Edizione # 22 Ottobre 2013 Italiano

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Edizione # 22 Ottobre 2013 Italiano
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IMMIGRAZIONE CLANDESTINA E LA SOLUZIONE CHE NON C'E'
La strage del mare del 3 ottobre 2013, che ha visto a poche miglia da Lampedusa
l'inabissamento di un battello con quasi 500 migranti a bordo e ed oltre 300 morti, ha
riproposto alle coscienze di molti, questa volta anche a quelle dei politici, il problema
dell'immigrazione clandestina. Parole come "vergogna" e "orrore" sono state ricorrenti, ma
al di la' delle manifestazioni di sdegno o risentimento, il problema e' di difficile soluzione.
Intanto bisogna dire che l'episodio del 3 ottobre e' stato quello mediaticamente piu'
enfatizzato, ma da un po' di anni a questa parte di incidenti simili, in vari punti del
Mediterraneo, ce ne sono stati tanti, sicuramente troppi. Le statistiche, per quel che
valgono nel caso di un fenomeno sociale che sfugge ad un controllo puntuale, indicano
che negli ultimi anni i morti affogati sono stati circa 8/10.000. Potrebbero essere di piu', ma
e' difficile stabilirlo. E' una statistica fatta su informazioni vaghe, racconti di superstiti,
cadaveri trovati in mare.
A parte le cifre, rimane il problema di un esodo biblico che vede gente scappare dai propri
Paesi per coltivare una speranza o un sogno, per sfuggire ad una guerra, per sopravvivere
ad una poverta' senza dignita'. E come tutti i fenomeni migratori motivati dalla
disperazione sociale, non esistono modalita' per fermarli o altre forme adeguate per
fronteggiarli.
Una posizione scomoda
L'Italia si trova in una posizione geografica che la pone in prima fila e come primo obiettivo
di arrivo, magari per il solo transito, di questa marea di disperati che vogliono raggiungere
l'Europa. Ed e' soprattutto il Paese di primo approdo per i clandestini che vengono
dall'Africa sub-sahariana. Perche' tra le tante migrazioni quella africana e' la piu' povera,
fatta di gente che non ha mezzi finanziari sufficienti per permettersi un mezzo di trasporto
sicuro e ricorre quindi al rischio di attraversare il mare stipati su barche di fortuna, senza
limiti al rischio che corrono. Lampedusa e le coste meridionali della Sicilia sono il terminale
di questi viaggi della speranza, ma sarebbe meglio dire della disperazione.
Il fenomeno del flusso migratorio ha ripreso ultimamente livelli altissimi per motivi legati ai
rivolgimenti sociali che hanno percorso il nord Africa ed il Medio Oriente. La base di
partenza e' generalmente la Libia e, dalla caduta di Ben Ali, in linea subordinata anche la
Tunisia. Per quanto riguarda la Libia, durante il regno di Muammar Gheddafi il problema
dell'immigrazione clandestina era stato utilizzato dal dittatore libico per un'ampia opera di
ricatto finanziario e politico verso l'Italia. Lo aveva detto anche il Rais durante la sua
storica prima visita in Italia: sono clandestini per miseria (lui ci teneva molto a
puntualizzare che non erano rifugiati politici, di cui il suo Paese negava l'esistenza per ovvi
motivi di suscettibilita' interna) e ve li mandiamo tutti. Questo per puntualizzare che non
aveva interesse a tenerseli in Libia e che se lo faceva voleva una contropartita.
Infatti, dopo la firma del trattato italo-libico del 2008 e dopo aver ottenuto un adeguato
"risarcimento" finanziario, il dittatore si era dichiarato disponibile ad operare nel contrasto
all'immigrazione clandestina. Erano state mandate 3 motovedette della Guardia di Finanza
(poi diventate 6) per un pattugliamento congiunto delle coste libiche e per il contrasto al
fenomeno dell'immigrazione clandestina (motovedette - bisogna ricordarlo - operanti
comunque con equipaggi libici e con bandiera libica), il ministero dell'Interno aveva
dislocato a Tripoli dei funzionari di Polizia come collegamento con gli omologhi locali ed
era iniziato un flusso abnorme di risorse (soldi, mezzi, corsi, addestramenti,
equipaggiamenti ecc.) verso la Libia. Il costo complessivo nel biennio 2008-2010 si
aggirava sull'ordine di 60 milioni di euro. Il risultato era che la Libia aveva alla fine
accettato il principio del respingimento, cioe' si riprendeva indietro i clandestini che le
pattuglie italiane e poi quelle italo-libiche intercettavano in mare.
La vergogna dei respingimenti
Il 6 maggio 2009 avveniva cosi' il primo respingimento. Chi scrive quel giorno era presente
sul molo commerciale di Tripoli ed e' stato testimone di un dramma umano. Ai clandestini
era stato nascosto il loro rientro in Libia e quindi la prima reazione fu di stupore. Poi di
dolore. Qualcuno piangeva, qualcun altro aveva pensato di ribellarsi e di scendere dalle
motovedette italiane. Subito iniziarono i maltrattamenti da parte degli apparati di sicurezza
libici. Frustate e botte colpirono da subito i piu' riottosi. La gente fu trascinata di peso fuori
dalla barca e gettata a calci dentro dei container: uno per le donne, uno per gli uomini.
Uomini disidratati giacevano distesi sulla banchina senza la forza di reagire o di muoversi,
stremati. Accanto a loro delle donne incinte accasciate per terra. Nessuno si preoccupava
di assisterli. Tutta gente poi sparita nel nulla di cui l'Italia non ha piu' chiesto notizie. Gente
buttata nei centri di detenzione libici, una ventina operanti nel Paese, e rispedita
nell'inferno da cui avevano cercato di scappare.
L'Italia politica aveva allora etichettato la pratica dei respingimenti come un successo
politico nel contrasto all'immigrazione clandestina senza invece accorgersi che si trattava
di un'iniziativa di cui vergognarsi. Ben si guardava dal chiedere che fine facessero i
clandestini. Preferiva non sapere per non sentirsi responsabile di eventuali abusi. Si
arrivava al paradosso di dichiarare che i clandestini fermati in mare non avevano
formalizzato mai una richiesta di asilo (ma non sapevano di essere riportati in Libia).
L'unico dato certo e' che la politica dei respingimenti aveva nei fatti bloccato, meglio
ridimensionato, il numero dei viaggi della speranza.
Poi c'e' stata la guerra civile, Muammar Gheddafi e' stato ammazzato, il Paese e' entrato
in una spirale di instabilita' che ancora non ha avuto termine. I clandestini che l'Italia aveva
a suo tempo respinto, a cui poi si erano aggiunti altri in arrivo, si erano inopinatamente
cosi' trovati nel bel mezzo di una guerra civile. Il fatto che il Rais avesse fatto ampio
ricorso a mercenari africani per contrastare i ribelli, aveva poi determinato che questi
poveri clandestini, una volta defenestrato il dittatore, si erano trovati nella scomoda
posizione di essere talvolta accusati di essere dei mercenari al soldo del pregresso
regime. Di questa parte della loro storia, le sofferenze e le morti causate da questi
equivoci, nessuno ha mai parlato. Anche perche' la caduta di Gheddafi favorita
dall'intervento di forze internazionali, non poteva essere politicamente delegittimata dalle
vendette o dai soprusi dei ribelli. Si era combattuto per affermare la liberta' e la
democrazia dei libici, era stato cacciato un despota che aveva violato ripetutamente i diritti
umani, non ci si poteva soffermare, ma soprattutto non c'era interesse, a fare emergere
altrettante violazioni che i ribelli perseguivano sia verso i connazionali vinti, sia verso i
poveri clandestini.
Back to business
Lentamente la situazione in Libia, almeno per quanto riguarda il risentimento verso i
clandestini di pelle nera, e' diminuita nel tempo ed e' riaffiorato, questa volta piu' florido, il
traffico di esseri umani. Perche' - e' bene ricordarlo - il traffico di clandestini e' si' una piaga
sociale, ma e' soprattutto un business internazionale. Nonostante la guerra civile libica, le
strutture dell'immigrazione clandestina erano rimaste in essere in Sudan, luogo dove
confluiscono i clandestini prima di approssimarsi alle coste mediterranee. Allora, vista la
situazione in Tripoli, come business collaterale le organizzazioni criminali si erano dedicate
al trasferimento dei clandestini eritrei nel Sinai con destinazione Israele.
