodo è limitata dal timore dei 214 professionisti intervistati di essere puniti o colpevolizzati per aver effettuato la segnalazione, nonché dalla mancanza di fiducia nella applicazione di azioni correttive. E’ indispensabile che sia condivisa l’applicazione di tale metodo con chi ha il potere di decidere/garantire gli interventi correttivi individuati. 3.2 Strumenti di analisi del rischio L’analisi del rischio clinico viene effettuata mediante plurimi strumenti di anali ed è finalizzata alla identificazione delle insufficienze di sistema alla individuazione delle cause profonde che hanno determinato il verificarsi dell’evento e hanno l’obiettivo di individuare altresì possibili azioni correttive o barriere che impediscano il ripetersi dell’evento o ne abbattano la gravità del danno conseguente. La metodologia della gestione del rischio clinico prevede due tipologie di analisi: un’analisi di natura reattiva e un’analisi di natura proattiva con relativi strumenti informativi. a) Analisi reattiva: l’analisi parte da un evento avverso e ricostruisce a ritroso la sequenza di avvenimenti con lo scopo di identificare i fattori che hanno contribuito al verificarsi dell’evento (reporting system). b) Analisi proattiva: l’analisi parte dalla revisione dei processi e delle procedure esistenti, identificando nelle diverse fasi, i punti di criticità. Può essere utilizzata anche nella ideazione e progettazione di nuove procedure, di processi e di tecnologie per realizzare barriere protettive che impediscano l’errore umano/attivo. Le analisi descritte possono essere utilizzate entrambi in una struttura sanitaria in cui si ha l’intenzione di introdurre processi per la gestione del rischio. → failure mode and effect analysis (FMEA) e la failure mode and effect criticality analisys (FMECA); → Root Causs Analysis (RCA) → AUDIT 215 3.2.1 FMEA ( Fairlure Mode and Effect Analysis) e FMECA Sono metodi utilizzati per identificare la vulnerabilità dei processi con approccio proattivo al fine di individuare eventuali criticità di inefficacia, guasto o “fallimento” per individuare preventivamente i possibili errori e prevedere sistemi correttivi o contenitivi. La FMEA è un’analisi di tipo qualitativo, la FMECA anche quantitativo. La valutazione, standardizzata, è svolta da esperti nel metodo FMEA/FMECA, con la partecipazione dei professionisti sanitari direttamente coinvolti nel processo in esame. Si basa sulla analisi di un processo, eseguita da un gruppo multidisciplinare. In pratica, identificato il processo che sarà oggetto dello studio critico, il gruppo di lavoro scorpora il processo stesso nelle singole attività, individuando per ognuna i potenziali errori, la concreta rilevabilità degli stessi, la probabilità di accadimento e la gravità dei possibili danni, mediante applicazione di scale quantitative che consentono una stima del rischio e l’elaborazione di indici di priorità di azione, tenendo conto della presenza o della possibile introduzione di barriere preventive. 3.2.2. Root Cause Analysis (RCA) La RCA è uno strumento di analisi reattivo, per il miglioramento della qualità, che aiuta gli individui e le organizzazioni ad identificare le cause profonde e i fattori contribuenti che hanno condotto al verificarsi dell’evento avverso. E’ lo strumento consigliato dal Ministero per l’esame degli eventi sentinella. Consiste nello sviluppare, procedendo a ritroso, un’analisi approfondita delle “cause radice”. È applicato un approccio sistemico, volto a stabilire sia i fattori umani, tecnologici, organizzativi, relazionali che procedurali. È comunque necessaria la partecipazione al gruppo di lavoro, oltre che di un esperto, anche dei professionisti sanitari coinvolti nell’evento, essendo irrinunciabili – per l’analisi delle cause – la loro specifica esperienza e competenza. Il documento conclusivo del gruppo di lavoro contiene le informazioni raccolte, l’analisi svolta e le indicazioni per le azioni da applicare al fine di ottenere un 216 miglioramento. La RCA è una analisi retrospettiva che consente di comprendere cosa, come e perché è accaduto un evento e alla individuazione di misure correttive che ne impediscano il ripetersi. 