Siamo tutti immersi nella fragilità, come piccoli pesci nell`acquario

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Siamo tutti immersi nella fragilità, come piccoli pesci nell`acquario
Giorni e nuvole … forti e feriti
“ Quando sono debole, è allora che sono forte”
Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi
“Volti al travaglio
come una qualsiasi fibra creata
perché ci lamentiamo noi?
Giuseppe Ungaretti, L’allegria – Il porto sepolto, 1916
Siamo tutti immersi nella fragilità, come piccoli pesci nell’acquario del mondo che nuotano
ma potrebbero morire da un momento all’altro. Le nuvole sovrastano minacciose la nostra
città ricordandoci che tra il bene e il male c’è una zona grigia pronta a diventare un sole
luminoso o un temporale minaccioso. L’arte con la sua bellezza sta sullo sfondo ad indicare
un’armonia che sembra impossibile ma alla fine sembra essere proprio questa bellezza che
fa diradare le nuvole. Ecco i tre simbolici protagonisti del film di Soldini: i pesci di un acquario, le nuvole di una grigia Genova, l’affresco a cui sta lavorando Elsa che apre e chiude la storia raccontata.
E dall’affresco raccogliamo le tante stelle che si stagliano sul soffitto quasi a ricordarci gli
innumerevoli desideri che abitano la vita delle persone e come poi la quotidianità riporti
ciascuno a terra, incollati al pavimento come Elsa e Michele, distesi con tutto il loro corpo
per recuperare la forza dopo tanta gravità. E’ difficile stare sempre in piedi, per farcela
ogni tanto bisognerebbe distendersi come i due coniugi ed osservare l’Annunciazione, cogliendo il messaggio che si rinnova per ciascuno di noi. Per mano Elsa e Michele si dicono
«Sei tu? Si, sono io. Anch’io.» E’ l’Annuncio: finalmente ci siamo ritrovati, perché ciascuno
ha recuperato se stesso dopo il tempo della prova. Come pesci abbiamo vagato senza
senso per l’acquario e ora una nuova armonia abita la stessa acqua che ci confuse e disperse. Elsa dicendo a suo marito: «Sei arrivato quando volevo arrivassi», eleva Michele
alla perfezione dell’arte e del restauro per i quali la sua anima vibra ormai da anni. In quel
momento Soldini ci regala l’unico amplesso di tutto il suo film; con una delicatezza magistrale le anime dei suoi personaggi fanno l’amore forse come i loro corpi non l’hanno fatto
mai e si fondono in un ritrovato e motivato piacere.
Eppure Giorni e nuvole è un film senza fine. Elsa e Michele, immersi nell’estasi
dell’esperienza artistica, rinnovano la loro promessa di bene compiuta 20 anni prima
quando si sposarono, ma non ci rivelano le strategie pratiche con cui attueranno tutto ciò.
Non sappiamo come e quale lavoro ricercherà Michele, come Elsa terrà insieme la sua
passione per l’arte e il restauro non retribuito e le necessità economiche, quale sarà la loro
casa per il futuro, se ci sarà una nuova barca, se Michele diventerà consulente contabile
per il ristorante della figlia Alice, se Elsa scarterà il cellulare regalato da Riki, se Vito diventerà il migliore amico di Michele e se Elsa saprà contare sulla sua amica Nadia.
Nell’ultima parte del film Soldini sceglie di non approfondire nulla di tutto ciò, mettendo
l’accento in modo inequivocabile solo su quanto avviene nel ritrovarsi di Elsa e Michele.
Soldini attribuisce il significato principe del suo film proprio alla riscoperta delle motivazioni, del senso, dei valori che sostengono il legame tra Elsa e Michele. Non aggiungere altri
dettagli significa tecnicamente incoronare a regina l’ultima sequenza e sussurrare al pubblico che quanto avviene è l’unica cosa fondamentale da cui scaturirà anche quanto viene
solo immaginato o sperato. Con l’assenza del “the end” il regista realizza un’estetica di
questo suo obiettivo, forse lasciando sospesi gli spettatori desiderosi di trattenersi ancora
un po’ con questa coppia così vicina a molte altre fuori dal grande schermo.
