Edizione # 22 Ottobre 2013 Italiano
Transcript
Edizione # 22 Ottobre 2013 Italiano
www.invisible-dog.com [email protected] IMMIGRAZIONE CLANDESTINA E LA SOLUZIONE CHE NON C'E' La strage del mare del 3 ottobre 2013, che ha visto a poche miglia da Lampedusa l'inabissamento di un battello con quasi 500 migranti a bordo e ed oltre 300 morti, ha riproposto alle coscienze di molti, questa volta anche a quelle dei politici, il problema dell'immigrazione clandestina. Parole come "vergogna" e "orrore" sono state ricorrenti, ma al di la' delle manifestazioni di sdegno o risentimento, il problema e' di difficile soluzione. Intanto bisogna dire che l'episodio del 3 ottobre e' stato quello mediaticamente piu' enfatizzato, ma da un po' di anni a questa parte di incidenti simili, in vari punti del Mediterraneo, ce ne sono stati tanti, sicuramente troppi. Le statistiche, per quel che valgono nel caso di un fenomeno sociale che sfugge ad un controllo puntuale, indicano che negli ultimi anni i morti affogati sono stati circa 8/10.000. Potrebbero essere di piu', ma e' difficile stabilirlo. E' una statistica fatta su informazioni vaghe, racconti di superstiti, cadaveri trovati in mare. A parte le cifre, rimane il problema di un esodo biblico che vede gente scappare dai propri Paesi per coltivare una speranza o un sogno, per sfuggire ad una guerra, per sopravvivere ad una poverta' senza dignita'. E come tutti i fenomeni migratori motivati dalla disperazione sociale, non esistono modalita' per fermarli o altre forme adeguate per fronteggiarli. Una posizione scomoda L'Italia si trova in una posizione geografica che la pone in prima fila e come primo obiettivo di arrivo, magari per il solo transito, di questa marea di disperati che vogliono raggiungere l'Europa. Ed e' soprattutto il Paese di primo approdo per i clandestini che vengono dall'Africa sub-sahariana. Perche' tra le tante migrazioni quella africana e' la piu' povera, fatta di gente che non ha mezzi finanziari sufficienti per permettersi un mezzo di trasporto sicuro e ricorre quindi al rischio di attraversare il mare stipati su barche di fortuna, senza limiti al rischio che corrono. Lampedusa e le coste meridionali della Sicilia sono il terminale di questi viaggi della speranza, ma sarebbe meglio dire della disperazione. Il fenomeno del flusso migratorio ha ripreso ultimamente livelli altissimi per motivi legati ai rivolgimenti sociali che hanno percorso il nord Africa ed il Medio Oriente. La base di partenza e' generalmente la Libia e, dalla caduta di Ben Ali, in linea subordinata anche la Tunisia. Per quanto riguarda la Libia, durante il regno di Muammar Gheddafi il problema dell'immigrazione clandestina era stato utilizzato dal dittatore libico per un'ampia opera di ricatto finanziario e politico verso l'Italia. Lo aveva detto anche il Rais durante la sua storica prima visita in Italia: sono clandestini per miseria (lui ci teneva molto a puntualizzare che non erano rifugiati politici, di cui il suo Paese negava l'esistenza per ovvi motivi di suscettibilita' interna) e ve li mandiamo tutti. Questo per puntualizzare che non aveva interesse a tenerseli in Libia e che se lo faceva voleva una contropartita. Infatti, dopo la firma del trattato italo-libico del 2008 e dopo aver ottenuto un adeguato "risarcimento" finanziario, il dittatore si era dichiarato disponibile ad operare nel contrasto all'immigrazione clandestina. Erano state mandate 3 motovedette della Guardia di Finanza (poi diventate 6) per un pattugliamento congiunto delle coste libiche e per il contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina (motovedette - bisogna ricordarlo - operanti comunque con equipaggi libici e con bandiera libica), il ministero dell'Interno aveva dislocato a Tripoli dei funzionari di Polizia come collegamento con gli omologhi locali ed era iniziato un flusso abnorme di risorse (soldi, mezzi, corsi, addestramenti, equipaggiamenti ecc.) verso la Libia. Il costo complessivo nel biennio 2008-2010 si aggirava sull'ordine di 60 milioni di euro. Il risultato era che la Libia aveva alla fine accettato il principio del respingimento, cioe' si riprendeva indietro i clandestini che le pattuglie italiane e poi quelle italo-libiche intercettavano in mare. La vergogna dei respingimenti Il 6 maggio 2009 avveniva cosi' il primo respingimento. Chi scrive quel giorno era presente sul molo commerciale di Tripoli ed e' stato testimone