Je suis haïtien - Antonio Maria Baggio

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Je suis haïtien - Antonio Maria Baggio
Pubblicato (parzialmente) in “Città nuova” n. 10, 25/05/2004
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Je suis haïtien
Ritratto di un Paese che ha attraversato drammatiche prove storiche e che, dopo
l’allontanamento dell’ex presidente Aristide, si apre alla speranza della democrazia
Jean Bertrand Aristide viene da una famiglia povera. Diventato sacerdote salesiano, ha
aderito alla teologia della liberazione, che ha trasformato in vera e propria ideologia politica: dalla
sua chiesa della bidonville di Cité Soleil ha preparato la propria ascesa. I poveri hanno cominciato a
riconoscerlo come un moderno “messia” e lo hanno votato, portandolo alla presidenza della
Repubblica nel 1991. Ma già nel settembre dello stesso anno un colpo di Stato militare lo toglie dal
potere e lo costringe all’esilio negli Stati Uniti. Nei tre anni che seguono Aristide coltiva i rapporti
con l’amministrazione democratica statunitense, in particolare con il “Black Caucus” (l’insieme dei
parlamentari democratici neri degli Usa), che continuerà a sostenerlo fino alla fine.
L’intervento dei marines mette fine al colpo di Stato, e gli Usa reinsediano Aristide alla
presidenza nell’ottobre 1994. Fin dai primi giorni, comincia il processo di accentramento del potere
intorno al presidente che finirà per svuotare completamente di autonomia la politica haitiana. Alla
scadenza del mandato, Aristide fa eleggere un suo uomo, per riprendere poi la presidenza nel 2001,
con elezioni alle quali partecipa non più del 15 per cento degli aventi diritto. Lavalas, il partito di
Aristide, nel frattempo è diventato una sorta di “partito unico”: le elezioni del 2000 avevano
consegnato al partito di governo il 90 per cento dei seggi. I candidati dell’opposizione si erano
ritirati tutti prima del ballottaggio, per protesta contro i pesanti e documentati brogli elettorali; il
presidente del comitato elettorale si era rifiutato di firmare i risultati e, minacciato di morte, aveva
lasciato l’isola con tutta la famiglia: la legittimità del parlamento non è riconosciuta neppure dalla
comunità internazionale.
Sul presidente gravavano pesanti sospetti, diventati ad un certo punto certezze, di complicità
nel traffico della droga: si spiega così come il suo patrimonio personale sia superiore al bilancio di
ogni Stato dei Carabi; e si spiega come ancora oggi possa contare su sostegni e complicità comprati
col denaro e con l’intreccio di affari. Su pressione statunitense, Aristide ha consentito, ad un certo
punto, che fossero arrestati, qui in Haiti, alcuni grandi trafficanti di droga che, vistisi traditi dal
presidente, hanno indicato in lui il grande capo del commercio della droga. Si tratta di dichiarazioni
ufficiali, che spiegano come la droga passi da Haiti, in provenienza dalla Colombia, per arrivare
negli Usa. Jacques Ketang, padrino di battesimo di una delle figlie di Aristide, ha spiegato che
doveva pagare una sostanziosa tangente al presidente per mantenere in piedi il traffico. Aristide, su
pressione statunitense, ha dovuto permettere che Ketang venisse arrestato; gli statunitensi, avendo
subodorato che difficilmente il trafficante sarebbe arrivato vivo nelle loro mani – il fratello era già
stato ucciso -, sono riusciti a prenderlo prima che venisse fatto fuori. Attualmente sta scontando 25
anni.