La Libia di oggi e' tuttora avvolta in una situazione di instabilita', le milizie armate
spadroneggiano nel Paese, la Polizia libica non ha nessun potere coercitivo, bande di
delinquenti (quelli liberati dalle carceri durante la guerra civile) sono tuttora in giro e questo
ha fatto si' che la filiera dei trafficanti abbia ripreso ad operare in forma piu' aperta che in
passato. Quelle strutture illegali che Gheddafi prima incoraggiava (quando voleva ricattare
l'Italia) e poi combatteva (quando voleva assecondarla) sono adesso ricomparse in piena
operativita'. Agevolate dal caos sociale, dalla corruzione endemica che la guerra civile non
ha debellato ma rafforzato, dalla commistione tra bande-milizie-trafficanti, dai poliziotti che
(peraltro come in passato) trovano il loro tornaconto finanziario nel favorire questi traffici e
dalla collusione di politici (alcuni alti esponenti governativi provengono - forse non
casualmente - dalla zona di Zuwarah che e', de facto, la "capitale" o principale base di
partenza delle barche di clandestini).
Cambiata la situazione interna in Libia, cambiati anche i referenti con cui l'Italia dialogava
nel contrasto all'immigrazione clandestina, il nostro Paese non ha inteso cambiare
approccio rispetto al fenomeno. Continua a ritenere che nel flusso di immigrati non vi sia,
rispetto al passato, piu' presenza di rifugiati che scappano da guerre e dittature. Non e'
soprattutto cambiata l'idea che il problema dell'immigrazione clandestina possa risolversi
con i respingimenti. La presenza di funzionari di Polizia italiana sul suolo libico e' stata
mantenuta (era stata anche incrementata, ma ragioni di sicurezza hanno consigliato
diversamente). 5 delle 6 motovedette donate sono state affondate nel corso della guerra
ma ora si parla di ripescarle nel perseguito interesse a ripristinare il pattugliamento
congiunto. E' anche ricominciato l'afflusso di corsi, incontri bilaterali, finanziamenti, regalie.
Anche se adesso, a differenza del passato, e' difficile trovare in Libia degli interlocutori
affidabili ed una correlata cooperazione.
Frontex, l'inutile
Nella pratica prevale ancora, da parte italiana, un approccio "repressivo" dello specifico
fenomeno. Ne fanno fede, qualora esistessero dei dubbi, le dichiarazioni che il 4 ottobre
2013 il Ministro dell'Interno italiano, Angelino Alfano, ha fatto a Lampedusa evocando un
rafforzamento dell'attivita' di "Frontex", l'agenzia di cooperazione europea per il controllo
delle frontiere esterne all'Unione. E' un organismo che oggi svolge un pattugliamento
marittimo del Mediterraneo anche per contrastare il fenomeno dell'immigrazione
clandestina. Un dispiegamento di navigli, aerei, elicotteri, radar che non produce, anche
per scarsa attitudine politica e la mancanza di impegno di molti Paesi europei, risultati.
Ma lo sbaglio non sta nell'inefficienza di "Frontex", ma nell'approccio alla problematica nel
suo complesso. L'affermazione del Ministro dell'Interno italiano a Lampedusa e' stata nella
sostanza questa: se si rafforza l'attivita' di "Frontex", si evitano e si contrastano i viaggi di
clandestini in mare. Ergo ci saranno meno morti. L'equazione ha la sua logica matematica,
ma trascura l'essenza del problema. La disperazione della gente non pone limiti a questi
esodi ed ai rischi che l'utilizzo di barconi fatiscenti comportano. E' gente che scappa dalla
poverta' e da soprusi, d'inverno ha attraversato i deserti libici e d'estate attraversa i mari,
ha affrontato abusi, ruberie e stupri e coltiva la speranza di una vita migliore. Sa quello che
lascia - e questo gli da' la forza per affrontare i rischi di questa transumanza - ma poi non
sa quello che trovera'. Puo' trovare la morte, come e' capitato spesso, ma puo' anche
trovare l'emarginazione che la aspetta all'arrivo.
Ed il problema e' tutto li'. L'Italia e l'Europa devono rendersi conto che il problema
dell'immigrazione non si debella con la repressione e la politica dei respingimenti, ma solo
riuscendo a contenere il fenomeno in una cornice di legalita' e regole senza disattendere
quella solidarieta' dovuta a tutti quei drammi umani di cui e' pieno il mondo. In altre parole
il fenomeno non puo' essere bloccato, ma solo pilotato ed indirizzato. La legge n. 189 del
30 luglio 2002, meglio conosciuta con il nome dei due ministri co-firmatari Bossi-Fini,
prefigura il reato di immigrazione clandestina e l'espulsione del clandestino. E' una legge
che si sviluppa nel solco "repressivo" (un po' come i respingimenti in mare) i cui limiti
applicativi sono sotto gli occhi di tutti. Come si e' detto, e' un approccio sbagliato che puo'
anche dare effimeri risultati in un lasso di tempo breve, ma non risolve il problema nel
lungo periodo.
Ma allora, ed e' questo il quesito di fondo, cosa si puo' o si deve fare per risolvere questo
problema? Se il clandestino non si riesce a convincerlo a non rischiare la vita su una barca
che puo' affondare, se non puo' essere respinto perche' cosi' gli si infliggono altre
sofferenze, se si vuole evitare che una volta sul suolo europeo sia socialmente emarginato
o viva nell'illegalita', cosa bisogna fare?
La ricerca di soluzioni
La soluzione risiede soprattutto a livello europeo. La prima iniziativa e' sul piano giuridico:
una legge europea che valga per tutti i Paesi aderenti e che stabilisca un percorso
comune e legalmente definito per l'ingresso dei migranti (cosi' da stabilire senza equivoci
quando e come si manifesta l'illegalita'), la concessione di cittadinanze, i ricongiungimenti
familiari, le pene per i trafficanti, l'applicazione di tutte quelle tutele internazionali che
vengono riservate ai rifugiati ed ai richiedenti di asilo.
La seconda iniziativa e' sul piano assistenziale: il profugo non puo' arrivare in un Paese e
trovarsi poi costretto a vivere illegalmente ai margini della societa'. Ha bisogno di essere
seguito in un percorso di inserimento. Ha bisogno di aiuto sociale (capire le regole di dove
vive adesso, parlare una lingua ecc.) e di sostegno finanziario finche' non sara' in grado di
essere socialmente autonomo. Insomma, ha bisogno di strutture dedicate. Questo avviene
in molti Paesi europei, ma non in tutti. Gli standard di accoglienza ed integrazione
dovrebbero essere allineati. Cosi' come andrebbe superata la Convenzione di Dublino, un
obbrobrio giuridico che vincola i richiedenti asilo al primo porto di arrivo - nel caso
specifico Lampedusa e l'Italia - senza dargli la possibilita' di scegliere autonomamente il
proprio destino. Il risultato ultimo e' quello di spingerli ulteriormente verso percorsi di
illegalita', magari per raggiungere parenti o amici in altri Paesi Ue.
Poi e' possibile anche una terza forma di intervento che e' quella a suo tempo prefigurata
dal governo di Romano Prodi quando decise di creare sul suolo libico strutture di
accoglienza per i clandestini. Era stato finanziato un ospedale a Kufra, mentre altre
strutture equivalenti non hanno poi mai visto la luce. Partiva dalla filosofia che invece di
assistere i clandestini in Italia, era meglio assisterli in Libia. Un progetto per molti aspetti
utopico anche perche' consegnato ai libici e da loro gestito senza che - oggi come ai tempi
di Gheddafi - avessero acquisito una sufficiente sensibilita' per il rispetto dei diritti umani.
C'e' ancora in quella parte di mondo arabo una diffusa cultura che vede l'africano sfruttato
e vilipeso. Non tanto razzismo, ma pseudo-schiavismo. Pero' il progetto Prodi, benche'
concettualmente giusto ma praticamente inattuabile, aveva il pregio di sollevare il
problema delle condizioni dei clandestini prima del loro viaggio in mare.
