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Raffaele Capuozzo Mi chiamo Raffaele Capuozzo, sono nato a Milano il 24 maggio 1924. Ancora oggi non so perché sono stato arrestato, ma penso comunque che la causa sia stata… Come dire… Si pensava che io appartenessi al primo Comitato di Liberazione di Verona, mentre non era vero. Io non c’entravo niente. I miei guai risalgono al 1943… Accompagnavo a Verona l’avvocato Carlo Caldera e l’avvocato Antonio Alberti, che erano residenti sul lago, insieme a mio padre, che era funzionario di pubblica sicurezza. Li portavo a Verona alla mattina – io guidavo una 1100 con le bombole di metano – e li riprendevo alla sera: l’appuntamento era per tutti alle ore 17.00, vicino l’arena in Via Mazzini, di fronte al famoso Bar Cillario, bar frequentato dalla Verona bene, dai fascisti, dai capi, lì si caricava e si tornava a Pacengo. Senza saperlo, io trasportavo i fondatori del primo Comitato di Liberazione di Verona, che era composto anche dall’avvocato Tommasi e dal conte Tedeschini, ma ho saputo tutto questo solo in seguito. Quando è stato scoperto il primo Comitato di Liberazione, di cui facevano parte le persone che ho nominato, io non ne sapevo niente. Mi presero tre soldati della SS e mi portarono in Corso Vittorio Emanuele, al Palazzo INA, che, in quel periodo, era sede del comando delle SS in Italia, sotto il generale Huster. All’entrata, erano circa in quindici o in sedici e, chi con un pugno chi con una sberla, mi hanno portato giù nel cortile, dove c’erano i garage. In questi garage c’erano le celle… Entrai in una cella e trovai un personaggio che si chiamava Luca Borgoncini, un ex colonnello dell’esercito e comandante della scuola di Modena, penso facesse parte del famoso… Faceva parte dei servizi segreti dell’esercito. Era un uomo meraviglioso, che con il tempo ho conosciuto molto bene: questo signore era il cugino del famoso monsignor Borgoncini, nunzio apostolico firmatario del famoso patto del Laterano. “Come ti chiami?”… Il solito discorso. “Cosa hai fatto?”, io dico: “Non lo so, io non ho fatto niente”. Durante la mia prigionia ho incontrato anche un certo Saverio Polito, questore di Roma, che arrestò poi Mussolini. Gli facevo le iniezioni perché lui soffriva di sciatica e aveva una scatoletta con una siringa di vetro… Sono stato arrestato a Verona perché ero fuggito lì da Bolzano, dopo l’8 settembre… Il primo bombardamento che subì Bolzano fu il 3 settembre del ‘43, se non sbaglio. Quel giorno, ero stato a Trento la mattina e stavo rientrando a Bolzano – ero partito da Bolzano per una visita medica agli occhi – quando, verso mezzogiorno suonarono le sirene, ci fecero scendere dal treno e scappammo vicino al ponte San Lorenzo, che fu poi distrutto. Al pomeriggio, quando ripresero a viaggiare i treni, cercai di rientrare a Bolzano… Arrivammo ad Ora, dove però non si poteva proseguire, così mi misi sulla strada nazionale. Fortuna volle che in quel momento stesse passando Attilio Rossi – proprietario di Palazzo Rossi di Piazza Mazzini, dove oggi c’è la sede della Rai, e di una conceria a Bolzano – il quale, incontrandomi, mi disse: “Ciao Lele, cosa ci fai tu qui?”, “Devo rientrare a Bolzano”. Mi fece salire sulla sua Aprilia e mi portò fino a Bolzano, proprio in Piazza Mazzini. Andai a piedi fino alla caserma del IV genio, di cui facevo parte. Venne l’8 settembre e i tedeschi occuparono la caserma con un carro armato. Cercammo di scappare sul Guncina, ma dal monte – da quelle due casette che si vedono da lì – ci lanciavano valanghe di sassi per evitare che noi salissimo su, perché chi abitava sul Guncina sapeva che eravamo