Aristide dispone non soltanto delle forze di polizia, ma anche delle “Organizzazioni
popolari”, nate per sua iniziativa nei primi tempi del suo accesso al potere; allora, avevano anche
una connotazione politica e ideologica, in assenza di consolidate strutture di partito e di istituzioni
democratiche. Successivamente l’elemento ideologico si è affievolito fino a scomparire, e sono
rimaste in piedi come organizzazioni armate più simili alla malavita organizzata che a gruppi
politici. In tutto il Paese sono guidate da facinorosi; si dedicano al taglieggiamento delle attività
produttive e commerciali, ai furti privati, alle intimidazioni. Fino a che punto Aristide le
controllasse è difficile dire: le condizionava e ne era condizionato: erano la sua massa di manovra,
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Questo testo è stato scritto nell’aprile 2004 ed è stato parzialmente pubblicato da “Città nuova”, n. 10, 25
maggio2004. Reperibile anche in “Speciale Haiti”, www.rivistanuovaumanita.it
1 ma, proprio per questo, non poteva liberarsene. Oggi, dopo la sua partenza, rimangono un
problema.
Un Paese spezzato
Negli ultimi anni sono state molto numerose le “missioni” diplomatiche internazionali, in
particolare quelle dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che hanno cercato di sbloccare
la situazione politica e portare maggioranza e opposizione ad un accordo. Qualche volta si è anche
raggiunta un’intesa di massima, rimasta però inapplicata. La marcia di Aristide verso la costruzione
di una vera e propria dittatura, e la conseguente paralisi politica, fanno precipitare la credibilità del
Paese: la comunità internazionale non ha alcuna garanzia che il governo in carica riesca ad
applicare in maniera razionale favorevole alla popolazione un qualunque piano nel settore sanitario,
o educativo, o economico.
Di conseguenza, i crediti e gli aiuti internazionali sono bloccati. L’economia è ferma. La
gente tira avanti con le rimesse (800 milioni di dollari all’anno) degli emigrati, con gli aiuti delle
numerose organizzazioni non governative operanti nell’isola, con l’azione caritativa delle Chiese.
Haiti importa dieci volte più di quello che esporta. L’economia è a pezzi, già strangolata
dall’embargo deciso ai tempi del colpo di Stato. Chi può, fugge.
Ma, soprattutto, è ferito l’orgoglio. La prima volta che arrivai in questo paese, nel 2001, mi
fermai a Miami per cambiare aereo. Il tassista, ad un semaforo, si era fermato a parlare attraverso il
finestrino con un altro tassista. Gli ho chiesto: «Che lingua ha usato?». Era riluttante, poi, con una
certa forza: «E’ creolo. Lo sa che cosa è il creolo?». Non gli andava di dire che viene da Haiti, ed è
diventato aggressivo, in difesa della propria nazionalità, quando ha dovuto ammetterlo. In un libro
di Marc L. Bazin, Primo ministro ad Haiti tra il 1992 e il 1993, trovo un episodio analogo. Bazin,
negli anni Ottanta, era in taxi a New York e, riconoscendo un haitiano nel tassista, gli aveva chiesto
da dove provenisse: «Da Cuba». Per un po’ erano rimasti in silenzio; poi il taxista, accortosi
dell’incredulità di Bazin, aveva accostato e gli aveva detto: «Bazin, dopo 25 anni che sono partito,
Haiti non mi dà che vergogna: Duvalier, i tontons macutes, le immagini dei massacri, la miseria di
Cité Soleil e di Cité Carton, i cadaveri dei boat people sulle spiagge della Florida, i dittatori fatti
fuggire in piena notte da aerei stranieri, e adesso? L’Aids. Bazin, sono stanco di avere vergogna.
Non dico più che sono haitiano».
Eppure, Haiti è stata la prima Repubblica nera: un punto di riferimento per tutte le lotte di
liberazione dei popoli dell’America Latina. Haiti ha espresso figure umane leggendarie, come
quella di Toussaint Louverture, un vero e proprio genio nero che riuscì a trasformare una
insurrezione di schiavi in un progetto di liberazione politica nazionale. Il popolo haitiano ha un
orgoglio che la miseria non riesce a distruggere.
La povertà è totale. Ma ciò che mi colpisce è la bellezza di questo popolo, che non si è
lasciato andare. E tutti, specialmente nei giorni di festa, vestono con una semplice eleganza,
specialmente i poveri. Non è per nascondere la povertà. Attraverso il vestito esprimono una
intuizione di loro stessi, la consapevolezza della bellezza del loro vero essere. Ciascuno sembra
dire: lo so che in questa vita non realizzerò ciò che veramente sono, ma mi vesto come se lo avessi
realizzato, per dire chi sono veramente. E’ sconvolgente attraversare il nulla materiale di questa
gente, passando attraverso camicie immacolate e vestitini inamidati riempiti solo di speranza.
