Cass., civ. sez. II, del 16 maggio 2016, n. 9968

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Cass., civ. sez. II, del 16 maggio 2016, n. 9968
Con il terzo motivo la ricorrente deduce "art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c.. Violazione e/o falsa
applicazione dell'art. 2909 c.c., degli artt. 112 e 115 c.p.c., degli artt. 228 c.p.c. e 2733 c.c.,
nonché degli artt. 2709 e 2722 c.c. in relazione all'art. 1522, co. 1, c.c.. Art. 360, co. 1, n. 5),
c.p.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio. Sull'inammissibilità dell'accertamento giudiziale dei presunti vizi
della merce oggetto di controversia con riferimento alle taglie ed alle misure della medesima
in mancanza della produzione in giudizio del campione convenuto" (così ricorso, pagg. 68 69).
Adduce che la statuizione di prime cure aveva qualificato l'accordo intercorso tra le parti in
guisa di vendita a campione e siffatta qualificazione era passata in giudicato, poiché non era
stata censurata con nessun motivo di appello; che l'affermazione della corte territoriale
secondo cui "la vendita su campione ha interessato solo alcuni ordinativi (...), mentre altri
ordinativi non facevano riferimento ad alcun campione" (così sentenza d'appello, pag. 20),
"viola l'art. 2909 c.c. nella misura in cui la qualificazione giuridica della fattispecie (...) non
era oggetto di impugnazione" (così ricorso, pag. 71).
Adduce in subordine che "la qualificazione giuridica della fattispecie (...) discendeva dalle
pacifiche allegazioni delle parti" (così ricorso, pag. 71).
Adduce segnatamente che la corte bresciana non si è pronunciata ovvero non ha motivato,
quanto meno sufficientemente, in ordine alla doglianza secondo cui "il vizio di difformità
delle taglie e delle misure della merce oggetto di controversia non poteva essere valutato se
non in riferimento al campione convenuto" (così ricorso, pag. 74); che di contro la corte ha
utilizzato "per la comparazione non i campioni convenuti ma i documenti prodotti
dall'appellata (cd. <tabelle misure>) che recano date successive all'esecuzione dell'intero
rapporto e non erano comunque quelle schede (...) di fatto utilizzate nella fase precontrattuale
per confezionare il campione approvato" (così ricorso, pag. 75); che "tali documenti sono
certamente qualificabili come scritture contabili della controparte" (così ricorso, pag. 76) e
pertanto "dovevano essere valutati ai sensi dell'art. 2709 c.c. contro la medesima T che li
aveva prodotti in giudizio ed in guisa che la relativa data (...) rendesse ininfluente ed
inammissibile ai sensi dell'art. 2722 c.c. la prova testimoniale" (così ricorso, pag. 76); Il
motivo è destituito di fondamento.
Va in primo luogo puntualizzato che si è al cospetto di plurime operazioni di vendita.
D'altronde, siccome riferisce la medesima ricorrente, il primo giudice ebbe a dichiarare risolti
"i contratti di vendita relativi alle seguenti fatture: 878/2002; 939/2002; 1071/2002;
1117/2002; 1139/2002; 1176/2002; 1270/2002; 1287/2002; 1319/2002; 1346/2002" (così
ricorso, pag. 24). E la corte d'appello, a sua volta, ha dichiarato "la intervenuta risoluzione"
dell'ulteriore contratto di vendita relativo alla fattura n. 1415 del 30.12.2002.
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Su tale scorta si evidenzia, da un canto, che la cosa giudicata parziale può formarsi quando la
sentenza contenga due o più capi autonomi di decisione ed essi non vengano tutti impugnati,
in modo che uno o più accertamenti contenuti nella sentenza diventino definitivi e facciano
stato ad ogni effetto tra le parti ed i loro aventi causa (cfr. Cass. 29.10.1983, n. 6443);
dall'altro, che costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare
oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una
propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto
indipendente (cfr. Cass. 23.3.2012, n. 4732, ove si soggiunge che la suddetta autonomia
manca non solo nelle mere argomentazioni, ma anche quando si venia in tema di valutazione
di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo
unico della decisione; Cass. sez. lav. 7.3.1995, n. 2621; cfr. Cass. 29.10.1983, n. 6443,
secondo cui per capo autonomo deve intendersi solo quello che risolve una questione avente
una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente,
ma siffatta autonomia non sussiste quando si tratti di un'argomentazione giuridica che, anche
se accettata o non impugnata dal soccombente, non vincola il giudice d'appello, il quale,
essendo chiamato a riesaminare l'intera decisione, deve applicare le norme giuridiche aderenti
al caso concreto).