Sui titoli di coda ciascuno di noi in filigrana intravede la fedeltà al bene di questa coppia,
conquistata anche con qualche scivolone (ritornano alla mente i pattinatori di Casomai di
D’Alatri), la forza malgrado le turbolenze incontrate nei giorni della vita. La virtù cardine
per l’uomo che emerge in questo film è proprio la fortezza. Soldini a questa coppia ferita
chiede di essere forte, di non vacillare anche se il disegno della loro unione mai come ora
sembrava compiuto e in pochi giorni invece viene completamente avvolto dalle nuvole.
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Quella Genova quasi pittorica, perfetta e immobile come una veduta del Canaletto, che si
staglia sullo sfondo dei titoli di testa, si decompone lungo il film lasciando emergere le ferite e i turbamenti di un’Italia in preda al precariato e all’assenza di un’etica del lavoro.
All’inizio del film lui è un affermato imprenditore nel campo dei cantieri navali, lei ha potuto lasciare il suo lavoro, per dedicarsi alla sua laurea in storia dell’arte e ad un restauro
non retribuito. Stanno bene economicamente, hanno un bell’appartamento, una colf e una
barca di loro proprietà e dopo la bella festa a sorpresa Michele e Elsa partiranno per il
viaggio premio della laurea. Anni di fatiche e di desideri, di sacrifici e di passioni hanno
preceduto questo tempo della piena maturità così denso di soddisfazioni; a turbare il contorno idilliaco (borghese?) solo qualche plausibile incomprensione con la figlia Alice.
Michele e Elsa sono così vicini a quello che tante coppie di sposi inseguono – comprensibilmente – anche nella realtà, per raggiungere, giorno dopo giorno, sempre nuovi traguardi: la realizzazione dei figli, il benessere economico, il lavoro, la casa, i viaggi, le passioni,
il relax, i desideri da avverare dopo averli tenuti segregati in soffitta per tanti anni. L’unica
nota stonata di questa melodia è che si tratta pur sempre di traguardi da raggiungere ma
non conseguiti per sempre e che possono venire meno in un tempo troppo breve e senza
preavviso. E se avessimo fondato nel frattempo la nostra vita e le nostre relazioni solo su
tutto ciò? Una mossa assai pericolosa e Michele ed Elsa ne provano il brivido sulla loro pelle. E’ un rischio che tutti possono correre poiché legato all’esperienza della nostra umanità
e del limite che la caratterizza in ogni dimensione, non ultima la morte che vanifica, o meglio pone fine, a ogni nostro sforzo.
Alla fine della festa, dopo una sbornia di gioia ed entusiasmo per una nuova tappa raggiunta da parte di Elsa e la sua famiglia, Michele non trattiene più il segreto e rivela le zone d’ombra di questo periodo. Da due mesi è senza lavoro, è stato elegantemente fatto
fuori dal suo socio. Michele ha un carattere un po’ brusco, ma ciò non basta per perdere il
lavoro. In realtà la sua etica non gli ha permesso di avvallare i generosi licenziamenti di
personale voluti dal suo socio, rimettendoci in proprio con la propria carriera professionale. La fortezza richiede il coraggio delle scelte, dei no, delle posizioni scomode anche
quando tutta la corrente sembra andare in direzione opposta. Volere il bene sopra ogni
cosa, la virtù dei forti, può portarci a sperimentare anche i disagi delle nostre scelte etiche. I martiri ci ricordano che è possibile perdere – donare – la propria vita per il bene e
di non cadere per questo nella debolezza ma di vivere proprio alla luce della fortezza.
Dopo l’amara scoperta Elsa cammina simbolicamente sui cocci della sua vita infrantasi in
pochi attimi e non riesce a comprendere perché Michele abbia atteso così tanto per condividere con lei quanto accaduto. Michele ha avuto paura. Non voleva turbare un tempo inserito ufficialmente da tutta la sua famiglia e i suoi amici nella categoria della felicità. La
felicità ancora una volta prende le distanze dalla serenità, che contempla l’esperienza del
limite nella vita delle persone.
Michele le confessa di aver provato tanta vergogna. Questo sentimento è l’altra faccia della medaglia della fortezza. Siamo forti quando conosciamo, guardiamo in faccia e accettiamo il nostro limite, l’imperfezione, l’incompiutezza di alcune situazioni e periodi, la nostra infermità talvolta fisica altre volte spirituale. In noi nasce una nuova umiltà, veniamo
come partoriti una seconda volta, delle nuove braccia, non più materne, dell’adultità ci
avvolgono e ci danno la forza di affrontare anche quello che sembra uno schiaffo
all’equilibrio raggiunto con notevole fatica.
