Pink Floyd, a Londra la prima grande mostra sulla

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Pink Floyd, a Londra la prima grande mostra sulla
Pink Floyd, a Londra la prima
grande mostra sulla band
Il maiale gonfiabile dei Pink Floyd torna a volare sui cieli
di Londra. Per annunciare la nuova mostra dedicata alla
storica rock band inglese presso il Victoria & Albert Museum,
che partirà il 13 maggio 2017 per durare fino al 1 ottobre. La
grande retrospettiva dal titolo Pink Floyd Exhibition: Their
Mortal Remains, un percorso multimediale e multisensoriale che
celebrerà la formazione a 50 anni dall’uscita del primo
singolo Arnold Layne.
La mostra, sull’impronta di quella dedicata a David Bowie
nello stesso polo, esporrà 350 oggetti appartenuti al gruppo
che faranno felici i fan, come i preziosi strumenti che hanno
espresso quel sound unico, ma anche video delle esibizioni,
contributi musicali, fotografie, disegni e dipinti, costumi,
manifesti, manoscritti originali, artwork, scenografie, vari
memorabilia. Hanno collaborato all’allestimento anche i Pink
Floyd rimasti, fornendo oggetti inediti. Roger Waters, David
Gilmour e Nick Mason hanno rinunciato a reunion ormai fuori
tempo massimo, ma hanno collaborato per valorizzare la mostra.
Non mancano simboli divenuti icone contemporanee, come il
prisma di Dark Side of the Moon e il palloncino a forma di
maiale che si staglia tra le ciminiere dell’imponente centrale
elettrica di Battersea nella copertina del disco Animals e
altre immagini e suggestioni visive, frutto della
collaborazione creativa con artisti come Storm Thorgeson,
Gerald Scarfe e Peter Wynne-Willson.
Dal 1967 la band ha influenzato molto la scena musicale e non
solo con 200 milioni di dischi venduti e concerti di massa che
li hanno consacrati, lasciando una forte impronta
nell’immaginario e nella cultura e riuscendo a suscitare
grandi emozioni con un sognante rock psichedelico, anche dopo
contrasti e vicissitudini tra i vari componenti. La mostra
londinese sarà un modo per conoscere, rivivere con nostalgia e
assaporare l’onda lunga di questo straordinario fenomeno
musicale.
Informazioni e biglietti già in vendita su:
http://pinkfloydexhibition.com/
di Valentino Salvatore
Syd Barrett e la sindrome di
Asperger. La tesi nel libro
di Mario Campanella
A dieci anni dalla morte del “diamante pazzo” Syd Barrett, il
geniale chitarrista fondatore dei Pink Floyd, una nuova
biografia a lui dedicata firmata dal giornalista scientifico
Mario Campanella. Barrett con il tocco della sua creatività
rendeva graffiante e unico il sound della band britannica. Già
a 14 anni la sua passione per la musica era forte al punto
da condurlo a fondare un gruppo con i suoi amici Roger Waters
e Bob Klose, i Pink Floyd Sound che solo in seguito, con
l’aggiunta di Nick Mason e Richard Wright al posto di Klose
diventeranno nel 1965 i Pink Floyd. Un nome legato ai suoi
bluesmen preferiti, Pink Anderson e Floyd Council, oppure come
sostenne, un nome suggerito da alieni. Lo stato di salute di
Barrett cominciò a peggiorare nel tempo a causa di gravi
problemi mentali e per l’abuso di droghe. Decise di
abbandonare la sua band. Toccò a David Gilmour sostituirlo,
mentre lui tentò una carriera da solista, una corsa in
solitaria verso il baratro. Nel 1975 i Pink Floyd pubblicarono
l’album Wish You Were Here, dedicato a Barrett, con la perla
Shine On You Crazy Diamond. Barrett si presentò negli studi
dei Pink Floyd con aria sfatta, senza sopracciglie, obeso,
brandendo uno spazzolino da denti, tanto irriconoscibile che
nemmeno i suoi ex compagni si accorsero della sua presenza.
Gilmour capì dopo tempo che era lui e si sciolse incredulo in
un pianto. Al termine dell’insolita visita scomparve nel
nulla, così come era venuto. In passato ad essere considerata
causa principale dei suoi mali fu una presunta schizofrenia di
cui sarebbe stato affetto. Solo recentemente è emerso che in
realtà “Syd Diamond” soffrisse della sindrome di Asperger,
così come rivela il libro di Campanella, attraverso documenti
e testimonianze inedite sul genio folle del rock. Ne abbiamo
parlato con l’autore.