In questi termini, nel caso di specie, è, per un verso, da ammettere che abbia valenza di
giudicato — parziale — la denegata (declaratoria di) risoluzione delle operazioni di vendita
che si correlano a fatture per le quali né il primo né il secondo giudice hanno dichiarato la
risoluzione (con l'appello incidentale "T ha sollecitato specificamente la risoluzione anche del
"contratto afferente la merce in giacenza presso il C di cui al doc. di trasporto n. 1931/02
(Fattura 1415/02)": così sentenza d'appello, conclusioni dell'appellata, pag. 3).
E', per altro verso, da escludere che possa configurarsi un giudicato interno sulla
qualificazione ai sensi dell'art. 1522, 1° co., c.c., in guisa di vendita "su campione", delle
operazioni negoziali de quibus (cfr. Cass. sei lav. 1.2.2005, n. 1889, secondo cui, nel rito del
lavoro, la mancata impugnazione della sentenza in relazione alle questioni relative alla natura
del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, se non è idonea a determinare il formarsi del
giudicato interno sul punto, in quanto esso si forma solo su capi autonomi della sentenza, che
risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una
decisione del tutto indipendente, tuttavia preclude al giudice dell'impugnazione di
pronunciarsi sul punto per non incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato; cfr. Cass. 19.3.2014, n. 6304, secondo cui la pronuncia, esplicita o
implicita, sulla natura di un credito (nella specie, ritenuto di valore) non è idonea a
determinare la formazione del giudicato interno sul punto, in quanto esso si forma solo su capi
autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia,
tali da integrare una decisione del tutto indipendente; tuttavia, ove detta statuizione non sia
stata oggetto di censura con l'appello, resta precluso al giudice dell'impugnazione pronunciarsi
sul punto per non incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato).
Va in secondo luogo puntualizzato che nel caso de quo, da un lato, è da reputar fuor di
discussione, siccome la corte d'appello ha dato atto, che "i campioni erano stati consegnati da
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C a T" (così sentenza d'appello, pag. 20; depongono in tal senso pur le fatture n. 665/2002 per
euro 126,34, n. 698/2002 per euro 152,39, n. 797/2002 per euro 789,12 e n. 818/2002 per euro
145,08, menzionate nel ricorso a pag. 3); dall'altro, che in nessun modo risulta che le parti
ebbero ad assumere particolari cautele per assicurare la conservazione o l'identificazione dei
campioni.
Su tale scorta si reputa, in ogni caso, di condividere l'indirizzo esegetico — già recepito dalla
corte lombarda - secondo cui la configurabilità di una vendita "su campione", ai sensi e per
agli effetti di cui all'art. 1522, 1° co., c.c., non trova ostacolo nel fatto che le parti non abbiano
previsto precauzioni circa il prelevamento del campione e la sua custodia, sicché si è al
cospetto di una circostanza che può implicare unicamente una maggiore difficoltà per la prova
di eventuali difformità della merce consegnata (cfr. in tal senso Cass. 27.3.1980, n. 2030; cfr.
Cass. 22.1.1968, n. 177, secondo cui la vendita su campione ha giuridica sussistenza ancorché
le parti, per accordi intervenuti o per reciproca fiducia, non abbiano predisposto alcuna
cautela per assicurare la conservazione o l'identificazione del campione stesso; in tale ipotesi
è più gravosa, ma non impossibile la prova dell'identità del campione e il giudice é tenuto a
prendere in esame le prove che a tal fine siano state dedotte dalle parti, salva ogni valutazione
di merito sull'esito delle medesime).
E' significativo notare, d'altra parte, che nel solco dell'indirizzo esegetico di segno opposto secondo cui nella vendita "su campione" di cui all'art. 1522, 1° co., c.c. la prova della
differenza della cosa consegnata rispetto a quella pattuita deve essere valutata esclusivamente
mediante rapporto con il campione, sicché ove il campione manchi o non sia esibito con le
necessarie garanzie di identificazione viene meno la possibilità di accertare l'inadempimento
del venditore in ordine alle particolari qualità della merce oggetto della convenzione (cfr.