3.2.3 AUDIT L’AUDIT clinico è un processo finalizzato al miglioramento dell’assistenza attraverso la sistematica revisione dei processi assistenziali. Nel corso di incontri di équipe (multiprofessionali e multidisciplinari) sono analizzati casi clinici o percorsi assistenziali, identificando le deviazioni dalla best practice, attraverso le seguenti fasi: scelta della materia di esame, revisione della letteratura pertinente, definizione dei criteri e degli indicatori standard, osservazione e raccolta dei dati, analisi degli stessi, confronto con gli standard di riferimento, progettazione e attuazione dei cambiamenti. L’audit clinico può rappresentare una strategia di implementazione delle linee guida o di altri tipi di evidenze o prove di efficacia. Con la revisione di pratica assistenziale i professionisti possono identificare le priorità e pianificare le azioni di miglioramento. 3.3 Il trattamento e il monitoraggio dei rischi Dopo le fasi di individuazione e di analisi dei rischi, occorre procedere, con l’utilizzo di griglie quantificative, alla loro mappatura, sulla base della probabilità di accadimento dell’evento e della prevedibile gravità del danno, identificando le aree di priorità di azione. Utilizzando le logiche del problem solving, si procede a definire le operazioni da attuare le strategie definite. Nella fase di monitoraggio si valuta il grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati mediante l’utilizzo di strumenti adeguati, secondo quanto di volta in volta ritenuto più efficace. Gli strumenti più spesso utilizzati per il monitoraggio, sono: l’incident reporting, la revisione della documentazione clinica, la FMEA/FMECA. 217 4. Il ruolo del personale sanitario non medico nella prevenzione del rischio Il processo di Aziendalizzazione del Servizio saniario nazionale richiede esplicitamente determinate capacità manageriali nella gestione dei servizi sanitari, che si manifesta esplicitamente nelle politiche orientate al miglioramento della qualità. In particolare questo aspetto si evidenzia nel processori assistenza infermieristica che rappresenta una parte fondamentale del processo di cura. Quale ruolo deve avere l’infermiere e altre figure non mediche preposte all’assistenza in un contesto sanitario in cui il miglioramento continuo della qualità dei servizi è uno degli obiettivi del sistema aziendale? L’applicazione di politiche di governo clinico finalizzate al miglioramento continuo della qualità delle prestazioni ricade nell’ottica della gestione del rischio clinico con cui garantire prestazioni sanitarie di alta qualità e in sicurezza. La gestione del rischio clinico diviene così un fondamento culturale di tutti i professionisti sanitari che mettono in atto strategie di prevenzione e rimozione dell’errore. In questo senso tutti gli operatori sanitari sono coinvolti nel processo e ne sono responsabilizzati. In questo ambito alcune figure professionali di coordinamento che hanno nelle loro competenze capacità managerali e di leadership assumono un ruolo centrale nella gestione del rischio clinico con specifiche responsabilità. 4.1 Il ruolo del coordinatore in un programma di miglioramento della qualità Il coordinatore, ha una posizione unica, di snodo, all’interno di un sistema aziendale, realizzando il passaggio dall’area tecnico-operativa all’area gestionale abbinando e confrontando le preoccupazioni di utenti e personale sanitario con quelle dell’organizzazione. 218 Al coordinatore vengono riconosciute competenze manageriali, riconducibili allo stile di leadership adottato nei confronti dei collaboratori e competenze gestionali individuate nella direzione, nella supervisione e nel coordinamento. Con direzione si intende la individuazione dei percorsi da seguire per il raggiungimento degli obiettivi, da indicare ai collaboratori e al tempo stesso verificare che gli stessi agiscano seguendo le direttive ricevute. Nell’attività di supervisione rientra il controllo del lavoro del gruppo per individuare eventuali misure di correzione dei comportamenti da apportare, magari sviluppando la competenza dei collaboratori. Per quanto riguarda il coordinamento è l’attività che consente ai membri del gruppo di lavorare insieme in maniera armoniosa e di ridurre i conflitti. Le funzioni-attività del coordinatore prevedono: o pianificazione, o gestione; o organizzazione; o direzione; o sviluppo delle risorse umane e del servizio; o valutazione e controllo. Tra le attività sopra elencate prevalgono quelle manageriali e formative, ma non è privo di significato un rilevante interesse per il rapporto con l’utente, ciascuna delle funzioni descritte può essere espressione di attività specifica nell’ambito della gestione del rischio clinico. Nel contesto di un programma di sicurezza, di miglioramento della qualità, le capacità manageriali del coordinatore saranno orientate all’adozione di un particolare stile di leadership, l’empowerment. Il termine empowerment, letteralmente “rendere potenti”, può essere tradotto con “favorire l’acquisizione del potere” o “rendere abili e capaci di”. Nel campo della scienza organizzativa empowerment significa una diffusa responsabilizzazione dei professionisti nella scelta delle modalità con le quali impostare il proprio lavoro. 