Briciole di Missione - 1 - Parrocchia e Oratorio Macherio

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Briciole di Missione - 1 - Parrocchia e Oratorio Macherio
Informatore Missionario - Macherio
n. 50 - 13 Luglio 2014
ESTATE, UN TEMPO DI RIPOSO,
AFFETTI E INTERESSI
Una riflessione metaforica sul significato della strada da percorrere
per giungere alla meta, per capire che anche l’itinerario vale a
conferire identità ed è luogo e occasione di incontri.
Dove trascorrerai la vacanza? Tanti pongono una simile domanda. Più difficile è invece
sentire: che strada farai per andare in vacanza? Spesso infatti il tragitto fra la casa e la
meta è considerato un tempo morto, una parentesi tecnica da neppure citare. Quest’anno suggeriamo, invece, di non trascurare il nastro che cuce i luoghi: la strada. Due sono
i motivi di questo input. Il primo è mutuato dalla lettera pastorale del cardinale Angelo
Scola «Il campo è il mondo», il cui sottotitolo continua: «Vie da percorrere incontro all’umano». Il secondo muove da un anniversario: il 50° della inaugurazione della A1, nota
come «Autostrada del sole», che ha un capo in Lombardia.
Briciole di Missione - 1 -
Nel suo testo l’Arcivescovo, pur dilungandosi sul «campo», sostiene pure che esso non è
identificabile solo con la meta, ma è innervato da strade che concorrono a dare identità
all’orizzonte stesso. Un incrocio - su questa linea - è la vacanza, che appella alla libertà.
La strada, più di altre immagini, la richiama. Scola così scrive: «L’esperienza umana ha
riconosciuto il tempo del riposo come tempo dei desideri, possibilità di dedicarsi a tutto quello che è piacevole, che gratifica il corpo e la mente, che esprime gli affetti, che
coltiva gli interessi, che allarga gli orizzonti». Purtroppo, però, non sempre si guarda in
questo modo alla vita. E anche il relax può risultare pesante se «dimentichi del bene che
è all’origine, ci inoltriamo sui sentieri della condanna, del lamento e del risentimento».
L’invito è allora quello di approcciarsi ad essa - per citare il libro dei Giudici (5,10) - con
gioia: «Voi che camminate per le vie, cantate!». La riflessione sulle reti di collegamento
è motivata pure, dicevamo, dal 50° anniversario dell’inaugurazione della A1. Una buona
metafora per questo tempo estivo. Ne diamo un cenno, lasciando a ciascuno di continuare. Opzionare una via significa mettere in gioco la libertà scegliendo itinerari. La strada
evoca poi la compagnia di persone - scelte o casualmente incontrate - che strappano dalla solitudine. A tal riguardo, avverte Scola, «il riposo nel nostro tempo è insidiato dalla
tentazione dell’individualismo».
Chi non è solo ha maggiore possibilità di cedere alla confidenza, al racconto. Il viaggio
infatti abbassa le censure e facilita l’incontro. Pure col divino. Non è un caso che la famosa arteria nazionale - proprio a metà percorso, nei pressi di Firenze - abbia un edificio
sacro di riferimento: quello dedicato a S. G. Battista, la cosiddetta chiesa dell’Autostrada, anch’essa nell’anno giubilare. Una presenza fisica, segno però di una vicinanza altra.
Mentre l’asfalto scorre sotto i piedi, spesso poi la musica si fa compagna. Ed ecco che si
ripresenta allora il ritornello di quest’anno: «Voi che camminate per le vie, cantate!». Sono
più di 100 le occorrenze bibliche che evocano il canto. La libertà della strada richiama
inoltre il coraggio di percorrere nuovi sentieri. Dell’intraprendente alpinista si dice, infatti: «Ha aperto una via».
Infine - seppur in un contesto vacanziero, o proprio per questo - non possiamo dimenticare chi la strada la frequenta come casa, i poveri, o non la può percorrere, i malati.
Pure a loro auguriamo in questi mesi di poter cantare, poiché qualcuno ha attraversato
la via per andare ad incontrarli. Anche nel tempo estivo, infatti, per citare ancora Scola,
«l’impegno del cristiano non è un’estenuante ricerca di nessi tra il Vangelo e la vita, come
fossero due realtà disgiunte e da mettere artificiosamente insieme. È assai più semplice.
Consiste nel documentare in prima persona che Gesù è via, verità, vita (Gv 14,6)». «Voi
che camminate per le vie, cantate!».
di Massimo PAVANELLO
Incaricato della regione Lombardia
e diocesi di Milano
per il Turismo
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LA FEDE ON THE ROAD
Non solo Santiago e la
l Terra
T
Santa:
S
in
i tutto il mondo
d i Cammini
C
i dello spirito sono
espressione della religiosità locale. E, sempre più, anche meta dei pellegrini globali.
Ci sono comitive di giovani che camminano chiacchierando, pensionati dal passo un
po’ più lento, qualche pellegrino solitario
con lo sguardo immerso nel verde delle colline tutt’intorno. Segni particolari: bastone in
mano, zaino in spalla e, conservato con cura
in qualche tasca del marsupio, il “passaporto
del pellegrino”, con i timbri conquistati negli
ostelli lungo le tappe del percorso. Potremmo
essere in uno dei tratti del Cammino di Santiago, la “via della fede” per eccellenza che
porta al santuario spagnolo di Compostela,
se non fosse per la terra rossa sotto i sandali dei viandanti e i paesaggi lussureggianti tutto intorno, tipici del Sud-est brasiliano.
Questo è infatti il Caminho da fé, il “Cammino della fede”, una via che copre quasi
500 km lungo gli Stati di San Paolo e Minas
Gerais, e che - attraverso una trentina di città e innumerevoli pousadas, gli ostelli in cui
i viaggiatori si ristorano - porta alla basilica di Nossa Senhora Aparecida, uno dei più
importanti santuari mariani al mondo, visitato ogni anno da otto milioni di persone.
