CAFFè CORRETTO-ARTICOLO ILARIA-1

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CAFFè CORRETTO
E’ il nostro primo pensiero quando ci alziamo al mattino, ma è soprattutto il prodotto su cui
migliaia di lavoratori basano la loro vita.
Le coltivazioni di caffè sono nel mirino delle multinazionali, che le vogliono standard e a basso
costo. Il commercio equosolidale ha raccolto la sfida.
Settanta milioni. E’ questo il numero delle tazze di caffè che ogni giorno vengono bevute in
Italia. Che sia normale, ristretto, macchiato o decaffeinato, tutti noi lo desideriamo di qualità, per
regalarci un piccolo momento di piacere. E per unire al piacere del palato la soddisfazione di un
caffè "giusto"? Allora la scelta d'obbligo è un caffè equosolidale. Ctm altromercato ne propone
una scelta vastissima, pensata per i palati più esigenti: quelli degli italiani.
Qualità garantita
Lo conferma Sergio Vatta, della società Pacorini Silocaf, che si occupa del controllo qualità del
caffè Altromercato al suo arrivo al porto di Trieste. Qui il caffè viene controllato, eventualmente
miscelato e poi inviato alla torrefazione.
"Abbiamo lavorato insieme per arricchire l'offerta e venire incontro a tutte le esigenze - spiega
Sergio- in particolare, i caffè monorigine provenienti da Etiopia, Messico e Nicaragua sono
alcune delle eccellenze Altromercato, e sono tra le migliori qualità di caffè in assoluto che si
possono trovare sul mercato. Sono dedicate a chi è curioso e vuole ampliare i propri orizzonti e
scoprire le caratteristiche intrinseche della bevanda legate al luogo d'origine".
Il gusto della tradizione E per chi è legato al gusto tradizionale e non ci pensa neppure a
cambiare? "Accanto alle miscele top, la Pregiata e la Bio, entrambe 100% Arabica - continua
Sergio - abbiamo miscele dedicate a chi ama il gusto di una volta, cioè quello in cui la
componente Robusta si fa sentire. Sono la miscela Classica e l'Intensa, quest'ultima
particolarmente corposa e carica, che ricorda le miscele napoletane ma con una ricerca
particolare in termini qualitativi".
Buono e giusto
Una qualità garantita, quindi, con in più la certezza di gustare un caffè non solo buono per noi,
ma anche per chi lo ha coltivato e raccolto in Asia, Africa e America Latina: quando beviamo un
caffè, infatti, compiamo uno dei gesti più "anticamente globalizzati" che ci siano! I chicchi
profumati (insieme alle foglioline di tè e al cacao) sono "il" prodotto coloniale per eccellenza. Un
prodotto prezioso, quindi, ma che paradossalmente, spesso non garantisce a chi lo crea nemmeno
una vita dignitosa.
Questioni di borsa
Il caffè è una materia prima quotata alla borsa di New York (la qualità Arabica) e a quella di
Londra (la Robusta): insomma, quanto costa il chicco di caffè coltivato in Etiopia, Messico,
Brasile e Vietnam lo decide la comunità degli investitori senza avere assolutamente riguardo per
i costi di produzione. Il prezzo è deciso in base alla domanda e all'offerta - quando va bene - o
sull'onda degli entusiasmi e delle depressioni del mercato, come quelle a cui abbiamo tristemente
assistito negli ultimi due anni.
Scelte obbligate
Se i prezzi fossero troppo bassi viene da pensare che i produttori potrebbero decidere di cambiare
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coltivazione.
In teoria sarebbe la scelta giusta, ma in realtà ciò non è possibile: neppure un produttore di riso
del Piemonte può decidere di abbandonare la coltivazione in favore di altro, per evidenti limiti
climatici e di terreno, figuriamoci un produttore messicano che vive a duemila metri di altitudine,
per il quale la coltivazione del caffè con i metodi tradizionali non è solo un lavoro, ma è una
componente determinante della società in cui vive.