tutti militari in fuga. Fummo costretti così a tornare nel cortile della caserma, dove ci incolonnarono e ci portarono nel fiume Talvera. Quella stessa notte, si seppe che il famoso Alessandro Gloria, comandante della IV armata, era stata preso sulla strada dello Stelvio che andava in Svizzera. Nessuno sapeva niente, non sapevamo cosa fare. Gli unici a salvarsi e a non essere arrestati furono un certo Priamo Menegazzi di Verona e il farmacista turco Ilia San Fermo, perché non avevano la divisa, siccome erano stati richiamati da poco ed erano ancora in borghese, e uscirono come semplici cittadini e se ne andarono ognuno per conto proprio. Questo è quanto è accaduto l’8 settembre a Bolzano. Siamo stati tre giorni nel Talvera... Ebbi la fortuna di uscire dal fiume grazie ad una crocerossina, che mi disse: “Dì che hai l’angina”. Vennero e mi portarono fuori, ma il capo disse: “Perché viene fuori questo?”, “Ha l’angina”. Per i tedeschi, angina significava malattia infettiva, così mi portarono subito all’ospedale civile di Bolzano. In quei due, tre giorni che rimasi nell’ospedale di Bolzano, si seppe che sarebbe venuto l’esercito tedesco, i poliziotti... Volevano fare un controllo, perché sospettavano che non tutti fossero veramente ammalati. Un certo professor Casanova, un primario, mi diede un paio di pantaloni e una camicia e riuscii a scappare. Sono arrivato a Verona durante il coprifuoco, ho aspettato la mattina. Alla mattina presto sono andato a casa. Poi sono riuscito ad avere un documento che mi esentava di essere, diciamo così, reclutato per i lavori durante i bombardamenti Avevo una tessera del GBA, una cosa del genere, non mi ricordo, era un’organizzazione di lavoratori tedesca, una roba del genere, non me lo ricordo, nonostante io abbia la moglie tedesca, non parlo il tedesco… Poi, successe quel che successe: mi arrestarono l’11 maggio alle cinque e mezzo della sera, mi portarono al Palazzo INA, dove rimasi tre mesi… Passavano regolarmente a interrogarmi, perché non erano convinti, non si rendevano conto che io non sapevo niente, mi chiedevano chi appartenesse al primo Comitato di Liberazione… Io, in quel momento, sapevo solo che esisteva solo il rosso e il nero, io ero fascista… Io proprio non ne sapevo niente. Chi mi spiegò un po’ di comunismo fu il famoso Roveda, primo sindaco di Torino, per causa sua morirono tre ragazzi veronesi… Incontrai Roveda nelle celle del Palazzo INA, dove venne rinchiuso prima di essere portato al Carcere degli Scalzi, dove poi fu liberato dai famosi Preto e Fava… Poverini, tutti morti… Allora chi comandava i partigiani era il famoso Miro, che lottava per la liberazione. Questi erano i veri partigiani: Silva, Miro… Io non facevo parte di questo gruppo perché sinceramente non mi andava di fare l’eroe. Eroi sono stati altri, che hanno subito tutto ciò che ho subito io, ma loro almeno avevano un motivo. Io invece non sapevo trovare una giustificazione a tutto quello. Dopo tre mesi passati al Palazzo INA, una notte, alle undici di sera, ci portarono alla stazione di Porta Nuova, ci caricarono su un carro, su un carro ferroviario. Questo avvenne tra la fine di settembre e i primi di ottobre. Dentro questo carro ferroviario, eravamo circa una sessantina. Con me c’era un certo Renato Bianco, di Fiene, un certo Giuseppe Zampieri, detto il paia, c’era poi Don Berselli, arciprete di Soave, e il dottor Garriba, pretore di Soave. C’era anche un altro prete mantovano, persona squisita. Ci portarono a Bolzano, rimanemmo sul vagone sino al mattino, poi ci scaricarono e, su un camion, ci portarono al campo di concentramento. A Bolzano non mi hanno