Pink Floyd, a Londra la prima grande mostra sulla
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Pink Floyd, a Londra la prima grande mostra sulla
Pink Floyd, a Londra la prima grande mostra sulla band Il maiale gonfiabile dei Pink Floyd torna a volare sui cieli di Londra. Per annunciare la nuova mostra dedicata alla storica rock band inglese presso il Victoria & Albert Museum, che partirà il 13 maggio 2017 per durare fino al 1 ottobre. La grande retrospettiva dal titolo Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains, un percorso multimediale e multisensoriale che celebrerà la formazione a 50 anni dall’uscita del primo singolo Arnold Layne. La mostra, sull’impronta di quella dedicata a David Bowie nello stesso polo, esporrà 350 oggetti appartenuti al gruppo che faranno felici i fan, come i preziosi strumenti che hanno espresso quel sound unico, ma anche video delle esibizioni, contributi musicali, fotografie, disegni e dipinti, costumi, manifesti, manoscritti originali, artwork, scenografie, vari memorabilia. Hanno collaborato all’allestimento anche i Pink Floyd rimasti, fornendo oggetti inediti. Roger Waters, David Gilmour e Nick Mason hanno rinunciato a reunion ormai fuori tempo massimo, ma hanno collaborato per valorizzare la mostra. Non mancano simboli divenuti icone contemporanee, come il prisma di Dark Side of the Moon e il palloncino a forma di maiale che si staglia tra le ciminiere dell’imponente centrale elettrica di Battersea nella copertina del disco Animals e altre immagini e suggestioni visive, frutto della collaborazione creativa con artisti come Storm Thorgeson, Gerald Scarfe e Peter Wynne-Willson. Dal 1967 la band ha influenzato molto la scena musicale e non solo con 200 milioni di dischi venduti e concerti di massa che li hanno consacrati, lasciando una forte impronta nell’immaginario e nella cultura e riuscendo a suscitare grandi emozioni con un sognante rock psichedelico, anche dopo contrasti e vicissitudini tra i vari componenti. La mostra londinese sarà un modo per conoscere, rivivere con nostalgia e assaporare l’onda lunga di questo straordinario fenomeno musicale. Informazioni e biglietti già in vendita su: http://pinkfloydexhibition.com/ di Valentino Salvatore Syd Barrett e la sindrome di Asperger. La tesi nel libro di Mario Campanella A dieci anni dalla morte del “diamante pazzo” Syd Barrett, il geniale chitarrista fondatore dei Pink Floyd, una nuova biografia a lui dedicata firmata dal giornalista scientifico Mario Campanella. Barrett con il tocco della sua creatività rendeva graffiante e unico il sound della band britannica. Già a 14 anni la sua passione per la musica era forte al punto da condurlo a fondare un gruppo con i suoi amici Roger Waters e Bob Klose, i Pink Floyd Sound che solo in seguito, con l’aggiunta di Nick Mason e Richard Wright al posto di Klose diventeranno nel 1965 i Pink Floyd. Un nome legato ai suoi bluesmen preferiti, Pink Anderson e Floyd Council, oppure come sostenne, un nome suggerito da alieni. Lo stato di salute di Barrett cominciò a peggiorare nel tempo a causa di gravi problemi mentali e per l’abuso di droghe. Decise di abbandonare la sua band. Toccò a David Gilmour sostituirlo, mentre lui tentò una carriera da solista, una corsa in solitaria verso il baratro. Nel 1975 i Pink Floyd pubblicarono l’album Wish You Were Here, dedicato a Barrett, con la perla Shine On You Crazy Diamond. Barrett si presentò negli studi dei Pink Floyd con aria sfatta, senza sopracciglie, obeso, brandendo uno spazzolino da denti, tanto irriconoscibile che nemmeno i suoi ex compagni si accorsero della sua presenza. Gilmour capì dopo tempo che era lui e si sciolse incredulo in un pianto. Al termine dell’insolita visita scomparve nel nulla, così come era venuto. In passato ad essere considerata causa principale dei suoi mali fu una presunta schizofrenia di cui sarebbe stato affetto. Solo recentemente è emerso che in realtà “Syd Diamond” soffrisse della sindrome di Asperger, così come rivela il libro di Campanella, attraverso documenti e testimonianze inedite sul genio