Stoppa:"J.Lacan,Il Seminario Libro

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Stoppa:"J.Lacan,Il Seminario Libro
Forum Psicoanalitico Lacaniano
I.C.Le.S. Istituto per la Clinica dei Legami Sociali
Centro Didattico Labor S.I.Ps.A.
Seminario Clinico
L’inconscio strutturato come un linguaggio e l’inconscio reale
Roma 9 giugno 2012
“Il Seminario, Libro X “L'angoscia”
Conferenza di Francesco Stoppa
Introduzione
Renato Gerbaudo: Buongiorno. Questo incontro nasce dalla volontà di aprire le nostre
porte al lavoro che il Forum Psicoanalitico Lacaniano e la Scuola dei Forum sta facendo in Italia: a
Roma ciò avviene in collaborazione col centro didattico Labor- Sipsa.
Per quanto riguarda la giornata di oggi abbiamo con noi Francesco Stoppa, di cui non elenco
tutte le sue qualità: le scoprirete da soli. È responsabile di una Comunità Terapeutica, ha scritto
numerosi libri, l’ultimo è “La restituzione” sulla questione border-line nella nostra società e sugli
adolescenti in particolare. Un altro libro che vi segnalo è “La prima curva dopo il Paradiso”, dove il
Paradiso è una trattoria dopo la quale bisogna girare a destra per poter raggiungere la Comunità!
Oggi ci presenterà il suo lavoro sul Seminario X di Lacan, “L’angoscia”, che è un seminario
strepitoso, perché riassume diversi concetti freudiani e li rilancia con quella modalità un po’
barocca tipica di Lacan che fa venire un po’ di patemi.
La giornata si volgerà in questo modo: avremo alcune sintetiche domande preliminari, da
parte delle due interroganti, che sono le dottoresse Silvana Leali e Patrizia Centi, che nel
pomeriggio interrogheranno il relatore. Questa mattina sentiremo la relazione di Francesco Stoppa,
poi una piccola pausa e la dott.ssa Antonella Loriga ci presenterà un caso clinico. Nel pomeriggio ci
sarà un rilancio dei contenuti trattati sia nella relazione che nel caso clinico. Lascio la parola a
Francesco Stoppa.
Relazione di Francesco Stoppa
Mi piace vedere il X Seminario come il seminario in cui Lacan va contro se stesso, e qui si
misura la grandezza di un pensatore, quando non si accontenta di ciò che ha fin lì costruito. Lacan
rilegge e reinterpreta non solo Freud, ma anche se stesso, ovvero la visione un po’ standardizzata
che tutti abbiamo di Lacan “strutturalista”, quello della preminenza del campo simbolico, del
significante, dello “Stadio dello specchio”.
In questo seminario Lacan parte da presupposti diversi, in un certo senso ribalta quello che
ha costruito fino ad allora: sembra quasi un Lacan “guastatore di se stesso”. Se prima la sua
interrogazione partiva dal registro immaginario, qui è il reale che emerge con tutta la sua forza: in
questo seminario penso che troviamo già gli ultimi sviluppi del pensiero di Lacan, quelli su
“lalingua”, su Joyce, sul sintomo. Quello che sorprende è trovare che qui l’oggetto dell’interesse di
Lacan è niente meno che “la vita”. Effettivamente, per chi non conosce questo seminario o per chi
lo ha letto solo quelli precedenti, è sorprendente trovare un Lacan così legato ad una dimensione
rispetto alla quale fino ad allora sembrava in qualche modo dire, in termini filosofici legati a Hegel,
a Heiddeger: “della vita non si può dire nulla, perché la parola è la morte della cosa, quindi la cosa
rimane una dimensione fuori dalla nostra portata”.
In questo senso questo seminario di Lacan è molto freudiano, perché per Freud la questione
della vita è fondamentale (vedi “Al di là del principio del piacere”) e fin da subito lui inizia lo
studio con i protozoi, esseri monocellulari.
Forse non è un caso che il X sia il Seminario che prelude alla cacciata di Lacan dalla
Associazione Internazionale di Psicoanalisi, separazione che sarà sancita dal seminario XI.
È un Seminario molto complesso, molto difficile, sembra quasi non rivisto, in alcuni
passaggi si ha l’impressione che contraddica dei punti espressi qualche pagina prima. Anche questo,
però, va a favore della bellezza, dell’immediatezza e della freschezza di questo Seminario. È un
Seminario in cui concetti fondamentali della psicoanalisi lacaniana come “oggetto”, “soggetto”,
“corpo”, “desiderio”, “fallo”, “castrazione”, “padre” e “amore”, subiscono una modificazione,
ricevono un nuovo statuto. È il seminario in cui fa capolino quel concetto che Lacan diceva essere
la sua unica invenzione, cioè l’oggetto “a”. Naturalmente Lacan, come tutti i grandi, aveva il
pregio di essere piuttosto modesto, perché non mi sentirei di sottoscrivere che la sua unica
invenzione era questa: un’altra trovata di Lacan è quella dei registri (immaginario, reale e
simbolico) con cui rifonda la psicoanalisi freudiana.
Perché questo interesse sull’angoscia? Perché, dice Lacan, questo oggetto “a” è il derivato
dell’angoscia, non il contrario. In questo senso ribalta completamente il pensiero freudiano.
L’angoscia è primaria, è produttrice, creativa, fondatrice di una posizione soggettiva. Lacan non la
pone sul versante della patologia: la porta dell’angoscia ci apre alla possibilità di essere desideranti.
L’oggetto “a” non è un significante, così come l’angoscia non è un sintomo, e in questo è molto
freudiano.
Questo concetto dell’angoscia lacaniana mette in crisi la struttura simbolica così com’era
stata pensata sinora, ma anche la struttura immaginaria, in particolare il dispositivo dello specchio.
Lacan afferma che nella pedagogia classica, di cui fa un elogio, esiste un procedimento per
cui, egli dice, “… bisogna anticipare le capacità mentali del bambino con dei problemi che le
superino leggermente”, cioè bisogna sempre, con molta delicatezza, buttargli lì qualcosa che
sorprenda il bambino e che lo costringa a trovarsi di fronte a un punto d’incertezza - ed è
esattamente il procedimento che lui segue in questo seminario. “Bisogna produrre un effetto di
precipitazione sulla maturazione mentale”: la maturazione si sviluppa non come un processo
automatico, legato a tappe precodificate e genetiche, ma come un salto, come qualcosa che produce
una discontinuità, un effetto di sorpresa, dice Lacan, “… autentici effetti di apertura, perfino di
scatenamento, di derealizzazione, di depersonalizzazione per approdare a un nuovo sapere”. È il
rovescio del discorso universitario che affronterà più avanti.
Pensavo di avvicinarci alla questione con alcune citazioni di un racconto di Guy de
Maupassant, che Lacan cita più volte in questo testo, tratto da “I racconti fantastici”. Si tratta di
racconti un po’ spaventosi, tipo quelli di Hoffmann, e questo racconto che si chiama “Le Horla” e
che Lacan riprende più volte, è un po’ quello che è stato per Freud il racconto del Mago Sabbiolino
nella rappresentazione della teoria dell’angoscia, e racconta gli ultimi giorni di vita del protagonista
che, come il Mago Sabbiolino, arriverà ad auto-sopprimersi.
8 maggio - Che splendida giornata! Ho trascorso l’intera mattina disteso sull’erba, davanti
alla mia casa, sotto l’enorme platano che la protegge e la ricopre completamente con la sua
ombra. Amo questo paese e mi piace viverci perché qui sono le mie radici, le radici profonde e
delicate che legano un uomo alla terra in cui sono nati e morti i suoi avi, che lo legano a quel che
si pensa e a quel che si mangia, ai costumi e ai cibi, ai modi di dire locali, alla cadenza dialettale
dei contadini, agli odori del suolo, dei villaggi e dell’aria stessa. Amo la casa in cui sono cresciuto.
Dalle mie finestre vedo la Senna che scivola, lungo il mio giardino, dietro la strada, e pare quasi
entrare dentro la mia casa, la maestosa e ampia Senna che va da Rouen a Le Havre, coperta di
imbarcazioni che passano.
Qui, in maniera molto pittorica, troviamo che cosa sono nell’esperienza di tutti noi il registro
simbolico e il registro immaginario: le radici del soggetto, il rapporto con gli avi e il suo trovare un
adattamento sufficientemente felice col mondo e la finestra da cui lo vede, come se lo rappresenta a
partire dalla sua identità.