dato nessuna matricola, avevano le matricole quelli destinati a rimanere lì, perché Bolzano… Diciamoci le cose una volta per tutte, perché ognuno dice la sua. Bolzano non era un vero campo di concentramento, perché non c’erano tutte quelle leggi o proibizioni che normalmente ci sono nei campi, come poi ho visto io. Bolzano era un campo di transito, era una tappa, non c’era niente, perché non c’erano divise a righe e gli unici cui davano delle tute erano quelli che andavano a lavorare nelle cave. A Bolzano ho trovato degli amici che erano passati dalle celle di Corso Vittorio Emanuele, per esempio un certo Gianni Ferraiolo, che era stato paracadutato dagli americani come spia. Là conobbi, o meglio eravamo assieme, cioè mangiavamo assieme il rancio che ci davano, il comandante della corazzata Littoria – quella famosa corazzata, di cui tutti parlavano, che era rimasta bloccata a Taranto o a Brindisi, non ricordo bene dove –, era un ammiraglio, una persona squisita, era piccoletto ma riconoscevi in lui un ammiraglio. Si parlava del più e del meno, di quanto sarebbe durata la guerra… Così, tanto per dire… Le notizie che arrivavano erano tutte frammentarie, non c’era una comunicazione diretta, c’era qualcuno che andando a lavorare magari sentiva il cittadino, poi veniva: “Ho sentito, non ho sentito…”. Ognuno comunque faceva le sue supposizioni, ma io, a quell’età, a vent’anni, avevo ben poche supposizioni da fare, ascoltavo, anche perché non avevo altro da fare. Adesso non posso dire quanti giorni, non ricordo quanto siamo stati là… Ad un certo punto, ci portarono in stazione, ci caricarono di nuovo su dei vagoni. Eravamo più di trenta, eravamo anche settanta per vagone. Mi ricordo il freddo… Ci hanno lasciato tutta una notte a Bolzano prima di partire, si vede che aspettavano altre tradotte. Arrivammo a Monaco, cioè a Dachau. A Dachau ricevetti il mio primo numero di matricola. Era, dunque, centotredicimila… In italiano non me lo ricordo, però è documentato. Devo studiarlo per dirlo in italiano, perché lo sentivo sempre in tedesco e l’avevo memorizzato in tedesco. Quando arrivammo a Dachau c’era l’adunata: quel giorno arrivavano gruppi dall’Italia, dalla Francia, dalla Jugoslavia ed eravamo circa un tre, quattromila nel piazzale. C’era un’infinità di italiani. Dietro i reticolati, dietro le reti metalliche: “Ciao, sei italiano?”. Ne abbiamo sentiti un’infinità, ma poi dopo i contatti venivano interrotti perché ognuno… Con me c’era anche Ruggero Ienna, l’avvocato Ruggero Ienna, che era stato deportato perché era stato discriminato da Mussolini come ebreo, qualcuno lo voleva eliminare… Viveva a Bosco Chiesa Nuova dove c’erano il famoso Bocchini, Senise, le donne belle di Verona aggregate alla Repubblica Sociale di Salò… Eravamo tutti nel piazzale con i nostri abiti borghesi, ci misero in fila, ci spogliarono completamente nudi e ci tolsero orologi, anelli – io avevo un anello – e collanine, tutto… Ci misero in fila per andare alla disinfezione. Durante la disinfezione, dei prigionieri, che erano arrivati prima di noi… Uno con la macchinetta ci pelava dappertutto: testa, sotto, dappertutto. Più avanti c’era un altro con un sacchetto di sapone in polvere: ce ne dava una manciata, entravamo in questi stanzoni enormi dove c’erano dei tubi da cui usciva dell’acqua e facevamo la nostra doccia. All’uscita della doccia c’erano dei tavoloni enormi con sopra pantaloni, giacche e zoccoli olandesi. Ognuno si prendeva una giacca, un pantalone. Le mutande non si usavano, le canottiere non c’erano. Infine ci diedero da appendere un triangolo con scritto il numero di matricola, che era centotredici