folle del rock. Ne abbiamo parlato con l’autore. Com’è nata l’idea di scrivere un libro su Syd Barrett? Syd Barrett è sempre stato uno dei miei miti adolescenziali, diciamo il secondo dopo Maradona . La sua personalità mi affascinava e cercavo, parliamo di fine anni ottanta, notizie che erano difficili da reperire. Nel suo libro sono riportate testimonianze inedite di amici e parenti di Barrett, con un’analisi accurata della sua personalità. Quanto è durato il suo lavoro di ricerca prima e di scrittura del libro? L’anno scorso ho scritto una pubblicazione scientifica per Giovanni Fioriti sull’argomento tradotta anche in russo e riportata da Wikipedia. Quando Vincenzo Martorella, direttore editoriale di Arcana, mi ha proposto di farne un libro mi è sembrato naturale. Ho lavorato circa un anno per raccogliere testimonianze, interviste, fonti. Nel suo libro sostiene che Barrett, ritenuto schizofrenico, avesse in realtà una forma ad alto funzionamento della sindrome di Asperger, aggravata da abusi di droga. Puo’ spiegarci come è arrivato a tale conclusione? Syd Barrett non era schizofrenico. Assolutamente. Lo hanno detto i medici che lo visitarono all’epoca. Le sue manifestazioni patologiche furono causate da un uso di LSD e Mandrax senza precedenti. Arrivava a consumare l’equivalente di 250 dosi attuali e questo lo ha fatto per tre anni. Quella droga ha mangiato i suoi neuroni. L’Asperger era una forma di spettro autistico che aveva , e lo si nota dai suoi comportamenti, e che non gli avrebbe dato alcun fastidio senza le droghe. Ancora oggi c’è una forte ignoranza sull’autismo. Intanto, non è una psicosi. Poi, ci sono diverse sue forme compatibili con la normalità. Pensi che, per quanto riguarda l’Asperger, pare che ce l’abbiano due grandissimi americani del settore informatico e social e il Presidente della più importante nazione europea. Lei è membro del Comitato Scientifico della Fondazione BRF Onlus- Istituto per la Ricerca Scientifica in Psichiatria e Neuroscienze che ha tra le sue finalità quella di migliorare e approfondire la conoscenza delle neuroscienze ed avere una maggiore consapevolezza sulle malattie mentali. Crede che questo libro possa aiutare tale consapevolezza? Brf è nata grazie a due grandi scienziati italiani, Armando Piccinni e Donatella Marazziti, e ha al suo interno grandi nomi delle neuroscienze. Brf fa ricerca sulle nuove frontiere delle neuroscienze, dal rapporto intestino cervello alle ripercussioni autoimmunitarie e infettive. Forse questo libro non ha attinenza con Brf ma è importante divulgare le sue attività . Esiste, secondo lei, una relazione tra la follia e la genialità? Guardi, credo sia un falso mito. Van Gogh era epilettico, Trabucchi sosteneva che Dino Campana fosse sifilitico, così come sappiamo che lo era Nietzsche. Avevano malattie fisiche che si riflessero sul cervello ma la loro genialità dipendeva da altro. Secondo lei allora cos’è la genialità? La si puo’ spiegare scientificamente? La genialità è attivata da alcuni processi neuronali secondo gli studi dei grandi neuropsicologi. Già Lurja fece esprimenti in tal senso. Preferisco, da profano, pensare che la vena artistica sia presente in ognuno di noi , anche se (per fare un esempio) le allucinazioni epilettiche furono determinanti per aprire la mente di De Chirico o per suggerire grandi trame a Dostoevskij. di Anna Esposito Mario Campanella, Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett, Arcana Edizioni-Lit Edizioni, 2016, pagg.190, Euro 16,50 Syd Barrett, a dieci anni dalla morte una nuova biografia L’uomo che non c’era veglia ancora, perfino oltre la morte, di là dalle porte della percezione, sul gruppo che ormai non esiste più. Se i Pink Floyd sono stati una delle band più importanti della storia della musica del secondo Novecento, Syd Barrett ne è stato il genio in fuga, il diamante pazzo, il componente necessario la cui precoce sparizione ha ispirato tutta l’attività a venire dei compagni di strada. Adesso una nuova biografia (Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett, Arcana edizioni – Lit