Facciamo di conto
Facendo due calcoli sul costo di un pacchetto di caffè non fair trade ci rendiamo conto che al
produttore arriva al massimo il 3% del valore: dove va il restante 97%? Nelle tasche degli
intermediari. Il caffè verde prodotto dall'agricoltore nel circuito convenzionale viene venduto
generalmente all'intermediario locale (familiarmente soprannominato coyote dai produttori) al
prezzo fissato da quest'ultimo. Poi viene rivenduto al broker locale o nazionale, a seconda del
paese, per poi essere esportato nei paesi consumatori dove altri broker, distributori e aziende
torrefattrici se lo passano di mano in mano.
Trasformato in grano tostato o in polvere per espresso, moka, filtro, viene finalmente consumato.
Ma
ogni mano che lo accarezza esige la sua fetta di torta. E la più piccola rimane a chi si è spaccato
la schiena per far crescere una pianta che produca buoni frutti.
Un'altra via d'uscita
Il commercio equo e solidale è nato dall'impegno di tante persone che desideravano ripristinare
la corretta attribuzione del valore aggiunto in questa catena. Il commercio equo e solidale ha
tagliato tutti i passaggi fino al torrefattore acquistando direttamente da molti piccoli produttori
che prima non avevano altra scelta che vendere al coyote al prezzo da lui fissato. In questo modo
ai produttori rimane una quota che pur arrivare fino al 45% del prezzo di un pacchetto di caffè
Altromercato. In più, il commercio equo e solidale fornisce ai gruppi produttori un premio in
denaro da destinare alla realizzazione di progetti sociali di miglioramento delle loro condizioni di
vita. Se poi la produzione è certificata biologica, viene corrisposto anche un premio in denaro
destinato a coprire gli alti costi di certificazione e a compensare la riduzione di resa del terreno
che la produzione con metodi meno invasivi e intensivi comporta. L'organizzazione di
commercio equo, poi, che ha tra i suoi obiettivi la cooperazione economica con i propri
produttori, si occupa di ricercare fondi per loro conto per predisporre attività di miglioramento
della produzione e di formazione sul campo, in modo da dare ai propri partner una concreta
possibilità di miglioramento.
Le nuove sfide
Dopo oltre trent'anni di vita, il movimento del commercio equosolidale si trova oggi ad
affrontare nuove sfide, in particolare quelle portate dall'interesse delle grosse aziende per la
nicchia di mercato dei prodotti "fair". Queste aziende comprano il caffè dai grossi broker, e i
grossi broker comprano anche il caffè certificato proveniente dal commercio equosolidale con i
vecchi metodi che utilizzano per il caffè convenzionale. Tutto ciò pur dar vita a politiche di
approvvigionamento non cristalline. Un esempio: quando i prezzi del caffè iniziarono a salire,
durante la crisi dei mercati del 2008, i coyote offrirono prezzi "spot" molto alti ai produttori di
caffè destinato al circuito del commercio equo, ben sapendo che avrebbero potuto specularci
sopra. Questa "concorrenza sleale" portò quell'anno un calo di caffè venduto ad alcune
cooperative di commercio equo del 20/30%, con ricadute sul fatturato, sull'equilibrio finanziario
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delle organizzazioni e anche sulla sostenibilità dei progetti sociali.
Resistere alle pressioni
I grossi acquirenti possono esercitare pressioni in vari modi, puntando a far abbassare i prezzi ai
produttori, ma anche - come accade in Messico indurre gli agricoltori ad abbandonare metodi di
coltivazione tradizionali in funzione della più efficiente coltivazione Ogm, o di varietà di
prodotto più scadenti, ma formalmente più redditizie per i rivenditori. Alla lunga, se pressioni di
questo tipo hanno successo, si stravolge non solo un intero ecosistema, ma un modello di
organizzazione sociale. Le sfide del commercio equo in questo caso sono rappresentate dal
mantenere in vita le varietà di caffè anche meno economicamente redditizie, ma qualitativamente
e socialmente più buone, in modo da garantire, per quanto è possibile, la biodiversità, così come
la "socio diversità", cioè il diritto a vedersi garantite le condizioni di esistenza per ogni etnia,
cultura, modello di società e aggregazione che abbia dimostrato di funzionare e rendere felici chi
vi partecipa.
Ora è chiaro come il semplice gesto di alzare una tazzina e berne lo scuro, caldo, forte contenuto
incida sul destino di tutte le persone coinvolte nella sua preparazione.
E come sia semplice, in fondo, garantire che quel singolo gesto sia equo verso tutti loro.
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