e rotti. Poi adunata tutti in divisa… Quello che mi fece più impressione è che, durante questa adunata, cioè questo inquadramento che aveva lo scopo di distribuirci nei vari blocchi, venne il capo Lager con l’elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Ha iniziato ad urlare in tedesco – non so cosa dicesse – e a sferrargli dei pugni sulla faccia. Questo capitano – sarà stato un metro e cinquantacinque – non si è mai mosso, è rimasto sull’attenti imperterrito, come se gli avessero dato delle carezze. Per un momento ebbe un mancamento, stava per cadere, ma si riebbe e ritornò nei ranghi, nella fila. Ci distribuirono nei blocchi: io ero al blocco 24, dove c’era anche Don Berselli, Don Aldrighetti, il giudice Garriba e altri veronesi… Quando sono poi partito per Buchenwald, non ho più saputo niente di loro, sono rimasti là. Credo che Don Aldrighetti e Don Berselli siano sopravvissuti e siano tornati in Italia, mentre il povero Garriba morì nel campo di Dachau. C’era anche Renato Bianco, ma lui venne con me a Buchenwald. A Dachau sono rimasto sempre nello stesso blocco, nel blocco 24, dove tra l’altro morì la famosa principessa di Bulgaria, Mafalda. In realtà quando arrivai io, era già morta. Si diceva anche che in quel campo lì, non so però in quale blocco, c’era anche il figlio di Stalin, ma noi non lo abbiamo mai visto. Pare ci fosse anche la famosa Ilse Kock, che era l’amante del comandante del campo. Si racconta che questa iena avesse la mania dei tatuaggi: quando vedeva un deportato con una bella schiena piena di tatuaggi, lei lo segnalava ai Kapò, i quali, quando questo moriva o veniva ammazzato, con la sua pelle le confezionavano delle abatjour. Ripeto, questo si diceva, ma io non l’ho visto. Ogni giorno, alla mattina alle sei, che ci fosse bel tempo o piovesse, ci mettevano in fila tra due baracche, tra l’ingresso della 24 e il retro della 23, stavamo tutti in fila, magari sotto l’acqua, ad aspettare che venissero a contarci. Quando arrivava il capo, ci gridava di toglierci il cappello, poi… Poi ci lasciavano sotto l’acqua. Per scaldarci ci ammassavamo e continuavamo a girare su noi stessi, in modo che ogni dieci minuti si ve niva fuori, poi si rientrava e ci si riscaldava… Molte volte capitava che alla mattina mancasse qualcuno… Quelli che mancavano, solitamente erano morti. Allora facevano il controllo e il capo baracca – avevamo anche un capo camerata – diceva: “Ce ne sono uno o due morti dentro”. La baracca non era una singola baracca, era… Era costituita da due camerate unite, ognuna aveva il suo ingresso, c’era una camerata a destra e una a sinistra, in mezzo dormiva il capo baracca. Nelle baracche c’erano castelletti da tre: quando siamo arrivati, ognuno aveva il proprio posto, ma ad un certo punto siamo arrivati ad occupare due posti in sei… Forse era anche meglio, perché non avendo da coprirci stavamo stretti e potevamo scaldarci. C’erano solo i lettini, nient’altro. Niente. Non era mica il Grand Hotel lì! Parliamo di Dachau. Non c’erano armadietti, si dormiva col vestito che avevamo addosso, perché il pigiama non l’hanno mai dato. Nella baracca dov’ero io, nel mio castelletto, in basso c’era Don Aldrighetti, su di sopra c’era Don Berselli, a fianco c’era Garriba, poi c’ero io, con Renato Bianco. Renato Bianco non sapeva più come mettersi, perché sporgeva coi piedi di quaranta centimetri fuori dal lettino, e ogni volta che passavano gli davano delle botte. Eravamo abbracciati come due amanti, per stare caldi, era l’unica… Renato è stato poi la mia salvezza, quando ci portarono a Buchenwald. Lavoravamo nella fabbrica di Hernest Henkel, dove