Cass. 30.5.1984, n. 3312, e, più di recente, nello stesso senso Cass. (ord.) 12.6.2012, n. 9582)
- si è affermato specificamente che non integra vendita "su campione" l'invio al compratore di
"pezze di campione" per consentire allo stesso di potere predisporre le confezioni da esibire ai
subacquirenti e senza l'adozione di cautele idonee ad identificare e a conservare il campione
stesso (cfr. propriamente in tal senso Cass. 30.5.1984, n. 3312, pur citata dalla ricorrente —
cfr. ricorso, pag. 79 — senza menzione tuttavia di tal ulteriore puntualizzazione). Cosicché,
nel solco dell' (antitetico) indirizzo esegetico che la ricorrente invoca a sostegno delle sue
argomentazioni, la fattispecie concreta de qua agitur — per molteplici aspetti assimilabile a
quella scrutinata da questa Corte con la pronuncia n. 3312/1984 — fuoriuscirebbe, addirittura,
dall'astratta prefigurazione di cui all'art. 1522, 1° co., c.c., contrariamente, per giunta, alla
prospettazione della stessa "C".
Nei termini esposti, in aderenza ossia all'insegnamento per cui ai fini del riscontro di eventuali
difformità della merce consegnata rispetto al "campione" il giudice può vagliare qualsivoglia
risultanza probatoria, è non solo del tutto ingiustificata la deduzione della ricorrente a tenor
della quale "le <tabelle misure> non potevano sostituire il campione convenuto
nell'accertamento delle presunte difformità perché anche le misure erano stabilite sulla base
del campione" (così ricorso, pag. 7 7) , ma è destituita di fondamento pur l'ulteriore censura a
tenor della quale i documenti utilizzati, giacché da qualificare "come scritture contabili della
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controparte ai sensi dell'art. 2214, co. 2, c.c., (...) dovevano essere valutati ai sensi dell'art.
2709 c.c. contro la medesima T che li aveva prodotti in giudizio" (così ricorso, pag. 76).
E' ben evidente, infatti, che i documenti de quibus, attesa l'innegabile qualità di imprenditore e
della ricorrente e della controricorrente, sono stati vagliati dalla corte di merito — alla
stregua, siccome si è anticipato, delle "tabelle prodotte e riconosciute dai testi D e A" (così
sentenza d'appello, pag. 21) e degli esiti della c.t.u. — all'insegna, precipuamente, dell'art.
2710 c.c., ai sensi del quale le scritture contabili, anche se regolarmente tenute, non hanno
valore di prova legale a favore dell'imprenditore che le ha redatte, nondimeno, qualora
l'imprenditore intenda utilizzarle come mezzi di prova nei confronti della controparte, sono
soggette, come ogni altra prova, al libero apprezzamento del giudice, al quale spetta stabilire,
nei singoli casi, se ed in quale misura siano attendibili e idonee, eventualmente in concorso
con altre risultanze probatorie, a dimostrare la fondatezza della pretesa (o della eccezione)
della parte che le ha prodotte in giudizio (cfr. Cass. 3.4.1996, n. 3108; altresì Cass. 7.2.2001,
n. 1715).
Vano è, al contempo, il riferimento all'art. 2722 c.c..
E' sufficiente il rinvio all'insegnamento secondo cui il divieto sancito nell'art. 2722 c.c. di
provare con testimoni patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, si riferisce al
documento contrattuale, ossia formato con l'intervento di entrambe le parti e racchiudente una
convenzione, per cui tale divieto non opera ove si tratti di scrittura che provenga da una sola
parte e contenga una dichiarazione unilaterale (cfr. Cass. 8.2.1974, n. 373; cfr. Cass.
23.6.1969, n. 2264, secondo cui il divieto di provare con testimoni patti aggiunti o contrari al
contenuto di un documento si riferisce esclusivamente ad un documento contrattuale, ossia a
quello formato con l'intervento di entrambe le parti e racchiudente una convenzione; tale
divieto non opera ove si tratti di scrittura proveniente da una sola parte e contenente un atto
unilaterale, quale è la fattura proveniente dalla parte contraria a quella che ha prodotto la
prova; invero, la fattura che accompagna l'esecuzione della prestazione dovuta dal venditore,
non ha contenuto convenzionale né valore di atto vincolante anche per la parte cui è diretta).
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