Com’è nata l’idea di scrivere un libro su Syd Barrett?
Syd Barrett è sempre stato uno dei miei miti adolescenziali,
diciamo il secondo dopo Maradona . La sua personalità mi
affascinava e cercavo, parliamo di fine anni ottanta, notizie
che erano difficili da reperire.
Nel suo libro sono riportate testimonianze inedite di amici e
parenti di Barrett, con un’analisi accurata della sua
personalità. Quanto è durato il suo lavoro di ricerca prima e
di scrittura del libro?
L’anno scorso ho scritto una pubblicazione scientifica per
Giovanni Fioriti sull’argomento tradotta anche in russo e
riportata da Wikipedia. Quando Vincenzo Martorella, direttore
editoriale di Arcana, mi ha proposto di farne un libro mi è
sembrato naturale. Ho lavorato circa un anno per raccogliere
testimonianze, interviste, fonti.
Nel suo libro sostiene che Barrett, ritenuto schizofrenico,
avesse in realtà una forma ad alto funzionamento della
sindrome di Asperger, aggravata da abusi di droga. Puo’
spiegarci come è arrivato a tale conclusione?
Syd Barrett non era schizofrenico. Assolutamente. Lo hanno
detto i medici che lo visitarono all’epoca. Le sue
manifestazioni patologiche furono causate da un uso di LSD e
Mandrax senza precedenti. Arrivava a consumare l’equivalente
di 250 dosi attuali e questo lo ha fatto per tre anni. Quella
droga ha mangiato i suoi neuroni. L’Asperger era una forma di
spettro autistico che aveva , e lo si nota dai suoi
comportamenti, e che non gli avrebbe dato alcun fastidio senza
le droghe. Ancora oggi c’è una forte ignoranza sull’autismo.
Intanto, non è una psicosi. Poi, ci sono diverse sue forme
compatibili con la normalità. Pensi che, per quanto riguarda
l’Asperger, pare che ce l’abbiano due grandissimi americani
del settore informatico e social e il Presidente della più
importante nazione europea.
Lei è membro del Comitato Scientifico della Fondazione BRF
Onlus- Istituto per la Ricerca Scientifica in Psichiatria e
Neuroscienze che ha tra le sue finalità quella di migliorare e
approfondire la conoscenza delle neuroscienze ed avere una
maggiore consapevolezza sulle malattie mentali. Crede che
questo libro possa aiutare tale consapevolezza?
Brf è nata grazie a due grandi scienziati italiani, Armando
Piccinni e Donatella Marazziti, e ha al suo interno grandi
nomi delle neuroscienze. Brf fa ricerca sulle nuove frontiere
delle neuroscienze, dal rapporto intestino cervello alle
ripercussioni autoimmunitarie e infettive. Forse questo libro
non ha attinenza con Brf ma è importante divulgare le sue
attività .
Esiste, secondo lei, una relazione tra la follia e la
genialità?
Guardi, credo sia un falso mito. Van Gogh era epilettico,
Trabucchi sosteneva che Dino Campana fosse sifilitico, così
come sappiamo che lo era Nietzsche. Avevano malattie fisiche
che si riflessero sul cervello ma la loro genialità dipendeva
da altro.
Secondo lei allora cos’è la genialità? La si puo’ spiegare
scientificamente?
La genialità è attivata da alcuni processi neuronali secondo
gli studi dei grandi neuropsicologi. Già Lurja fece esprimenti
in tal senso. Preferisco, da profano, pensare che la vena
artistica sia presente in ognuno di noi , anche se (per fare
un esempio) le allucinazioni epilettiche furono determinanti
per aprire la mente di De Chirico o per suggerire grandi trame
a Dostoevskij.
di Anna Esposito
Mario Campanella, Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett,
Arcana Edizioni-Lit Edizioni, 2016, pagg.190, Euro 16,50
Syd Barrett, a dieci anni
dalla
morte
una
nuova
biografia
L’uomo che non c’era veglia ancora, perfino oltre la morte, di
là dalle porte della percezione, sul gruppo che ormai non
esiste più. Se i Pink Floyd sono stati una delle band più
importanti della storia della musica del secondo Novecento,
Syd Barrett ne è stato il genio in fuga, il diamante pazzo, il
componente necessario la cui precoce sparizione ha ispirato
tutta l’attività a venire dei compagni di strada. Adesso una
nuova biografia (Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett,
Arcana edizioni –
Lit Edizioni), scritta dal giornalista
scientifico Mario Campanella, riporta all’attenzione degli
appassionati una figura cardinale nella cultura popolare
contemporanea, uscito dal gruppo che sarebbe vissuto nella
contrapposizione devastante fra David Gilmour e Roger Waters,
travolto da una pazzia che presenta molte analogie con
l’“euforia di Torino” che aveva vinto Nietzsche.