di un dramma umano. Ai clandestini era stato nascosto il loro rientro in Libia e quindi la prima reazione fu di stupore. Poi di dolore. Qualcuno piangeva, qualcun altro aveva pensato di ribellarsi e di scendere dalle motovedette italiane. Subito iniziarono i maltrattamenti da parte degli apparati di sicurezza libici. Frustate e botte colpirono da subito i piu' riottosi. La gente fu trascinata di peso fuori dalla barca e gettata a calci dentro dei container: uno per le donne, uno per gli uomini. Uomini disidratati giacevano distesi sulla banchina senza la forza di reagire o di muoversi, stremati. Accanto a loro delle donne incinte accasciate per terra. Nessuno si preoccupava di assisterli. Tutta gente poi sparita nel nulla di cui l'Italia non ha piu' chiesto notizie. Gente buttata nei centri di detenzione libici, una ventina operanti nel Paese, e rispedita nell'inferno da cui avevano cercato di scappare. L'Italia politica aveva allora etichettato la pratica dei respingimenti come un successo politico nel contrasto all'immigrazione clandestina senza invece accorgersi che si trattava di un'iniziativa di cui vergognarsi. Ben si guardava dal chiedere che fine facessero i clandestini. Preferiva non sapere per non sentirsi responsabile di eventuali abusi. Si arrivava al paradosso di dichiarare che i clandestini fermati in mare non avevano formalizzato mai una richiesta di asilo (ma non sapevano di essere riportati in Libia). L'unico dato certo e' che la politica dei respingimenti aveva nei fatti bloccato, meglio ridimensionato, il numero dei viaggi della speranza. Poi c'e' stata la guerra civile, Muammar Gheddafi e' stato ammazzato, il Paese e' entrato in una spirale di instabilita' che ancora non ha avuto termine. I clandestini che l'Italia aveva a suo tempo respinto, a cui poi si erano aggiunti altri in arrivo, si erano inopinatamente cosi' trovati nel bel mezzo di una guerra civile. Il fatto che il Rais avesse fatto ampio ricorso a mercenari africani per contrastare i ribelli, aveva poi determinato che questi poveri clandestini, una volta defenestrato il dittatore, si erano trovati nella scomoda posizione di essere talvolta accusati di essere dei mercenari al soldo del pregresso regime. Di questa parte della loro storia, le sofferenze e le morti causate da questi equivoci, nessuno ha mai parlato. Anche perche' la caduta di Gheddafi favorita dall'intervento di forze internazionali, non poteva essere politicamente delegittimata dalle vendette o dai soprusi dei ribelli. Si era combattuto per affermare la liberta' e la democrazia dei libici, era stato cacciato un despota che aveva violato ripetutamente i diritti umani, non ci si poteva soffermare, ma soprattutto non c'era interesse, a fare emergere altrettante violazioni che i ribelli perseguivano sia verso i connazionali vinti, sia verso i poveri clandestini. Back to business Lentamente la situazione in Libia, almeno per quanto riguarda il risentimento verso i clandestini di pelle nera, e' diminuita nel tempo ed e' riaffiorato, questa volta piu' florido, il traffico di esseri umani. Perche' - e' bene ricordarlo - il traffico di clandestini e' si' una piaga sociale, ma e' soprattutto un business internazionale. Nonostante la guerra civile libica, le strutture dell'immigrazione clandestina erano rimaste in essere in Sudan, luogo dove confluiscono i clandestini prima di approssimarsi alle coste mediterranee. Allora, vista la situazione in Tripoli, come business collaterale le organizzazioni criminali si erano dedicate al trasferimento dei clandestini eritrei nel Sinai con destinazione Israele. La Libia di oggi e' tuttora avvolta in una situazione di instabilita', le milizie armate spadroneggiano nel Paese, la Polizia libica non ha nessun potere coercitivo, bande di delinquenti (quelli liberati dalle carceri durante la guerra civile) sono tuttora in giro e questo ha fatto si' che la filiera dei trafficanti abbia ripreso ad operare in forma piu' aperta che in passato. Quelle strutture illegali che Gheddafi prima incoraggiava (quando voleva ricattare l'Italia) e poi combatteva (quando voleva assecondarla) sono adesso ricomparse in piena operativita'. Agevolate dal caos sociale, dalla corruzione endemica che la guerra civile non ha debellato ma rafforzato, dalla commistione tra bande-milizie-trafficanti, dai poliziotti che (peraltro come in passato) trovano il loro tornaconto finanziario nel favorire questi