Da quando, nel 1717, l’immagine miracolosa della Vergine fu trovata in un fiume da tre
poveri pescatori, i pellegrini sono arrivati in
questo luogo simbolo della fede attraverso innumerevoli vie diverse. È dal 2003, però, che
anche qui esiste una vera e propria route, creata
appunto sul modello del Cammino di Santiago, grazie all’idea del brasiliano Almiro Grings,
che per due volte aveva percorso la celebre via
compostelana e ne era rimasto profondamente toccato. La “gemella” carioca, suddivisa in
tre rotte principali che si congiungono nella
cittadina di Águas da Prata, si inoltra a tratti in foreste intricate e si inerpica sulla Serra
da Mantiqueira, fino a un’altitudine di 1.800
metri. Nelle tre settimane necessarie a percorrerla tutta a piedi (ma c’è anche chi sceglie la
bicicletta), i viandanti hanno l’opportunità di
approfondire la propria fede e di riscoprire la
sobrietà grazie all’essenzialità obbligata del bagaglio e alla semplicità degli alloggi lungo la via.
Il connubio tra spiritualità e cammino, trasversale alle religioni, fa parte della tradizione
cristiana fin dagli albori, ed è oggi declinato
ai quattro angoli del mondo. Dall’Oceania
fino all’America Latina, passando per Africa e
Asia, le vie che guidano i fedeli, a piedi scalzi
o equipaggiati con scarpe da trekking di ultima generazione, verso luoghi dove il sacro
si manifesta in modo speciale si dipanano
per migliaia di chilometri. Intorno ad alcune
di queste vie, gli abitanti si sono organizzati battendo sentieri e creando infrastrutture
e servizi per i pellegrini: sono nati così degli itinerari che richiamano non solo i devoti
locali, ma sempre più anche viaggiatori dello
spirito che giungono spesso da molto lontano.
Non sorprende che questi trekking-pellegrinaggi costituiscano una presenza ormai familiare in Medio Oriente, culla del cristianesimo
e delle altre grandi religioni monoteistiche. Il
Jesus Trail, un percorso di 65 km nella regione
israeliana della Galilea, collega alcuni luoghi al
centro della vita e della predicazione di Gesù,
in una regione che alla pregnanza spirituale
unisce la suggestione naturalistica: tra le tappe
spiccano gli splendidi tratti nei parchi nazionali di Zippori e Arbel e sui corni di Hattin.
Isentieri della fede, tra Israele e Palestina, sono
innumerevoli, ma l’intera regione mediorientale ospita strade calpestate nella storia dai
patriarchi della Torah, della Bibbia e del Corano. È sui passi del comune Padre Abramo,
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l’”Amico di Dio”, al khalil, come è definito
dalla tradizione islamica, che è stato tracciato l’Abraham Path (letteralmente appunto il
“sentiero di Abramo”): una rotta di 1.200
km che parte da Ürfa, nel Sud-est dell’attuale Turchia, terra natale del patriarca secondo
una delle tradizioni, e arriva fino a Hebron/
Al-Khalil, dove è sepolto. In mezzo una lunga via che comprende Giordania, Israele, Palestina e anche - sebbene oggi solo teoricamente, a causa della guerra - la Siria. Molte
migliaia di pellegrini, dall’apertura nel 2007,
hanno marciato su uno dei tratti di strada ripristinati nei diversi Paesi (in tutto circa 450
km). E il “Masar” (“sentiero” in arabo), concepito secondo i dettami del turismo sostenibile, si è dimostrato un importante catalizzatore del cambiamento, sociale ed economico.
Se la Turchia ospita anche il Cammino che
ripercorre gli spostamenti missionari di san
Paolo (vedi pp. 10-11), è in Nord Africa la
rotta che segue invece i passi di sant’Agostino, il Dottore della Chiesa nativo di Tagaste,
nell’attuale Algeria. La Via Augustina segue
una tratta di andata, costiera, da Tunisi all’algerina Annaba - l’antica Ippona, città vescovile
di Agostino, la cui basilica festeggia proprio
quest’anno un secolo dalla consacrazione - e
una di ritorno che passa per Tagaste. Il tutto
per 605 km e trenta giornate di cammino.
Anche sotto il Sahara esistono luoghi dove il
sacro si respira in modo intenso, mete di pellegrinaggi a piedi compiuti tradizionalmente
dalla popolazione locale. Quello più suggestivo è forse Lalibela, in Etiopia, con Axum uno
dei centri spirituali dell’antichissima Chiesa
ortodossa “tewhaedo” (50 milioni di fedeli),
famoso per le sue meravigliose chiese rupestri.
In occasione delle principali festività religiose,
in particolare il Timkat - l’Epifania - migliaia di fedeli abbigliati nel tipico abito bianco camminano per settimane e anche mesi,
spesso a piedi nudi, dormendo all’addiaccio,
per venire fino a qui. E anche se oggi sono
in molti ad arrivare in autobus, e c’è perfino
chi prende un volo da Addis Abeba per una
visita rapida da immortalare con lo smartphone, il luogo non ha perso quella sacralità
che affonda le radici al tempo degli apostoli.
Conserva invece una memoria di dolore il santuario di Nostra Signora di Kibeho, in Ruanda, dove tra il 1981 e il 1989 la “Nyina Wa
Jambo”, ovvero la “Madre del Verbo” apparve
ad alcune studentesse, e che sarebbe poi stato
teatro di violenze efferate nel contesto del genocidio di vent’anni fa. Oggi il santuario, già
meta di pellegrinaggi, è al centro di un intervento congiunto della Chiesa cattolica ruandese
e del Rwanda Development Board che punta a
creare le strutture necessarie a una venerazione
che va allargandosi ben oltre la comunità locale.
Sono legati alla devozione mariana anche i
principali “Cammini” d’Asia, espressione di
una fede minoritaria quanto vigorosa. Mariamabad, in urdu “Città di Maria”, è un antico
insediamento cristiano nella provincia pachistana del Punjab, dove sorge un santuario veneratissimo e ritenuto miracoloso. Ogni anno, dal
9 all’11 settembre, qui si celebra una grande
festa, e migliaia di pellegrini da tutto il Paese convergono in quest’area remota. L’evento,
tuttavia - in una zona del mondo dove i diritti delle minoranze religiose sono ben poco
tutelati -, catalizza purtroppo anche episodi di
intolleranza. Spesso i fedeli che partecipano al
cammino da Lahore a Mariamabad subiscono
molestie, anche da parte della polizia, mentre
i venditori e i ristoratori lungo la via rifiutano
di servire loro cibo e bevande, adducendo il
presunto divieto per i musulmani di condividere le stoviglie con “infedeli”. Salvo il fatto che
non pochi pellegrini sono essi stessi di religione islamica, magari alla ricerca di una grazia
da parte di Mariam, anche da loro venerata...