Edizioni), scritta dal giornalista scientifico Mario Campanella, riporta all’attenzione degli appassionati una figura cardinale nella cultura popolare contemporanea, uscito dal gruppo che sarebbe vissuto nella contrapposizione devastante fra David Gilmour e Roger Waters, travolto da una pazzia che presenta molte analogie con l’“euforia di Torino” che aveva vinto Nietzsche. L’irregolarità e l’eccesso sono state le coordinate che hanno ospitato il percorso di un artista inevitabilmente eccentrico, in anticipo sulla sua epoca e quindi condannato ad essere da essa raggiunto. A dieci anni dalla seconda e ultima morte, quella comune a tutti gli altri esseri umani, ascoltare la musica del chitarrista che non seppe essere se stesso produce un effetto straniante, un singolare senso di spaesamento, nel segno di un’empatia prossima alla misericordia per ognuno, variante della pietas che riguarda gli individui riconoscibili. Barrett non fu mai in grado di vivere, perciò scelse di percorrere la strada più lontana possibile da qualsiasi altra esistenza: solo così avrebbe potuto raggiungere una salvezza consonante con la perdizione. «Syd è impazzito – scrive Michele Mari in “Rosso Floyd”, forse il più riuscito romanzo sul rock, anzi sulla solitudine del genio – perché era sempre un passo più avanti, e non essere mai in sintonia con gli altri fa di te un naufrago su uno scoglio, o un astronauta perso nello spazio… Quasiasi cosa facesse o pensasse era sempre all’avanguardia, sempre: a un certo punto si trovò così in là che intorno a lui non c’era più nulla, e in quel vuoto precipitò». di Elena Orsini Mario Campanella, Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett, Arcana Edizioni-Lit Edizioni, 2016, pagg.190, Euro 16,50 Elton John sulle orme dei Pink Floyd: concerto esclusivo agli Scavi Pompei il 12 luglio Sulle orme dei Pink Floyd, Elton John terrà un esclusivo e irripetibile concerto nel suggestivo Anfiteatro degli Scavi di Pompei il 12 luglio 2016. Saranno solo 2.000 i fortunati spettatori che potranno assistere a quello che si candida ad essere uno dei più importanti eventi dell’anno in Italia. Ancora da stabilire il prezzo del biglietto. Altre due le date italiane: 15 luglio a Barolo, Piazza Colbert 16 luglio Piazzola sul Brenta, Anfiteatro Camerini Per informazioni e acquisto biglietti qui Why Pink All’Auditorium Floyd? Parco della Musica In anteprima nazionale l’ascolto di Wish You Were Here e di altri brani rimasterizzati della leggendaria band inglese. Sabato 22 ottobre dalle 10.00 alle 20.00 , Domenica 23 ottobre dalle 10.00 alle 18.00. Ingresso libero. Anteprima di lusso del nuovo ciclo di “Lezioni d’Ascolto”, il format che si propone di raccontare – in modo semplice e discorsivo – il mondo della riproduzione sonora attraverso una serie di incontri con specialisti del settore che ne illustrano la storia e i diversi aspetti con ascolti dal vivo, cercando di approfondire la conoscenza delle tecnologie del passato e del futuro. Why Pink Floyd? Un progetto di rimasterizzazione della leggendaria band inglese condotto a regola d’arte e in grado di offrire nuove emozioni, grazie ai supporti blu-ray 5.1 e ai vinili Hi-Grade. Wish You Were Here mixato da James Guthrie, prima opera completamente rimasterizzata nella collana Why Pink Floyd, in anteprima nazionale presso lo Spazio Ascolto, qualche giorno prima del debutto ufficiale che avverrà il 7 Novembre. Con un sistema estremamente evoluto rispetto a quello installato presso il mitico “Studio 1” degli Abbey Road (acustice Bowers & Wilkins e amplificazione Classè per un totale di 2400 W), potrete seguire non solo Wish You Were Here, ma anche tutta la restante discografia della mitica rock band inglese in versione vinile da collezione. Una occasione unica e imperdibile per poter ascoltare o ri-ascoltare i Pink Floyd come non lo avete probabilmente mai fatto. Roger Waters e Foo Fighters suonano insieme “In the Flesh” Da lunedì si prevedono veri e propri assalti nei negozi di dischi per l’uscita di una raccolta con tutti i brani rimasterizzati ed inediti dei Pink