219 4.2 Le azioni di “governance” del coordinatore e le sue responsabilità Il coordinatore è la persona preposta all’organizzazione dell’attività di collaboratori come infermieri, operatori di supporto all’assistenza, fisioterapisti perché conosce le loro attività, al fine del raggiungimento degli obiettivi aziendali, favorendo l’interazione la creazione di un gruppo di lavoro, assicurando informazione e partecipazione piuttosto che adottando un comportamento autoritario, incoraggiando al dialogo e al confronto in occasioni di incontro (riunioni, gruppi di lavoro, redazione di linee guida, procedure e protocolli). 4.2.1 La gestione degli eventi critici e l’adozione di strategie di correzione Il coordinatore deve essere in grado di gestire gli eventi critici riconducibili a errori attivi ma soprattutto gli errori latenti che interessano l’organizzazione e che possono essere espressione di: o eccessivo carico di lavoro; o mancanza di supervisione; o errato inserimento del personale neoassunto, o organizzazione per compiti; o mancanza di leadership; o incongrua distribuzione di tempo per le prestazioni; o inadeguatezza degli strumenti e delle apparecchiature; o formazione carente; o mancanza di comunicazione. Identificato l’errore ed effettuata l’analisi possibilmente in collaborazione con il gruppo di lavoro, adotta strategie di correzione per ridurre la probabilità che l’errore si ripeta o sia determinante di un danno di entità minore. Le misure di correzione possono prevedere pertanto la messa in atto di sistemi di supervisione o di standardizzazione di attività in modo tale di ridurre le 220 variabilità comportamentali legate alla pratica professionale con l’obiettivo di uniformare i comportamenti assistenziali utilizzando strumenti operativi che ne dimostrino l’efficacia dell’utilizzo, quali le Linee guida o i protocolli. 4.2.2 L’implementazione delle linee guida Altro ruolo di responsabilità del coordinatore è nella implementazione delle linee guida, sia in termini di responsabilità organizzative che di gestione delle risorse umane. Il coordinatore ha una sua autonomia in questa attività, riconoscendo le linee guida come il ponte ideale tra l’esercizio di una professione (la pratica) e lo stato di conoscenze acquisite da una scienza, rappresentano gli strumenti dell’efficacia clinica, prodotti dalla ricerca scientifica e costituiscono l’orientamento su cui si basa l’attività infermieristica basata sulle evidenze (EBN). Le Linee guida possono ridurre la variabilità laddove a fronte dei benefici possibili per il beneficiario delle cure si perpetuano comportamenti segnalatori di rischio o inefficaci. Non è pertanto sufficiente la distribuzione della linea guida, bensì, è necessario che queste entrino a far parte della pratica clinica e siano radicate in un sistema di cambiamento complessivo volto al miglioramento dell’assistenza. Ha responsabilità organizzative e responsabilità di gestione delle risorse umane quindi con compito di guidare le riunioni affinché si svolgano con metodo e producano risultati concreti e che prevedano anche la pianificazione nella fase di diffusione/applicazione di linee guida o protocolli, all’interno di una riunione formativa un piano di implementazione di una linea guida, utilizzando, strategie che possono facilitare l’apprendimento dei collaboratori. La fase del processo di miglioramento della qualità dell’assistenza mediante l’implementazione di una linea guida a livello locale può avere dei vantaggi: o Spinta al cambiamento dei comportamenti; o Miglioramento della performance; o Miglioramento nel lavoro di gruppo; o Miglioramento nella soddisfazione ; 221 o Miglioramento delle cure del paziente. Nonostante ciò vi possono essere delle barriere che ostacolano la realizzazione del cambiamento: o la mancanza di chiarezza sugli obiettivi, o la mancanza di risorse; o la mancanza di supporto facilitante; o un clima relazionale negativo; o la discontinuità degli assetti organizzativi aziendali. 