Un dettaglio, quest’ultimo, che offre un pa-
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rallelismo con la basilica di Nostra Signora
della Salute, a Vailankanni, nello Stato indiano del Tamil Nadu, 2.400 km a sud-est di
Delhi. Qui, il “cammino standard” inizia a
Puducherry e dura quattro giorni, con i pellegrini che si nutrono di ciò che è disponibile
lungo il cammino e dormono ai bordi della
strada. Ma in molti partono da Chennai, aggiungendo cinque giorni di marcia sulla East
Coast Road. «Sulla via si incontrano cristiani
ma anche fedeli di altre religioni, che riconoscono la potenza di questo santuario», spiega Das, che da 17 anni serve i pellegrini nel
suo piccolo ristoro di Muthialpet. Dei venti
milioni di persone che annualmente visitano
Vailankanni, la metà è costituita da non cristiani, perlopiù indù.
La devozione verso la Madonna è all’origine
di infiniti esempi di cammini, processioni,
pellegrinaggi in tutti i continenti. In America Latina, a fianco della già nominata Aparecida, col suo Caminho da fé, è impossibile
non citare il santuario messicano di Guadalupe (con il relativo itinerario di quindici gior-
ni dagli Stati di Queretaro e Guanajuato), la
Virgen di Chiquinquirá, in Colombia, o ancora la basilica di Luján, in Argentina, dove
ogni anno, a ottobre, convergono i giovani
(l’anno scorso due milioni e mezzo) partecipanti alla marcia di 60 km da Buenos Aires.
Il modello contemporaneo del trekking dello
spirito è arrivato perfino in Oceania. Sei anni
fa, nell’Ovest australiano, è nato il Camino
Salvado-Pilgrim Trail, un percorso che dalla
chiesa di San Giuseppe a Subiaco, vicino a
Perth, porta fino alla città monastica di New
Norcia, nel Wheatbelt, dove sorge l’abbazia
benedettina fondata nel 1846 appunto da
padre Rosendo Salvado per evangelizzare gli
aborigeni. Nei 160 km di marcia, i pellegrini
attraversano luoghi di interesse storico e naturalistico, come il parco nazionale di Walyunga o la valle di Chittering. «Il Pilgrim Trail è
un’esperienza di riflessione e di rinnovamento
- spiegano gli organizzatori - pensata per tutti: le persone di fede, quelli che la fede non
ce l’hanno e quelli che la stanno cercando».
E scelgono di farlo camminando.
di Chiara Zappa
Briciole di Parola:
SANTI PIETRO E PAOLO
“TRA NOVITÀ E TRADIZIONE”
Dal Vangelo secondo Matteo (16, 13-19)
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli:
«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il
Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che
io sia?».
Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato
sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre
mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli:
tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra
sarà sciolto nei cieli».
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Quando nel calendario incontriamo la festa
dei Santi Pietro e Paolo, di immediato ci viene
da pensare a un’unità, come se i due fossero
una persona sola. Entrambi venerati lo stesso
giorno, spesso iconograficamente raffigurati
l’uno accanto all’altro, anche visivamente
ci danno l’idea di due persone molto affini,
soprattutto nell’agiografia. È sufficiente
entrare in Piazza San Pietro a
Roma e guardare le due statue che, ai piedi
della scalinata d’accesso alla Basilica, chiudono
su due lati differenti il colonnato del Bernini:
sembrano proprio due colonne, due baluardi
invincibili a difesa della fede, uno con le chiavi
del portone di casa e l’altro armato di spada
per difenderlo. Due santi tanto assimilati dalla
devozione popolare, da essere ritenuti simili
tra di loro.
Come un po’ i santi in genere, che a noi
paiono tutti quanti simili tra di loro in quanto
miti, pii, testimoni perfetti ed eroi della fede.
Ma chi ha mai detto che nella Chiesa i santi
sono tutti simili? Chi mai ha pensato che due
santi che ricordiamo nello stesso giorno e con
la medesima, doverosa intensità e solennità,
abbiano vissuto la fede in maniera simile? Chi
se la sente di sostenere che non esistono modi
diversi per dire e vivere la stessa fede? Si può
anche pensare che la fede cristiana sia una sola,
e che in quanto tale debba essere vissuta in un
solo modo: per carità, è pure lecito pensare
così.
Ma chi pensa questo di Pietro e di Paolo,
proprio non li conosce. Non conosce il Pietro
delle sicurezze e il Paolo delle sfide; non sa
chi sia (pur distinguendoli) il Pietro con le
chiavi e il Paolo con la spada. Non sa che uno
è pietra di fondamento, e che l’altro ha gettato
pietre fino alla morte su Stefano, santo come
lui. Non sa che Pietro è tradizione, e Paolo
frontiera. Che uno è certezza
e dogma, e l’altro è ricerca e innovazione. Che
uno è casa, l’altro è strada; uno è governo,
l’altro è missione. Diversi, profondamente
diversi tra di loro: eppure, entrambi necessari,
nel panorama della fede cristiana.
Uno (Pietro) cerca di essere un ottimo giudeo,
irreprensibile di fronte alla legge, ma spesso il
suo comportamento è da pagano, o forse ancor
peggio, da avversario di Dio, da “satana”, come
gli disse il Maestro; l’altro (Paolo) è amico dei
pagani, ma per via della formazione ricevuta,
vive in maniera integrale la sua fede, alla
maniera dei giudei.
Uno è sommerso dal senso del peccato e dal suo
essere peccatore, e ha bisogno continuamente
di un Dio misericordioso che lo rincuori e gli
dica “Ma tu mi ami più di costoro?”, mentre
l’altro è talmente pieno di sé che tocca al
Maestro, sulla via di Damasco, immergerlo
nel bagno della grazia di Dio per intriderlo di
umiltà.