25 maggio. - Il mio stato è veramente bizzarro. Man mano che si avvicina la sera,
un’inquietudine incomprensibile mi pervade, come se la notte nascondesse per me una minaccia
terribile. Mangio presto, poi cerco di leggere; ma non riesco a comprendere le parole; distinguo
appena le lettere.
Qui invece troviamo già alcuni aspetti patognomici dell’angoscia: la notte, il buio, la
difficoltà di concentrazione.
Allora cammino su e giù nel salotto, sotto l’oppressione di una paura confusa e irresistibile,
il timore del sonno e il timore del letto.
Ci sono degli elementi fondamentali della strutturazione soggettiva, come il dormire, che
sono diventati inquietanti: il familiare che diventa perturbante.
Verso le dieci salgo nella mia camera. Appena entrato, do due mandate di chiave e metto il
chiavistello; di che cosa ho paura?… Non temevo niente fino ad ora… Apro gli armadi, guardo
sotto il letto; ascolto, ascolto… che cosa? Non è strano che un semplice malessere, forse un
disturbo circolatorio, l’irritazione di una terminazione nervosa, un po’ di congestione, una
minuscola alterazione nel funzionamento così imperfetto e delicato della nostra macchina vivente
possa trasformare il più allegro degli uomini in un malinconico e il più coraggioso in un
pusillanime?
Nell’angoscia il corpo stesso non è più quello di prima: pensiamo a ciò che succede
nell’attacco di panico.
Poi, mi corico, e attendo il sonno come se attendessi il carnefice. Lo aspetto con il terrore
della sua venuta, e il mio cuore batte, le mie gambe fremono; e tutto il mio corpo sussulta nel
calore delle lenzuola, fino a che non cado di colpo nel sonno, come si cadrebbe per annegarvisi in
un pozzo di acqua stagnante. Io non lo sento arrivare, come un tempo, questo sonno perfido,
nascosto accanto a me, che mi spia, che sta per afferrarmi la testa, per chiudermi gli occhi, per
annientarmi.
Così dormo, per molto tempo, due o tre ore, poi un sogno, anzi un incubo, mi stringe. Mi
rendo conto di essere a letto e di dormire… lo sento e ne sono consapevole… ma sento anche che
qualcuno mi si avvicina, mi guarda, mi tocca, sale sul mio letto, s’inginocchia sul mio petto, mi
prende il collo tra le mani e stringe… stringe… con tutta la sua forza per strangolarmi.
La parola “angoscia” deriva da “angustia” e sta a significare il soffocamento. L’incubo, nella
tradizione mitologica, è una figura che si poggerebbe sul petto del dormiente fino a soffocarlo.
5 luglio – Ho dunque perso la ragione? Quello che è successo la scorsa notte è talmente
strano che se ci penso la mia mente si smarrisce!
Come faccio ormai ogni sera, avevo chiuso la mia porta a chiave; poi, avendo sete, ho
bevuto mezzo bicchiere d’acqua, e ho notato per caso che la caraffa era colma fino al tappo di
cristallo.
Poi andai a letto e caddi in uno dei miei sogni spaventosi, da cui mi trasse circa due ore
dopo una scossa ancora più orrenda.
Immaginate un uomo addormentato, che venga assassinato, e che si svegli, con un coltello
in un polmone, che rantoli coperto di sangue, che non possa più respirare, che sta morendo senza
comprendere.
Dopo aver infine riconquistato la ragione, ebbi nuovamente sete; accesi una candela e mi
diressi verso il tavolo sul quale era appoggiata la mia caraffa. La sollevai piegandola verso il
bicchiere; non scese niente. - Era vuota! Era completamente vuota!
Qui c’è già l’introduzione della questione del doppio, dell’ospite indesiderato che beve
l’acqua. Torna il registro immaginario della costruzione della realtà, come quella che il bambino fa
nello “Stadio dello specchio”, perché la realtà ha i suoi oggetti che vengono incontro al soggetto che
cerca di trovare loro una collocazione sufficientemente felice. Invece il doppio qui si rivela un
elemento angoscioso, perturbante.
E così il mio occhio non può distinguere il nuovo venuto che mi opprime. Perché? Oh! mi
ricordo ora le parole del monaco di Mont Saint-Michel: "Non è forse vero che vediamo solo la
centomillesima parte di quello che esiste? Per esempio il vento, che è la più grande forza della
natura, che fa cadere gli uomini, abbatte gli edifici, sradica gli alberi, solleva il mare in montagne
d'acqua, distrugge le rocce e scaglia contro gli scogli i grandi bastimenti, il vento che uccide, che
sibila, che geme, che muggisce, - l’avete mai visto, e potete vederlo? Eppure, esiste".
Abbiamo qui il farsi presente di una dimensione che è fuori dal nostro campo visivo. Il
campo visivo è costruito dalla funzione del limite, che richiama la castrazione di Freud. Per fortuna
la nostra percezione è limitata, non possiamo vedere tutto. Il discorso dell’inconscio in Freud è
proprio la differenza tra percezione e coscienza, che non coincidono perché qualcosa del percepito
resta fuori dalla nostra capacità di afferrarlo, altrimenti saremmo dispersi in un tutto perdendo la
nostra stessa identità. Lacan dirà che l’angoscia è quando qualcosa dell’invisibile fa breccia nel
nostro campo, aprendo la porta dell’illimitato. Nel racconto di Hoffmann sono gli occhi della
bambola Olimpia, che si possono togliere e lo sguardo diventa manipolabile: gli occhi diventano
una sorta di oggetto prendibile, laddove, invece, noi non possiamo vedere il nostro sguardo.
Nell’esperienza psicotica, nelle allucinazioni, c’è il ritorno del visibile non visibile che invece
diventa reale.
E pensavo anche: il mio occhio è così debole, così imperfetto, che non distingue neanche i
corpi solidi, se sono trasparenti come il vetro!… Se un cristallo senza argentatura mi sbarra il
passo, il mio occhio mi ci fa cozzar contro, come un uccello entrato in una stanza si rompe il capo
sui vetri della finestra. Altre mille cose lo ingannano e lo sviano. Che c’è di strano, allora, se non
può vedere affatto un corpo nuovo che è attraversato dalla luce.
Da qui inizia un gioco, anche abbastanza comico, tra il protagonista e il fantasma.
Facevo finta di scrivere, per ingannarlo, poiché anche lui mi spiava; e subito, mi accorsi, fui
certo che lui leggeva al di sopra della mia spalla, che lui era là, che sfiorava il mio orecchio. Mi
alzai, con le mani tese, voltandomi così in fretta che stavo per cadere. Ebbene?… ci si vedeva come
in pieno giorno, ma non mi vidi nel mio specchio! Quest’ultimo era vuoto, chiaro, profondo, pieno
di luce!
Ecco lo sguardo totale, dove il soggetto in quanto immagine illimitata si perde, si disfa, non
vede, viene dissolto in una totalità devastante. Pensate al discorso degli schizofrenici, al rapporto
con lo specchio in cui ci può essere la frammentazione, ma molte volte c’è l’idea di non vedersi. Per
questo molte volte questi pazienti rompono le finestre, i vetri: lì c’è qualcosa che li risucchia in un
vuoto profondo e totale.
La mia immagine non vi era riflessa … eppure mi trovavo lì davanti! Vedevo il grande vetro
limpido dall’alto in basso. E guardavo ciò con gli occhi smarriti; e non osavo più avanzare, non
osavo più fare un movimento, perché sapevo bene che lui era lì, ma che mi sarebbe nuovamente
sfuggito, lui, il cui corpo invisibile aveva divorato il mio riflesso. Che paura provai! Poi
all’improvviso cominciai a scorgermi entro una nebulosità, in fondo allo specchio, in una bruma
come attraverso un velo d’acqua; e mi pareva che quest’acqua scivolasse da sinistra a destra,
lentamente, rendendo più precisa la mia immagine, di secondo in secondo.
Pensate a Narciso…
Era come la fine di un eclisse. Ciò che mi nascondeva non sembrava possedere contorni
nettamente definiti, ma una sorta di trasparenza opaca, che si schiariva a poco a poco. Potei infine
distinguermi completamente, come faccio ogni giorno quando mi guardo.