Tra il popolo c’è molto analfabetismo; specialmente nelle campagne, l’ignoranza impera.
Ma esiste anche una classe intellettuale raffinata, che ha studiato in Francia o negli Stati Uniti: i più
sono rimasti all’estero; ma molti sono tornati, nella speranza di risorgere non individualmente, ma
insieme al loro popolo. La cultura e l’intelligenza, in una condizione di miseria, dà una
consapevolezza del dolore che lo rende molto più acuto.
Ero arrivato ad Haiti su richiesta dell’Arcidiocesi di Port-au-Prince, per studiare la
possibilità di dare vita ad una scuola di formazione politica per i giovani. L’esperienza delle scuole
italiane “Res nova” e del Movimento politico per l’unità di Chiara Lubich si era fatta conoscere fin
2 lì. Sapevo come si fa una scuola, anche se ero cosciente che ogni Paese ha una originalità che può
cambiare le carte in tavola. Ma non mi aspettavo quello che, in effetti, ho trovato.
Dall’aeroporto comincia la migliore strada di Haiti, che passa davanti alla residenza del
presidente Aristide. Molta gente vive per la strada, accanto ai commerci minimali che riesce a
gestire. Tre cerchioni di macchina e pochi copertoni, il tutto di seconda o terza mano, fanno un
gommista. Un calderone acceso per terra fa un ristorante. Un tavolino con cocomeri e verze fa un
negozio di frutta e verdura. Una rastrelliera con vestiti di cotone usati fa una boutique. Passando per
questa strada capisco il perché degli enormi borsoni che i passeggeri cercavano di imbarcare da
Miami: erano pieni di roba usata da rivendere.
Mi dicono che c’è una certa attesa di incontrare il “professor Baggio”. Ma c’è poco da fare il
professore; che cosa ho da insegnare io ad un uomo che vive per la strada insieme alla sua famiglia?
Ad una donna che trascina una tanica d’acqua dopo aver fatto la fila al rubinetto della strada? Ai
piccoli imprenditori che lavorano ai loro commerci su bancarelle traballanti?
Duecento anni fa, durante la loro rivoluzione, gli haitiani proclamarono, come a Parigi, ma
contro Parigi, “libertà, uguaglianza, fraternità”. Che cosa ne è rimasto oggi? Haiti, pensavo, non ha
né libertà né uguaglianza: entrambe, poi, a questo punto, non dipendono da lei, ma dall’azione degli
altri. La fraternità, invece, gli haitiani possono realizzarla senza dipendere da nessuno e, a partire da
questa, cercare di muoversi anche verso le altre due. Ma è la cosa più difficile, con un passato
recente di persecuzioni, torture, omicidi politici: oltre 40 mila dal 1971 al 1985, sotto il regime del
figlio di Duvalier; e altre migliaia dal 1992, sotto il golpe militare. Ma ad Haiti ho trovato chi è
pronto ad accettare questa sfida, ad unirsi per raggiungere un obiettivo di bene, sia esso una scuola
o un nuovo regime politico.
Questi i miei pensieri di quattro anni fa. Oggi, dopo la partenza di Aristide, la situazione è
cambiata, si sono aperte le possibilità che fino a ieri sembravano un sogno. Come ci si è arrivati?
Il caso Metayer
Il 17 dicembre 2001 ci fu quello Aristide chiamò un tentativo di colpo di Stato, peraltro non
riconosciuto come tale da una commissione successivamente inviata dall’Organizzazione degli Stati
americani (OEA). Si trattò in realtà di una messa in scena che ebbe come risultati intimidazioni alla
stampa e la distruzione di alcune sedi dei partiti di opposizione. A Gonaïves, in particolare, ci
furono due omicidi, uno dei quali perpetrato contro il responsabile del partito di opposizione
“Mocrena”, al quale distrussero anche la casa. Il colpevole universalmente riconosciuto era Amiot
Metayer, un noto capobanda che aveva dato alla sua “organizzazione popolare” il nome,
singolarmente appropriato, di “Armée cannibale”, e operava a Gonaïves, di fatto, per conto del
presidente, per reprimere qualunque forma di scontento e opposizione.