4.2.3. La gestione dell’attività formativa Il coordinatore dispone di autonomia nella gestione delle attività formative. Una costante formazione mirata rappresenta la condizione indispensabile affinche individui e gruppi acquisiscano e perfezionino le capacità di organizzarsi, gestirsi e assumersi la responsabilità della qualità del lavoro svolto. La formazione procede per tutto l’arco della vita professionale comprendendo attività finalizzate a migliorare le abilità cliniche, tecniche e manageriali e i comportamenti degioperatori sanitari, adeguandoli al progresso scientifico e tecnologico per il raggiungimento di una migliore efficacia e appropriatezza e qualità delle cure. Diviene altresì fondamentale la formazione continua, consistente in attività specifiche per la professione sanitaria, acquisite mediante la partecipazione a corsi, congressi ecc. Possono essere utilizzate strategie che prevedono interventi formativi locali efficaci (formazione on de job) e quelli probabilmente efficaci. Gli interventi formativi efficaci possono essere realizzati con : o Visite educative; o Incontri formativi interattivi; o Interventi multipli (audit e feedbak, processi di consenso locale) Gli interventi formativi probabilmente efficaci possono essere realizzati con : 222 o Audit e feedbak; o Uso di opinion leader locali; o Processi di consenso locali. È inevitabile che una attività formativa sarà efficace se l’infermiere coordinatore utilizzerà in modo efficiente le risorse a disposizione. È necessario per il personale sanitario progettare gli interventi sulla base della formazione permanente perchè con questo metodo l’apprendimento è più efficace se si parte da problemi concreti e se viene riconosciuta l’utilità del percorso formativo rispetto al proprio contesto. Resta valido quanto affermato dall’epidemiologo A. Cochrane che scrisse nel 1978: “si dovrebbe considerare inefficace ogni nuovo trattamento, fino a che non si possa provare il contrario”, è pertanto doveroso, nelle fasi di progettazione, prevedere l’adozione di sistemi di monitoraggio o di verifica dell’apprendimento o di rilevazione del cambiamento in conseguenza sia dell’attività formativa effettuata. 4.2.4 Gestione e sviluppo delle competenze degli operatori Si ritiene che all’interno delle capacità della gestione delle risorse umane rientri nelle competenze del coordinatore la valutazione, l’identificazione e lo sviluppo delle competenze del personale afferente al suo gruppo di lavoro. All’interno delle organizzazioni è sempre più centrale l’uso delle risorse umane ed è necessario precisarne la valenza operativa e individuarne i tratti che possano caratterizzare soluzioni tecniche e gestionali congruenti. Le competenze non sono un dato di natura, ma l’esito di un processo di apprendimento continuamente mutevole. Le competenze devono essere scoperte, stimolate, indirizzate, conservate e difese dall’obsolescenza. Un’altra componente fondamentale sia in senso tecnico-giuridico, ma anche nel senso psicologico-organizzativo, è la relazione. Le imprese devono imparare a gestire una pluralità di relazioni con le risorse umane e quindi con le 223 competenze. Oltre al tipo di relazione è fondamentale anche la qualità della relazione. La misura delle competenze non può prescindere da quest’ultima, infatti una elevata qualità della relazione, tramite lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse, può sopperire ad un meno elevato livello di competenze individuali, conferendo così all’insieme dell’impresa o sistema o gruppo, una notevole competenza. Per contro un’elevata competenza individuale associata ad una relazione debole, dà luogo ad una scadente competenza aziendale. La gestione delle relazioni (es. empowerment, commitment, ecc.), è il campo nuovo e tutto da esplorare nella gestione delle risorse umane. La valorizzazione della prestazione, sia nella sua espressione monetaria che psicologica, è un altro elemento importante nella gestione e organizzazione delle imprese. Per competenza individuale si intende la capacità di azione che gli individui utilizzano per far fronte alle diverse situazioni che caratterizzano le loro