Il sollievo della nostra immagine nello specchio.
L’avevo visto! Me ne è rimasto uno spavento che mi fa ancora rabbrividire.
Ha visto il suo alter ego nel vuoto nello specchio.
Torniamo ora al Seminario X. Siamo nel 1962 e con questo Seminario Lacan va a definire lo
statuto dell’immaginario. Finora l’immagine speculare era una sorta di prototipo del mondo
popolato di oggetti, il cui stampo è l’immagine speculare, e della possibilità per il bambino di stare
dentro una determinata realtà. Con la concettualizzazione dell’oggetto “a” questo quadro, la
costruzione della realtà ego sintonica all’immagine del proprio io speculare, viene scomposto. Si
modifica la concezione stessa dello speculare, che finora aveva la funzione di difendere
dall’angoscia mettendo tra parentesi l’oggetto “a”. Lacan fa una sintesi del matema dello stadio
dello specchio in cui l’immagine serve proprio per far stare le pulsioni all’interno. Abbiamo
bisogno di pensarci come entità sufficientemente circoscritte altrimenti ne va della nostra identità.
Lacan dà a quest’idea del contenimento l’immagine del vaso di fiori. Come in un vaso, questi
oggetti sradicati, i fiori, riescono a stare insieme e a creare un’immagine coerente e gradevole,
perché esiste il contenitore che li raccoglie. Il vaso sarebbe la nostra immagine corporea, il buco del
vaso sarebbero le nostre zone erogene. Come dice Freud a proposito del narcisismo, le zone erogene
sono una sorta di compromesso che facciamo con la nostra pulsionalità, per cui localizziamo il
campo delle pulsioni, cioè il reale, la vita, in alcuni punti, proprio perché non si diffonda in tutto il
corpo, altrimenti sarebbe incontenibile. Lacan dice a proposito che “il nostro corpo è un deserto di
godimento”: deserto nel senso che dobbiamo rinunciare al fatto che qualsiasi parte del corpo possa
essere travolta dalle pulsioni, quindi lo rendiamo un po’ asettico e le pulsioni le collochiamo in
alcuni punti particolari che sono, guarda caso, le zone di contatto con l’altro, con l’esterno (bocca,
ano, orecchie, occhi, pelle).Per arrivare a cogliere che cos’è l’angoscia rispetto ai dispositivi ottici
di Lacan, bisogna soffermarsi sullo schema che distingue l’immagine reale dall’immagine virtuale e
che si basa sull’esperimento di un fisico che si chiamava Henri Pierre Maxime Bouasse,
l’esperimento del vaso rovesciato.
Nell'esperimento, se prendiamo uno specchio concavo e ci mettiamo davanti un
marchingegno su cui sopra mettiamo dei fiori e sotto un vaso rovesciato e l’osservatore si pone in
una determinata posizione (O), si formerà, attraverso lo specchio, una sorta di miraggio per cui
l’osservatore vedrà il vaso raccogliere i fiori (immagine reale).
Si tratta qui del passaggio dal corpo frammentato (che ritroviamo nell’esperienza dello
psicotico), il corpo infantile totalmente dipendente dalla figura materna con un limitato accesso alla
realtà. I fiori rappresentano gli oggetti parziali (seno, feci) e il collo del vaso sono le zone erogene.
Nel miraggio l’immagine reale (vaso con fiori/corpo pulsionale) viene a mescolarsi con le cose reali
(fiori/pulsioni).
Questo è quello che Freud ha chiamato Narcisismo primario, ovvero l’immagine del nostro
corpo che si costruisce in noi in una fase ancora pre-speculare.
Freud, a proposito della suzione, parla del piacere del movimento, cioè del fatto che il
bambino comincia ad accorgersi di avere un corpo nel momento in cui lo muove, ci gioca, lo butta
per terra, s’incontra o urta con altri oggetti e, per differenza, comincia a costruire l’idea di qualcosa
che faccia nodo. Un’immagine ancora molto legata alla sensorialità, legata al reale del piacere del
movimento.
Nello scompenso psicotico, quando salta l’immagine speculare non c’è nulla che zavorri il
soggetto, perché non c’è possibilità di fare affidamento sul pre-speculare. È vero che l’immagine
speculare ci da un’identità, ma non basta, perché quando salta l’immagine più formale, quella più
immaginaria, legata anche a un ruolo sociale, a una dimensione di prestigio, se non c’è qualcos’altro
prima che ci sostiene (ovvero l’esperienza primaria della relazione madre-bambino) il soggetto si
sfalda, non trova più un punto di ancoraggio.
Nel Narcisismo primario non è ancora il corpo visto allo specchio che il bambino riconosce
come proprio, ma è il corpo accarezzato dalla madre, e qui ritroviamo tutta l’esperienza lacaniana
della lingua materna: non è ancora il linguaggio codificato, non è ancora l’immagine speculare
fittiziamente unitaria e separata dal soggetto, ma in questa fase c’è ancora qualcosa del reale che fa
nodo con l’immaginario. Tutta la questione della cura della schizofrenia passa attraverso la
possibilità di ripristinare qualcosa a livello del Narcisismo primario, in cui la dimensione del reale,
così frammentato (i fiori sparsi), possa essere in qualche modo ricompattato a livello immaginario,
trovare un annodamento (il vaso che contiene i fiori). Non è tanto una questione di Narcisismo
secondario, di ruolo sociale (della serie: “ti do un lavoro così guarisci”), ma qualcosa che si situa a
un livello precedente. Lacan dice che il problema della schizofrenia è che c’è tanto simbolico, tanto
reale, ma manca l’immaginario.
Il secondo schema è il dispositivo lacaniano dello stadio dello specchio. Qui l’osservatore
non vede più nulla del reale. L’esperimento funziona così: davanti allo specchio concavo c’è lo
specchio piano. La cornice dello specchio rappresenta il grande Altro. Quello che prima era in parte
immaginario e in parte reale, diventa tutto immaginario, fiori compresi, in un’immagine molto più
composita: il reale non bussa più alla porta, c’è solo l’immagine del reale.
Quello che prima era i (a) ora è i’(a). S/ non è tanto, in questo caso, il soggetto barrato dal
significante, ma il soggetto ancora preso nella sua frammentazione che, grazie a questo miraggio
immaginario, diventa S senza barra, cioè s’illude di non avere più alcun tipo di divisione, ossia
quello che Freud ha chiamato IO IDEALE: un’immagine senza macchia, perfetta, buona, amabile,
non contaminata dal reale.
Il seminario X mette in discussione questa strutturazione del soggetto. Lacan dice: “Se noi
questo specchio lo facciamo girare, cosa ne è dell’entità del soggetto?”. È spappolato! Ecco
l’angoscia. Laddove il soggetto non riesce più a costruire quest’immagine o all’interno di
quest’immagine vede un buco, una macchia, qualcosa che fa eccezione (come accade al
protagonista del racconto di de Maupassant) e quindi introduce l’oggetto “a”, che diventa
perturbante.
La I, invece, è l’IDEALE dell’IO che, a differenza dell’IO IDEALE che è un punto fisso,
rappresenta un punto prospettico: è una dimensione sempre in divenire ed è qui che emerge la
questione del desiderio. Mentre nell’IO IDEALE il desiderio si fissa in quest’immagine
autoreferenziale, è intrappolato nel narcisismo, nell’IDEALE dell’IO, che è la questione “Cosa farò
da grande?”, si apre la dimensione storica, simbolica, del paterno, del soggetto come essere che si
trasforma nel tempo.
Se nello schema precedente il buco era la schizofrenia, qui è la paranoia: il soggetto è
pietrificato nella sua immagine, manca la vita, è pietrificante. L’IDEALE dell’IO mette in gioco una
storicizzazione, è il simbolico che compromette la fissità dell’immaginario. Anche l’oggetto “a”
reimmette la vita, non sul versante della simbolizzazione, ma su quello del reale, molto più vicina
all’“Al di là del principio del piacere”, molto più legata al godimento. Lacan dice: “La vita è
un’ostinata deviazione, la vita non vuole guarire”; c’è qualcosa che è al di fuori della possibilità di
inquadrarla in termini immaginari e simbolici. Mentre nell’IDEALE dell’IO c’è un’idea di
guarigione: “Diventerò padre, diventerò madre” se c’è il desiderio. Non siamo angosciati dalla
morte, ma dalla vita, perché la vita comporta una continua trasformazione, a partire dal nostro
corpo.