L'Europa potrebbe fare qualcosa di simile, cioe' affrontare la problematica prima di
risolverla sul proprio territorio. Se non e' possibile intervenire nei Paesi di origine per
scongiurare l'immigrazione (difficile pensare di farlo nella Somalia di oggi o nell'Eritrea del
dittatore Isaias Afeworki), e' forse possibile farlo in alcuni Paesi di transito. In Libia, per
esempio, potrebbe pensarci la locale sede dell'ACNUR (Alto Commissariato Onu per i
Rifugiati) a selezionare i richiedenti di asilo o istituire le pratiche per una richiesta di
accesso all'area europea (con supporto finanziario europeo). La sede libica
dell'organizzazione internazionale, ai tempi di Gheddafi, operava a Tripoli senza il
riconoscimento ufficiale del governo libico (come detto il Rais aveva una forte avversione
per il termine "rifugiato). Oggi potrebbe essere diverso.
Nella pratica, le migrazioni si devono affrontare con un mix di provvedimenti giuridici,
assistenza, solidarieta', ma soprattutto umanita'. Perche' e' un fenomeno da capire e non
da demonizzare. Lo spazio per la repressione deve essere ridotto al minimo. E soprattutto
l'approccio deve essere affrancato dalle strumentalizzazioni e retoriche politiche che
spesso l'accompagnano: il "buonismo" inconcludente di facciata e la xenofobia di un
malcelato razzismo.
TERRORISMO SENZA UNA CAUSA
I recenti eventi in Kenya hanno messo in luce ancora una volta quanto insensato e privo di
scopo sia diventato il terrorismo di matrice islamica. Le dichiarazioni ufficiali dei gruppi
terroristici parlano di una "vendetta contro gli infedeli", ma in realta' non vi e' alcuno vero
obiettivo politico dietro a questi attacchi. Inoltre, gli estremisti islamici hanno
progressivamente spostato l'obiettivo contro quelle stesse popolazioni musulmane per le
quali asseriscono di combattere. L'esempio piu' lampante e' in Siria, dove le brigate di
jihadisti internazionali provenienti da tutto il mondo hanno preso di mira il Presidente
Bashar al Assad in una "guerra santa" soltanto perche' questi proviene da una minoranza
islamica, gli Alawiti. E' ormai intollerabile il fatto che il clero islamico - che sia Sunnita,
Sciita o altro - non riesca a condannare l'uccisione di musulmani da parte di altri
musulmani e gli attacchi contro gli "infedeli".
Il terrorismo somalo
Al Shabaab, letteralmente "la gioventu'", e' sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche
affiliate ad Al Qaeda. Il suo fondatore e' Sheikh Hassan Dahir Aweys, ex colonnello
dell'esercito somalo che diserto' nei primi anni '90. Nel 1996 fondo' Al Ittihad al Islami, la
prima formazione fondamentalista somala. Un decennio piu' tardi aiutera' le Corti
Islamiche a prendere il controllo della capitale somala Mogadiscio a seguito di una serie di
uccisioni mirate finanziate da CIA e Stati Uniti che prendevano di mira i presunti attentatori
alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998 e 2002. Hassan Dahir Aweys ha
lasciato gli Al Shabaab dopo averne perso la leadership per fondare Hizbul al Islam. Da
oltre due mesi e' sotto la custodia del governo somalo. Il presidente Mohamud deve
ancora decidere se processarlo o rilasciarlo.
L'ascesa degli estremisti somali e' stata inizialmente finanziata dagli imprenditori di
Mogadiscio che volevano prendere il posto dei signori della guerra nella gestione delle
attivita' piu' redditizie della citta': il porto, l'aeroporto e quindi tutti i diversi commerci. Uno
dei loro piu' accesi sostenitori era Abukar Omar Addane, un ottantenne sulla sedia a rotelle
dalla barba rossa che e' stato accusato di aver ospitato presso il suo Ramadan Hotel i
terroristi Abu Talha al Sudani e Fazul Abdallah Mohamed.
L'Unione delle Corti Islamiche che ha preso il controllo di Mogadiscio all'inizio del 2006
aveva nella milizia della corte Ifka Halane il suo ramo piu' radicale. Il suo leader era un
protetto con addestramento afghano di Hassan Dahir Aweys, Aden Hashi Ayro. Il loro
campo di addestramento era inizialmente nel cimitero italiano di Mogadiscio, profanato per
l'occasione. Le Corti Islamiche sono state cacciate nel Gennaio 2007 dagli Etiopi e gli Al
Shabaab sono stati spinti fuori della capitale e si sono installati nella Somalia meridionale.
Ayro e' stato ucciso da un drone americano nel Maggio 2008. Negli ultimi anni hanno
avuto il controllo di porzioni del territorio e, soprattutto, della citta' portuale di Chisimaio,
persa negli ultimi mesi.
Con il ritiro dell'Etiopia ed il suo rimpiazzo con una missione di peacekeeping africana, la
Amisom, gli Al Shabaab hanno dichiarato guerra agli occupanti stranieri e contro gli
infedeli. Il fatto che l'Amisom sostenesse e continui a sostenere il Governo Federale
Transitorio che sta cercando di guidare il Paese fuori da 23 anni di assenza dello Stato e'
uno dei motivi aggravanti dietro la loro resistenza. Tuttavia, la maggior parte degli attacchi
degli Al Shabaab prendono di mira altri somali. Dal primo attentato suicida contro un posto
di blocco governativo a Baidoa nel 2006, il gruppo estremista somalo ha ucciso dozzine di
studenti, pubblici ufficiali e sostanzialmente chiunque stia cercando di ripristinare la legge
nel Paese. Nelle zone sotto il loro controllo hanno invece applicato la Sharia in stile
talebano con il suo arsenale di amputazioni, lapidazioni, divieto di musica e cinema e via
discorrendo. In un Paese al 99% musulmano e membro della Lega Araba, gli Al Shabaab
stanno portando avanti una guerra contro l'Islam Sufita proprio della tradizione somala.
In altre parole, il loro obiettivo di instaurare uno Stato islamico in Somalia avverra' in primo
luogo alle spese dei somali musulmani. Questo avviene con la benedizione di tutte quelle
organizzazioni caritatevoli saudite e qatariote che, negli ultimi 20 anni, hanno finanziato e
promosso le visioni radicali del Wahabismo e del Salafismo a discapito del Sufismo,
assieme a tutti quegli imprenditori somali che ancora continuano a trarre guadagno
dall'economia di guerra e che non vogliono vedersi sottratti i loro dividendi dal ritorno di un
governo centrale.
Terrorismo senza un obiettivo
Ancora oggi, come in un recente editoriale pubblicato sul New York Times a firma del viceMinistro della Difesa Danny Danon, rappresentanti israeliani bollano Yasser Arafat come
un "arciterrorista". Terrorista o paladino per la liberta', Arafat e la sua Organizzazione per
la Liberazione della Palestina avevano (hanno) un chiaro obiettivo politico: uno Stato
Palestinese indipendente e libero dall'occupazione israeliana. Arafat ha sicuramente
impiegato delle tecniche terroristiche per raggiungere i suoi obiettivi in quella che era, e
ancora e', una guerra asimmetrica fra uno degli eserciti piu' potenti del mondo e dei civili
disarmati.
La storia e' piena di esempi di come presunti terroristi siano diventati combattenti per la
liberta' o viceversa, incluso il sofferente Nobel per la Pace Nelson Mandela. I denominatori
comuni sono pero' sempre simili: un governo centrale che abusa del proprio potere o
opprime una minoranza o un'occupazione straniera o il colonialismo, l'assenza di mezzi
democratici per mettere fine agli abusi e quindi il ricorso alla lotta armata e, in alcuni casi,
al terrorismo. L'ideologia di riferimento poteva essere il Marxismo, la ricerca di liberta' civili
o quello che vi pare. Ma vi era sempre un chiaro obiettivo: l'indipendenza, l'autonomia, una
nuova forma di Stato o la fine delle oppressioni. A prescindere dal fatto che la decisione di
abbracciare le armi fosse legittima o meno, c'era sempre l'idea (o la pretesa) che coloro
che combattevano lo facevano in nome di un popolo e per il suo bene.