All’interno delle pressioni che l’OEA faceva sul presidente Aristide perché desse segni di
applicare una qualche forma di giustizia, spiccava proprio il nome di Metayer. Aristide, nell’agosto
del 2002, si decise a sacrificarlo e lo fece arrestare e portare a Port-au-Prince. I “cannibali” di
Metayer, naturalmente, presero a fare l’ira di Dio, tanto che Aristide lo rimandò a Gonaïve, per dare
modo ai suoi fedeli di assaltare la prigione e liberarlo. A Metayer, però, la faccenda aveva fatto
saltare la mosca al naso, e cominciò a promuovere agitazioni con la richiesta esplicita di cacciare
Aristide dal paese. La farsa durò circa un mese, dopo di che il buon Metayer tornò al ruolo di prima:
quanto sia costato ad Aristide il ritorno alla fedeltà dei “cannibali”, non è dato di sapere.
Nel settembre del 2003, è il turno del nuovo ambasciatore statunitense ad Haiti di avanzare
delle richieste. Il discorso può essere riassunto più o meno in questi termini: ti lasciamo al potere
fino alla fine del mandato, ma devi dare prove concrete di ristabilire la legalità nel campo del
traffico di droga e della giustizia. Due giorni dopo l’incontro dell’ambasciatore con Aristide,
Metayer viene trovato massacrato; il membro della banda che lo aveva tradito, venuto a Port-auPrince a riferire, viene ucciso a sua volta.
Ma fu il modo sadico con il quale venne ucciso Metayer, a scatenare il furore dei suoi:
l’Armée cannibale si rivolta nuovamente contro il presidente; cacciare Aristide per vendicare
3 Metayer diviene una missione “mistica” per l’Armée cannibale. Da allora, di fatto, il governo perde
il controllo di Gonaïve, al punto che il primo gennaio di quest’anno, quando Aristide vi si reca per il
duecentesimo anniversario dell’indipendenza, che fu proclamata proprio in quella città, riesce a
fermarsi soltanto per mezzora, nonostante la scorta personale rinforzata da militari sudafricani.
Il 5 febbraio l’Armée cannibale alza il livello dello scontro: assalta la caserma della polizia e
assume il controllo totale della città.
A quel punto arriva Guy Philippe. 36 anni, ex commissario di polizia addestrato in Equador,
due anni fa aveva lasciato Haiti perché sospettato di un tentativo di colpo di Stato. Che cosa ci sia
dietro queste accuse è difficile dire; sta di fatto che, con Philippe, lasciarono il Paese alcuni altri
funzionari di polizia: tutta gente che difficilmente si sarebbe adattata al progetto di Aristide, che tra
il 2002 e il 2003 aveva messo a capo della polizia uomini suoi, scavalcando e spodestando i
poliziotti di carriera. Un’azione che Aristide pagherà cara: al momento dell’insurrezione, la polizia,
che evidentemente non aveva alcun senso di fedeltà nei confronti del presidente, si è sciolta come
neve al sole.
Guy Philippe, rifugiato nella Repubblica Dominicana, oltre agli ex poliziotti, ha coalizzato
intorno a sé anche gli ex militari che, nel 1994, Aristide aveva messo sulla strada, sciogliendo
l’esercito senza riconoscere alcun diritto, dopo il suo ritorno imposto dagli Stati Uniti. Ha costituito
così una nucleo di non più di due-trecento uomini, armato in maniera approssimativa, col quale ha
lanciato l’insurrezione ad Haiti. La facilità con la quale questo ridotto contingente ha fatto cadere
una dopo l’altra le varie città nella sua marcia di avvicinamento alla capitale, dà l’idea della fragilità
strutturale delle istituzioni di questo paese.