Il soggetto è chiamato a questo compito acrobatico di tenere insieme i 3 registri. Dice Lacan
che fino a una certa epoca è il padre che permette di tenere annodati reale, immaginario e simbolico.
Direi ancora due cose sull’immaginario prima di passare al simbolico.
Fino a questo seminario l’idea di Lacan è che il rapporto tra libido narcisistica e
investimento sugli oggetti fosse una sorta di circuito che stava in piedi da sé, come se la questione
del reale (pulsionale) si potesse risolvere in quella immaginaria, che cioè si può godere del corpo
per via immaginaria. Dal seminario X avviene una sorta di scissione tra “i” e “(a)”, come se
l’oggetto “a” rompesse le parentesi e facesse breccia sulla scena. Quindi c’è una realtà invisibile
del corpo, il reale prende a volte le forme dell’invisibile, così come l’irreale non è il contrario, ma
una forma del reale. C’è qualcosa dell’investimento libidico che non passa per gli oggetti messi in
moto nella fase dello specchio, nell’immaginario, ma resta nel soggetto e fa deposito all’interno del
corpo.
Freud in Al di là del principio del piacere ci dice che moriremo dell’accumulo di qualcosa
che non possiamo sempre convogliare in investimenti immaginari e simbolici, per dirla in termini
lacaniani: qualcosa di reale che non riusciamo più a sublimare e rimane in noi. Nel seminario X
questo residuo, questo resto, questa macchia, non è più solamente l’effetto di qualcosa, ma è la
causa di tutto, stimolazione pulsionale che continua a bussare dall’interno, l’oggetto perturbante
(Triebregung).
L’angoscia è un quantum supplementare di libido che fa breccia nell’immagine producendo
un buco, un vuoto. Lacan dice che “l’angoscia è non senza oggetto”, come nel racconto di de
Maupassant in cui il fantasma legge alle spalle del protagonista, dice che “l’angoscia è il soggetto
visto da dietro”. Noi non possiamo vederci da dietro, se non con un inganno speculare attraverso
altri specchi, un punto di vista impossibile. Tutta l’arte del '900, da Magritte a Picasso, è proprio il
reale, questo sguardo totalizzante che mostra l’invisibile e genera l’angoscia, questo qualcosa di
troppo, il tutto della visione.
Leggiamo qualche passo di Lacan dal Seminario X.
(p. 37) “Ricordate quanto ho estratto dal lavoro inaugurale del pensiero di Freud,
L'Interpretazione dei sogni, quando ho rilevato che Freud introduce innanzitutto l’inconscio, un
luogo che lui chiama eine anderer Shauplatz, un’altra scena. Sin dall’inizio, sin dall'entrata in gioco
della funzione dell'inconscio a partire dal sogno, questo termine viene introdotto come essenziale.
Ebbene, io credo che in effetti si tratti qui di un modo costituente di quella che è, diciamo, la nostra
ragione. Cerchiamo la via per individuare le strutture di questa ragione. Dirò che il primo tempo è:
c’è il mondo.”
Il mondo in questo caso è un nome del reale: poter vedere la natura prima del significante
simbolico, dell’arrivo della legge paterna. Ma per poter dire qualcosa di questa visione, di questo
mondo dovremmo avere la parola… quindi è un sogno, il sogno del perverso di uscire da questa
condizione umana, di guardare il reale come se fosse un animale.
Lacan dice ancora: “la distinzione radicale tra il mondo e il luogo in cui le cose, fossero
anche le cose del mondo, arrivano a dirsi”. Qui introduce la dimensione della scienza, cioè qualcosa
che fa cornice. Non è più il mondo nella sua totalità, ma, a partire da questa cornice di parola, le
cose possono arrivare a dirsi e diventano le cose del mondo. “Tutte le cose del mondo arrivano a
mettersi in scena secondo le leggi del significante, leggi che non possiamo in alcun modo
considerare come omogenee a quelle del mondo”. Spesso noi diciamo: “il ritmo della natura”, ma è
ovvio che è una proiezione del nostro funzionamento, anche se in natura esistono delle ripetizioni,
noi le scandiamo in modo arbitrario.
(p. 38): “Secondo tempo: la scena sulla quale facciamo salire il mondo”. È interessante l’idea
che in fondo il compito degli umani è far salire il mondo sulla scena: questo ci riporterebbe alla
Genesi, al mandato della nominazione delle cose che Dio affidò all’uomo. “La scena è la
dimensione della storia. (…) A partire da qui può essere posta la questione di sapere che cos’è il
mondo - quello che all'inizio, in tutta innocenza, abbiamo chiamato il mondo - debba a quanto ha
riportato giù da tale scena”. Siamo sempre condizionati dal fatto che abbiamo costruito una scena
per interpretare il mondo. “Tutto ciò che nel corso della storia abbiamo chiamato mondo lascia dei
residui sovrapposti, che si accumulano senza preoccuparsi minimante delle contraddizioni”. C’è già
in nuce la questione dell’oggetto “a” come residuo non più inquadrabile a livello del significante.
“Quello che la cultura ci veicola come mondo è un ammasso, un deposito di relitti di mondi che si
sono succeduti e che, benché incompatibili, vanno fin troppo d’accordo ciascuno al suo interno”.
(p. 81) Qui riprende la questione dello sguardo, visto nel racconto di de Maupassant. Parla
della vista che “non è soltanto un participio passato, è anche la vista, con i suoi due sensi,
soggettivo e oggettivo: la funzione della vista e il fatto di essere una vista, come si dice la vista di
un paesaggio, quella che viene presa come oggetto su una cartolina”. Ad esempio: la natura è una
cosa, il paesaggio un’altra: il paesaggio è la natura lavorata, messa in una cornice, è il mondo fatto
salire su una scena. Lacan parla, qui, del magistrale unheimlich, del perturbante che “si presenta
attraverso dei lucernai. È in quanto incorniciato che si colloca il campo dell’angoscia”. Lacan dice
che per poter provare angoscia bisogna che ci sia la cornice, che ci sia un campo simbolico, perché
l’angoscia va a bucare quel campo simbolico e se non c’è il campo simbolico non c’è angoscia. È
anche questo che ci distingue dagli animali che (escludendo i cani, non solo il mio cane!) provano
paura, ma non angoscia. “Improvvisamente, tutt'a un tratto... incontrerete sempre questi termini nel
momento in cui interviene il fenomeno dell’unheimlich. Troverete sempre la scena che si propone
nella sua dimensione specifica e permette che sorga ciò che, nel mondo, non può dirsi. Che cosa
aspettiamo, sempre, quando si alza il sipario? Aspettiamo quel breve momento di angoscia, subito
spento, ma che non manca mai”. Anche nel teatro c'è questa zona d’ombra, prima che gli attori
escano, in cui sta per prodursi qualcosa. Lacan dà un’idea dell’angoscia come qualcosa di molto
creativo. Lacan aggiunge: “… quel momento di angoscia, subito spento, ma che non manca mai alla
dimensione per cui, andando a teatro, facciamo molto di più che andare a posare le nostre chiappe
su una poltrona pagata più o meno profumatamente - aspettiamo il momento dei tre colpi e della
tenda che si apre. Senza questo tempo introduttivo dell’angoscia, rapidamente eliso, nulla di ciò che
si determinerà in seguito, come tragico o come comico, potrebbe assumere valore”.
(p. 96) “Anche nell’esperienza dello specchio può arrivare un momento in cui l’immagine
che crediamo di afferrarvi si modifica. Se l’immagine speculare che abbiamo di fronte a noi, che è
la nostra statura, il nostro viso, i nostri due occhi, lascia insorgere la dimensione del nostro sguardo,
il valore dell’immagine comincia a cambiare, soprattutto se c’è un momento in cui questo sguardo
che appare nello specchio comincia a non guardare più noi stessi. Inizium, aura, aurora di un
sentimento di estraneità che è una porta aperta sull’angoscia. Il passaggio dall’immagine speculare a
questo doppio che mi sfugge: ecco il punto in cui succede qualcosa di cui l’articolazione che diamo
alla funzione di a (cioè l’oggetto “a”) ci permette di mostrare la generalità, la presenza in tutto il
campo fenomenico”.