facevamo le carlinghe degli aerei, e Renato Bianco, che era stato destinato alle cucine, la sera, quando finiva di dar mangiare ai soldati tedeschi, ci portava dei cartocci magari con delle bucce di patata. Ho lavorato anche quando ero Dachau. Ci hanno portato tre, quattro volte a Monaco, durante i bombardamenti: andavamo a togliere le macerie dalla ferrovia. A volte ci portavano a fare la pulizia del campo, con la carriola, sempre scortati dal Lager Polizei, che non era un prigioniero politico o un prigioniero militare… All’interno del Lager c’erano anche dei deportati che non erano politici, ma militari, cioè prigionieri di guerra. Dopo la faccenda di Badoglio, a sfregio ci fecero la Lagerstrasse, quella famosa riga al centro della testa. E’ stato dopo il tradimento di Badoglio che ci fecero questa striscia, larga due centimetri, dove eravamo proprio rasati a zero, mentre sul resto della testa c’era un po’ di peluria. Sembravano dei rospi. Questo però l’avevano fatto solo agli italiani, per la faccenda di Badoglio. I Kapò erano tedeschi, erano delinquenti: ladri, contrabbandieri, rapinatori, insomma reati comuni, non avevano… Anziché condannarli a cinque anni di carcere, facevano fare loro due anni e mezzo in un campo di concentramento come Kapò. Vestivano borghese e avevano solo una fascia nera con una K bianca. Ogni tanto arrivava l’aereo della Croce Rossa: erano come piccole cicogne, che arrivavano a fare dei controlli. Le famose camere a gas, per me non erano altro che camere di disinfezione: anziché far uscire l’acqua, facevano uscire il vapore. E lì, su cinquecento che erano dentro, per la debolezza, quindici, venti ci lasciavano la pelle, perché chiudevano da una parte e si doveva uscire dall’altra… Normalmente a lavorare alle caldaie c’erano i russi. Quando moriva qualcuno, la Croce Rossa interveniva per accertare le cause di questi decessi. Allora i tedeschi impiccavano gli addetti alle caldaie. Nessuno però sapeva il perché… Sabotaggio, e loro li ammazzavano. Quando venivano questi funzionari svizzeri, la Croce Rossa, come una cicogna, atterrava nel campo, non è che andava all’aeroporto, atterrava lì, perché il piazzale dove avvenivano le adunate era enorme. Veniva giù un signore con gli occhiali, faceva i controlli, poi se ne andava. Io, più di una volta, li ho visti, mentre ero di servizio di pulizia, facevo lo scopino, cioè pulivo il campo con la carriola e con la ramazza in mano. Quando qualcuno moriva, i corpi di questi morti venivano portati al crematorio. I forni, i famosi forni, erano vicino ad una grossa baracca, grossa come una stalla, piena di paglia. Quando uno non ce la faceva più e stava per morire, veniva portato a dormire in questo baraccone; era tranquillo, perché non lavorava più, passava anche uno a dargli un mestolo di brodaglia. Quando poi moriva, veniva messo su un carrello e portato direttamente ai forni. C’era tutta questa fila di forni… Legavano i corpi con fili di ferro, li buttavano dentro, e uscivano solo i fili dall’altra parte, questi erano i forni. Non so dire esattamente dove fossero collocati, erano… Sono stato tre, quattro anni fa a vedere l’archivio del Lager, c’è anche il mio nome, tutto quanto, ma adesso è tutta un’altra cosa, perché le baracche non ci sono più, ci sono solo dei pali, e l’unica baracca ancora in piedi e visitabile è quella dei Kapò, che non era come le nostre, ma bella luminosa, spaziosa. Al posto delle nostre baracche, nel viale, ci sono dei pali neri, su colonnine di cemento, e basta. Non hanno conservato niente. Anche il Revier, l’infermeria, non è dove l’hanno indicato adesso, perché entrando all’ingresso