Floyd. Parliamo del progetto “Why Pink Floyd”, per celebrare la collaborazione tra la EMI e la storica band nata nel lontano 1967, così ritorna a volare una copia del maiale di “Animals” sulla centrale elettrica di Battersea (pronta anche una app per iPhone e un “Best Of” su CD). Altra sorpresa giunge dopo “Late Night with Jimmy Fallon“, una trasmissione in cui Roger Waters ha cantato “In The Flesh” con i talentuosi Foo Fighters. Una versione degna dell’eccezionale celebrazione. Guai giudiziari per il figlio di David Gilmour di Madison Fox Londra, 15 luglio. Il figlio adottivo di David Gilmour mitico chitarrista dei Pink Floyd, è stato condannato a 16 mesi di carcere con l’accusa di aver partecipato ai violenti disordini avvenuti durante le proteste studentesche contro il cospicuo aumento delle tasse sull’istruzione, avvenuti a Londra nel dicembre scorso. Charlie Gilmour, 21 anni, studente all’Università di Cambridge, era stato uno dei manifestanti che aveva assalito l’automobile del principe Carlo e la moglie Camilla, capitati inavvertitamente in mezzo alla manifestazione dopo essere usciti da teatro. Charlie, che era alquanto “su di giri”, era saltato sul cofano della vettura con a bordo i reali, sulla quale aveva poi tirato un cestino della spazzatura colpendo però un’altra auto. Poco prima era stato sorpreso mentre inveiva contro la polizia e poi si dondolava appeso a un monumento ai caduti di guerra. Il ragazzo si era scusato in una precedente udienza, ma il Giudice della Corte di Kingston, nella parte sudovest di Londra, ha definito il comportamento del giovane Gilmour “profondamente offensivo” ed ha aggiunto: “Quello che lei ha fatto va ben oltre i limiti della legittima protesta”. David Gilmour era in aula durante il procedimento, tra gli amici di Charlie. Il giovane è figlio della scrittrice e giornalista Polly Samson e del suo primo marito, il poeta Heathcote Williams: è stato adottato dal celebre chitarrista dopo il matrimonio con la Samson e la scomparsa di Williams. Fotoconcerto: Roger Waters The Wall Forum Assago Milano – 2.04.11 Organizzazione Evento D’Alessandro e Galli testi e foto: Stefanino Benni “The Wall”, lo storico album-spettacolo dei Pink Floyd, compie 30 anni con un tour europeo, che in questi giorni sta toccando le tappe italiane con i concerti di Milano (Mediolanum Forum). Assolutamente tutto esaurito. Migliaia di persone entusiaste di fronte a questo spettacolo gigantesco e meraviglioso di musica e di scenografie che fanno rivivere il capolavoro registrato dai Pink floyd nel 1979. Roger Waters ieri sera ha trasmesso in modo sublime le sensazioni di una musica sempre attuale giocando sul palco un ruolo da vero Maestro e Architetto di un’opera maestosa. Video e immagini hanno illustrato la storia e le canzoni, utilizzando come schermo di proiezione anche un muro di oltre 70 metri. Confesso che vedendo Roger Waters, li davanti a me sul palco ho provato una vera emozione ricordando quando agli inizi degli anni 70′ comprai i miei primi lp dei Pink Floyd e mi lasciavo trasportare da quelle stupende melodie. In questo senso ho cercato di trasmettere queste mie sensazioni nelle foto che ieri sera ho scattato in questo meraviglioso Live, che con tutta probabilità è la colonna sonora di molti di noi. Roger Waters festeggia il 30° anniversario dell’album ‘’The Wall’’ con un tour europeo che tocchera’ oltre 25 europee.E’ la prima volta che The Wall viene messo in scena da oltre 20 anni. e potrebbe essere il suo ultimo grande tour . Come dice Roger: «Trent’anni fa ero un giovane uomo impaurito. Nel corso degli anni ho cominciato a pensare che la storia dei miei timori apre ad altre allegorie: nazionalismo, razzismo, religione, qualunque cosa!». Roger Waters, e’ il genio creativo dei Pink Floyd e ha sicuramente segnato, attraverso innovativi capolavori, il cammino della musica rock . Una sola parola per questo Live..Spettacolo sublime. ngg_shortcode_0_placeholder “Rosso Floyd”, Michele Mari e i fantasmi del rock Di David Spiegelman Credevo che i Pink Floyd fossero scesi sulla terra per lasciare non tanto