“Non sapete forse che non è la nostalgia del seno materno a generare l’angoscia, ma la sua
imminenza?” Per Freud l’angoscia era legata fondamentalmente alla mancanza dell’oggetto
(quando la mamma si allontana, il bambino si angoscia); per Lacan, invece, l’angoscia è la
mancanza della mancanza, ovvero la troppa vicinanza dell’oggetto. Ciò che provoca l’angoscia è
tutto quello che si annuncia, che ci permette di intravedere che rientreremo nel grembo. Non è,
contrariamente a quanto si dice, il ritmo, non è l’alternanza della presenza/assenza della madre. Lo
prova il fatto che il bambino si compiace nel rinnovare il gioco presenza/assenza (es. del rocchetto).
È la possibilità dell’assenza a dare la sicurezza della presenza. L’esperienza più angosciante per il
bambino si ha quando il rapporto sul quale egli si fonda, quello della mancanza che lo fa desiderio,
è perturbato. Ed esso si fa massimamente perturbato quando non c’è la mancanza, quando la madre
gli sta sempre addosso, specialmente per pulirgli il sederino.
Domande
Interrogante Silvana Leali
Partendo da un interesse personale e clinico mi sono chiesta: che cosa è l'angoscia? Per la
medicina è una disfunzione fisica, per la psicologia una incapacità di giudizio, per Kierkegaard c'è
un rapporto tra soggetto e mondo e l'angoscia arriva quando non c'è un oggetto a cui rivolgersi;
l’angoscia è una solitudine all'infinito riguardante il rapporto del singolo con il mondo, mentre la
disperazione riguarda il rapporto dell'uomo con se stesso.
Anche Freud ha molto elaborato questo concetto affermando che l'angoscia è un segnale di
reazione alla perdita di un oggetto fortemente investito. Quale oggetto: oggetto madre o l'oggetto
fallo?
Lacan ha dedicato un anno intero per definire che l'angoscia è un segnale reale, segnale di
godimento che precede il desiderio. Non era tanto interessato a comprendere, a descrivere
l'angoscia, quanto a tirar fuori la struttura dell'angoscia, l'angoscia nella rete dei significanti e nel
rapporto con l'Altro, dunque la domanda, il desiderio, il godimento. Dove c'è, dunque, questo
soggetto contenuto, il contenimento, c'è un desiderio, c'è l'Altro, c'è l'oggetto “a”. Importante
sembra essere questo passaggio, questa revisione dello statuto dell'oggetto: dall'oggetto “a” alle sue
cinque forme. Rispetto all'oggetto “a” mi sembra di capire che non è la cosa, ed è questa è una
domanda che faccio.
Lacan scrive: “la tentazione non già della perdita dell'oggetto ma, appunto che gli oggetti
sono ciò che non manca”. La funzione angosciante del desiderio dell'altro dipende dal fatto che il
soggetto non sa quale oggetto ha e per lui questo desiderio.
Sempre Lacan ha scritto, “sin dallo scorso anno ho pertanto introdotto l'angoscia come la
manifestazione specifica del desiderio dell'altro: l'angoscia appare prima del desiderio”.
Mi sembrano importanti tre punti per il nostro lavoro clinico: 1) gli aforismi dell'amore; 2) la
donna più vera e reale; 3) una faccenda da maschi, dove, per Lacan, la questione della donna non è
del femminile ma la posizione del soggetto nella struttura di fronte alla mancanza dell'altro. Da
questo seminario, Lacan ha poi dato una nuova lettura della sessualità, la posizione che sceglie il
soggetto rispetto alla mancanza del fallo.
Le mie domande sono: 1) il godimento fallico esaurisce tutto il godimento? 2) il desiderio è
desiderio dell'Altro o dell'oggetto? 3) la natura del partner è di diventare oggetto “a” ?
Di questa lettura mi è soprattutto piaciuto l'ultimo capitolo: da l'oggetto “a” ai Nomi-delPadre, dove parla della nascita come intrusione dell'Altro, di separare e trattenere, della voce, del
padre, del nome e l'amore. Il tema principale mi è sembrato il lavoro del lutto, oscillare tra la mania
e la malinconia, tra la legge e il desiderio e c'è una frase mi è molto piaciuta: “Non c'è superamento
dell'angoscia se non quando l'Altro si è nominato, (...) non c'è amore se non di un nome. (...) Non si
tratta che una traccia, traccia di qualcosa che va dall'esistenza di “a” al suo passaggio nella storia.
Quello che fa di una psicoanalisi una avventura unica è la ricerca dell'agalma nel campo dell'altro”.
Interrogante Patrizia Centi
Per l'argomento ho ripreso Freud e nello specifico l'opera “Inibizione, sintomo e angoscia”
per poi arrivare al seminario X di Lacan, che nei primi capitoli riparte proprio da Freud.
Sia il lavoro di Freud che quello di Lacan sembrano nascere in un momento particolare,
ovvero dall'esigenza di una revisione, di una messa appunto di alcuni aspetti della propria
costruzione teorica.
Iniziando da Freud, siamo nel 1925-6 anno in cui viene pubblicato il lavoro “Inibizione,
sintomo angoscia”, opera importante che contiene molti aspetti di revisione. Gli anni '20 sono stati
molto prolifici per Freud, infatti nel 1920 viene pubblicato “Al di là del principio del piacere”, nel
1921 “Psicologia delle masse e analisi dell'io”, nel 1922 viene pubblicato “L'Io e l'Es”, mentre nel
1923 viene a conoscenza della malattia che nel 1938 lo porterà alla morte: Freud aveva dunque una
certa fretta nel rivedere la sua teoria e, alla luce di queste tre opere, si andava modificando la teoria
dell'apparato psichico e la concezione della personalità.
Freud sente il bisogno di rivedere i problemi della psicogenesi e delle manifestazioni
nevrotiche, e soprattutto nel lavoro sull'Io e l'Es è interessato al problema delle angosce e delle
fobie.
Partendo dal concetto di rimozione, Freud risale alla prima forma di difesa dell'Io e, in
questa fase, ad essa collega altri processi, in quanto all'inizio la concezione delle psiconevrosi era
legata alla nozione di resistenza e la forma tipica della difesa nevrotica era la rimozione come
espulsione dalla coscienza nell'inconscio ma nelle nevrosi ossessive Freud scopre altri meccanismi
di difesa che sostenevano la nevrosi: la negazione, l'isolamento, il rendere non avvenuto. Egli
osserva che questi altri meccanismi svolgono una funzione di difesa dall'angoscia, che equivale
all'importanza dell'azione svolta dalla rimozione nell'isteria. E' così che si delinea la concezione
generale dei meccanismi di difesa di cui l'Io dispone, teoria poi ampiamente sviluppata dalla figlia
Anna. Alla base della nevrosi rimane l'angoscia, che è collegata all'attesa di un pericolo
indeterminato, che diventa paura quando si collega ad oggetto avvertito come pericoloso.
La vecchia teoria, secondo cui l'angoscia altro non è che libido convertita viene ora svuotata
dal suo originario significato, mentre viene invece ripresa la distinzione tra angoscia come segnale
di pericolo e l'angoscia quale reazione al pericolo stesso.
Lacan nel X Seminario, come egli stesso afferma nella prefazione, affronta l'angoscia da una
angolatura positiva, perché la sua funzione è quella di aprire alla riflessione soggettiva così come
Freud assegnava all'angoscia la funzione di causare la rimozione e aprire la formazione del sintomo
e quindi in sostanza alla lettura dell'inconscio.
Per Lacan, è l'apertura, la mancanza che permette di cogliere il senso di quello che per lui è
l'oggetto “a” piccolo, che non è l'oggetto desiderato ma quello che apre al desiderio.
I freudiani parlano di oggetti che corrispondono ai desideri che sono gli oggetti anali, orali
che Lacan completa con lo sguardo, ovvero la funzione scopica, e la voce che caratterizzano i
versanti psicotici della struttura psichica e nella teoria psicoanalitica dell'oggetto, l'oggetto
rappresenta il mezzo con il quale la pulsione raggiunge la propria soddisfazione o in una persona o
in un oggetto parziale (per esempio seno, pene, feci oppure l'oggetto transizionale winnicottiano che
ha la funzione di mediare il distacco dal seno materno).