Uno conosce direttamente Cristo; l’altro no,
è Cristo che andrà a fare conoscenza di lui.
Uno usa da sempre la barca per pescare (prima
pesci, poi uomini, ma fa lo stesso), l’altro
impara a usarla per navigare, per andare ad
annunciare, ad ogni costo, anche a costo di un
naufragio.
Uno “il capo”, l’altro, l’ “ultimo” tra gli
apostoli. Uno pervaso di una semplicità che
rasenta l’ingenuità, l’altro impregnato di
una cultura “da paura”. Antico e nuovo, arte
rustica e nuovo design ecclesiale, ricchezza del
passato e novità per il futuro.
Pietro è talmente simile a Cristo che viene
arrestato il giorno degli Azzimi, e mentre prega
riceve conforto da un angelo; Paolo è talmente
simile al Maestro da arrivare a dire che “lui
non vive più, perché è Cristo che vive in lui”.
Eppure, i due sono talmente diversi che nei
pochi giorni in cui s’incontrano di persona,
devono spartirsi il campo dell’annuncio del
Vangelo (Pietro ai circoncisi, Paolo ai non
circoncisi): e questo, non senza tensioni,
visto che la visita di Pietro ad Antiochia (la
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comunità di Paolo e Barnaba) fa andare su
tutte le furie Paolo per i suoi atteggiamenti
“ipocriti”. Eppure, ogni 29 giugno li
celebriamo insieme, in un’unica festa.
Entrambi focosi, senza dubbio, appassionati
di Dio. E chi è il più “cristiano” tra i due?
Il tradizionalista o l’innovatore? Il curiale
conservatore o il progressista profetico?
Questi, si sa, sono problemi e interrogativi
esclusivamente nostri. Ciò che di loro
sappiamo è che a queste cose non hanno
avuto affatto tempo di pensare: erano focosi,
avevano qualcosa che “bruciava” loro dentro,
un assillo quotidiano, una carità che urgeva,
che li ha portati entrambi a dare la vita per
Cristo.
Uno fedele alla tradizione e alla continuità,
l’altro fedele al nuovo e al diverso.
Entrambi martiri, testimoni, senza più sangue
nelle vene, perché tutto sparso in libagione.
Ciò che conta, allora, antichi o nuovi che
siamo, è spiegare le vele, terminare la corsa,
combattere la buona battaglia.
riflessione di Don Alberto Brignoli
tratta dal suo blog www.donalbri.wordpress.com
«MA PER I POVERI TU COSA FAI?»
Le parole del Papa: in troppi parlano senza fare niente.
Invece il Vangelo chiede di dare il cuore.
Di fronte alle povertà in tanti ci indigniamo ascoltando dei numeri. Ma poi noi,
personalmente, che cosa facciamo? È il richiamo che Papa Francesco ha rivolto incontrando
la folla in piazza San Pietro. Nel suo discorso il Papa ha ricordato la radice evangelica
della parola misericordia: « “misericordia”, parola latina il cui significato etimologico
è “miseris cor dare”, “dare il cuore ai miseri”, quelli che hanno bisogno, quelli che
soffrono. È quello che ha fatto Gesù: ha spalancato il suo Cuore alla miseria dell’uomo».
«Abbiamo a disposizione tante informazioni e statistiche sulle povertà e sulle tribolazioni
umane - ha aggiunto Bergoglio -. C’è il rischio di essere spettatori informatissimi e
disincarnati di queste realtà, oppure di fare dei bei discorsi che si concludono con soluzioni
verbali e un disimpegno rispetto ai problemi reali. Troppe parole, troppe parole, troppe
parole, ma non si fa niente!
Questo è un rischio.C’è il rischio... Quando io sento alcune conversazioni tra persone che
conoscono le statistiche: “Che barbarie, Padre! Che barbarie, che barbarie!”. “Ma cosa fai tu
per questa barbarie?”. Niente, parlo! E questo non risolve niente! Di parole ne abbiamo sentite
tante!
Quello che serve è l’operare, l’operato vostro, la testimonianza cristiana, andare dai sofferenti,
avvicinarsi come Gesù ha fatto. Imitiamo Gesù: Egli va per le strade e non ha pianificato
né i poveri, né i malati, né gli invalidi che incrocia lungo il cammino; ma con il
primo che incontra si ferma, diventando presenza che soccorre, segno della vicinanza di
Dio che è bontà, provvidenza e amore».
Sono parole che incrociano da vicino una sfida e dei pericoli che anche il mondo della
missione conosce molto da vicino. La stessa parola periferie rischia di diventare oggi solo
una bella citazione. Tu che ne pensi? E come vivi personalmente misericordia?
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«LA CHIESA NON È SOLO VATICANO E PRETI
MA SIAMO TUTTI NOI»
La Chiesa non sono solo i preti,
i vescovi e il Vaticano, ma “siamo
tutti”. Così Papa Francesco all’udienza generale in piazza San Pietro.
I fedeli sono benedetti da Dio e, a
loro volta, sono “uomini e donne
che benedicono”, quasi un “sinonimo” di “cristiani”. A fine udienza
Jorge Mario Bergoglio ha fatto appello per le migliaia di rifugiati che
anche in questi giorni sono costretti
a lasciare le loro case per sfuggire
ai conflitti e alle persecuzioni.
E’ un po’ come un figlio che parla
della propria madre, della propria famiglia. La
Chiesa infatti non è un’istituzione finalizzata a
se stessa o un’associazione privata, una Ong,
né tanto meno si deve restringere lo sguardo al
clero o al Vaticano… i preti sono parte della
Chiesa ma la Chiesa sono tutti, non bisogna
restringerla ai sacerdoti, ai vescovi, al Vaticano. Siamo tutti, tutti famiglia della madre. La
Chiesa è una realtà molto più ampia e si apre
a tutta l’umanità”.