Il grande paradosso che trova spiegazione solo nell’incontro di ragione e spirito è che la
nostra debolezza può diventare la nostra forza. Chi vive nell’umiltà e nella verità riesce a
lasciare lo spazio all’aiuto degli altri e, per i credenti, di Dio. La superbia di bastare a se
stessi è nemica della fortezza. Siamo davvero nel coraggio quando viviamo la nostra fragilità e vulnerabilità e lasciamo intravedere agli altri le nostre ferite smettendo di difenderci
e accettando consiglio e aiuto materiale. San Paolo ci ricorda che la grazia di Dio ci basta e
la sua potenza si manifesta pienamente nella debolezza. Non accettare la nostra debolezza
ci impedisce di credere mentre il limite della nostra umanità è il luogo privilegiato per incontrare il Signore.
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Elsa sente l’angoscia salire alla gola. Sapere di questo cambio di vita in pochi istanti, vedere oltre alla perdita del lavoro del marito anche il conto in banca azzerarsi e l’ulteriore
rinuncia alla casa, barca e colf, le richiede un surplus di forza considerevole. Ad un certo
punto arriva a pensare che forse avrebbe preferito un nuovo tradimento (già vissuto in
passato), ma Michele, non più ironicamente, sottolinea che non l’avrebbe preferito lui.
All’inizio lui esige da lei un po’ più di ottimismo; in realtà è proprio lei ad essere portatrice
strategica e concreta di questo sentimento. Elsa mette da parte i sogni e ritorna a cercare
un lavoro retribuito: passa dal restauro ad un impiego al call center part-time e c’è anche
un lavoro serale come impiegata. Sullo schermo Elsa rimane bella, attraente, forse meno
agghindata, ma capace di affrontare la sfida e il dramma che non immaginava lontanamente per il suo futuro. Ricomincia a cucinare, a pulire la casa, a fare le lavatrici, ad andare a letto vestita perché troppo stanca dal lavoro. La casa che prima era diventata uno
status symbol e che veniva frequentata da lei e il marito come un albergo, ora ritorna ad
essere parte dei doveri quotidiani a cui adempiere e non più un gioiello da esibire. Eppure
quando Vito (il sempre bravissimo Battiston) inneggia alla pasta di Elsa in quella modesta
cucina, il senso e la dignità delle cose e delle relazioni si fa nitido e la simpatia che si respira nella convivialità restituisce il calore perso nell’impoverimento sperimentato. Insieme
compiono una discesa in seconda classe, una categoria di cui avevano scordato le caratteristiche, ma che accomuna gran parte della comunità civile italiana. Va comunque aggiunto che una prima classe radicata nella materialità e nella proprietà e non nella fedeltà al
bene e alla proprie scelte e valori, ci porta molto lontano da una vita morale equilibrata.
Malgrado Elsa tiri fuori una grinta e uno spirito di sacrificio da vendere, non è comunque
salva dal vacillare. Ciò che la rende inerme e che la coglie completamente impreparata è
la reazione iniziale di Michele che non riesce a dialogare con la figlia Alice, a vivere una relazione di reciproco aiuto e sopportazione con la moglie e a darsi da fare nel trovare un
nuovo percorso professionale. Michele è disarmato dal nuovo (ormai non più così tanto)
scenario e modalità di collocamento nel mondo del lavoro. Elsa lo invita a rinunciare ad offerte di lavoro più modeste per cercare opportunità professionali di più alto livello, che
sembrano essere d’obbligo vista la sua esperienza precedente. In questa vertigine del posto di lavoro di prima categoria Michele entra lentamente ma inesorabilmente nel baratro
del nulla fatto di piccoli impegni temporanei e perfino giornalieri. L’inerzia gli sale alle
gambe, lo imprigiona in casa al sicuro dalle umiliazioni delle agenzie interinali. Si sente
protetto solo da Vito e dal suo amico. Con loro riacquista un po’ di fiducia in se stesso e ne
scaturisce quell’indole artigianale che da sempre ha caratterizzato molta parte dell’Italia.