attività lavorative. Il ruolo dell’uomo nell’organizzazione è cambiato: agli individui non è più richiesto un contributo fisico, da “prestatori d’opera”, ma una capacità culturale, intellettuale e professionale qualificata, da “prestatori d’intelligenza”, tale da favorire un comportamento innovativo e maggiormente flessibile delle imprese di appartenenza. In questo contesto le competenze degli individui all’interno delle organizzazioni diventano sempre più uno dei principali fattori competitivi, influenzando in modo diretto e determinante le prestazioni aziendali. Il legame tra competenze individuali e prestazioni è particolarmente critico per le imprese ad alta intensità di conoscenza, che utilizzano conoscenze altamente specializzate quali input dei propri processi di produzione o erogazione, quali appunto quelle sanitarie. Per questo tipo di imprese le prestazioni ed il vantaggio competitivo sono legati strettamente al livello di conoscenza e di competenza delle persone che ne presidiano le attività. 224 Il miglioramento delle prestazioni aziendali è legato alle capacità del management di sviluppare metodi di gestione del personale in grado di rispecchiare le peculiarità delle risorse umane utilizzate. Un problema aperto, sia sul piano teorico che su quello operativo è quello del legame tra competenze distintive, cioè le competenze a livello organizzativo e competenze individuali. Studiando il complesso rapporto tra azione organizzativa ed azione individuale, si è evidenziato che queste due azioni sono costruite insieme. Le competenze individuali cioè, non hanno senso come qualità intrinseche degli individui, ma sono proprietà della relazione che si stabilisce tra organizzazione ed individuo, sono le capacità d’azione che gli individui attivano per far fronte alle diverse situazioni. Al contempo le competenze distintive di un’organizzazione, intese come capacità di impiegare congiuntamente risorse e processi organizzativi per ottenere elevate prestazioni aziendali, sono strettamente legate alle competenze dei singoli individui presenti nell’organizzazione. Studi pubblicati hanno descritto le capacità d’azione individuali raggruppandole nelle seguenti quattro classi: (I) capacità professionali: che comprendono l’insieme di capacità e conoscenze su cui l’individuo esercita un pieno controllo, come ad esempio le capacità tecniche, e che gli permettono di raggiungere gli obiettivi dell’azienda; (II) capacità relazionali: che comprendono l’insieme di capacità sulle quali l’individuo fa leva per attivare capacità e risorse possedute da altri; (III) capacità organizzative: che comprendono l’insieme di capacità che l’individuo attiva e che gli consentono di utilizzare al meglio le risorse messe a disposizione dall’organizzazione, al fine di ottimizzare la relazione fra queste e i risultati; (IV) capacità personali: che comprendono l’insieme di capacità che consentono all’individuo di avere un comportamento adeguato in presenza di situazioni difficili e complesse. 225 Secondo l’approccio tradizionale, che ha fortemente condizionato l’impostazione, lo sviluppo e l’applicazione di sistemi e procedure per la valutazione del personale, le competenze individuali equivalgono alle capacità richieste all’individuo dalla posizione che egli ricopre all’interno dell’organizzazione. Tale approccio presenta evidenti limiti quando il contesto ambientale dell’organizzazione è soggetto a rapidi e imprevisti mutamenti. In tali condizioni infatti diventano mutevoli ed imprevedibili le situazioni che i singoli individui si trovano a dover affrontare, e vengono a cadere i presupposti di predefinibilità e prescrittività delle azioni individuali. I limiti dell’approccio basato sul legame biunivoco posizione/competenza diventano particolarmente evidenti nel caso delle attività ad alta intensità di conoscenza. Un superamento di tali limiti si ha con l’approccio situazionale che prende maggiormente in considerazione, rispetto all’approccio basato sulle posizioni, l’imprevedibilità e la variabilità che caratterizzano le condizioni entro cui si svolge l’attività di un individuo. Secondo l’approccio situazionale quindi, le competenze individuali sono definite come le capacità di un individuo di attivare risorse proprie e dell’organizzazione per fronteggiare con successo le diverse situazioni in cui egli è coinvolto. In questo senso si può dedurre che per