La Chiesa “non nasce improvvisamente, non
nasce in laboratorio”, “è fondata da Gesù ma
è un popolo con una storia lunga alle spalle
e una preparazione che ha inizio molto prima di Cristo stesso”. La “storia, o preistoria,
della Chiesa” è la vicenda biblica di Abramo:
“Non è Abramo a costituire attorno a sé un
popolo, ma è lo stesso Dio a dare vita a questo popolo. Di solito era l’uomo a rivolgersi
alla divinità, cercando di colmare la distanza
e invocando sostegno e protezione. In questo
caso, invece, si assiste a qualcosa di inaudito: è
Dio stesso a prendere l’iniziativa e a rivolgere
la sua parola all’uomo, creando un legame e
una relazione nuova con lui”. In questo sen-
so, “l’amore di Dio precede tutto”, ha detto
il Papa ribadendo un concetto sul quale torna
spesso. “Isaia o Geremia, non ricordo bene,
uno di questi due, dice che Dio è come il
fiore del mandorlo, il primo che fiorisce nella
primavera: quando noi arriviamo, lui ci aspetta, lui ci chiama, lui ci fa camminare, sempre
in anticipo di noi e questo si chiama amore,
Dio ci aspetta sempre”.
Il Papa ha poi immaginato un colloquio con
un fedele: “Ma padre, io non credo, la mia
vita è stata tanto brutta, come posso pensare
che Dio mi aspetta?”, la domanda, e la risposta “Ma se sei stato peccatore grosso Dio ti
aspetta con tanto amore” e “la Chiesa ci porta
a questo Dio che ci aspetta”. Abramo e i suoi
ascoltano la chiamata di Dio e si mettono in
cammino, non senza “resistenze”, “ripiegamento su se stessi e sui propri interessi” “tentazione di mercanteggiare con Dio e risolvere
le cose a modo proprio”: “Sono i tradimenti
e i peccati che segnano il cammino del popolo lungo tutta la storia della salvezza, che
è la storia della fedeltà di Dio e dell’infedeltà
del popolo”. I cristiani, ha concluso il Papa,
devono diventare “benedizione, segno dell’a-
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more di Dio per tutti i suoi figli. A me – ha
concluso Bergoglio – piace pensare che il
sinonimo che possiamo avere per i cristiani
sarebbe questo: sono uomini e donne che
benedicono: benedire Dio e tutti noi. Noi
cristiani siamo gente che benedice”.
……..
“Il numero di questi fratelli rifugiati sta crescendo, migliaia di persone sono costrette a lasciare le loro case per salvarsi, è stato
l’appello pronunciato dal Papa a conclusione dell’udienza. “Milioni di famiglie, milioni
di famiglie! di tanti paesi e di ogni fede re-
ligiosa vivono nelle loro storie drammi e ferite che difficilmente potranno essere sanate.
Il Signore sostenga le persone e le istituzioni che lavorano con generosità per assicurare
ai rifugiati accoglienza e dignità, e dare loro
motivi di speranza. Pensiamo – ha detto ancora il Papa – che Gesù è stato un rifugiato,
è dovuto fuggire per salvare la vita, con san
Giuseppe e la Madonna, è dovuto andarsene
in Egitto, lui è stato un rifugiato. Preghiamo
la Madonna che conosce i dolori dei rifugiati
che sia vicina a questi nostri fratelli e sorelle”.
Iacopo Scaramuzzi
Città del Vaticano
Briciole dal Mondo:
«ADESSO COMPRENDIAMO PERCHÈ
NON ABBIAMO MAI PERSO LA SPERANZA»
La veglia di ringraziamento per i preti novelli
e per la liberazione dei “fidei donum” rapiti diventa un inno alla preghiera.
dal sito della Diocesi di Vicenza
Venerdì 6 giugno 2014, ore 20.45. La veglia
a Monte Berico alla vigilia dell’ordinazione
presbiterale dei giovani seminaristi vicentini e
nella gioia per la liberazione di don Giampaolo
Marta e don Gianantonio Allegri inizia con
il suono festoso delle campane che riempie la
Basilica e scende lungo il pendìo del monte
per spandersi sulla città.
Il santuario è gremito di fedeli, preti, diaconi,
religiose e religiosi a esprimere l’accoglienza e
la riconoscenza dell’intera comunità diocesana
che, con il suo Vescovo, che si stringe attorno
a don Giampaolo Marta e don Gianantonio
Allegri rientrati dal Camerun
Parla mons. Beniamino Pizziol: “È la terza
volta che ci raduniamo qui. Le prime due, il
4 e il 31 maggio, per invocare dal Signore,
attraverso l’intercessione di Maria, il dono
della liberazione. Stasera è per ringraziare di
essere stati esauditi”.
La veglia, preparata dalla Pastorale
Vocazionale, propone un cammino attraverso
i tre “profumi” del presbitero: il crisma, a
significare che il prete è chiamato a lasciarsi
continuamente ungere e guidare dallo Spiriro
di Dio; l’incenso, che è il profumo della
speranza riposta in Dio; il terzo è un “odore”,
quell’odore delle pecore di cui si impregna
solo il pastore che vive in mezzo al proprio
gregge, attento all’incontro con le persone,
specialmente le più povere.
Le parole del Vescovo sono un inno alla
preghiera: “Oggi godiamo della vostra
presenza e la nostra gioia è ancor più viva per
le ordinazioni presbiterali di domani”, dice
rivolgendosi ai “fidei donum” rientrati dal
Camerun e ai 5 diaconi. Poi chiede: “Che cosa
ci ha sostenuti in questi due mesi? Che cosa
Briciole di Missione - 9 -
ci ha consentito di essere uniti spiritualmente
e ci ha permesso di essere vicini, in ogni
momento, gli uni agli altri?”.
Tante domande, una sola risposta: “La
preghiera”.
Pregare, infatti, è “entrare nella comunione
della Santissima Trinità, entrare cuore a
cuore con il Signore, stare con Lui, lasciarsi
abbracciare e condurre da Lui, cioè riconoscere
il primato di Dio nella nostra vita”.
Eppure oggi corriamo tutti il pericolo
dell’efficienza: “Laici, preti, consacrati... tutti
dedichiamo molto tempo a stendere piani e
progetti spirituali ma perdiamo poco tempo
nella preghiera”.