L'angoscia non è senza oggetto, anche se Freud evoca sempre l'indeterminatezza
dell'angoscia, ma si lega all'oggetto “a”, ovvero all'oggetto perduto. In questo senso Lacan va oltre,
questo oggetto “a” piccolo non è qualcosa di perduto, che non esiste più, ma qualcosa di
costitutivamente perduto, già da sempre mancante ed assente, qualcosa di mai esistito che non è
mai stato presente.
Anche Freud afferma che l'oggetto ritrovato non è mai l'oggetto perduto.
Allora come si arriva all'oggetto “a”? Per me si ricollega al fatto che il sapere non è tutto
padroneggiabile e non tutto può passare attraverso i significanti o può essere simbolizzato, da cui
deriva questo nucleo dell'essere centrale di cui parla Freud, e quindi il raccontarsi, il dire
completamente di sé non è possibile, qualcosa manca, c'è sempre qualcosa di indicibile per ogni
persona, un buco, una apertura, una mancanza che muove al desiderio che è una molla per la vita.
Una frase letta in una intervista di Di Ciaccia mi ha colpito: “Al centro di noi c'è una zona di
cui non sappiano che cosa dire. Ad esempio, chi sono io, qualunque cosa dirò per rispondervi non
farà altro che dire qualcosa di me che gira attorno a me ma che non sono io, al centro di me al più
profondo di me, c'è sempre un silenzio, c'è un vuoto, un non senso. Il soggetto non è mai
trasparente, c'è sempre uno scarto tra la persona che si pensa di essere e l'inconscio e tutto il
lavoro dell'analisi è quel lavoro che ti permette di occupare correttamente quel posto da cui puoi
vedere che cosa è quel non senso, quel vuoto, quel silenzio, che è il centro del proprio pensiero e
centro vitale della vita”.
Altre domande
D. : Quando lei ha parlato dell'angoscia e teatro, dell'angoscia prima dello spettacolo, la cosa
che ho sentito è che è io scompaio come soggetto e c'è un tempo in cui non lo domino più, è come
partorire, in cui il figlio ti impone quando nasce e tu non comandi più, è parte di un tutto.
D. : Io volevo riprendere la frase “Angoscia è non senza oggetto”.
D. : Era interessante la parte riguardante l'ossessivo, che sappiamo essere ossessionato
dall'idea della morte, ma che in realtà, da quanto lei sostiene, non ha paura di morire.
D. : La questione del “senza oggetto” come passaggio dall'angoscia, oggetto, desiderio e
come si dispongono queste tre questioni.
Francesco Stoppa, II parte del seminario
Per quanto riguarda la distinzione tra angoscia e disperazione, il punto di vista di
Kierkegaard di cui sopra sembra anche quello di Lacan. In effetti, l'angoscia riguarda il rapporto del
soggetto con il mondo, ovvero quando l'ordine delle cose della scena vacilla, quando lo specchio si
inclina a 180 gradi e il soggetto avverte il problema dell'impatto con la vita senza troppi schermi, e
questo è il rapporto del soggetto con il reale. Non esiste un simbolico in grado di coprire, contenere
questo tipo di relazione, di sublimarlo, né un immaginario che sia in grado di confermarci nella la
nostra tenuta identitaria.
Le esperienze dell'angoscia sono molto importanti, sono strutturanti. Lacan dice che
l'angoscia e l'oggetto “a” sono strutture, hanno la capacità di dare un assetto al soggetto. Lacan
afferma che “non sono solo assenza di struttura ma produttrici di struttura”, che è quella struttura
che, per utilizzare una metafora, ci si trova di fronte quando si solleva il sipario. Ogni qual volta si
apre un sipario un attore, a meno che non sia un burattino, in fondo deve ricostruire la scena, deve
mettere in scena il mondo, qualcosa del reale, qualcosa dell'indicibile. Il mondo non è solo natura, il
mondo è anche quel qualcosa, pensando alla clinica, che si chiama “trasmissione psichica tra le
generazioni” di cui Freud parla sin dall'inizio e che fa riferimento al fatto che c'è qualcosa di
indicibile che passa da una generazione all'altra, che si deposita e che produce degli effetti in
ciascuno di noi. E' quella cosa che fa dire agli psicoanalisti classici, ed anche a Lacan, che ci
vogliono tre generazioni perché ci sia uno psicotico. C'è qualcosa che non è stato simboleggiato,
nel passaggio da una generazione all'altra, una sorta di peccato che si trasmette e che si deposita in
ciascuno di noi.
Per fare un esempio, pensiamo a quello che succede nel rapporto con l'opera: un momento
molto angoscioso, un momento in cui si tratta di iniziare e c'è il l'angoscia davanti al foglio bianco
di cui parla anche Lacan. Come si fa, come iniziare? Si tratta di un momento assimilabile al parto:
c'è qualcosa del materno radicale che entra in gioco, che per Lacan è qualcosa nell'ordine dell'atto,
dove non c'è nessuna garanzia, dove ci sono io con il mio corpo che devo mettere in atto quella
parte, quel ruolo che mi è stato assegnato. Lo devo reinterpretare e per il soggetto nevrotico si gioca
qualcosa di forte per la propria posizione soggettiva: non lo fa in maniera automatica, con un
automatismo; lo fa in maniera interpretata, soggettivata, prendendosi la responsabilità di questa
parte, ed è sempre senza rete. C'è un momento, prima che entrino gli attori in scena, del senza rete.
Mi piacerebbe discutere dove è per noi analisti, nella seduta analitica, il momento senza rete, che
interroga l'atto dell'analista, che Lacan chiama destituzione soggettiva o “disessere” dell'analista,
dove si tratta di occupare il posto dell'oggetto “a”, desoggettivarsi per occupare la posizione di
oggetto, quasi inanimato: un passaggio molto angoscioso.
Una aspetto sorprendente di questo seminario di Lacan è che c'è una riabilitazione del
concetto di Rank del trauma della nascita. Otto Rank, allievo di Freud, scrive il testo “Il trauma
della nascita”, in cui sostiene che tutta la teoria psicoanalitica del trauma, fondamento della
psicoanalisi, fino alla castrazione, è riconducibile ad un evento biologico quale è stato il trauma alla
nascita, dunque ad un fatto reale. Freud contesta questa impostazione perché sostiene che la
castrazione è un momento simbolico nel rapporto edipico del soggetto nei confronti della legge, del
desiderio materno. Lacan, invece, riabilita questo aspetto della teoria di Otto Rank, anche se dirà
che il punto traumatico, il distacco, non è tra il corpo della madre e il corpo del bambino, ma tra il
corpo del bambino e l'involucro che lo conteneva, ovvero la placenta, che diventerà il prototipo
degli oggetti a. Il suo oggetto “a” non è la madre ma l'involucro, la placenta. La funzione
dell'oggetto “a” è quella di stare in mezzo tra la madre e il bambino; poi diventerà il seno, le feci, lo
sguardo, il che permetterà a Lacan di costruire la logica dell'oggetto “a” come qualcosa che sta
“tra”, come accade nei cerchi di separazione- alienazione.
Riabilitando la concezione del trauma della nascita, Lacan sostiene che il soggetto al
momento dell'angoscia si trova in quella condizione che Freud ha chiamato “Hilflosigkeit”,
espressione intraducibile in italiano, che potremmo rendere come “una condizione di qualcuno
senza risorse”, come perso nello spazio. Lacan fa riferimento ai primi uomini che hanno camminato
nello spazio con un filo che li legava alla navicella, una sensazione di essere sospesi in un ambiente
che non è più quello che conoscevamo prima.
Il parto, il cui termine deriva da partizione, è un momento in cui l'animale umano deve
passare da un ambiente acquatico ad uno terrestre, in cui deve cambiare il sistema di respirazione,
qualcosa di traumatico. E' il prototipo di una situazione in cui mi devo dichiarare, ma mi dichiaro
sempre prima di intravedere una scena in grado di garantirmi, in cui c'è un pre in cui mi dichiaro in
una terra di nessuno, in cui mentre mi dichiaro devo imparare un sistema di respirazione diverso;
nell'esempio del teatro, devo entrare in scena e non è qualcosa di automatico. Pel lo psicotico è così,
e lo si vede bene nella loro storia, persino per lo scatenamento. Se parlate con un genitore di uno
psicotico vi dirà che era un bambino buono, che non c’era nessun segnale, con una adolescenza
spesso molto tranquilla. C’è un automatismo che sostiene lo psicotico anche nella adolescenza, che
dovrebbe essere un momento di rottura: c’è una sorta di strada in discesa, come nello sviluppo
animale, preordinato, potremmo dire, simbolicamente. Così si va avanti fino al momento dello
scatenamento psicotico, che è un punto di soggettivazione, in cui lo psicotico compie il suo atto di
rottura, compie qualcosa che non era stato possibile fare a suo tempo.