Dall'altra, i gruppi islamici estremistici hanno la tendenza a confondere chi rappresentino
in realta'. Idealmente e' per l'Umma, la nazione islamica, che lottano. Ma fanno veramente
poco per unire realmente e mettere assieme tutti i musulmani. Hanno usato la bandiera
dell'Islam come uno strumento per combattere occupazioni straniere - come in
Afghanistan prima contro i sovietici e poi contro le coalizioni a guida Usa o come Hamas
ed Hezbollah fanno contro gli israeliani - in quelle che possono essere considerate come
motivazioni comprensibili per lottare. Questo non significa giustificare gli attentati suicidi,
ma non e' difficile identificare le motivazioni che li ispirano.
Ma se la guerra al terrorismo puo' considerarsi conclusa - dopotutto Al Qaeda e' stata
cacciata dall'Afghanistan, Osama bin Laden e' morto, il suo successore Zayman al
Zawahiri offre un ombrello ideologico a quanti ancora guardano "alla base" e poco piu' - le
sue tossine sono ancora vive e vegete. L'obiettivo e' adesso diventato quello
dell'instaurazione di regimi islamici teocratici, come in Iran, ma a differenza di esso a guida
Sunnita. Questi movimenti fondamentalisti hanno gradualmente abbracciato istanze
Wahabite e Salafite - spesso guidando o prendendo il sopravvento sui movimenti della
Primavera Araba - menando una jihad contro chiunque si opponga ai loro programmi
politici. Ma come progressivamente e' avvenuto nella maggior parte dei Paesi musulmani,
lo spostamento verso un Islam politicizzato e' troppo spesso finito per prendere di mira
altri musulmani. Sia che fossero di un'altra corrente del credo - Sunniti contro Sciiti come
avviene nella guerra civile in Iraq - o perche' ritenuti troppo secolarizzati - come in Tunisia
ad esempio - gli estremisti hanno rivolto la loro guerra santa contro dei compatrioti e
credenti dello stesso Dio.
Jihad in Siria
L'esempio piu' lampante e' in Siria. Invisible Dog ha spiegato in lungo e in largo il contesto
geopolitico della lotta per rovesciare il presidente Bashar al Assad. Ma quella che due anni
fa e' cominciata come una legittima lotta da parte di gruppi di opposizione per mettere fine
a decenni di dittatura dinastica, oggi e' diventata altro.
Se abbracciare le armi contro un leader autocratico nella lotta per la democrazia puo'
essere comprensibile. Far diventare il conflitto una guerra santa che attrae legioni di
radicali stranieri per combattere una setta minoritaria dell'Islam - gli Alawiti dai quali
provengono gli Assad - e' totalmente un'altra storia. Ancora una volta la bandiera dell'Islam
viene usata contro altri musulmani. E, come nel vicino Iraq, il significato della lotta e' perso
per strada, rimpiazzato da una guerra senza senso nel nome di una religione comune, ma
contro dei presunti infedeli che pregano lo stesso Dio.
Il fatto stesso che vi siano degli scontri fra le diverse fazioni ribelli in Siria e' significativo. Il
recente cessate-il-fuoco negoziato fra l'Esercito Libero Siriano - l'organizzazione che
raggruppa diversi gruppi di opposizione - ed il gruppo filo Al Qaeda dell'ISIS (Stato
Islamico dell'Iraq e del Levante) mette in luce una frizione fra due visioni inevitabilmente
conflittuali sul futuro della Siria. Anche se hanno un obiettivo in comune, e' difficile credere
che tutti quegli estremisti non-siriani oggi sul terreno siano li' per garantire alla Siria un
domani democratico migliore. Non e' difficile prevedere che la loro lotta continuera' fino a
quando non si instaurera' a Damasco una leadership rispondente ai loro criteri "islamici".
Democrazia Islamica
La domanda di fondo e' se l'Islam e la democrazia siano due concetti capaci di coabitare
sotto lo stesso sole. Per troppo tempo siamo stati indotti a credere che vi fossero delle
differenze inconciliabili e si puntava il dito contro quelle teocrazie o monarchie dove l'Islam
e' usato come un pretesto per imporre guide autocratiche o oligarchie. Ma ci siamo
dimenticati di quegli esempi democratici come nel nord della Nigeria dove la Sharia e'
legge dal 2000, ma dove il rispetto dei codici - sia a livello locale che federale - hanno
impedito degli abusi a sfondo religioso. E non e' una coincidenza che sia proprio il nord
della Nigeria il teatro dell'ascesa del gruppo terrorista di Boko Haram in quegli stessi stati
dove la Sharia e' gia' parte integrante della legge. Ancora una volta, gli estremisti
ritengono che la loro personale visione dell'Islam sia "migliore" di quella degli altri.
Qualunque religione ha un insieme di norme comportamentali che cerca di imporre sui
propri fedeli. I 10 comandamenti dati da Dio a Mose' sono il primo esempio di cosa
bisogna evitare per ridurre i conflitti (non rubare, non uccidere o prendere la donna d'altri).
Il Corano e le Sunna rivelati al Profeta Maometto sono andati un passo avanti codificando
una serie di norme sociali, civili e penali. Condanne e punizioni sono state aggiunte ai
singoli provvedimenti. Ma il fatto che siano state dettate oltre 14 secoli fa non significa che
non possano essere adattate alla nostra societa' contemporanea senza che perdano il loro
significato originale. Coloro i quali predicano il Salafismo e finiscono invischiati nel
terrorismo vorrebbero che vivessimo nel sesto secolo quando invece il mondo e' andato
avanti. Puo' non piacergli, ma non possono evitarlo.
Quello che manca veramente e' un clero islamico che indichi la via allineando il credo con
la democrazia. Un rinascimento islamico capace di combinare sia le istanze religiose che
quelle laiche presenti all'interno delle societa' musulmane. E se devono essere fondate
sulla Sharia, questo non significa che si debba rinunciare a tutti i controlli ed i
bilanciamenti propri di ogni sistema giuridico. Lo stesso vale per le differenti correnti
dell'Islam, le cui differenze non possono essere ridotte alla scelta di chi sia il legittimo
discendente del Profeta. La guerra fra Sunniti e Sciiti non ha senso da un punto di vista
islamico. Bisogna smettere di prendere di mira altri musulmani e i non credenti. E sarebbe
ora che quanti hanno l'autorita' morale sugli altri musulmani - che siedano al Cairo, alla
Mecca o a Tehran - alzino la voce o altrimenti continueranno ad essere considerati troppo
tolleranti ed accomodanti nei confronti di quanti, agitando la bandiera dell'Islam,
continuano a perpetrare insensati crimini contro l'umanita'.
LO SCANDALO DATAGATE: TANTO RUMORE PER NULLA
Dopo circa tre anni, assistiamo al secondo "psicodramma" che vede per protagonisti i
Servizi di intelligence, soprattutto degli Stati Uniti e i palazzi del potere di mezzo mondo.
Dopo lo scandalo "WikiLeaks", che ha visto come "mattatore" assoluto sul palcoscenico
Julian Assange - e come vittima sacrificale il soldato Manning, "gola profonda" dello
scandalo e, per il momento, unico condannato (35 anni di carcere) - un altro dipendente
del governo americano, sempre nel nome dei piu' nobili diritti alla liberta' di informazione e
alla trasparenza, ha deciso di vuotare il sacco (ma fino a che punto?) e di lanciare il sasso
nello stagno diffondendo informazioni classificate ad alcuni organi di stampa e quasi
certamente, cosa piu' preoccupante per l'amministrazione USA, ad altri Servizi di
intelligence di Paesi non proprio "amici". Come tutti i sassi lanciati in uno stagno
provocano, lì per lì, un allarme generale tra anfibi, rettili e uccelli che abitano l'ecosistema,
per poi tornare in breve tempo alla "stagnazione" tipica dell'ambiente palustre, così, in una
proporzione piu' ampia, le rivelazioni dell'analista informatico della NSA (National Security
Agency, l'agenzia di intelligence statunitense che si occupa di SIGINT ed ELINT - Signal e
Electronic Intelligence), Edward Snowden, hanno provocato un'altra tempesta in un
bicchier d'acqua, tanto eclatante quanto, alla resa dei conti, inconsistente, con reazioni
che hanno oscillato tra i toni melodrammatici del Presidente del Parlamento Europeo,
Martin Schulz, a quelli battaglieri, tipici della grandeur francese, dell'inquilino dell'Eliseo,
Francois Hollande, passando attraverso una oramai tristemente tipica via di mezzo (che
forse vorrebbe ispirarsi alle teorie di Guicciardini, ma ne e' solo una brutta copia, o meglio,
un'errata interpretazione) delle autorita' italiane, e il piu' coerente e decoroso silenzio di
quelle britanniche.