rendere operativo e misurabile all’interno delle organizzazioni tale concetto, occorre soffermarsi sugli aspetti metodologici per la rilevazione delle competenze individuali, e tale processo di descrizione delle competenze è quindi intrinsecamente legato al processo di valutazione delle competenze. Un sistema di management delle competenze dovrebbe prevedere la gestione e lo sviluppo delle competenze disponibili in sintonia con le scelte aziendali seguendo fasi strategiche quali: la definizione delle competenze necessarie tecnico-professionali (es. problem solving),organizzative (pianificazione delle attività, gestione degli imprevisti) e relazionali; la definizione delle competenze già esistenti mediante la rilevazione con sistemi di indicatori predisposti; il 226 confronto tra le due fasi precedenti, vale a dire il teorico e l’esistente; la definizione di scelte strategiche aziendali di investimento (formazione con corsi); adozione di un sistema premiante con il riconoscimento delle competenze acquisite e infine la diffusione delle competenze e la fissazione delle stesse mediante stesura di protocolli, procedure. Esiste un forte interesse da parte del management aziendale verso la ricerca di approcci metodologici che, attraverso la ricognizione e visualizzazione delle competenze, consentano di riprogettare gli strumenti di gestione del personale per renderli più adeguati agli orientamenti strategici ed alle peculiarità delle risorse umane. Purtroppo il concetto di competenza è ancora qualcosa di non operativo per la carenza di metodologie per identificare, rappresentare, misurare le competenze e, di conseguenza, costruire intorno ad esse nuove modalità di gestione. Tra i motivi che rendono particolarmente difficile tale cambiamento, c’è sicuramente il fatto che l’approccio basato sulle posizioni di lavoro è stato sperimentato nel corso di anni e anni di applicazioni, ed ha dato luogo ad una serie di modalità di gestione organizzativa (analisi delle mansioni, analisi delle posizioni, sistemi di valutazione delle prestazioni, ecc.) che, pur se messi in crisi, sono di facile utilizzo nelle aziende. Diversamente, per il concetto di competenze, è minore l’esperienza di valutazioni e reclutamenti in base alle competenze individuali. Forse poiché se ne teme la validità, l’imparzialità nelle decisioni o l’efficacia dei costi. Gli attuali sistemi di valutazione delle prestazioni certamente si basano sull’oggettività, sul visibile, sul concreto, ma l’installazione di un sistema di selezione basato sulle competenze potrebbe essere il primo passo per un controllo di qualità e un miglioramento della stessa che potrebbe portare all’eccellenza. 227 5. La gestione del rischio clinico è un sistema di de-responsabilizzazione? Vi è la possibilità che la nuova prospettiva, legata alla gestione del rischio clinico, che sottolinea il rilievo causale delle carenze organizzative – magari diffuse, magari di scarso rilievo, se considerate isolatamente, ma tali da indurre eventi dannosi quando i loro effetti negativi si concretizzano nello stesso caso, simultaneamente o in successione – conduca alla deresponsabilizzazione del singolo professionista, il quale può tendere ad attribuire ogni responsabilità, genericamente, alla cattiva organizzazione. Si ritiene tuttavia che questa analisi sia solo espressione di un approccio superficiale e che in realtà non tenga conto di tutte i nuovi e integrativi aspetti di responsabilità emersi e descritti nei paragrafi precedenti che sembrano condurre ad una nuova forma di responsabilità, vale a dire quella di partecipare attivamente al processo di gestione del rischio clinico, inteso come processo di crescita personale, di condivisione di principi ed obiettivi e di adesione ed attuazione dei mezzi con cui si realizza. Alcune figure professionali come quella del coordinatore, (infermieristico, ostetrico, fisioterapista), nel loro ruolo e competenza, per garantire la qualità dell’assistenza e del servizio erogato, in una strategia dichiarata di miglioramento della qualità dell’assistenza erogata, delineano nuovi ruoli professionali gravati da crescenti e specifiche responsabilità. È fondamentale la caratteristica culturale del team clinico e del contesto organizzativo; cultura della sicurezza, cultura dell’errore, cultura della documentazione clinica e cultura interdisciplinare sono gli ingredienti per