Risposta alle domande
Rispetto a come stanno in relazione la Cosa e l'oggetto “a”?
Freud ne parla nel “Progetto”, testo pre- analitico che viene prima della “Interpretazione dei
sogni”. In questo testo Freud dice che per il bambino la madre è questa “Cosa”, con la C maiuscola,
ovvero das Ding, (la Cosa nella sua astrazione); inoltre afferma che c'è qualcosa nel rapporto tra
bambino e la Cosa materna, che si presenta come scisso, ovvero abbiamo che da un lato questa
figura della madre è rassicurante ma può nello stesso tempo rivelarsi come l'oggetto sconosciuto.
Nella clinica del borderline è l'effetto che fanno il volto della madre e del padre quando, da
volti familiari, consueti, possono, per un leggerissimo gioco di sguardi, trasformarsi in volti
distaccati, giudicanti, sconosciuti, mostruosi. L'oggetto conosciuto, familiare, la Cosa, dunque,
diventa qualcosa che scatena una angoscia molto profonda, provocando il disorientamento del
soggetto fino ad arrivare al persecutorio.
La questione importante è come da questa Cosa si produce l'oggetto “a” e quale è la funzione
dell'oggetto “a” nei confronti di questa Cosa materna che rischia di diventare un tutto che inghiotte
il soggetto. A livello di das Ding, la definizione spiritosa che Lacan dà dell'angoscia è contenuta in
questo brano: “l'angoscia è una situazione di questo tipo: immaginate di trovarvi davanti ad una
mantide religiosa femmina, di specchiarvi nei suoi occhi e di scoprire che non avete una forma
umana ma avete la forma di mantide maschio”. Lacan si riferisce al fatto che nella zoologia la
mantide femmina divora il proprio partner dopo aver consumato l’atto sessuale. L'angoscia, dunque,
è di essere divorati dall'oggetto del proprio desiderio, essere inghiottito dal desiderio dell'Altro.
In che modo l'oggetto “a” diventa la risorsa del soggetto? Quando è possibile, attraverso la
dialettica della separazione, ridimensionare das Ding, questo desiderio dell'Altro, che appare al
bambino come divorante, totalizzante. Per Lacan questo è possibile nella relazione oggettuale, con
il seno, le feci, che servono al bambino gradatamente per rinegoziare il rapporto con das Ding,
ovvero per passare da una relazione di sottomissione a questa sorta di divinità, questa mamma
simbolica che ha tutto, possiede tutto, può fare tutto, ad una dimensione contrattuale in cui il
bambino riesce a rinegoziare il rapporto con la madre, de-completa l'immagine materna, le toglie
qualcosa.
In questo Seminario ci sono passaggi illuminati riguardo al rapporto con il seno e le feci, che
sono elementi del corpo della madre e del bambino che permettono di aprire una trattativa con
l'Altro, che così diventa qualcuno cui si possa arrivare a patti. Nel Seminario IV viene riportato il
lavoro del bambino insieme alla madre, nel de-costruire l'immagine della madre arcaica, in cui il
bambino scopre che la madre è anche una donna e che dunque manca di qualcosa.
Lacan dice che il seno stesso, da un punto di vista psicologico, è una specie di protesi
attaccata al corpo della madre che non è né della madre né del bambino: è il loro punto di unione e
disgiunzione, andando così a rappresentare il confine della presenza-assenza, unione-separazione. Il
bambino scopre dunque che il seno non è una proprietà della madre, ma è un punto di possibile
unione tra i due e può pertanto anche rifiutarlo.
Ripristinando questa logica binaria di presenza-assenza, unione-separazione, staccando
questo oggetto, la madre è de-completata e il bambino acquisisce la possibilità di contrattazioneseparazione. L'oggetto “a” serve a questo. Non è un oggetto visibile, incarnabile, ma è un concetto
logico. Appare nelle psicosi perché non sufficientemente simbolizzato, mentalizzato, reso psichico e
in quanto tale ritorna nel reale. Questo accade ad esempio con la voce: nessuno può cogliere la
propria voce. Il fatto che ci sia qualcosa nel mondo che non si può cogliere, prendere, che non è
visibile, che dunque non è di nessuno, è una garanzia di libertà di entrambi.
Tutta la relazione “soggettuale” scandita da questi oggetti diventa un percorso, come direbbe
la Malher, di individuazione-separazione: ci si individua, si diventa soggetti, tramite momenti di
separazione. Per Lacan separarsi significa mostrasi, uscire dall'anonimato, avere una propria
identità. É l'oggetto “a” che permette questo, ovvero la costruzione di questo oggetto che è un
derivato di das Ding, l'oggetto primordiale, in quanto lo negativizza. Pensiamo alla funzione che ha
il vuoto affinché possa esserci possibilità di parola: è necessario che qualcosa manchi per darci la
possibilità di dialogo, di parola, di discorso, come anche di movimento.
M. Pacelli: ricollegandoci al fatto che il corpo nella sua totalità viene ripreso nelle zone
erogene nella particolarità di questi pertugi, che sono dei punti di collegamento circoscritti,
possiamo pensare a das Ding, per metafora, come all'interezza, al tutto pieno che viene però
particolarizzato solo in alcuni punti di passaggio, di contatto? Mi sembra inoltre che qui si possa
rilevare una questione che riguarda la madre e bambino rispetto al premiare e al punire e tutta la
questione dell'ossessivo che cerca la punizione dell'Altro.
F. Stoppa: ognuno di noi è legato a quelle che sono le tracce del godimento proprio ed anche
dell'altro. La madre das Ding, la tipica madre dello psicotico, non è una madre che non ama il figlio,
anzi, ma porta il suo desiderio come non sufficientemente particolarizzato: non si vede lo stile
personale di quella madre, non gioca il suo sintomo, non mette in gioco la sua umanità. Lacan, nello
scritto “Due note sul bambino” dice che si tratta di un desiderio anonimo. È invece importante che il
bambino scopra che il desiderio di entrambi i genitori non è anonimo. Quando ho affermato
l'importanza che il padre porti il suo peccato, mi riferivo proprio all'importanza che entrambi i
genitori non trasmettano solo la legge e l'ordine, ma che nella trasmissione di questo passi il modo
in cui sono state persone, uomini, lo stile, la traccia del godimento di quelle persone che li
particolarizza, che li fa passare da una situazione di onnipotenza ad una più umana, di mancanza ad
essere.
R. Gerbaudo: questo mi sembra interessante nella questione dell'autismo…
F. Stoppa: rispetto alle questione posta sull'angoscia, Lacan pone l'angoscia come elemento
mediano, non mediatore, tra il godimento e il desiderio: in mezzo c'è l'angoscia. Per fare un
esempio, il godimento come tutto, come pieno è das Ding, ma come abbiamo detto c'è bisogno che
il bambino stacchi qualcosa da questa totalità perché questa totalità non sia più tale e si apra per lui
la porta del suo desiderio, del soggetto, che non sia inghiottito dal desiderio dell'Altro.
Non è una funzione mediatrice: l'angoscia è solo “mediana”, come a dire che l'angoscia non
risolve il problema, ma è un segnale, produce l'oggetto che il soggetto dovrà onorare per porsi in
una posizione desiderante.
C'è un esempio che Lacan prende dalla clinica che rende conto di questo ed è l'esperienza
dell' “Uomo dei lupi” e nello specifico quel che racconta riguardo alla scena primaria. L' “Uomo dei
lupi” racconta che da bambino avrebbe assistito alla scena di un rapporto sessuale dei genitori e ad
un certo punto inizia a piangere, a defecare, interrompendo il godimento.
Per un bambino piccolo sapere che i genitori, che sono le sue divinità, emettono dei rumori
nel momento in cui fanno l'amore, il coito, sconvolge il suo assetto, la sua cornice: è come se nella
sua cornice entrasse qualcosa, questo godimento incontenibile, questi elementi sensoriale che hanno
un effetto destabilizzante. Il bambino in realtà non sa cosa stia succedendo, potrebbe interpretarlo
come una lotta, dice Freud, ma l'impressione sonora è molto disturbante.