la loro musica, pure significativa nella fine del secolo scorso, quanto una storia che riassume nelle sue scansioni quella di ognuno: l’amicizia, il dolore, la separazione, la rappacificazione, l’illudersi, fino alla ricerca del sopravviversi nell’arte. Ora scopro che nella loro missione c’era anche l’ispirare un libro importante, l’ultima opera di Michele Mari. Lo scrittore milanese – già capace degli abbaglianti racconti di “Tu, sanguinosa infanzia” ed “Euridice aveva un cane”, oppure il romanzo stevensoniano “Verderame” fino al geniale “Tutto il ferro della Torre Eiffel”, allucinata e rigorosa crestomazia del primo Novecento in una Parigi dove si inseguono Benjamin e Bloch attorno a implausibili fossili letterari – ha 55 anni e quindi ha vissuto sincronicamente l’ascesa e la stasi del gruppo britannico. Ma non si tratta della testimonianza di un fan, né della biografia di un percorso artistico pure capitale e ricco di snodi interculturali: come ogni capolavoro “Rosso Floyd” (Einaudi, p. 282, 20 euro) affronta in apparenza un argomento per parlare d’altro, molto altro. Quando, anni fa, Tim Burton scelse di raccontare la vita di Ed Wood, il regista di BMovies considerato il peggiore della storia del cinema, la materia narrata lasciava ipotizzare possibili scivolate nel grottesco estremo: il film, incentrato sul rapporto di Wood con Bela Lugosi vecchio e morfinomane, divenne invece una commovente elegia sull’amicizia tra due vite segnate dalla disperazione. Così Mari, secondo una struttura fedele alla sua devozione al Barocco, che lo porta ad allestire la rappresentazione romanzesca nei canoni dell’istruttoria giudiziaria (il sottotitolo dell’opera è “Romanzo in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione”), trasforma una storia collettiva nella descrizione delle conseguenze di una Grande Assenza: quella di Syd Barrett, considerato la vera anima dei Pink Floyd e la reale ragione della controversia che avrebbe opposto, fino ai giorni nostri, il chitarrista David Gilmour e il bassista Roger Waters, apparenti portatori di due visioni artistiche diverse e in realtà divisi soltanto dalla fatica di gestire l’eredità intestata di una persona viva e non viva. Mari ama parlare dei morti come se fossero più vitali delle persone ancora presenti e infatti tra le voci chiamate a raccolta, in questo strano coro narrativo, ci sono anche quelle di anime inattingibili, perciò espresse secondo stile congetturale. La forza dell’opera, interamente immaginaria per quanto basata su riscontri storici concreti, è la sua verisimiglianza nelle tesi di fondo: non serve pertanto essere conoscitori della musica dei Pink Floyd per addentrarsi con cognizione nella casa di specchi edificata da Mari, fino alle profonde vertigini del finale. Per la verità, il romanzo non ha una dinamica narratologica tradizionale, è come una fotografia panoramica scattata diacronicamente e quindi si conclude in maniera tronca e inappagante. La vera conclusione, come in un disco dei Pink Floyd, sta acquattata in una pagina apparentemente appartata, in cui Mari chiama sul banco dei testimoni, in un processo virtuale forse volutamente simile a quello di “The Wall”, il regista Kubrick, che focalizza un episodio scintillante: la richiesta, inesaudita, di Waters per usare la voce del computer Hal 9000 in una canzone quindi rimasta incompleta. Lo scrittore ha una spiegazione tagliente ed esatta per quel desiderio del musicista, che sublima la fisionomia scalena e incompleta, a richiamare quel teorema di Goedel che informa inconsciamente molta dell’arte contemporanea, di un gruppo che aveva creduto di sopravvivere arbitrariamente al suo capo. I libri di Mari, come quelli di Henry James, sono popolati di fantasmi e anche questo vive e si consuma sulla voce silenziosa di Barrett, diamante pazzo capace di brillare soltanto in quattro amici condannati a intuire quel che egli e nessun altro sarebbe stato capace di fare. «Lui recluso sottoterra e loro a riempire gli stadi del mondo, ma erano suoi». Ian Curtis, un genio in fuga Di David Spiegelman Ian Curtis non è