L’irregolarità e l’eccesso sono state le coordinate che hanno
ospitato il percorso di un artista inevitabilmente eccentrico,
in anticipo sulla sua epoca e quindi condannato ad essere da
essa raggiunto. A dieci anni dalla seconda e ultima morte,
quella comune a tutti gli altri esseri umani, ascoltare la
musica del chitarrista che non seppe essere se stesso produce
un effetto straniante, un singolare senso di spaesamento, nel
segno di un’empatia prossima alla misericordia per ognuno,
variante della pietas che riguarda gli individui
riconoscibili.
Barrett non fu mai in grado di vivere, perciò scelse di
percorrere la strada più lontana possibile da qualsiasi altra
esistenza: solo così avrebbe potuto raggiungere una salvezza
consonante con la perdizione. «Syd è impazzito – scrive
Michele Mari in “Rosso Floyd”, forse il più riuscito romanzo
sul rock, anzi sulla solitudine del genio – perché era sempre
un passo più avanti, e non essere mai in sintonia con gli
altri fa di te un naufrago su uno scoglio, o un astronauta
perso nello spazio…
Quasiasi cosa facesse o pensasse era sempre all’avanguardia,
sempre: a un certo punto si trovò così in là che intorno a lui
non c’era più nulla, e in quel vuoto precipitò».
di Elena Orsini
Mario Campanella, Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett,
Arcana Edizioni-Lit Edizioni, 2016, pagg.190, Euro 16,50
Elton John sulle orme dei
Pink
Floyd:
concerto
esclusivo agli Scavi Pompei
il 12 luglio
Sulle orme dei Pink Floyd, Elton John terrà un esclusivo e
irripetibile concerto nel suggestivo Anfiteatro degli Scavi di
Pompei il 12 luglio 2016.
Saranno solo 2.000 i fortunati spettatori
che potranno
assistere a quello che si candida ad essere uno dei più
importanti eventi dell’anno in Italia.
Ancora da stabilire il prezzo del biglietto.
Altre due le date italiane:
15 luglio a Barolo, Piazza Colbert
16 luglio Piazzola sul Brenta, Anfiteatro Camerini
Per informazioni e acquisto biglietti qui
Why
Pink
All’Auditorium
Floyd?
Parco della
Musica
In anteprima nazionale l’ascolto di Wish You Were Here e di
altri brani rimasterizzati della leggendaria band inglese.
Sabato 22 ottobre dalle 10.00 alle
20.00 , Domenica 23 ottobre dalle
10.00 alle 18.00. Ingresso libero.
Anteprima di lusso del nuovo ciclo di “Lezioni d’Ascolto”, il
format che si propone di raccontare – in modo semplice e
discorsivo – il mondo della riproduzione sonora attraverso una
serie di incontri con specialisti del settore che ne
illustrano la storia e i diversi aspetti con ascolti dal vivo,
cercando di approfondire la conoscenza delle tecnologie del
passato e del futuro.
Why Pink Floyd? Un progetto di rimasterizzazione della
leggendaria band inglese condotto a regola d’arte e in grado
di offrire nuove emozioni, grazie ai supporti blu-ray 5.1 e ai
vinili Hi-Grade. Wish You Were Here mixato da James Guthrie,
prima opera completamente rimasterizzata nella collana Why
Pink Floyd, in anteprima nazionale presso lo Spazio Ascolto,
qualche giorno prima del debutto ufficiale che avverrà il 7
Novembre.
Con un sistema estremamente evoluto rispetto a quello
installato presso il mitico “Studio 1” degli Abbey Road
(acustice Bowers & Wilkins e amplificazione Classè per un
totale di 2400 W), potrete seguire non solo Wish You Were
Here, ma anche tutta la restante discografia della mitica rock
band inglese in versione vinile da collezione. Una occasione
unica e imperdibile per poter ascoltare o ri-ascoltare i Pink
Floyd come non lo avete probabilmente mai fatto.