realizzare, nei diversi contesti, percorsi strutturali ed efficaci di gestione del rischio clinico. Ogni livello formativo di base, postbase, permanente ha il dovere di curare maggiormente rispetto al passato la cultura della sicurezza, permettendo la creazione di una forma mentis diffusa, idonea alla gestione del rischio clinico. “Errare è umano” ma sempre più si è visto che sono disponibili strumenti per ridurre il rischio di errore, la responsabilizzazione residua per ciascun operatore sanitario ricade nel dovere di attivarsi ad applicare sistemi e percorsi 228 già strutturati di gestione del rischio o di identificare eventuali strategie di correzione a partire da ogni singolo operatore. Alcune figure di coordinamento avranno inoltre l’onere di agire da formatore e facilitatore non solo nella parte tecnica ma anche relazionale, per favorire e facilitare la comunicazione tra le varie figure per ridurre eventuali rischi di errore clinico correlati alla comunicazione. Una “buona gestione” delle risorse umane, è determinante ai fini della definizione del livello di qualità, dell’assistenza in generale e dell’assistenza infermieristica da garantire. La gestione delle risorse umane si riflette trasversalmente e significativamente, su tutte le dimensioni che concorrono a caratterizzare la qualità: efficacia (attesa e pratica), competenza, efficienza, umanizzazione e sicurezza. 229 CONCLUSIONI Il materiale preso in considerazione e discusso nella tesi porta a ricostruire uno scenario complesso. Complesso soprattutto perché l’affermazione della responsabilità del professionista sanitario, ampiamente dichiarata nelle fonti di riferimento, ha talora mostrato aspetti contraddittori nella proiezione applicativa giudiziaria. Non vi è dubbio che sussista una straordinaria coerenza fra norme giuridiche che regolano l’esercizio delle singole professioni e norme deontologiche corrispondenti. Nessun dubbio neppure circa il fatto che il richiamo etico alla responsabilità come impegno nei confronti della persona trovi nelle norme appena citate congrua applicazione negli aspetti clinico-applicativi. La complessità non riguarda dunque la stesura delle norme scritte – sia pure con proiezioni diversificate – né la riflessione su quelle non scritte, né i rispettivi rapporti reciproci, ancorché le previsioni testuali – a parità di argomento – non siano sempre perfettamente sovrapponibili. La complessità riguarda piuttosto la percezione (almeno nei primi tempi) da parte del contesto sociale – di cui è espressione la giurisprudenza esaminata – di questo corale – nelle norme – richiamo alla responsabilità. E la reiterata dichiarazione, nelle norme appunto, della responsabilità altro non è se non il riconoscimento di una competenza maturata negli anni con l’evoluzione scientifica dei fondamenti delle varie professioni; non si tratta certo di una sorta di imposizione alla responsabilità proveniente dall’alto (cioè da parte dell’estensore delle norme) a prescindere dalla consapevolezza del professionista. È ormai pacifico che il dettato normativo, considerato in sé, non pone dubbi: i vari testi sono estremamente chiari nel loro richiamo alla responsabilità dei professionisti sanitari considerati sia globalmente sia singolarmente. 230 La lettura che la giurisprudenza propone della norma è invece non coerente con il dato testuale, talora proponendo dubbi, talvolta ignorando i riferimenti normativi più recenti e quindi sembrando non voler accogliere gli spunti innovativi, che invece non possono non essere accolti. Siamo di fronte ad una lentezza da parte degli organi giudicanti ad accogliere le innovazioni o ad una non accettazione di queste innovazioni? Il rischio, qualunque sia l’interpretazione corretta, è che le regole nuove restino lettera morta sulla carta. Il che non solo può essere alla base di un assurdo conflitto fra norme di riferimento e loro valutazione in ambito processuale, ma anche determina una incertezza nell’agire professionale di ogni giorno, perché chi opera avrà il timore che la norma potrà essere disattesa in un eventuale giudizio. Il professionista sanitario, in altre parole, aderirà al principio della sua responsabilità, dichiarato a lettere di fuoco dalla norma giuridica, deontologica ed etica o si adeguerà ad una condotta supina, piegata al principio che la responsabilità resta comunque sempre del medico, come talune sentenze tendono