La funzione di questo oggetto che si stacca, ovvero le feci dell' “Uomo del lupi”, è
fondamentale: il bambino, da questo tutto che invade il suo corpo, stacca qualcosa dal suo corpo, ha
bisogno che qualcosa fuoriesca, che qualcosa non sia dentro al tutto, che diventa l'oggetto anale e,
fra l'altro, interrompe il godimento e dunque ha un effetto di separazione nel campo dell'Altro.
L'immagine è chiarificante di come il bambino abbia bisogno di produrre questo oggetto
grazie all'angoscia: l'angoscia è dunque il momento produttivo di questo oggetto.
Quando diciamo con Lacan (Seminario X p. 97) che l’ “angoscia (è) non senza oggetto”,
intendiamo dire due cose: da un lato che l'angoscia è un momento che produce separazione e quindi
“è non senza oggetto”, perché nella separazione si produce un oggetto; in secondo luogo, diciamo
che l'oggetto non è la causa dell'angoscia, ma ne è il prodotto in quanto è causa del desiderio.
Si può intendere invece “angoscia non senza oggetto” sul versante di das Ding perché ha un
oggetto mostruoso, totalizzante, che è das Ding quando non è ancora umanizzato, e lo si trova per
esempio nel racconto di Hoffmann “Le Horla”, in questo mostro che appare. Dunque “l'angoscia
non senza oggetto” è quella che produrrà il desiderio a livello di separazione, mentre questo, invece,
è il livello di apparizione del perturbante.
L'angoscia, dunque, da un lato fa segnale al soggetto: “attento, stai per perdere i confini, stai
diventando puro godimento”; dall'altro invita a staccare un oggetto, per cui vi è una via d'uscita sul
versante del desiderio.
Rispetto alla discontinuità tra psicosi e nevrosi
L'angoscia nella psicosi è molto differente dell'angoscia nella nevrosi, non ha lo stesso
tempo di riverbero.
Lacan dice che nel fantasma nevrotico il soggetto si cerca nell'oggetto “a”, non nell'oggetto
specularizzato: tenta di afferrare questa verità. Non ci riuscirà mai a livello del fantasma perché il
fantasma non è nel reale, ma il tentativo è comunque di capire lui che oggetto è. Cerca la sua verità
nell'oggetto e dunque possiamo dire che è sulla strada giusta.
Il problema della psicosi, invece, è che il soggetto non è oggetto “a” nel fantasma ma si
percepisce oggetto “a” nel reale, si percepisce pezzo del corpo della madre. Il punto dello psicotico
che si scompensa arriva quando si apre il sipario e non ha gli strumenti simbolici. Ed è proprio
questa la differenza tra lo psicotico che si scompensa e chi che non si scompensa: il primo sente che
non può far più come se; un testo famoso di Andelloir afferma che gli schizofrenici che non si
scompensano o gli schizofrenici fino ad un certa età hanno funzionato nella normalità perché il
funzionamento era basato sull'idea del “faccio come se”, dell'imitare qualcuno; chi che si
scompensa è colui che, di fronte al sipario che si alza, non ce la fa più a fingere, gli salta la realtà, e
questa è una prova di verità dolorosissima.
Nella psicosi, dove c'è pienezza, non c'è separazione, e l'analista non deve avere una
funzione paterna ma deve piuttosto porsi come oggetto “a” in mezzo, ad esempio, tra il paziente e la
madre.
P. Centi: l'angoscia è un indice diagnostico?
F. Stoppa: io affermo di si. Nel Seminario sulla psicosi, Lacan afferma che per capire
l'angoscia nello psicotico dobbiamo immaginare che cosa fosse il vissuto degli uomini primitivi
quando arrivava la sera e non avevano nessuna certezza che il giorno dopo sarebbe stato un altro
giorno, che il sole sarebbe ritornato. L'angoscia nello psicotico non produce l'oggetto che poi
diventa oggetto del desiderio, importante per la soggettivazione, ma l'angoscia nella psicosi è
nell'ordine di una paura ancestrale.
Rispetto alla questione che mi avete posto dell'ossessivo in cui la questione non è la morte in
quanto tale, se non altro perché la morte non è nell'ordine del reale, ma la vita: per l'ossessivo,
quando si chiede “sono vivo o sono morto?”, il suo interrogativo è come si fa a essere vivi, cosa
significa essere viventi, il che impone di decidere, di scegliere.
Se pensiamo all'angoscia dell'ossessivo di essere sepolto vivo, che perde una vita a pensare a
questo, questa angoscia bene rappresenta la “tomba” del desiderio. Ritengo, senza troppe
generalizzazioni, che l'ossessivo è meno esposto al rischio suicidario perché la sua angoscia è tutta
sul pensiero, a differenza dell'isterica, in cui l'angoscia è giocata tutta sul corpo.
L'ossessivo si difende dalla questione del godimento, perché quando il desiderio è causato
dall'oggetto “a” le tracce di godimento ci sono, ci si difende dal godimento dell'Altro. L'ossessivo
pensa sempre al godimento dell'Altro, ma del suo corpo in quanto reale che ne sa? Per lui sarebbe
meraviglioso non avere un corpo, essere invisibile, il suo mondo ideale è quello degli angeli senza
sesso.
L'ossessivo è stato goduto troppo, a differenza dell'isterica, come diceva Freud: l'isterica si è
considerata troppo poco amata, l'ossessivo troppo amato. In tal senso la rettificazione soggettiva,
anche nell'ossessivo, deve portare verso una isterizzazione, dove inizia ad interrogarsi su che cosa è
lui nella sua identità. Con l'ossessivo bisogna un po' provocare, sempre con molto rispetto,
comprendendo che l'ossessivo soffre.
Un passaggio importante per l'ossessivo è quando recupera il proprio rapporto con la madre,
la dimensione del godimento materno, quando inizia a trovare i punti in cui il suo corpo è il corpo
della madre: quindi non è la madre simbolica, arcaica, castrante, che lo venerava, ma la madre come
donna e dunque inizia a comprendere quanto questa donna lo ha conteggiato con il suo godimento.
Può cominciare a parlare del suo corpo conteggiato dal godimento della madre.
La via di uscita per l'ossessivo è quando inizia a parlare del suo godimento, del suo corpo:
esce dal fantasma del godimento dell'Altro ed entra nella verità del proprio godimento. Riabilito il
corpo come mio corpo, come reale.
Altro aspetto importante per l'ossessivo è quando inizia a recuperare i ricordi dell'infanzia,
inizia a sognare, dove si vede che cosa è il corpo, il che può portare all'identificazione con il proprio
sintomo: questo è importante perché è il momento in cui ho giocato il mio ruolo di vivente. Questo
lo fa uscire dalla razionalizzazione, altrimenti tutto rimane sul versante del significante.
Rispetto alla domanda se il partner diventa l'oggetto “a”
Lacan va in questa direzione e nel seminario “Reale, simbolico immaginario” dice questo:
“un padre è degno di amore e di rispetto se amato perversamente e, aggiunge, se ha fatto della
propria donna l’oggetto causa del desiderio, se ha posto la propria donna nella posizione
dell'oggetto “a” e se gli ha dato dei figli. In qualche modo, nella persona che amiamo, il rispetto è
che ci sia sempre qualcosa nell'ordine dell'inconoscibile: noi amiamo nell'Altro questo punto.
Questo vale anche per i genitori nei confronti dei figli e nella coppia. Riprendo la questione
che è anche quella dell' “Uomo dei topi”, il discorso della scena primaria, per dire che nel bambino
è importante scoprire che la madre ha un certo tipo di desiderio e il padre un altro: la cosa
spaventosa è immaginare i genitori come un unico mostro con due teste, un unico desiderio, un
unico corpo. Bisogna capire che c'è sempre qualcosa che non fa unione, non fa “uno”, che lascia
separati, e quindi se può esistere l'amore è perché non possiamo dirci tutto, non siamo una unica
cosa, ci vuole l'amore che è parola, che è domanda che colma questo vuoto ma che lo riconosce
nello stesso tempo, che riconosce le differenze tra l'uno e l'altro.
Testo a cura di Dina Pero e Roberta Tancredi
Revisione del testo di Marco Pacelli