Ma appena i suoi argini vengono meno, si sente di nuovo solo in mare aperto, senza sapere in quale direzione proseguire il suo ritorno in superficie. Questa infermità spirituale che
Albanese riesce a trasmetterci anche fisicamente lo riporta vicino al padre, ormai lontano
dai confini della realtà. Entrambi naufraghi in questo mare di solitudine contemplano la
sorte, quasi leopardiana, dei pesci dell’acquario.
Michele ha perso il suo lavoro per il bene, ma lo stesso ideale ora non riesce a sorreggerlo
nel momento della prova. In Giorni e nuvole si comprende proprio come una vita morale
autentica richieda forza non al momento delle scelte ufficiali, pubbliche, ma soprattutto
successivamente nel tempo delle conseguenze, nell’ora del dolore più acuto dove il bene
lascia ferite sulla pelle. La fortezza è anche la capacità di auspicare il bene in una relazione, di cercarlo nel dialogo e nel silenzio con l’altro, di sapersi trattenere dalle parole pesanti, dalle grida e dalle violenze fisiche.
La forte Elsa regge gli attacchi materiali che la vita le presenta, ma non riesce a difendersi
dal rifiuto di “vivere” – anche se temporaneo – del marito. In questo sente un’offesa ingiusta a quanto sta facendo per dare il suo contributo alla famiglia. E qui la fortezza anche a
lei viene meno, i vuoti d’affetto e di presenza attiva di Michele la rendono fragile, tanto da
credere che le attenzioni di un collega le possano donare un piacere necessario. La virtù è
quanto veramente ci viene richiesto nel tempo della fragilità. Se da un lato dovremmo impegnarci per essere pronti nel tempo della debolezza, dall’altro lato l’umanità nel prodigarsi per la felicità si distrae proprio da questo orizzonte. I semi della fortezza sono in Elsa e
in Michele con tutte le ambiguità che appartengono all’umanità, all’uomo e alla donna.
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Quanto di costruttivo questi sposi riescono a fare è proprio frutto di questa loro tensione al
bene. Quando si perdono d’animo e la lamentazione prende il sopravvento, la distanza tra
loro aumenta sensibilmente. Ad entrambi è chiesto di essere forti. Questo coraggio diventa il primo dono per la loro relazione. Sono chiamati a custodire giorno per giorno – anche
nella minor splendore della povertà – il comandamento dell’amore, che hanno celebrato
nel giorno del matrimonio.
Per concludere mi sembra azzeccato questo pensiero del prof. Salvatore Natoli: “Chi è forte sopporta perché riconduce nell’ambito della propria iniziativa ciò che per altro verso è
costretto a subire. Ma ciò a cui l’uomo non può sfuggire, ciò che deve inevitabilmente subire, è la propria morte. E non tanto quella che giunge alla fine, ma quanto piuttosto le
molti morti che attraversano la nostra vita: la salute malferma, gli amori perduti, i bersagli
mancati. Per prendere su di sé il proprio limite c’è bisogno di forza: questa forza feconda è
la virtù”. Giorni e nuvole!
Arianna Prevedello
Tre domande… per il laboratorio di laicità
Forse non tutti abbiamo raggiunto quel traguardo sociale nel quale Michele ed Elsa si presentano (imprenditore professionista lui e splendida cultrice dell’arte lei), ma qualcuno ha
provato cosa significa precipitare dalle proprie sicurezze, dai propri successi, da quanto faticosamente cercato e onestamente guadagnato?
Proviamo a raccontarci, a raccontare le emozioni profonde di queste esperienze…
Fortezza non è necessariamente la virtù che ci fa mantenere salda la posizione nonostante
le tempeste; il più delle volte è la capacità di ricominciare dalle sconfitte, di ricostruire dalle macerie, di ricomporre orizzonti nuovi, magari anche molto più modesti, dopo uno tsunami. Nella scena finale Michele ed Elsa ricominciano da distesi per terra, guardando e
scorgendo le stelle da quell’affresco.
Proviamo a declinare insieme la virtù della fortezza.
Tra le tante, una pagina del vangelo può essere affiancata in qualche modo al film di Soldini: è Luca 15, la parabola del figlio prodigo. Il ragazzo – distrutto ogni suo sogno – si ritrova a terra tra i porci e trova forza (fortezza?) di alzarsi e ritornare dal padre. In fin dei
conti è ilo sottile e tenace legame degli affetti a farlo rialzare. Così per Michele ed Elsa.
Proviamo a comporre insieme le due scene; proviamo ad affiancarne qualcuna di nostra.
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