riuscito a raggiungere la spensieratezza della gioventù, da trent’anni è un vecchio ragazzo che ha visto ventitré primavere appena, decidendo d’un tratto che gli sarebbero bastate, tanto sapeva già come sarebbe andata a finire. Forse in tutto questo tempo non vissuto, oppure attraversato al modo dei dybbuk, ha avuto occasione di volare fino alla città morta di Staglieno, in riva al greto di un fiume secco quasi per tutto l’anno salvo infuriarsi a settembre. Qui, nella necropoli monumentale che la Genova ottocentesca volle dedicarsi, secondando nell’urbanistica il classismo governato dalla borghesia mercantile del tempo, impolverata dal tempo e dalla fuliggine di calderine difettose e motori a nafta mal registrati, sta la casa di sassi che la famiglia Appiani volle costruirsi, per sopravvivere nella disperanza alla corrosione dell’oblio. Ritratta da Bernard Wolff, un fotografo parigino specializzato in marmoree memorie, quella tomba di famiglia divenne l’icona della vita assente di Curtis. Quando uscì “Closer”, secondo e ultimo disco della band, Curtis aveva già attraversato lo specchio, strappando il sipario che presumiamo divida questa vita dalla sua contraddizione. Se n’era andato per sua decisione il 18 maggio 1980, l’album arrivò nei negozi in estate, i suoi compagni di strada avrebbero speso nel rinnegarsi gli spiccioli del residuo talento. Ascoltare oggi la sua musica, la sua voce, significa compiere un viaggio a ritroso nel tempo, per arrivare a una caricatura del presente più vera della realtà. L’Inghilterra esasperata e lisergica della fine degli anni Settanta, plumbei nel Continente e inconcludenti sull’Isola, bruciava gli ultimi talenti del punk preparando la restaurazione neoromantica: i Genesis sarebbero finiti nelle mani di Collins, in quelle di Gilmour i Pink Floyd, solo Clapton se ne sarebbe andato per conto suo, dove non si sa. Ma se Johnny Rotten, Sid Vicious e i Clash tracciavano una strada comprensibile nella loro valenza provocatoria e autoreferenziale, il percorso di Curtis è quello di una stella nera, estranea al processo termodinamico di combustione dell’elio, fondata piuttosto sulla fase successiva, quella dell’implosione e della negazione di energia. Quello che Robert Smith avrebbe sublimato – come Echo & the Bunnymen, Siouxsie e i Bauhaus – nei modi di un barocco rinunciatario e al tempo stesso sfacciato, i Joy Division avevano soltanto accennato. «No Future» era il grido di battaglia del punk, Curtis invece credeva che questo futuro ci fosse, eccome, solo che non gli andava, perché ne aveva già capito contorni, sostanza e desolazione: intese pertanto sfuggirgli, giocando d’anticipo secondo regole autonome. Quando si uccise, attorno a lui scattò il meccanismo della pastorizzazione immediata del significato del suo gesto. Il suicidio è un atto irragionevole e quindi per essere spiegato va radicalmente negato. Così Morrison non voleva morire e comunque non è morto, si nasconde in qualche tenda nel deserto, mentre Tenco è stato vittima di un complotto innominato. Di Curtis si disse che era malato, come se una malattia latente non allignasse metodica dentro ognuno di noi, una variante dell’herpes zoster che, presente comunque, suole scatenarsi in condizioni di generale debilitazione. Ebbe in sorte la fortuna di non sopravvivere alla consunzione del proprio talento, come accadde a Syd Barrett, rimasto per decenni prigioniero di un corpo e di un cervello inadeguati prima di potersi finalmente ricongiungere con se stesso, nel diamante che brilla sulla faccia nascosta della luna. Curtis credeva che l’amore fosse l’unica forma di salvazione dal nulla e al tempo stesso l’inevitabile scorciatoia al dissolversi. Ha cercato di cantarlo, nel suo straziante tono baritonale che squarcia i versi come nei Fontana il rasoio la tela. Poi se n’è andato. E noi, da trent’anni, stiamo ad aspettare che ritorni per non spiegarci un’altra volta nulla. Oppure che venga l’occasione di farsi raggiungere dal suo genio in fuga. Foto di emptysound in licenza CC attribuzione, Condividi allo stesso modo, Non Commerciale