Da alcuni anni assistiamo ad una sovraesposizione mediatica dei Servizi di intelligence,
con i riflettori dei media - ma anche cinema, "fiction" ecc. - che sempre piu'
frequentemente si accendono su un'attivita' che invece, per sua natura, dovrebbe
svolgersi nell'ombra. In merito a quanto questi ultimi scandali siano causa o effetto di
questa spettacolarizzazione dell'attivita' di intelligence, al momento sospendiamo il
giudizio, così come sulla valutazione della sincerita' o ipocrisia delle reazioni dei governi
coinvolti nella vicenda, nonché sull'ambiguita' che emerge prepotente nei rapporti tra
"vittime e carnefice" nei retroscena dello psicodramma in questione.
Tracciamo allora un sia pur breve excursus delle tappe fondamentali di questa
vicenda, per poi passare alle considerazioni sui problemi e le criticita' che da essa
emergono.
Va detto innanzitutto che il recente scandalo, noto come "Datagate", e' solo l'ultimo di una
serie di scandali che si sono abbattuti sull'amministrazione Obama dall'inizio del secondo
mandato (tralasciamo quindi lo scandalo "Wikileaks", iniziato alla fine del 2009), tanto che
questo secondo mandato del Presidente sembra contrassegnato, almeno nella fase
iniziale, da una vera e propria "iattura":
-
alcuni ispettori del fisco sembrano accanirsi su alcune ONG (organizzazioni non
governative) legate al "Tea Party" che, dietro la facciata di associazioni filantropiche
senza fini di lucro, scaricano "fiscalmente" le donazioni dei sostenitori, diventando
così veri e propri strumenti di finanziamento dei conservatori;
-
l'attentato terroristico dell'11 settembre 2012 contro il Consolato USA a Bengasi non
e' costato solo la vita ad un diplomatico e a tre funzionari americani, ma anche la
carriera ad alcuni importanti esponenti dell'amministrazione e degli apparati di
sicurezza statunitensi: primo tra tutti, il direttore della CIA, Generale David
Petraeus, "silurato" con il pretesto di una relazione clandestina con la sua biografa,
ma in realta' per non aver dato il giusto risalto al ruolo di al-Qaeda nella
pianificazione ed esecuzione del suddetto attentato (come sostenuto dai
Repubblicani); il Segretario di Stato Hillary Clinton si e' salvata "per il rotto della
cuffia" e il Gen. Petraeus ha pagato per tutti;
-
viene diffusa la notizia che l'intelligence americana tiene sotto controllo i telefoni
dell'importante agenzia di stampa "Associated Press", per carpire le informazioni
che i giornalisti ottengono dalle loro "fonti" (per deontologia professionale
dovrebbero rimanere riservate) riguardo l'attivita' terroristica di al-Qaeda nello
Yemen.
Alla luce di quanto detto, il terreno politico (e l'opinione pubblica) sembra sufficientemente
fertile per accogliere il seme di un nuovo e piu' eclatante scandalo.
Partiamo dal protagonista, Edward Snowden
Edward Snowden, ventinovenne analista della NSA, "genio" del computer pur non avendo
completato le scuole superiori (secondo alcune fonti le avrebbe completate privatamente),
dopo un'esperienza fallimentare nelle Special Forces nel 2003 (si frattura entrambe le
gambe durante un'esercitazione), viene congedato ma un anno dopo, in virtu' della sua
competenza nel settore informatico, viene "arruolato" dalla CIA; passa quindi alla NSA,
facendo la spola con societa' che collaborano con la suddetta agenzia nel settore dello
spionaggio informatico. Le sue responsabilita' aumentano, come il suo stipendio e, a 29
anni, si ritrova a guadagnare 200.000 dollari all'anno. Lavora alle Hawaii e convive con la
sua bella fidanzata in una confortevole villa sul mare, vicino Honolulu. Cosa volere di piu',
a 30 anni non ancora compiuti?
Ma Snowden e' uno spirito inquieto e, il 1° maggio di quest'anno, chiede ai suoi superiori
un permesso di un paio di settimane per curarsi una recrudescenza di epilessia, che lo
aveva afflitto in passato; alla sua ragazza racconta un'altra bugia e, il 20 maggio, parte per
Hong Kong, portandosi appresso il computer con una quantita' di file pieni di informazioni
classificate. Giunto a destinazione, contatta il Guardian e il Washington Post e comincia a
"cantare".
Il 5 giugno, il Guardian pubblica le prime rivelazioni di Snowden (nome in codice, Verax "colui che dice la verita'", in latino). La NSA, attraverso una serie di programmi (il piu'
importante dei quali si chiama PRISM), e con la complicita' di "big-data" (i giganti del
settore informatico, come Google, Microsoft, Facebook, Yahoo!, Skype, Youtube, Apple eccetto Twitter) e di Verizon (il piu' grande gestore di telefonia degli Stati Uniti) controlla e
registra milioni di telefonate, e-mail e connessioni a siti internet di cittadini americani, da e
per l'estero: un vero e proprio "Grande Fratello" - nell'accezione orwelliana del termine - di
fronte al quale il diritto alla privacy sembra ridursi ad un mero pretesto per speculazioni
astratte da parte di filosofi e giuristi che hanno tempo da perdere.
L'amministrazione Obama cerca di correre ai ripari, affermando che si tratta di una misura
ineludibile nella lotta contro il terrorismo internazionale, e che grazie ad essa sarebbero
stati "sventati almeno tre attacchi"; ma questo non le evita le ironie dei Repubblicani, i
quali affermano che il secondo mandato di Obama "e' il quarto mandato di Bush", e le
pesanti critiche del New York Times che scrive: "Obama ha perso ogni credibilita'".
Il tutto, mentre e' ancora in corso la visita ufficiale del Presidente cinese Xi Jinping negli
Stati Uniti, durante la quale, manco a farlo apposta, Obama ha "garbatamente"
rimproverato il suo ospite per i frequenti "attacchi informatici" operati dai cinesi contro siti
governativi e militari americani.
Snowden - che nel frattempo, il 9 maggio, e' uscito allo scoperto rivelando la sua vera
identita' - non si lascia sfuggire l'occasione per rincarare la dose e affermare, sempre dalle
colonne del Guardian, che la Cina e' uno dei bersagli preferiti dello spionaggio cibernetico
americano, e che buona parte delle 61.000 operazioni di "hackeraggio" messe in atto
dall'intelligence statunitense contro i siti cinesi riguardano obiettivi civili. Facile
immaginare, a questo punto, l'imbarazzo del Presidente Obama, colto con le mani nel
sacco proprio mentre stava bacchettando quelle del suo omologo cinese, da una parte, e,
dall'altra, la soddisfazione di Xi Jinping che ha potuto "guardare dall'alto in basso" chi
pretendeva di dargli lezioni di bon ton spionistico-telematico.
Intanto il governo americano, se da un lato cerca di limitare i danni di immagine - e, in
prospettiva, diplomatici - affermando che, grazie al sistema di intercettazione della NSA,
sono stati sventati 50 attentati in 20 Paesi, anche europei (ma non in Italia, come
dichiarato dai portavoce dei nostri Servizi), dall'altro passa al contrattacco contro la
persona di Snowden, accusandolo di alto tradimento e facendo filtrare la voce di una sua
collaborazione con i Servizi di intelligence di Pechino.
Snowden naturalmente smentisce ogni addebito, mentre incassa il sostegno del governo
dell'Ecuador, che gli offre asilo politico - si ricorda che proprio nell'Ambasciata dell'Ecuador
a Londra si e' rifugiato il protagonista dello scandalo "WikiLeaks", Julian Assange, strenuo
sostenitore (anche materialmente, avendogli messo a disposizione il suo avvocato) di
Edward Snowden. Gli USA, inoltre, chiedono ufficialmente alle autorita' cinesi
l'estradizione di Snowden.