“Perdere”. Usa un verbo forte, mons. Pizziol.
Ma solo così può spiegare che il tempo dedicato
alla preghiera “permette di conquistare il
proprio animo e di trovare il proprio posto nel
mondo”.
“Quando veniamo toccati nella carne, la
preghiera diventa più vera”, prosegue il
Vescovo di Vicenza, e ricorda che in questi
due mesi di prigionia di don Giampaolo e
don Gianantonio questa “preghiera vera e
intensa” si è levata da ogni parte del mondo:
“Attraverso la preghiera, neppure un minuto
vi abbiamo lasciati soli!”, dice mons. Pizziol ai
due “fidei donum”.
CUSTODITI, MAI ABBANDONATI
“Custoditi, mai abbandonati. Così ci siamo
sentiti durante tutto questo tempo - gli fa
eco don Gianantonio Allegri, descrivendo i
57 giorni nelle mani dei rapitori -. Ma solo
stasera comprendiamo da dove ci giungesse
tanta forza: dalla forza delle vostre preghiere”.
“Eravamo certi che qualcuno stesse pregando
per noi, ma in così tanti e in modo così
intenso no, non lo potevamo immaginare.
E ora capiamo perché siamo vivi, in salute e
soprattutto perché non abbiamo mai perso la
speranza”.
“Anche noi pregavamo - prosegue don
Gianantonio -. Pregavamo cinque volte al
giorno, proprio mentre lo facevano anche
i nostri rapitori adempiendo al precetto
musulmano. Pregavamo per loro, che Dio
toccasse i loro cuori di poveri ragazzi al
soldo di Boko Haram. E pregavamo per voi,
immaginando la vostra angoscia poiché non
sapevate nulla di noi”.
“Ora per tutti coloro che cercano liberazione,
noi vogliamo essere consolazione”, conclude
don Gianantonio anche a nome di don
Giampaolo e suor Gilberte.
La veglia si conclude ed è il momento degli
abbracci: il Vescovo li dà a uno a uno. Prima
ai preti fidei donum tornati dal Camerun. Poi
ai 5 seminaristi sui quali il giorno seguente
imporrà le mani per l’ordinazione presbiterale.
“State bene? Siete tranquilli? - chiede a questi
sottovoce con la premura di un padre -.
Arrivederci a domani”.
Luca de Marzi
DOV’È TUO FRATELLO? il grido dei Vescovi dell’Eritrea
Nell’anniversario dell’indipendenza un duro atto d’accusa al governo del Paese per le tragedie dei
suoi migranti. Un atto coraggioso in un Paese dove il presidente Afewerki reprime ogni dissenso.
L’hanno intitolata con la stessa citazione biblica scelta dal Papa nell’omelia del luglio scorso a Lampedusa, la domanda di Dio a Caino: «Dov’è tuo fratello?». E proprio all’isola
dei migranti fanno espressamente riferimen-
to ricordando la giornata tragica del 3 ottobre scorso, quella del naufragio al largo della
Sicilia costato la vita a oltre 300 persone, la
maggior parte delle quali provenienti proprio
dal loro Paese. È con parole coraggiose che i
Briciole di Missione - 10 -
quattro vescovi cattolici dell’Eritrea si rivolgono al Paese in una
lettera pastorale di 38
pagine che porta la data
del 25 maggio 2014,
ventunesimo anniversario dell’indipendenza
del Paese.
I quattro eparchi di
Asmara, Barentu, Keren e Segeneiti rivolgono infatti la domanda
«Dov’è tuo fratello?» al
proprio Paese, diventato sotto il pugno di
ferro dal presidente Isaias Afewerki uno delle
terre africane dalle quali maggiormente oggi
la gente scappa. Con fughe che si trasformano
in odissee non solo nel Mar Mediterraneo,
ma anche nell’arsura del deserto del Sinai, che
gli eritrei percorrono cercando di raggiungere Israele mettendosi nelle mani di trafficanti
senza scrupoli esattamente come gli scafisti.
«Dov’è tuo fratello? Dal momento che l’ambiente in cui viviamo aggrava la situazione,
piuttosto che trovare soluzioni che prevengano
il ripetersi di incidenti simili a quello di Lampedusa, questa domanda ci toglie il sonno»,
scrivono dunque i vescovi dell’Eritrea. Con
una denuncia delle condizioni di vita nel Paese senza se e senza ma; i vescovi affrontano ad esempio - il tema della mancanza di libertà di espressione, a causa della quale «i nostri
giovani fuggono verso Paesi dove c’è giustizia,
lavoro e dove ci si può esprimere senza timore
ad alta voce». E aggiungono: «Non ci sarebbe
ragione di cercare nazioni dolci come il miele se uno vivesse già in un posto del genere».
I vescovi eritrei puntano inoltre il dito sulla
disgregazione delle famiglie, di cui l’emigra-
zione è solo un volto: «i componenti di ogni
famiglia - continua il documento - oggi sono
sparpagliati tra il servizio nazionale, l’esercito, i centri di riabilitazione, le carceri, con gli
anziani lasciati indietro senza nessuno che si
prenda cura di loro. Tutto questo sta rendendo
l’Eritrea una terra desolata». Prendono di petto
anche la questione dei detenuti - migliaia dei
quali, sostiene Amnesty International, in Eritrea
sono in carcere per ragioni politiche e di coscienza: «Chiunque viene arrestato - scrivono
i vescovi - deve essere trattato con umanità e
poi, sulla base delle accuse rivolte contro di
lui, deve essere portato in un tribunale dove
discutere il proprio caso in maniera equa».