Roger Waters e Foo Fighters
suonano
insieme
“In
the
Flesh”
Da lunedì si prevedono veri e propri assalti nei negozi di
dischi per l’uscita di una raccolta con tutti i
brani rimasterizzati ed inediti dei Pink Floyd. Parliamo del
progetto “Why Pink Floyd”, per celebrare la collaborazione tra
la EMI e la storica band nata nel lontano 1967, così ritorna a
volare una copia del maiale di “Animals” sulla centrale
elettrica di Battersea (pronta anche una app per iPhone e un
“Best Of” su CD).
Altra sorpresa giunge dopo “Late Night with Jimmy Fallon“, una
trasmissione in cui Roger Waters ha cantato “In The Flesh”
con i talentuosi Foo Fighters. Una versione degna
dell’eccezionale celebrazione.
Guai giudiziari per il figlio
di David Gilmour
di Madison Fox
Londra, 15 luglio. Il figlio adottivo di David Gilmour mitico
chitarrista dei Pink Floyd, è stato condannato a 16 mesi di
carcere con l’accusa di aver partecipato ai violenti disordini
avvenuti durante le proteste studentesche contro il cospicuo
aumento delle tasse sull’istruzione,
avvenuti a Londra nel dicembre scorso.
Charlie Gilmour, 21 anni, studente
all’Università di Cambridge, era stato
uno dei manifestanti che aveva assalito
l’automobile del principe Carlo e la
moglie
Camilla,
capitati
inavvertitamente
in
mezzo
alla
manifestazione dopo essere usciti da
teatro. Charlie, che era alquanto “su di
giri”, era saltato sul cofano della vettura con a bordo i
reali, sulla quale aveva poi tirato un cestino della
spazzatura colpendo però un’altra auto. Poco prima era stato
sorpreso mentre inveiva contro la polizia e poi si dondolava
appeso a un monumento ai caduti di guerra. Il ragazzo si era
scusato in una precedente udienza, ma il Giudice della Corte
di Kingston, nella parte sudovest di Londra, ha definito il
comportamento del giovane Gilmour “profondamente offensivo” ed
ha aggiunto: “Quello che lei ha fatto va ben oltre i limiti
della legittima protesta”. David Gilmour era in aula durante
il procedimento, tra gli amici di Charlie. Il giovane è figlio
della scrittrice e giornalista Polly Samson e del suo primo
marito, il poeta Heathcote Williams: è stato adottato dal
celebre chitarrista dopo il matrimonio con la Samson e la
scomparsa di Williams.
Fotoconcerto: Roger Waters The Wall
Forum
Assago
Milano
–
2.04.11
Organizzazione
Evento
D’Alessandro e Galli
testi e foto: Stefanino Benni
“The Wall”, lo storico album-spettacolo dei Pink Floyd, compie
30 anni con un tour europeo, che in questi giorni sta toccando
le tappe italiane con i concerti di Milano (Mediolanum Forum).
Assolutamente tutto esaurito. Migliaia di persone entusiaste
di fronte a questo spettacolo gigantesco e meraviglioso di
musica e di scenografie che fanno rivivere il capolavoro
registrato dai Pink floyd nel 1979. Roger Waters ieri sera ha
trasmesso in modo sublime le sensazioni di una musica sempre
attuale giocando sul palco un ruolo da vero Maestro e
Architetto di un’opera maestosa. Video e immagini hanno
illustrato la storia e le canzoni, utilizzando come schermo di
proiezione anche un muro di oltre 70 metri. Confesso che
vedendo Roger Waters, li davanti a me sul palco ho provato una
vera emozione ricordando quando agli inizi degli anni 70′
comprai i miei primi lp dei Pink Floyd e mi lasciavo
trasportare da quelle stupende melodie. In questo senso ho
cercato di trasmettere queste mie sensazioni nelle foto che
ieri sera ho scattato in questo meraviglioso Live, che con
tutta probabilità è la colonna sonora di molti di noi.
Roger Waters festeggia il 30° anniversario dell’album ‘’The
Wall’’ con un tour europeo che tocchera’ oltre 25 europee.E’
la prima volta che The Wall viene messo in scena da oltre 20
anni. e potrebbe essere il suo ultimo grande tour . Come dice
Roger: «Trent’anni fa ero un giovane uomo impaurito. Nel corso
degli anni ho cominciato a pensare che la storia dei miei
timori apre ad altre allegorie: nazionalismo, razzismo,
religione, qualunque cosa!».
Roger Waters, e’ il genio creativo dei Pink Floyd e ha
sicuramente segnato, attraverso innovativi capolavori, il
cammino della musica rock . Una sola parola per questo
Live..Spettacolo sublime.