La Cina, come era prevedibile, respinge la richiesta
americana.
Il 23 giugno, con la benedizione del governo di Pechino, Snowden, accompagnato da
Sarah Harrison, avvocato di WikiLeaks, si imbarca su un volo Aeroflot e, dopo qualche
ora, sbarca all'aeroporto Sheremetevo di Mosca. Qui, una macchina dell'Ambasciata
ecuadoregna, scortata da due auto dei Servizi russi, preleva sottobordo Snowden, appena
sbarcato dall'aereo, per portarlo all'hotel "Capsule", nell'area transiti dell'aeroporto, dove
l'Ambasciatore dell'Ecuador formalizza l'offerta di asilo.
A questo punto, la reazione di Washington si fa rabbiosa; non solo perché i suoi Servizi di
intelligence, che stavano braccando Snowden, sono stati beffati una seconda volta da
quest'ultimo (la prima con la "diserzione") - non senza il determinante supporto dei Servizi
di Cina e Russia - ma anche, e soprattutto, perché con l'"affare Snowden" gli Stati Uniti
devono registrare una preoccupante convergenza di interessi da parte dei due Paesi
sopra citati - Paesi con i quali, per motivi diversi (in questa sede non ne entreremo nel
merito), soprattutto negli ultimi tempi i rapporti si erano sensibilmente deteriorati (per non
parlare del riavvicinamento tra Mosca e Pechino, da sempre diffidenti, per non dire ostili,
nei confronti l'una dell'altra - con buona pace del Patto di Shangai, piu' noto come SCO "Shangai Cooperation Organization" del 15 giugno 2001).
Tra l'altro, l'"affare Snowden" costringe gli USA a scoprire il fianco su una serie di questioni
che tradizionalmente costituivano il loro punto di forza nei contenziosi con questi Paesi:
prima tra tutte, la difesa dei diritti umani, con i governi di Mosca e Pechino che possono
finalmente presentarsi come difensori di un "povero idealista perseguitato dai cattivi
americani", con il relativo corollario del diritto alla privacy, in merito al quale Putin può far
passare il suo SORM (il sistema di intercettazione russo, utilizzato soprattutto in funzione
anti-dissidenti) come un contraltare dell'americano PRISM, e le autorita' di Pechino, dopo
le rivelazioni di Snowden sui milioni di sms cinesi intercettati dalla NSA, possono togliersi
la soddisfazione di affermare esplicitamente: "Gli Stati Uniti si fingono vittime, ma sono i
piu' grandi fuorilegge dei nostri tempi".
A questo va aggiunto che i governi di Russia e Cina hanno approfittato dell'occasione per
ricompattare l'opinione pubblica di ciascun Paese intorno ai rispettivi regimi: i popoli russo
e cinese accolgono sempre con favore qualunque iniziativa dei rispettivi governi contro gli
"storici" nemici americani.
Certo, vedere Putin - ex- colonnello del KGB in Germania Orientale durante l'epoca
sovietica, e successivamente direttore dell'FSB nella Russia di Boris Eltsin - e il governo
cinese - che tuttora mantiene in piena attivita' i famigerati "campi di rieducazione" per i
dissidenti - presentarsi come paladini dei diritti umani e' un po' come immaginarsi Jack lo
Squartatore spacciarsi per difensore dei diritti delle donne; ma tant'e': in politica e' un
fenomeno molto piu' frequente di quanto si immagini, a tutte le latitudini!
La richiesta di estradizione avanzata dagli USA presso il governo russo viene accolta con
un ironico atteggiamento di sufficienza, così come le furiose minacce, da parte di
Washington, ai limiti dell'isteria, di terribili ripercussioni, a seguito di un eventuale rifiuto,
sui futuri rapporti tra i due Paesi.
La reazione di Putin e' improntata ad un olimpico (e provocatorio) distacco, tipico di chi sa
di avere il coltello dalla parte del manico: "Purtroppo Snowden, essendo passeggero in
transito, non si trova ufficialmente sul suolo russo".
Ciò che piu' preoccupa le autorita' statunitensi e' che il governo russo possa barattare
l'asilo politico a Snowden in cambio di preziose informazioni segrete; preoccupazione piu'
che fondata, dal momento che gli agenti dei Servizi russi non lo hanno lasciato un attimo
da quando e' sbarcato a Mosca.
A questo segue un "balletto" di voci, conferme, smentite di un'imminente partenza di
Snowden alla volta di Quito in Ecuador, passando per L'Avana il cui governo, va
sottolineato, ha sempre tenuto un profilo bassissimo nel corso dell'intera vicenda, senza
mai compromettersi o sbilanciarsi, per non pregiudicare le delicate manovre di
riavvicinamento con gli Stati Uniti, che sfociano addirittura in un incidente diplomatico:il 3
luglio infatti al "Falcon" che riporta in patria il Presidente boliviano Evo Morales, dopo la
visita a Mosca, viene impedito l'ingresso nello spazio aereo di Francia, Italia, Spagna e
Portogallo, per il sospetto che a bordo ci sia Snowden, costringendo il velivolo ad uno
scalo d'emergenza a Vienna.
Tre categorie di alleati
Mentre Mosca indugia, con evidente compiacimento, sull'opportunita' di estradare o meno
Snowden, tenendo Washington sui carboni ardenti, l'ex analista della NSA "cala un asso"
(uno dei tanti che sembra avere): attraverso il Guardian e il tedesco Der Spiegel fa sapere
che la NSA tiene costantemente sotto controllo molte sedi diplomatiche, di Paesi europei e
non solo, a Washington e a New York (le Nazioni Unite), intercettandone le comunicazioni
ed anche facendo ricorso a dispositivi di intercettazione ambientale, come microfoni
nascosti e un dispositivo per leggere le comunicazioni criptate via fax. Sarebbero 38 i
"bersagli" delle attenzioni della NSA, tra cui le ambasciate di Italia, Francia e Grecia, oltre
agli uffici di rappresentanza dell'Unione Europea, per quanto riguarda l'Europa, e poi
Giappone, Messico, India, Turchia, Corea del Sud ecc. Ma non e' tutto!
Le intercettazioni delle comunicazioni non riguardano solo le sedi diplomatiche, ma il
territorio dei Paesi stessi. Secondo quanto riportato da Der Spiegel, l'intelligence
americana ha diviso i Paesi alleati in tre categorie:
prima: gli Stati Uniti;
seconda: Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, ovvero i Paesi
anglosassoni, alleati storici degli USA, e per questo esclusi dalle intercettazioni delle
comunicazioni - da sottolineare che questi Paesi costituiscono i cardini dell'oramai
famoso sistema globale di intercettazione "Echelon";
terza: tutti gli altri Paesi europei, che possono essere sistematicamente spiati.
Tra i Paesi di quest'ultima categoria, spicca la Germania, con una media di 500 milioni di
telefonate e comunicazioni via internet intercettate dall'intelligence americana ogni mese in particolare Francoforte, sede della Banca Centrale Europea e della Bundesbank. Segue
la Francia, con una media di 60 milioni di intercettazioni al mese.
Per quanto riguarda l'Italia, nella seconda decade di dicembre 2012 si e' registrata una
media record di 4 milioni di intercettazioni al giorno, con un picco di 8 milioni di telefonate
intercettate il 7 gennaio 2013.
A questo punto, di fronte all'imbarazzo montante da entrambe le parti - (presunti) "spioni" e
(presunti) spiati - si registra un'oscillazione nell'interpretazione dei fatti e nelle relative
prese di posizione da parte dei politici, che va dalla cauta dichiarazione di un normale
scambio di informazioni tra Servizi "amici" (sul significato che questa parola assume nel
mondo dell'intelligence, torneremo piu' avanti) nel settore del terrorismo internazionale in
nome della sicurezza preventiva - soprattutto dopo l'11 settembre 2001 - e nel rispetto
della privacy dei cittadini europei, alle manifestazioni di (palesemente falsa) indignazione
da parte dei portavoce di alcuni governi europei, in particolare francesi ma anche tedeschi,
che raggiungono l'apice con le melodrammatiche dichiarazioni del Presidente del
Parlamento Europeo, Martin Schulz: "Sono scioccato…mi sento trattato come un nemico.
e' sconvolgente che gli Stati Uniti possano prendere contro il loro alleato piu' stretto,
misure compatibili con quelle messe in pratica dal KGB nell'Unione Sovietica ai tempi
della "guerra fredda"…Lo chiedo al governo americano: siamo dei nemici?". Sarebbe
opportuno ricordare al Presidente Schulz che il primo obiettivo del KGB, durante la "guerra
fredda", erano proprio i partiti comunisti dei Paesi dell'Europa occidentale (per non parlare
di quelli dei Paesi "satelliti"), non semplicemente alleati, ma "fratelli" (nell'accezione che il
termine può avere in politica) in nome della comune adesione all'ideologia marxista.