Arisitide non era in grado di difendere la capitale e neppure se stesso: questo è stato
l’argomento con il quale statunitensi e francesi hanno “convinto” il presidente ad abbandonare.
Un’azione di popolo
Ma la resa di Aristide non è frutto solo dell’azione di Philippe e delle pressioni
internazionali: gli haitiani se la sono conquistata. Gli studenti, anzitutto, hanno giocato un ruolo
importante. Fin dall’autunno avevano deciso di assumersi il rischio di uno scontro diretto,
dichiarando sistematicamente la loro opposizione al governo e al presidente. Si tratta di giovani che
provengono, prevalentemente, dalla piccola classe media, che subisce in modo tragico la situazione
del Paese. Il 5 dicembre 2003, per la prima volta nella storia di Haiti, la polizia, accompagnata
anche dalle squadracce di Aristide e da gente del partito di governo “Lavalas”, è entrata
nell’università, ha picchiato gli studenti e spezzato le gambe al rettore. In seguito a questi fatti, tutto
ha cominciato a vacillare, è sorto un movimento di opposizione dal basso che non aveva precedenti,
e che si è sommato agli avvenimenti dei mesi successivi.
La “Convergenza democratica” (composta dai partiti di opposizione) e il “Gruppo 184” (che
raggruppa altrettante organizzazioni della società civile: sindacali, studentesche, femminili,
professionali, ecc.) si sono riuniti nella “Piattaforma democratica”, che rappresenta ormai l’insieme
delle coscienze libere del Paese.
Al culmine della crisi gli Stati Uniti, in particolare nella persona di Roger Noriega,
sottosegretario del Dipartimento di Stato Usa per l’America Latina, cercano una mediazione fra il
presidente e la società civile all’opposizione. Il 20, 21 e 22 febbraio sono giorni cruciali, durante i
quali gli Stati Uniti esercitano il massimo della pressione sulla «Piattaforma democratica» perché
accetti un compromesso con Aristide che, determinando un cambiamento della situazione, faccia
rientrare la rivolta. Pressione che si concentra soprattutto su Andy Aped, portavoce della
Piattaforma. Colin Powel gli telefona tre volte. Ma Aped tiene duro, e la risposta è sempre la stessa:
«Arisitide è il problema; non si può risolvere il problema se si lascia in piedi la sua causa».
Da tempo ormai i leaders dell’opposizione, come accade in ogni periodo “caldo”, dormono
ogni notte in un posto diverso. In quei giorni, poi, il pericolo era ancora più intenso: e può venire sia
dalle bande armate sostenitrici di Aristide che, a Port-au-Prince, possono spadroneggiare, sia da
4 qualche apparato di “intelligence” che potrebbe non gradire il rifiuto che la «Piattaforma
democratica» oppone alla soluzione proposta dagli Stati Uniti.
Il 25 febbraio, mercoledì delle Ceneri, la Francia prende posizione direttamente contro
Aristide; e finalmente, fra il venerdì sera e il sabato mattina, la Casa Bianca fa propria questa
posizione. Aristide capisce di avere le spalle al muro e nella notte tra il sabato e la domenica,
pressato dagli ambasciatori di Usa e Francia, scrive la lettera di dimissioni. Parte il 29, la mattina
presto, intorno alle sei e mezza: nello stesso momento in cui il papa, all’Angelus (Roma è avanti di
sei ore), chiede alle autorità haitiane di trarre le conseguenze della situazione. Una posizione della
Santa Sede che, certamente, era già nota nel circuito diplomatico. Anche la Conferenza episcopale
haitiana, del resto, premeva sul presidente, per un cambiamento radicale, fin dal mese di novembre.
La partenza del presidente è stata accompagnata da un aumento della violenza delle bande
armate, che negli ultimi giorni Aristide aveva già scatenato per creare un disordine nella capitale
che inducesse la comunità internazionale a intervenire a suo favore. Ruberie e devastazioni hanno
interessato soprattutto la zona del porto e il quartiere degli affari nel centro storico, causando danni
per centinaia di milioni di dollari. Ancora il 7 marzo una manifestazione dell’opposizione è stata
attaccata dalle “chimères”, bande legate ad Aristide, che hanno ucciso 5 persone.