ad indicare? E il medico, consapevole della responsabilità dell’infermiere, potrà discostarsi dalla norma per attuare un controllo non dovuto nei confronti dell’infermiere, sottraendo tempo e competenza alle funzioni che gli sono proprie? Invero, nelle sentenze considerate si nota una crescente attribuzione di responsabilità sia all'infermiere sia alle altre figure professionali considerate, anche se – in particolare per l'infermiere – sembra che questa assunzione di responsabilità sia delineata con maggior fermezza se supportata anche da protocolli o procedure aziendali. Appare comunque, per quanto riguarda il tema “caldo” della somministrazione di farmaci, che sia accolto il principio che sia responsabilità dell’infermiere di “garantire” la corretta somministrazione e che egli non possa limitarsi alla somministrazione come mero esecutore materiale, 231 dovendo piuttosto procedere alla autonoma attuale valutazione delle condizioni cliniche, anamnestiche ed attuali del paziente. Medesima progressione nell’approccio viene riservato all'ostetrica alla quale è pienamente riconosciuta l'autonomia nella gestione del parto in situazioni fisiologiche, non solo nella parte esecutiva ma anche valutativa e di interpretazione, con riferimento, per esempio, ai tracciati cardiotocografici o alla capacità di rilevare situazioni potenzialmente patologiche (che richiedano la tempestiva richiesta di intervento medico). Anche al fisioterapista la giurisprudenza è giunta progressivamente a riconoscere responsabilità in coerenza con quanto previsto dalla normativa attuale, postulando il dovere di accertarsi delle condizioni cliniche del paziente, indipendentemente dal contenuto della prescrizione medica. Il fisioterapista non è un mero prestatore di opera, ma deve nella sua attività acquisire elementi valutativi utili nella presa in carico del paziente per assumersi pienamente le responsabilità della sua opera. In numerose sentenze emergono problematiche di tipo organizzativo, le quali, oggi, almeno in parte, troverebbero soluzione applicando le indicazioni specifiche nelle raccomandazioni ministeriali. In questa logica di imparare dall'errore e di analisi e riduzione dei rischi nelle aziende sono stati incrementati sistemi di gestione del rischio clinico. Le difficoltà prevalenti nella realizzazione di tali attività sono emerse dalla difficoltà del personale sanitario, per anni esposto a richieste di risarcimento o di denunce penali, di affrontare l'errore non come momento di ricerca del colpevole, ma come momento di crescita e miglioramento della qualità delle prestazioni. La formazione in tal senso diventa pertanto primum movens di tale cambiamento culturale, seguito dalla acquisizione di nuove competenze e abilità nella gestione della organizzazione, delle risorse, della tecnologia. In questa logica, su tutti i professionisti sanitari grava la nuova responsabilità di attivarsi nella applicazione di strumenti finalizzati alla identificazione, analisi e 232 prevenzione del rischio, in accordo con quanto previsto dalle politiche aziendali; è possibile indicare che sono in corso di sviluppo, per alcune figure di coordinamento infermieristico, ostetrico o fisioterapico, nuove competenze con conseguenti nuove responsabilità di pianificazione, di gestione, organizzazione, direzione e sviluppo delle risorse umane e di formazione. In questa ottica, solo una visione superficiale della applicazione delle politiche di gestione del rischio clinico può condurre ad una deresponsabilizzazione del professionista che può tendere ad attribuire ogni responsabilità genericamente alla cattiva organizzazione, mentre si vanno via via delineando nuovi ambiti di responsabilità di professionisti sanitari, chiamati sempre più spesso a partecipare ad iniziative volte a comprimere il rischio clinico. 233 BIBLIOGRAFIA La bibliografia di riferimento viene suddivisa per capitoli. I capitoli 1, 2, 4 vengono raggruppati perché spesso inerenti più argomenti dei capitoli richiamati. CAPITOLI 1, 2, 4 1. AA.VV., La competenza professionale, in Foglio Notizie, 1999, 8 ss. 2. AA.VV., Guida all’esercizio della professione di ostetrica/o, Torino, C.G. Medico Scientifiche, 2002. 3. F. AMBROSETTI, M. PICCINELLI, R. PICCINELLI, La responsabilità nel lavoro sanitario d’equipe. Profili penali e civili, Torino, Utet, 2003 4. F. 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