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“Rosso Floyd”, Michele Mari e
i fantasmi del rock
Di David Spiegelman
Credevo che i Pink Floyd fossero scesi sulla terra per
lasciare non tanto la loro musica, pure significativa nella
fine del secolo scorso, quanto una storia che riassume nelle
sue scansioni quella di ognuno: l’amicizia, il dolore, la
separazione, la rappacificazione, l’illudersi, fino alla
ricerca del sopravviversi nell’arte. Ora scopro che nella loro
missione c’era anche l’ispirare un libro importante, l’ultima
opera di Michele Mari. Lo scrittore milanese – già capace
degli abbaglianti racconti di “Tu, sanguinosa infanzia” ed
“Euridice aveva un cane”, oppure il romanzo stevensoniano
“Verderame” fino al geniale “Tutto il ferro della Torre
Eiffel”, allucinata e rigorosa crestomazia del primo Novecento
in una Parigi dove si inseguono Benjamin e Bloch attorno a
implausibili fossili letterari – ha 55 anni e quindi ha
vissuto sincronicamente l’ascesa e la stasi del gruppo
britannico.
Ma non si tratta della testimonianza di un fan, né della
biografia di un percorso artistico pure capitale e ricco di
snodi interculturali: come ogni capolavoro “Rosso Floyd”
(Einaudi, p. 282, 20 euro) affronta in apparenza un argomento
per parlare d’altro, molto altro. Quando, anni fa, Tim Burton
scelse di raccontare la vita di Ed Wood, il regista di BMovies considerato il peggiore della storia del cinema, la
materia narrata lasciava ipotizzare possibili scivolate nel
grottesco estremo: il film, incentrato sul rapporto di Wood
con Bela Lugosi vecchio e morfinomane, divenne invece una
commovente elegia sull’amicizia tra due vite segnate dalla
disperazione.
Così Mari, secondo una struttura fedele alla sua devozione al
Barocco, che lo porta ad allestire la rappresentazione
romanzesca nei canoni dell’istruttoria giudiziaria (il
sottotitolo dell’opera è “Romanzo in 30 confessioni, 53
testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6
interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e
una contemplazione”), trasforma una storia collettiva nella
descrizione delle conseguenze di una Grande Assenza: quella di
Syd Barrett, considerato la vera anima dei Pink Floyd e la
reale ragione della controversia che avrebbe opposto, fino ai
giorni nostri, il chitarrista David Gilmour e il bassista
Roger Waters, apparenti portatori di due visioni artistiche
diverse e in realtà divisi soltanto dalla fatica di gestire
l’eredità intestata di una persona viva e non viva.
Mari ama parlare dei morti come se fossero più vitali delle
persone ancora presenti e infatti tra le voci chiamate a
raccolta, in questo strano coro narrativo, ci sono anche
quelle di anime inattingibili, perciò espresse secondo stile
congetturale. La forza dell’opera, interamente immaginaria per
quanto basata su riscontri storici concreti, è la sua
verisimiglianza nelle tesi di fondo: non serve pertanto essere
conoscitori della musica dei Pink Floyd per addentrarsi con
cognizione nella casa di specchi edificata da Mari, fino alle
profonde vertigini del finale. Per la verità, il romanzo non
ha una dinamica narratologica tradizionale, è come una
fotografia panoramica scattata diacronicamente e quindi si
conclude in maniera tronca e inappagante. La vera conclusione,
come in un disco dei Pink Floyd, sta acquattata in una pagina
apparentemente appartata, in cui Mari chiama sul banco dei
testimoni, in un processo virtuale forse volutamente simile a
quello di “The Wall”, il regista Kubrick, che focalizza un
episodio scintillante: la richiesta, inesaudita, di Waters per
usare la voce del computer Hal 9000 in una canzone quindi
rimasta incompleta. Lo scrittore ha una spiegazione tagliente
ed esatta per quel desiderio del musicista, che sublima la
fisionomia scalena e incompleta, a richiamare quel teorema di
Goedel che informa inconsciamente molta dell’arte
contemporanea, di un gruppo che aveva creduto di sopravvivere
arbitrariamente al suo capo. I libri di Mari, come quelli di
Henry James, sono popolati di fantasmi e anche questo vive e
si consuma sulla voce silenziosa di Barrett, diamante pazzo
capace di brillare soltanto in quattro amici condannati a
intuire quel che egli e nessun altro sarebbe stato capace di
fare. «Lui recluso sottoterra e loro a riempire gli stadi del
mondo, ma erano suoi».