del piazzale, c’era su una specie di promontorio una baracca, dove un medico spagnolo, un prigioniero sempre, faceva… Chi aveva bisogno, andava là, al Revier. Gli davano un cucchiaio di ittiolo, perché le malattie che scoppiavano lì erano foruncoli, specialmente nel collo, e avevano tutta questa carta oleata, sporchi, perché non è che ti davano delle bende, ti davano un pezzetto di garza con un cucchiaio di questo, che sembra lucido da scarpe marrone, e te lo mettevi sopra questi foruncoli… Lì venivano foruncoli, dissenterie… Malattie gravi però non ne ho mai viste. Verso i primi di novembre del ’44, Buchenwald cercavano degli operai specializzati, dei fresatori. Un certo Plinio Panciroli, un veronese, un cameriere al ristorante Girelli di Corso Vittorio Emanuele, e Giuseppe Zampieri, detto il paia, perché era lungo e magro, mi dissero: “Boccia, vieni con noi!”, io dico: “Non son mica bon…”, “Ghe penso mi, vien via con me!” e lo seguii. Così partii per Buchenwald e persi tutti di vista: Don Aldrighetti, il povero Ruggero Ienna, tutti. Fino a Herfurt, ci hanno trasportato con il treno. Eravamo una sessantina. A Buchenwald siamo rimasti poco, quindici, venti giorni, perché ci trasferirono in un suo sottocampo, Bad Gandersheim. Era un paesino… Quando arrivammo, il campo non esisteva ancora e ci buttarono in una chiesa sconsacrata, su un promontorio, fuori da questo paesino. Lì, non c’erano né castelletti né niente, c’era solamente della paglia per terra. L’unico sgabuzzino, l’avevano occupato i due Kapò, che erano prigionieri come noi, e il capo Lager di questo gruppo. Dormivamo in questa chiesa e lavoravamo alla costruzione di carlinghe di aerei. Un altro gruppo di prigionieri, invece, di fianco a questo stabilimento, costruì delle baracche, dove poi ci misero, togliendoci dalla chiesa. La mattina, ci alzavamo alle sei e andavamo in fabbrica a lavorare e la sera, alle cinque, ci riportavano nel campo e ci davano da mangiare. Un mestolo di acqua e rape e la fetta di un pane diviso in cinque. In fabbrica, lavoravano con noi anche dei civili, dei civili tedeschi. Siccome ero maniaco della pulizia – mi lavavo e mi pulivo in continuazione – così mi misero a fare un lavoro di precisione: con una macchina dovevo modellare, in base a delle dime, dei pezzi di metallo – il metallo che si lavorava era il dural, una specie di alluminio – per le carlinghe degli aerei. Si trattava di una macchina un po’ particolare e quando il capo dei tedeschi, un civile, veniva e vedeva che il lavoro era fatto bene, mi dava, di nascosto, un pezzetto di pane. La mattina, alle dieci, quando i civili avevano la pausa per il pane, lui veniva, controllava e mi dava sempre un pezzetto di pane. Un giorno mi portò un anche cartoccetto di sale. Non mangiavo niente di quello che ci davano o che si trovava in giro. Tanti sono morti non perché li hanno ammazzati i tedeschi, ma perché mangiavano tutto quello che trovavano e morivano di dissenteria. Io invece raccoglievo le ortiche, quando si passava per i campi: vedevo le ortiche, le strappavo e le nascondevo sotto la giacca, ecco perché ero sempre un po’ rovinato. Alla mattina, in fabbrica, le davo a quelli dei forni che me le cuocevano, me le facevano bollire dentro un barattolo di conserva. La sera le toglievo dall’acqua, le facevo scolare e il giorno dopo con il sale che mi dava il tedesco me le mangiavo. Sono stato un grande mangiatore di ortiche. Andò avanti così fino alla liberazione. Un giorno fecero evacuare il campo e, vista l’esperienza degli altri Lager occupati dagli americani o dai russi, che avevano liberato tutti i deportati i quali erano andati per le case a fare razzia, decisero di tenerci sempre in gruppo. Decisero di farci camminare finché non ci avessero preso gli americani o gli inglesi. Partimmo da Bad Gandersheim e iniziammo la famosa marcia della morte. Molto famosa, tanto è vero che mi è arrivata una lettera dal Deuxieme Bureau francese, che conservo ancora, dove mi hanno chiesto: “Signore, lei ha fatto parte di questa marcia, potrebbe dirci in quali punti sono seppelliti i cadaveri dei deportati che sono morti?”