Ma nei giorni successivi alla resa di Aristide non accade solo questo. Si realizza, anzi,
qualche cosa che ha del prodigioso: in soli 17 giorni e nel pieno rispetto della legalità, si sceglie un
nuovo presidente della Repubblica, un “Consiglio dei saggi”, rappresentativo delle principali realtà
del Paese, che dovrà indicare le linee di azione durante il periodo di transizione; si nomina un
nuovo Primo ministro che in quattro giorni presenta un governo “tecnico”. Subito dopo, si compone
un “Consiglio elettorale”, che dovrà organizzare e gestire le prossime elezioni: presidenziali,
politiche, amministrative.
L’allora Nunzio della Santa Sede ad Haiti, l’italiano S. E. Mons. Luigi Bonazzi, una delle
personalità che con impegno intelligente e costante hanno maggiormente aiutato il Paese in questi
anni, dichiarava: «La decisione del presidente Aristide di dimettersi, e la pronta accettazione di tali
dimissioni da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, sono state un fatto salutare per il Paese, che
ha ora la possibilità di scrivere una pagina nuova della sua storia. C’è oggi uno sforzo sincero da
parte dell’opposizione, della società civile, e della componente moderata dell’ex partito di governo
“Lavalas”, di collaborare per superare il vizio inveterato dell’esclusione, in base al quale quando
qualcuno, in passato, prendeva il potere, lasciava fuori gli altri. C’è la volontà di collaborare, di
gestire insieme il Paese soprattutto in favore dei poveri che sono i veri esclusi».
E’ in queste parole, credo, la chiave per comprendere l’opportunità storica che si è aperta ad
Haiti, la sfida di sottrarsi a quella sorte di “maledizione haitiana” in virtù della quale chi arriva al
potere si trasforma in tiranno. Oggi ad Haiti esiste la volontà di costruire insieme, esistono
intelligenze e capacità che hanno deciso di mettersi al servizio del bene comune e non alla ricerca
del potere personale. Esiste davvero l’opportunità perché ciascuno possa tornare a dire, con
fierezza: «Je suis haïtien».
Tre protagonisti del cambiamento
1) Andy Aped: è il momento di unire
Imprenditore, 52 anni, sposato, 4 figli e 5 nipoti. Non è impegnato in un partito, ma nella
costruzione dell’unità delle forze della società civile. E’ coordinatore del “Gruppo 184”, che
raccoglie, appunto altrettante organizzazioni sociali; durante la crisi è stato il portavoce della
“Piattaforma democratica”, che raccoglieva tutta l’opposizione. Il suo impegno sociale e politico
data dal 2000, con l’inizio delle attività della fondazione “Nouvelle Haïti”. Già nel 1984-‘85
lavorava, assieme al padre, nell’incoraggiare il risveglio della società haitiana dopo la partenza di
5 Duvalier; ma non c’era, allora, la possibilità che c’è oggi di realizzare l’unità fra le istituzioni e la
società civile.
«Mio padre era presidente dell’associazione degli industriali, che chiedeva la democrazia nel
paese. Mio padre aveva conosciuto l’esilio dal 1962, sotto i Duvalier; la famiglia era separata: una
parte all’estero, e due figli qui ad Haiti: ci tenevano in ostaggio. Sono cose che ci hanno marchiato.
Quando, sotto Aristide, si sono presentati i segni di un dominio totalitario, e avendo già un po’ di
esperienza, dopo le elezioni del 2000 abbiamo cominciato a porre il problema della democrazia nel
paese, con uno stile moderato e con l’intento di costruire l’unità, su questo obiettivo, di tutte le
classi sociali».
Com’era la vita di un imprenditore sotto Aristide?
«Per niente facile, perché il potere non autorizzava la messa in campo di un potere
economico o sociale autonomi. Se sei piccolo, va ancora bene, ma se raggiungi una certa
dimensione economica o sociale - chiunque tu sia: un ospedale importante, o una grande impresa –
il potere non l’accettava, se non avveniva attraverso il potere, per il potere, all’interno del potere. Il
nostro impegno di questi anni è stato quello di costruire un’unità fra tutte le espressioni della società
civile per trovare una forma di compromesso col potere; quando è stato chiaro che nessun accordo
era possibile, siamo andati più lontano».