Ian Curtis, un genio in fuga
Di David Spiegelman
Ian Curtis non è riuscito a raggiungere la spensieratezza
della gioventù, da trent’anni è un vecchio ragazzo che ha
visto ventitré primavere appena, decidendo d’un tratto che gli
sarebbero bastate, tanto sapeva già come sarebbe andata a
finire. Forse in tutto questo tempo non vissuto, oppure
attraversato al modo dei dybbuk, ha avuto occasione di volare
fino alla città morta di Staglieno, in riva al greto di un
fiume secco quasi per tutto l’anno salvo infuriarsi a
settembre. Qui, nella necropoli monumentale che la Genova
ottocentesca volle dedicarsi, secondando nell’urbanistica il
classismo governato dalla borghesia mercantile del tempo,
impolverata dal tempo e dalla fuliggine di calderine difettose
e motori a nafta mal registrati, sta la casa di sassi che la
famiglia Appiani volle costruirsi, per sopravvivere nella
disperanza alla corrosione dell’oblio. Ritratta da Bernard
Wolff, un fotografo parigino specializzato in marmoree
memorie, quella tomba di famiglia divenne l’icona della vita
assente di Curtis.
Quando uscì “Closer”, secondo e ultimo disco della band,
Curtis aveva già attraversato lo specchio, strappando il
sipario che presumiamo divida questa vita dalla sua
contraddizione. Se n’era andato per sua decisione il 18 maggio
1980, l’album arrivò nei negozi in estate, i suoi compagni di
strada avrebbero speso nel rinnegarsi gli spiccioli del
residuo talento.
Ascoltare oggi la sua musica, la sua voce, significa compiere
un viaggio a ritroso nel tempo, per arrivare a una caricatura
del presente più vera della realtà. L’Inghilterra esasperata e
lisergica della fine degli anni Settanta, plumbei nel
Continente e inconcludenti sull’Isola, bruciava gli ultimi
talenti del punk preparando la restaurazione neoromantica: i
Genesis sarebbero finiti nelle mani di Collins, in quelle di
Gilmour i Pink Floyd, solo Clapton se ne sarebbe andato per
conto suo, dove non si sa. Ma se Johnny Rotten, Sid Vicious e
i Clash tracciavano una strada comprensibile nella loro
valenza provocatoria e autoreferenziale, il percorso di Curtis
è quello di una stella nera, estranea al processo
termodinamico di combustione dell’elio, fondata piuttosto
sulla fase successiva, quella dell’implosione e della
negazione di energia. Quello che Robert Smith avrebbe
sublimato – come Echo & the Bunnymen, Siouxsie e i Bauhaus –
nei modi di un barocco rinunciatario e al tempo stesso
sfacciato, i Joy Division avevano soltanto accennato. «No
Future» era il grido di battaglia del punk, Curtis invece
credeva che questo futuro ci fosse, eccome, solo che non gli
andava, perché ne aveva già capito contorni, sostanza e
desolazione: intese pertanto sfuggirgli, giocando d’anticipo
secondo regole autonome.
Quando si uccise, attorno a lui scattò il meccanismo della
pastorizzazione immediata del significato del suo gesto. Il
suicidio è un atto irragionevole e quindi per essere spiegato
va radicalmente negato. Così Morrison non voleva morire e
comunque non è morto, si nasconde in qualche tenda nel
deserto, mentre Tenco è stato vittima di un complotto
innominato. Di Curtis si disse che era malato, come se una
malattia latente non allignasse metodica dentro ognuno di noi,
una variante dell’herpes zoster che, presente comunque, suole
scatenarsi in condizioni di generale debilitazione. Ebbe in
sorte la fortuna di non sopravvivere alla consunzione del
proprio talento, come accadde a Syd Barrett, rimasto per
decenni prigioniero di un corpo e di un cervello inadeguati
prima di potersi finalmente ricongiungere con se stesso, nel
diamante che brilla sulla faccia nascosta della luna.
Curtis credeva che l’amore fosse l’unica forma di salvazione
dal nulla e al tempo stesso l’inevitabile scorciatoia al
dissolversi. Ha cercato di cantarlo, nel suo straziante tono
baritonale che squarcia i versi come nei Fontana il rasoio la
tela. Poi se n’è andato. E noi, da trent’anni, stiamo ad
aspettare che ritorni per non spiegarci un’altra volta nulla.
Oppure che venga l’occasione di farsi raggiungere dal suo
genio in fuga.
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