. La marcia veniva fatta cinque per fila. Siccome in quel periodo c’era l’esercito in rotta, bisognava lasciare le strade libere per i soldati. Allora il comandante decise di metterci per tre, ma in questo la fila si allungò e la scorta divenne insufficiente. Decisero allora che i primi venti in testa, non appena vedevano un bosco, dovevano entrarvi con le pale e fare le buche. Quando il capo dava il segnale, venivano contati trenta dalla coda e, mentre tutti marciavano, a un bel momento, questi trenta sparivano… Andavano nel bosco, si sentivano le raffiche e lì venivano seppelliti. Ogni tre, quattro ore ne partivano una ventina. Eravamo in tremila e tremila messi in fila per tre è una bella coda. Cercavamo sempre di stare attenti a non far parte né del gruppo di testa né del gruppo di coda, per la sopravvivenza. Per questo il Deuxieme Bureau mi chiese se ricordavo in quali punti potevano essere i cadaveri, per poterli riesumare e dare loro degna sepoltura. Io indicai su una carta i punti, ma per saperlo esattamente, basta vedere dove c’è un gruppo di pioppi e delle piante di sottobosco e lì si trovano senz’altro. Un giorno, arrivammo alla periferia di un paese. Eravamo accampati senza tende, in un prato enorme. Ci sorvegliavano dei tedeschi che avevano tutto il loro bagaglio dentro a dei carretti, tirati sempre dai prigionieri. Ogni tanto si vedeva qualcuno che si toglieva la divisa e si metteva in borghese. A un bel momento, la mattina ci siamo svegliati e abbiamo visto che non c’erano più nessun tedesco. Io e altri due – di cui adesso mi sfugge il nome, ma mi pare che uno fosse un certo Zanardelli di Brescia – ce ne andammo alla chetichella e ci infilammo in una stalla. Ci nascondemmo dietro a delle balle di fieno, per vedere cosa succedeva. Nel pomeriggio, alle quattro, sentimmo dei carri armati avanzare, ho visto che avevano la stella col giro, erano alleati. Sopra il carro armato c’erano dei soldati inglesi, ciprioti, che parlavano l’italiano. Allora siamo venuti fuori, perché noi eravamo con la divisa a righe, non potevamo dire: “Siamo dei signori di passaggio”. Quando ci hanno visti, ci hanno subito dato della cioccolata, ci hanno fatto salire sul carro e ci hanno portato ad Albestat, una cittadina già organizzata, dove ci presero in consegna. Ci portarono in fondo alla via, la Adolf Hitler Strasse, dove c’era la fabbrica della Junkers. A quel punto venne qualcuno, che ci disse: “State qua, mettetevi calmi, tranquilli, verrà la Croce Rossa ad aiutarvi, vestirvi”. Ci hanno dato qualche cosa e in attesa che le autorità competenti si organizzassero per farci rientrare ognuno a casa propria. Il nostro era un gruppo di genovesi. C’erano anche russi, polacchi, slavi… Eravamo tutti in attesa di partire. A un certo punto ci dissero che c’era una tradotta che andava verso l’Italia, così vennero e ci caricarono sul treno, non era un carro bestiame, ma era molto piccolo. Passammo per Innsbruck, dove ci misero in quarantena. Venne poi la Commissione Pontificia. Da Bolzano con un camioncino arrivammo fino a Verona. Arrivato a Verona, sono andato direttamente a casa, dove ho trovato i miei genitori.