«Il potere di Aristide aveva attività di intimidazione, di corruzione e di crimine. Quando
abbiamo tentato di realizzare dei compromessi ragionevoli, di cambiare i rapporti di forza attraverso
l’unità della società civile, il potere si è chiuso. Negli ultimi tre anni abbiamo subito vari tipi di
intimidazioni. Hanno più volte mitragliato la mia fabbrica, poi ci sono stati gli arresti, i dossier
fabbricati contro di me. Ma siamo stati protetti: molte preghiere, una comunità che ha compreso il
senso della nostra battaglia, qualche appoggio diplomatico che è intervenuto al momento giusto,
alcune buone relazioni internazionali che abbiamo coltivato. Siamo stati benedetti».
La sua visione politica è liberale?
«Certamente. L’idea è che per cambiare il panorama politico e guadagnare la libertà
economica, sociale e politica, è necessaria un’unità della società civile che colmi il deficit delle
istituzioni e delle strutture. Bisogna, ora, organizzare delle buone elezioni; e poi – e sarà un compito
del governo - aiutare tutti i settori economici e sociali a darsi una buona strutturazione. Ci vorranno
sei-otto anni di impegno in questo lavoro di sostituzione delle istituzioni. Quando gli equilibri
democratici saranno ristabiliti, potrò forse pensare ad un impegno politico; ma oggi è il momento di
unire, di lavorare per stabilire le regole del gioco».
2) Ariel Henri: credere nel dialogo
Esponente del Partito socialdemocratico e della “Convergenza democratica”, dopo la
partenza di Aristide è entrato nel “Consiglio dei saggi”. 55 anni, nato a Port-au-Prince, da genitori
originari dell’Artibonite, cristiano episcopaliano, è sposato, ha tre figli. Neurochirurgo, ha compiuto
gli studi in Francia, ed è ritornato ad Haiti nel 1985. «Sono tornato perché convinto di dover
condividere col mio Paese la capacità professionale che avevo acquisito». E’ vero che si raccoglie
quel che si è seminato: nei giorni dei disordini, quando le bande si sono avvicinate alla sua casa, la
gente del quartiere si è stretta intorno alla sua abitazione e alla sua famiglia, impedendo che venisse
fatto loro del male.
«Al mio rientro in Haiti mi sono reso conto di quanti fossero i diseredati. Mi sono accorto
della differenza fra il bene che io potevo fare a un ristretto numero di persone come chirurgo, e la
grandezza del bisogno e della disperazione che c’erano nel Paese. E’ stata mia figlia, che ora ha 25
anni, a ricordarmi tutte le difficoltà che aveva a vivere in questo paese. Mi diceva: “Qui non c’è
6 futuro”. Dapprima, qui ad Haiti, ho preso una nuova specializzazione in “Salute pubblica”; ma non
bastava, bisognava cambiare le cose, e sono entrato in politica.
«Sono stati anni di lotta, durante i quali ho avuto molti compagni che si sono ritirati, altri
che sono morti. Il regime di Aristide ha messo questo Paese al muro, ha moltiplicato la povertà.
Non ho mai esercitato funzioni pubbliche, mi sono dedicato soprattutto a costruire il partito, a
creare una rete di relazioni. La mia appartenenza al Consiglio dei saggi è espressione di un lavoro
collettivo nel quale intendo rimanere».
Perché è stato scelto come membro del Consiglio?
«Che la scelta sia caduta su di me, dipende, credo, un po’ dal caso. Ma certamente faccio
parte di un gruppo che ha sempre creduto nel dialogo e non nelle soluzioni di forza. Siamo andati
molto vicini alla catastrofe. E’ difficile, da fuori, capire quello che è successo qui. Abbiamo avuto
uno Stato che distruggeva lo Stato, le istituzioni, le strutture. Il regime di Aristide ha fatto il vuoto:
non c’era più sicurezza, né autorità civile. Siamo arrivati quasi all’autodistruzione».