Quello contenuto nella lettera pastorale «Dov’è
tuo fratello?» è un intervento molto significativo per un Paese come l’Eritrea, governato da
Afewerki dall’indipendenza ottenuta nel 1993
e senza alcuno spazio per qualsiasi forma di
dissenso politico. Una cortina di ferro che ha
colpito pesantemente anche la libertà religiosa:
in uno Stato in cui oltre il 50% della popolazione è cristiana sono ammesse solo le tre
Chiese ufficialmente riconosciute e cioè quella
Etiope ortodossa, quella cattolica (circa il 2,5%
della popolazione) e quella evangelica. Tutte le
Briciole di Missione - 11 -
altre confessioni protestanti sono fuori legge e
molti loro fedeli si trovano di fatto in carcere semplicemente per questo motivo. Anche
le tre Chiese principali - comunque - devono
fare i conti con i diktat di Afewerki: emblematico il caso della Chiesa Etiope ortodossa,
la confessione largamente maggioritaria, il cui
patriarca - l’abuna Antonio - è stato di fatto
deposto nel 2005 dall’uomo forte di Asmara,
perché non abbastanza allineato con le sue
posizioni politiche. Tutte circostanze, queste,
che rendono l’intervento dei quattro vescovi
cattolici ancora più significativo.
Giorgio Bernardelli
IL NO AL FEMMINICIDIO DELLE DONNE
In India un gruppo di donne ha protestato contro i recenti stupri e impiccagioni di
giovani ragazze avvolgendo il proprio corpo in drappi colorati come la bandiera
indiana. Una manifestazione che non è sufficiente a scuotere le coscienze. E per l’Onu
una delle cause principali è l’assenza dello Stato.
Hanno protestato contro gli stupri avvolte
in drappi bianchi, verdi e arancio. Le donne
del gruppo Sthree koottayma erano poche
nella città diErnakulam a Kerala, ma lo hanno
fatto per scuotere l’India e destare attenzione
sulla condizione attuale che vede ogni giorno
delinquenti che violentano e uccidono giovani
ragazze. Uno per tutti, l’episodio conclusosi
con la morte per impiccagione, dopo essere
state stuprate, di due giovani donne maurya,
nominate dalit dalla maggior parte dei media.
La polizia ha arrestato le manifestanti per
“esposizione di indecenze”, dove l’indecenza
era rappresentata da spalle e polpacci.
Poco o nulla si sta facendo per diffondere
un’informazione chiara e condannare atti ben
più osceni, come la morte delle due cugine,
perché donne e perché appartenenti a una
casta minore dei loro carnefici,nello Stato del
Nord Uttar Pradesh. Non un episodio isolato,
per il quale le manifestanti sono state fermate
dalla polizia. Azione che rende la donna
doppiamente vittima e lascia i veri colpevoli
impuniti.
l’autorità indiana, ignorando l’applicazione
della legge e della giustizia, non ha assunto
la dovuta responsabilità nel combattere gli
attacchi di violenza sessuale.
«Siamo allarmati per la violenza diffusa,
gli abusi e l’abbandono dei bambini (…).
Non siamo interessati solo a quei casi che
attirano l’attenzione internazionale. Siamo
anche molto preoccupati per quelli che non
beneficiano dell’attenzione dei media, non
arrivano ad essere segnalati alle autorità o non
hanno il sostegno dei vicini o dei villaggi in cui
questi reati sono commessi» ha detto Mezmur,
che proviene dall’Etiopia ed è docente di legge
sui diritti umani presso l’Università di Western
Cape in Sudafrica. Il neo primo ministro
Narendra Modi si è impegnato ad aumentare
la sicurezza delle donne. La commissione
Onu ha inoltre esortato l’India a prendere
misure immediate per impedire l’infanticidio
femminile, l’abbandono delle bambine e per
garantire l’applicazione delle norme contro gli
aborti selettivi.
Secondo la Commissione per la salvaguardia
dei diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite
Briciole di Missione - 12 -
IRAQ - appello dell’Arcivescovo siro cattolico Moshe
alla Comunità Internazionale: SALVATECI!
Qaraqosh (Agenzia Fides) – Qaraqosh è quasi
una città fantasma. Più del novanta per cento
degli oltre 40mila abitanti, quasi tutti cristiani
appartenenti alla Chiesa siro-cattolica,
sono fuggiti negli ultimi due giorni davanti
all’offensiva degli insorti sunniti guidati dai
jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del
Levante (ISIL), che sottopongono l’area
urbana al lancio di missili e granate. Tra i
pochi rimasti in città ci sono l’Arcivescovo
di Mosul dei Siri, Yohanna Petros Moshe,
alcuni sacerdoti e alcuni giovani della sua
Chiesa, che hanno deciso di non fuggire. Nel
centro abitato, nelle ultime due giornate, sono
arrivate armi e nuovi contingenti a rafforzare
le milizie curde dei Peshmerga che oppongono
resistenza all’avanzata degli insorti sunniti.
L’impressione è che si stia preparando il
terreno per lo scontro frontale.
Nella giornata di ieri, l’Arcivescovo Moshe
ha tentato una mediazione tra le forze
contrapposte con l’intento di preservare la
città di Qaraqosh dalla distruzione. Per il
momento, il tentativo non ha avuto esito.
Gli insorti sunniti chiedono alle milizie curde
di ritirarsi. I Peshmerga curdi non hanno
alcuna intenzione di consentire agli insorti di
avvicinarsi ai confini del Kurdistan iracheno.
In questa situazione drammatica, da Qaraqosh
l’Arcivescovo Moshe attraverso l’Agenzia Fides
vuole lanciare un pressante appello umanitario
a tutta la comunità internazionale: “Davanti
al dramma vissuto dal nostro popolo” dice a
Fides l’Arcivescovo, “mi rivolgo alle coscienze
dei leader politici di tutto il mondo, agli
organismi internazionali e a tutti gli uomini di
buona volontà: occorre intervenire subito per
porre un argine al precipitare della situazione,
operando non solo sul piano del soccorso
umanitario, ma anche su quello politico e
diplomatico. Ogni ora, ogni giorno perduto,
rischia di rendere tutto irrecuperabile. Non
si possono lasciar passare giorni e settimane
intere nella passività. L’immobilismo diventa
complicità con il crimine e la sopraffazione.
Il mondo non può chiudere gli occhi davanti
al dramma di un popolo intero fuggito dalle
proprie case in poche ore, portando con sé
solo i vestiti che aveva addosso”.