Il tutto, passando attraverso il trait d'union costituito dalle dichiarazioni dei partiti di
opposizione, in Germania ma anche in Italia, che paventano l'ipotesi di una "complicita'"
dei Servizi europei, e relativi governi, nel "lasciarsi spiare".
Ma, una volta iniziata la commedia, gli attori devono continuare a recitare la parte fino in
fondo, sia pure controvoglia: alle virulente affermazioni del Presidente Hollande (che
approfitta anche di questa occasione per riguadagnare il terreno perduto dalla grandeur
francese in ambito internazionale) fanno da contraltare quelle, un po' piu' misurate, di
Stefen Seibert, portavoce di Angela Merkel. Il cardine della disputa e' il trattato di libero
scambio tra Europa e USA, la cui stipula e' imminente, che rischierebbe di saltare (il
condizionale e' d'obbligo) a causa della "perfidia" degli Stati Uniti a fronte della "lealta'" e
della "sincerita'" degli europei. Commovente, vero?
Dalla "fermezza" di queste prese di posizione si distaccano da una parte il governo
britannico, dall'altra quello italiano:
-
il governo britannico oppone all'intera vicenda un dignitoso e coerente silenzio, in
virtu' dell'oramai storica alleanza con l'ex-colonia d'oltre Oceano (gli Stati Uniti);
-
il governo italiano adotta la oramai consueta "via mediana", evitando prese di
posizione nette e sbilanciamenti di ogni sorta, confidando ciecamente nelle risposte
"sicuramente soddisfacenti" che gli USA sapranno fornire agli interrogativi degli
europei.
In questa altalena di dichiarazioni e prese di posizione, il 1° luglio Vladimir Putin può
compiacersi nel "girare il coltello nella piaga", oramai sanguinante, di Barak Obama,
affermando ironicamente, a seguito della richiesta ufficiale di Snowden di asilo politico alla
Russia: "Certo che può restare. Ma solo se promette di non creare piu' problemi ai nostri
partner americani". Dichiarazione tanto piu' irritante per l'amministrazione americana,
quanto piu' si considera che, dal suo arrivo a Mosca, Snowden e' costantemente sotto l'ala
"protettiva" dei Servizi di intelligence russi.
Il 12 luglio, Putin rincara la dose dichiarando che "Bisogna salvare quel giovane dalla
sicura condanna a morte negli USA"; e' evidente che non gli pare vero di presentarsi come
paladino dei rifugiati politici.
In questo scenario, Snowden si diverte a "snocciolare", con studiato tempismo, ulteriori
dettagli sulle attivita' investigative della NSA a danno delle sedi diplomatiche estere in
territorio americano; in particolare, per quanto ci riguarda, il nome in codice
dell'Ambasciata italiana presso le Nazioni Unite e' "Cicuta", mentre quello della nostra
Ambasciata a Washington e' "Bruneau" o "Hemlock" ("cicuta", in inglese).
Intanto la Francia continua a fare la voce grossa minacciando di far naufragare il
negoziato sul libero scambio tra USA e UE, ma guardandosi bene dal mettere in pratica la
suddetta minaccia, tant'e' che l'8 luglio (data di apertura dei negoziati), ufficialmente dietro
pressioni della Germania, la Francia sara' presente: in effetti, far saltare un accordo che,
sulla carta, prevede due milioni di nuovi posti di lavoro, solo perché un agente della NSA,
a suo dire in preda a scrupoli di coscienza, ha deciso di svelare il "segreto" che gli USA
spiano i propri alleati - che, come ben sanno gli addetti ai lavori, e' il "segreto di Pulcinella"
- e' una responsabilita' difficile da assumersi - oltre che poco credibile!
Col passare del tempo, anche alla luce dell'impossibilita' di trasferire Snowden incolume
dalla Russia all'America Latina (dove vari Paesi sono disposti ad accoglierlo), si fa sempre
piu' concreta l'ipotesi dell'asilo politico concesso dalla Russia. La reazione della Casa
Bianca e' immediata e rabbiosa: Obama minaccia gravissime ripercussioni nei rapporti tra
i due Paesi, tra cui il boicottaggio del G-20 dei primi di settembre a San Pietroburgo.
Alla fine, "tanto tuonò che piovve!": all'alba del 2 agosto, la Russia concede ufficialmente
un asilo politico provvisorio (un anno) a Snowden; quest'ultimo lascia finalmente, dopo 39
giorni, l'area transiti dell'aeroporto Sheremetyevo - ammesso che ci abbia passato anche
un solo giorno: e' molto piu' realistico che fin dall'inizio sia stato "custodito" dai Servizi russi
in un luogo segreto, probabilmente alla periferia di Mosca - con l'impegno di non uscire dai
confini del Paese. Obama, a questo punto, annulla il summit con Putin previsto per la fine
di agosto, prima del G-20; ma questo atteggiamento aggressivo e intransigente appare
addirittura controproducente se e' vero, come affermano fonti attendibili, che, nel corso di
un colloquio telefonico segreto tra i due Presidenti, Putin avrebbe detto a Obama che "La
Russia e' stata costretta in un angolo dall'aggressivita' americana, che ha impedito in ogni
modo il trasferimento di Snowden in un altro Paese". Al di la' di ogni considerazione, non ci
vuole un cremlinologo per sapere che Putin non e' certo uomo da lasciarsi spaventare da
chi fa la voce grossa, anche (e, soprattutto, a maggior ragione) se questa viene da
Washington. Il Presidente russo ha incassato addirittura il consenso di noti dissidenti e
oppositori: a ulteriore conferma che il "vecchio nemico esterno" catalizza sempre il
consenso intorno al regime all'interno.
Verso la meta' di agosto, Obama cerca di ricucire il rapporto di fiducia con gli americani peraltro, mai seriamente compromesso, almeno in merito allo "scandalo Datagate", che e'
stato tale solo per gli europei (gli americani sono molto piu' disposti a rinunciare alla loro
privacy, se gli si racconta che e' nell'interesse della sicurezza nazionale) e convoca un
vertice con i giganti della Silicon Valley per mettere a punto nuove misure di
intercettazione dei dati, all'insegna della "trasparenza". Praticamente, una contraddizione
in termini!
Nel frattempo, Snowden "spara le ultime cartucce" (almeno quelle attraverso la stampa:
dei suoi colloqui con gli agenti dei Servizi russi, che lo hanno preso in consegna dal suo
arrivo a Mosca, non e' dato sapere), anche stavolta mirate a compromettere i rapporti tra
gli Stati Uniti e l'Unione Europea.
Secondo un documento pubblicato da Der Spiegel, l'UE sarebbe in cima alle "attenzioni"
dei Servizi di intelligence americani: in particolare Germania e Francia, seguite a breve
distanza da Italia e Spagna. Secondo il documento, i Servizi USA hanno attribuito a
ciascun Paese un punteggio da 1 a 5, in ordine decrescente di "interesse": al primo posto
ci sono, come e' prevedibile, Paesi come Cina, Russia, Iran, Pakistan, Corea del Nord,
Afghanistan. In Europa, Francia e Germania sono a quota 3 (come il Giappone, in Asia);
seguono a un punto di distacco Italia e Spagna. Il Vaticano, con un punteggio di 5, sembra
non suscitare alcun interesse per l'intelligence USA.
I campionati mondiali di atletica leggera a Mosca e, soprattutto, l'aggravarsi del conflitto in
Siria, con gli attacchi con aggressivi chimici - la cui paternita' e' ancora da stabilire! hanno finalmente steso un velo di silenzio sullo scandalo Datagate.