E oggi?
«Oggi viviamo un grande momento di ricostruzione dello Stato e delle istituzioni. Il governo
attuale, che potremmo definire “tecnocratico”, è composto da gente onesta. Ora i partiti politici che
hanno condotto una grande lotta, devono mettersi in condizione di andare a elezioni libere, dalle
quali ripartire. Ma la grande sfida che abbiamo davanti è quella di una riconciliazione nazionale,
che non è facile: ci sono profonde ferite e divisioni, ma non possiamo fallire questa occasione per
ricostruire il Paese».
3) Michael (Micha) Gaillard: un’occasione storica
E’ segretario generale aggiunto del “Conacom”, Il “Partito del Congresso nazionale dei
movimenti democratici”, creato all’indomani della partenza di Duvalier attraverso il
raggruppamento di varie forze della società civile, poi trasformatosi, nel 1987, in partito politico. E’
portavoce della “Convergenza democratica”, che raggruppa i partiti di opposizione.
Il padre di Gaillard, studente in Francia, lottava contro la presenza dei francesi in Vietnam;
espulso dalla Francia, e non potendo rientrare ad Haiti, ha trovato rifugio in Bulgaria, patria della
ragazza con la quale si era legato a Parigi. Così Micha, che oggi ha 50 anni, è nato in Bulgaria. La
famiglia è rientrata ad Haiti nel 1958, ma Gaillard è ripartito per la Francia dove, oltre a laurearsi in
biologia, ha conosciuto, a un ballo haitiano, Kathy, una ragazza franco-scozzese. Hanno due figli.
Ride, quando gli dico che nel suo Dna è scritta la ricerca costante di complicazioni politiche.
Fisiologo, insegna alla Facoltà di medicina a Port-au-Prince.
«Al ritorno di Aristide, nel 1995 – racconta -, io ero ad accoglierlo; facevo parte della
commissione presidenziale di Aristide e lo rappresentavo, ad Haiti, durante il periodo del colpo di
Stato. Aristide era un presidente regolarmente eletto dal popolo ed estromesso illegalmente dai
militari: io credevo nel rispetto delle elezioni e per questo ho lottato per farlo ritornare. Ma avevo
una posizione politica diversa e infatti, al suo rientro, mi sono collocato all’opposizione. In effetti,
Aristide ha fatto poi, nelle elezioni fraudolente del 2000, nei confronti dell’opposizione,
esattamente ciò che i militari avevano fatto contro di lui: non ha tenuto conto della volontà
popolare, mettendo in atto dei brogli che hanno escluso l’opposizione dalla rappresentanza».
Come valuta i fatti di questi ultimi mesi?
«Il rovesciamento di Aristide è maturato attraverso un insieme di avvenimenti, che hanno
creato un movimento unitario quale non si era mai visto negli ultimi due secoli. Un fenomeno
analogo a quello del 1804, quando la riunione di numerose forze sociali – anche contraddittorie fra
7 loro - produsse l’indipendenza. C’è una connessione fra quanto è successo nel 1804 e oggi. Allora
noi abbiamo conquistato la libertà, come abbiamo fatto oggi; allora abbiamo conquistato,
teoricamente, la Repubblica, l’uguaglianza, la fraternità; ma, in seguito, abbiamo fallito in queste
cose. Oggi abbiamo la possibilità di lavorare per avere una Repubblica e un bene comune come ce
l’hanno tutti i paesi democratici, una legalità, possiamo lavorare col pensiero della fraternità».
Su che cosa intende lavorare oggi?
«Il mio disegno politico è di impegnarmi su questi tre obiettivi: a livello statale, per
sostenere l’azione del governo di transizione; a livello politico, per costruire un raggruppamento
delle forze di centro-sinistra; e a livello di pensiero: costruire un centro di riflessione politica,
autonomo, che possa produrre delle idee per l’azione politica, concernenti la Repubblica, la legalità
e la fraternità».
Antonio Maria Baggio
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