L’Arcivescovo siro cattolico di Mosul delinea
con poche vibranti parole la condizione
particolare vissuta dai cristiani nel riesplodere
dei conflitti settari che stanno mettendo a
rischio la sopravvivenza stessa dell’Iraq: “
Qaraqosh e le altre città della Piana di Ninive
sono state per lungo tempo luoghi di pace e
di convivenza. Noi cristiani siamo disarmati,
e in quanto cristiani non abbiamo alimentato
nessun conflitto e nessun problema con i
sunniti, gli sciiti, i curdi e con le altre realtà
che formano la Nazione irachena. Vogliamo
solo vivere in pace, collaborando con tutti e
rispettando tutti”.
Il sacerdote siro cattolico Nizar Semaan,
collaboratore
dell’Arcivescovo
Moshe,
spiega a Fides che l’appello “è rivolto anche
a quei governi occidentali ed europei che
spesso parlano dei diritti umani in maniera
intermittente e interessata, sprofondando poi
in un mutismo di comodo quando le loro
operazioni e le loro analisi dei problemi del
Medio Oriente si rivelano miopi e fallimentari.
Per essere chiari, l’Arcivescovo non chiede di
risolvere la situazione mandando altre armi in
Medio Oriente. Sono stati anche gli interventi
armati occidentali a scatenare il caos pieno di
sangue e violenza che fa soffrire i nostri popoli
stremati”. (GV)
Briciole di Missione - 13 -
Il Gruppo Missionario incontra
GRAZIELLA e SUOR MARINA
Briciole di Missione - 14 -
17 ANNI DI VOLONTARIATO
O MEGLIO LAICATO MISSIONARIO IN BRASILE
In questi giorni, mi accingo a ripartire.
Forse la settima, forse l´ottava volta: ne ho
perso il conto in questi 17 anni di partenza e
ripertenze!
Il tornare é sempre um momento di riflessione
e bilanci, ripercorrere i passi del mio cammino
spirituale com i Saveriani, di dialogo com Rete
Speranza, rincontrare amici, per ricaricarsi,
analizzare, vedere, rivedere il percorso fatto e
le sfide future.
Questi ultimi due anni sono stati belli, ma
in certi momenti difficili e faticosi: ricordo la
chiusura del Centro di Promozione Umana, di
Piraquara, per mancanza improvvisa di fondi,
mentre si procedeva a tutto vapore, con tanti
ragazzi e mamme che hanno creduto in noi.
Ricordo la grandinata dell´ ottobre 2012, che
há distrutto quasi tutto il tetto del Centro
Professionale. La delusione profonda, che
mi há segnato il cuore in maneira indelebile,
di molti volti amici, che in qualche modo si
sono sentiti traditi, ma anche la speranza del
ricominciare.
Se potessi riassumere questi 17 anni anni in
uma sola frase potrei dire che Rete Speranza
é uma strada che com coraggio si apre in
mezzo alla fitta foresta della Vita e che nel
suo percorso raccoglie chi si trova disorientato
sul ciglio della strada, senza meta, offre uma
mano per rialzarsi e intraprende insieme um
pezzo di strada.
Per questo, ho bisogno di ripartire, anche
com uma certa fática, non lo nascondo, per
continuare a camminare sulla strada della mia
Vita, com le mie sfide di ogni giorno, com la
mia umanitá fragile, che a volte , invece di
tendere la mano, guarda se c´é ancora qualcosa
nel próprio zaino, da offrire e cosí sbaglia tutto.
In questi 17 anni forse uma sola cosa ho capito:
servono due braccia allargate, e um sorriso,
in cordata com tanti compagni di viaggio
che forse um po´ folli, sognano insieme uma
umanitá nuova, che osano non perdere di
mira il fine del nostro stare insieme: il sorriso
dei poveri, di quei ragazzi giá stanchi di vivere.
In queti 17 anni, ho confermato la convinzione
che senza un´esperienza di Fede vissuta in
comunitá e sostenuta da uma spiritualitá
missionaria, come quella a cui io mi sento
particolarmete legata, la spiritualitá saveriana,
la mia esperienza sarebbe forse giá finita da
tempo.
Ringrazio per cui tutti, la mia Comunitá
del Bom Pastor di Curitiba, Rete Speranza/
Rede Esperança, la mia famiglia, il gruppo
missionário, gli amici che ho rincontrato a
Macherio e che hanno osato chiedermi, non
cosa faccio, ma qual é la speranza che vivo
in me e ai quali ho potuto semplicemente
rispondere: l´uomo della Croce forza e salvezza
dell´Umanitá.
Cosí, riparto con gioia,
Briciole di Missione - 15 -
Graziella
Macherio, 7 luglio 2014
4 luglio 2014 - SANTA MESSA
per i Missionari defunti di Macherio
Un grazie a Suor Marina, Graziella e don Mario
per avere condiviso con noi la nostra preghiera
Briciole di Missione - 16 -
Briciole di Missione - 17 -
Briciole di Missione - 18 -
Prossimo banchetto - EQUO COMMERCIO
14 Settembre 2014
piazzale della Chiesa dalle ore 7.30 alle 12.30
Preghiera
Ci sono migliaia e migliaia di persone,
Signore, nei Paesi poveri
e nelle zone povere dei Paesi ricchi,
senza diritto di alzare le loro voci,
senza possibilità di reclamare, di protestare,
malgrado giusti siano i diritti che devono difendere.
I senza casa, senza cibo, gli ignudi, gli ammalati,
i derelitti, disoccupati, coloro che non hanno futuro,
i disperati, rischiano di cedere al fatalismo,
allo scoraggiamento, perdono la voce,
diventano dei “senza voce”.
Che sempre più, Padre, siamo uno col tuo Figlio!
Che il Cristo veda i nostri occhi,
ascolti con le nostre orecchie,
parli con le nostre labbra.
E manda, Signore, il tuo Spirito
perché lui solo può rinnovare la faccia della Terra.
Lui solo potrà cancellare gli egoismi, condizione indispensabile
perché siano superate le strutture ingiuste
che tengono milioni di esseri in schiavitù.
Lui solo potrà aiutarci a costruire un mondo più umano e cristiano.
Helder Câmara (testo adattato)
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Buone Vacanze!!!
a tutti
Il Gruppo Missionario
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