Per quanto riguarda il recente vertice del G-20 a San Pietroburgo, sappiamo bene come e'
andata a finire: la gravita' e l'urgenza della crisi siriana hanno avuto, giustamente, il
sopravvento sulle ripicche; ma e' lecito supporre che i toni della vicenda si sarebbero
comunque abbassati, nell'interesse di tutte le parti in causa.
La vicenda di cui abbiamo tratteggiato sommariamente i contorni appare paradigmatica di
alcuni rapporti che intercorrono tra intelligence e politica; una sorta di "caso clinico" da cui
emergono problemi e criticita' in questa delicata zona grigia, tra il dire, il non dire e il
lasciar intendere: questioni strettamente inerenti al caso in esame, ma che possono dare
adito anche a considerazioni di carattere piu' generale. Essendo argomenti che
meriterebbero, ciascuno, un'ampia trattazione specifica, anche in questo caso ci si limitera'
a definire i caratteri essenziali, riservandosi di entrare eventualmente nel merito in un
secondo momento.
La spettacolarizzazione di un mondo segreto
Partiamo allora da alcuni temi a cui si e' accennato in apertura di questo lavoro.
Da alcuni anni a questa parte si assiste ad una progressiva "spettacolarizzazione" del
mondo dell'intelligence; tralasciando la tradizionale narrativa di genere spionistico, ci si
riferisce in particolar modo al cinema e alla televisione.
Non me ne vogliano gli aficionados di questo genere di pellicole; loro non hanno alcuna
colpa. Il problema e' che questa esasperata spettacolarizzazione dell'intelligence tende
inevitabilmente a catalizzare l'attenzione e l'interesse - non supportati dalle necessarie
competenze - dell'opinione pubblica su un mondo che, per sua natura e missione, deve
rimanere celato nell'ombra (altro che "tecniche di comunicazione" e "G-men"!).
Se a questo si aggiunge anche l'attenzione dei mezzi di comunicazione di massa (stampa,
televisione, internet ecc.), sempre a caccia di scoop, "la frittata e' fatta", perché questo può
indurre alcuni operatori dei Servizi, per i motivi piu' disparati (dai rancori personali alla sete
di denaro e via dicendo) a rivolgersi ai media per utilizzarli come cassa di risonanza per le
proprie rivendicazioni, o come veri e propri strumenti di ricatto nei confronti dei Servizi di
appartenenza - il tutto, naturalmente, sempre nel nome delle piu' nobili cause.
Questo rapporto di reciproco (e "morboso") interesse tra Servizi di intelligence e media
può anche rappresentare lo sfondo (ma non la causa) del recente allarme anti-terrorismo
del luglio scorso, lanciato dai Servizi USA in merito al pericolo di un imminente attacco
terroristico da parte di al-Qaeda contro sedi diplomatiche americane in varie regioni del
mondo. Chiunque abbia frequentato gli ambienti dell'intelligence sa bene che, se l'allarme
e' vero, l'ultima cosa da fare e' divulgare la notizia, sempre in virtu' di quell'ombra che deve
avvolgere le attivita' dei Servizi - oltre che per non creare il panico nella popolazione, che
sarebbe gia' un obiettivo conseguito dai terroristi (a meno che l'obiettivo dei Servizi, e dei
relativi governi, non sia proprio quello di creare il panico; ma non entriamo nel merito). Per
quanto riguarda quest'ultimo allarme - che, come era prevedibile, e' risultato infondato - la
vera ragione va probabilmente cercata proprio nelle pieghe dello scandalo Datagate,
soprattutto quando le autorita' americane hanno lasciato filtrare la voce che i Servizi
avevano ottenuto l'informazione proprio attraverso le tanto vituperate intercettazioni, come
a volersi costruire un alibi e una giustificazione dell'operato della NSA di fronte alla
protesta montante.
Veniamo adesso ad un elemento essenziale emerso nel corso dello scandalo Datagate:
l'ipocrita ostentazione di ingenuita' e di innocenza da parte delle autorita' dei Paesi
"bersaglio" delle intercettazioni (non di tutti, e con differente intensita').
Gli esponenti dei governi europei e dell'Unione Europea che si sono strappati le vesti
gridando allo scandalo - volendo passare come povere vittime di un'imperdonabile
macchinazione ordita dagli americani ai loro danni, e invocando il rispetto dei rapporti di
"amicizia" tra i loro Paesi (e i relativi Servizi) e gli Stati Uniti - si sono esposti al ludibrio di
chiunque abbia un briciolo di dimestichezza con le relazioni internazionali. Se, in politica, il
concetto di "amicizia" ha un senso solo come strumento propagandistico e come "norma di
linguaggio" da utilizzare nelle dichiarazioni ufficiali di fronte ai giornalisti (anche se poi,
negli incontri a porte chiuse, ci si e' sbranati a vicenda), nel mondo dei Servizi di
intelligence e' addirittura un controsenso: chiunque sia "spiabile", deve essere spiato (se
non lo si fa, e' perché non si e' tecnicamente in grado di farlo). Non esistono "matrimoni
d'amore" tra Servizi segreti, ma solo di "interesse", o piu' spesso temporanee "relazioni
clandestine", finche' si ritiene che ci siano obiettivi comuni da conseguire, e poi, "nemici
come prima". Chi e' amico oggi, non e' detto che lo sia domani; pertanto, informazioni
compromettenti raccolte sul suo conto, che al momento possono apparire inutili, in un
prossimo futuro potrebbero diventare determinanti e addirittura vitali, in un eventuale
capovolgimento di fronte: la storia e la cronaca sono piene di casi simili!
A puro titolo di esempio, basti citare l'"incrollabile" amicizia tra Stati Uniti e Israele, che non
ha impedito le periodiche espulsioni come "persone non grate" di agenti israeliani che
operavano sotto copertura in territorio statunitense.
Sussistono seri dubbi sul fatto che gli Stati Uniti si astengano del tutto dal controllare i loro
"fraterni amici" anglosassoni, e dubbi ancora maggiori sul fatto che questa "cortesia" sia
reciproca, conoscendo l'efficienza e la "disinvoltura" dell'MI 6 britannico.
Che cosa muove le “talpe”?
Qualche breve considerazione, in conclusione, sul presunto "idealismo" di queste "talpe" come il soldato Manning dello scandalo WikiLeaks e l'analista Snowden del Datagate che periodicamente suscitano imbarazzo nei palazzi del potere e dell'intelligence "a stelle
e strisce". Innanzitutto desta qualche perplessita' il "ravvedimento" di un uomo che lavora
nell'intelligence, che improvvisamente si rende conto di svolgere un lavoro che e' ai limiti
(e qualche volta li supera) della legalita': non lo sapeva prima di arruolarsi?
All'indomani della condanna, Manning ha dichiarato di voler cambiare sesso, per poter
finalmente esprimere la donna che e' in lui. Naturalmente, il primo pensiero va ad una
possibile, ulteriore manovra della difesa, volta a rincarare la dose sul fronte dell'infermita'
mentale, puntando questa volta su una non ben definita identita' sessuale; il tutto
nell'ottica di un ulteriore sconto di pena. Ma - sempre nel rispetto del "precetto"
andreottiano - e' possibile formulare una seconda ipotesi (che, tra l'altro, non esclude la
prima): qualche "agenzia governativa" potrebbe aver suggerito (leggasi "imposto") a
Manning di inscenare questa crisi di identita' sessuale in modo da perdere ogni
attendibilita' agli occhi dell'opinione pubblica; in altri termini, una sorta di "macchina della
delegittimazione" della "talpa", che in questo modo viene completamente screditata. La
cosa converrebbe a Manning, che in questo modo passerebbe nelle patrie galere solo
pochissimo tempo, in cambio della sua totale perdita di credibilita'.
Politica contro diritti
Le modalita' operative dei Servizi di intelligence non sono e non possono essere le stesse
di una qualunque istituzione statale. Non si può valutare un'attivita' eminentemente politica
come quella dell'intelligence limitandosi ai parametri del diritto: il diritto ha a che fare con la
giustizia; la politica con il potere e, quindi, con la sopravvivenza dello stato, di fronte alla
quale qualunque altro valore, sia pure nobilissimo e necessario alla costituzione di una
societa' civile, deve passare in secondo piano.