traffici e dalla collusione di politici (alcuni alti esponenti governativi provengono - forse non casualmente - dalla zona di Zuwarah che e', de facto, la "capitale" o principale base di partenza delle barche di clandestini). Cambiata la situazione interna in Libia, cambiati anche i referenti con cui l'Italia dialogava nel contrasto all'immigrazione clandestina, il nostro Paese non ha inteso cambiare approccio rispetto al fenomeno. Continua a ritenere che nel flusso di immigrati non vi sia, rispetto al passato, piu' presenza di rifugiati che scappano da guerre e dittature. Non e' soprattutto cambiata l'idea che il problema dell'immigrazione clandestina possa risolversi con i respingimenti. La presenza di funzionari di Polizia italiana sul suolo libico e' stata mantenuta (era stata anche incrementata, ma ragioni di sicurezza hanno consigliato diversamente). 5 delle 6 motovedette donate sono state affondate nel corso della guerra ma ora si parla di ripescarle nel perseguito interesse a ripristinare il pattugliamento congiunto. E' anche ricominciato l'afflusso di corsi, incontri bilaterali, finanziamenti, regalie. Anche se adesso, a differenza del passato, e' difficile trovare in Libia degli interlocutori affidabili ed una correlata cooperazione. Frontex, l'inutile Nella pratica prevale ancora, da parte italiana, un approccio "repressivo" dello specifico fenomeno. Ne fanno fede, qualora esistessero dei dubbi, le dichiarazioni che il 4 ottobre 2013 il Ministro dell'Interno italiano, Angelino Alfano, ha fatto a Lampedusa evocando un rafforzamento dell'attivita' di "Frontex", l'agenzia di cooperazione europea per il controllo delle frontiere esterne all'Unione. E' un organismo che oggi svolge un pattugliamento marittimo del Mediterraneo anche per contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Un dispiegamento di navigli, aerei, elicotteri, radar che non produce, anche per scarsa attitudine politica e la mancanza di impegno di molti Paesi europei, risultati. Ma lo sbaglio non sta nell'inefficienza di "Frontex", ma nell'approccio alla problematica nel suo complesso. L'affermazione del Ministro dell'Interno italiano a Lampedusa e' stata nella sostanza questa: se si rafforza l'attivita' di "Frontex", si evitano e si contrastano i viaggi di clandestini in mare. Ergo ci saranno meno morti. L'equazione ha la sua logica matematica, ma trascura l'essenza del problema. La disperazione della gente non pone limiti a questi esodi ed ai rischi che l'utilizzo di barconi fatiscenti comportano. E' gente che scappa dalla poverta' e da soprusi, d'inverno ha attraversato i deserti libici e d'estate attraversa i mari, ha affrontato abusi, ruberie e stupri e coltiva la speranza di una vita migliore. Sa quello che lascia - e questo gli da' la forza per affrontare i rischi di questa transumanza - ma poi non sa quello che trovera'. Puo' trovare la morte, come e' capitato spesso, ma puo' anche trovare l'emarginazione che la aspetta all'arrivo. Ed il problema e' tutto li'. L'Italia e l'Europa devono rendersi conto che il problema dell'immigrazione non si debella con la repressione e la politica dei respingimenti, ma solo riuscendo a contenere il fenomeno in una cornice di legalita' e regole senza disattendere quella solidarieta' dovuta a tutti quei drammi umani di cui e' pieno il mondo. In altre parole il fenomeno non puo' essere bloccato, ma solo pilotato ed indirizzato. La legge n. 189 del 30 luglio 2002, meglio conosciuta con il nome dei due ministri co-firmatari Bossi-Fini, prefigura il reato di immigrazione clandestina e l'espulsione del clandestino. E' una legge che si sviluppa nel solco "repressivo" (un po' come i respingimenti in mare) i cui limiti applicativi sono sotto gli occhi di tutti. Come si e' detto, e' un approccio sbagliato che puo' anche dare effimeri risultati in un lasso di tempo breve, ma non risolve il problema nel lungo periodo. Ma allora, ed e' questo il quesito di fondo, cosa si puo' o si deve fare per risolvere questo problema? Se il clandestino non si riesce a convincerlo a non rischiare la vita su una barca che puo' affondare, se non puo' essere respinto perche' cosi' gli si infliggono altre sofferenze, se si vuole evitare che una volta sul suolo europeo sia socialmente emarginato o viva nell'illegalita', cosa bisogna fare? La ricerca di soluzioni La soluzione risiede soprattutto a livello europeo. La prima iniziativa e' sul piano giuridico: una legge europea che valga per tutti i Paesi aderenti e che stabilisca un percorso comune e legalmente definito per l'ingresso dei migranti (cosi' da stabilire senza equivoci quando e come si manifesta l'illegalita'), la concessione di cittadinanze, i ricongiungimenti familiari, le pene per i trafficanti, l'applicazione di tutte quelle tutele internazionali che vengono riservate ai rifugiati ed ai richiedenti di asilo. La seconda iniziativa e' sul piano assistenziale: il profugo non puo' arrivare in un Paese e trovarsi poi costretto a vivere illegalmente ai margini della societa'. Ha bisogno di essere seguito in un percorso di inserimento. Ha bisogno di aiuto sociale (capire le regole di dove vive adesso, parlare una lingua ecc.) e di sostegno finanziario finche' non sara' in grado di essere socialmente autonomo. Insomma, ha bisogno di strutture dedicate. Questo avviene in molti Paesi europei, ma non in tutti. Gli standard di accoglienza ed integrazione dovrebbero essere allineati. Cosi' come andrebbe superata la Convenzione di Dublino, un obbrobrio giuridico che vincola i richiedenti asilo al primo porto di arrivo - nel caso specifico Lampedusa e l'Italia - senza dargli la possibilita' di scegliere autonomamente il proprio destino. Il risultato ultimo e' quello di spingerli ulteriormente verso percorsi di illegalita', magari per raggiungere parenti o amici in altri Paesi Ue. Poi e' possibile anche una terza forma di intervento che e' quella a suo tempo prefigurata dal governo di Romano Prodi quando decise di creare sul suolo libico strutture di accoglienza per i clandestini. Era stato finanziato un ospedale a Kufra, mentre altre strutture equivalenti non hanno poi mai visto la luce. Partiva dalla filosofia che invece di assistere i clandestini in Italia, era meglio assisterli in Libia. Un progetto per molti aspetti utopico anche perche' consegnato ai libici e da loro gestito senza che - oggi come ai tempi di Gheddafi - avessero acquisito una sufficiente sensibilita' per il rispetto dei diritti umani. C'e' ancora in quella parte di mondo arabo una diffusa cultura che vede l'africano sfruttato e vilipeso. Non tanto razzismo, ma pseudo-schiavismo. Pero' il progetto Prodi, benche' concettualmente giusto ma praticamente inattuabile, aveva il pregio di sollevare il problema delle condizioni dei clandestini prima del loro viaggio in mare. L'Europa potrebbe fare qualcosa di simile, cioe' affrontare la problematica prima di risolverla sul proprio territorio. Se non e' possibile intervenire nei Paesi di origine per scongiurare l'immigrazione (difficile pensare di farlo nella Somalia di oggi o nell'Eritrea del dittatore Isaias Afeworki), e' forse possibile farlo in alcuni Paesi di transito. In Libia, per esempio, potrebbe pensarci la locale sede dell'ACNUR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) a selezionare i richiedenti di asilo o istituire le pratiche per una richiesta di accesso all'area europea (con supporto finanziario europeo). La sede libica dell'organizzazione internazionale, ai tempi di Gheddafi, operava a Tripoli senza il riconoscimento ufficiale del governo libico (come detto il Rais aveva una forte avversione per il termine "rifugiato). Oggi potrebbe essere diverso. Nella pratica, le migrazioni si devono affrontare con un mix di provvedimenti giuridici, assistenza, solidarieta', ma soprattutto umanita'. Perche' e' un fenomeno da capire e non da demonizzare. Lo spazio per la repressione deve essere ridotto al minimo. E soprattutto l'approccio deve essere affrancato dalle strumentalizzazioni e retoriche politiche che spesso l'accompagnano: il "buonismo" inconcludente di facciata e la xenofobia di un malcelato razzismo. TERRORISMO SENZA UNA CAUSA I recenti eventi in Kenya hanno messo in luce ancora una volta quanto insensato e privo di scopo sia diventato il terrorismo di matrice islamica. Le dichiarazioni ufficiali dei gruppi terroristici parlano di una "vendetta contro gli infedeli", ma in realta' non vi e' alcuno vero obiettivo politico dietro a questi attacchi. Inoltre, gli estremisti islamici hanno progressivamente spostato l'obiettivo contro quelle stesse popolazioni musulmane per le quali asseriscono di combattere. L'esempio piu' lampante e' in Siria, dove le brigate di jihadisti internazionali provenienti da tutto il mondo hanno preso di mira il Presidente Bashar al Assad in una "guerra santa" soltanto perche' questi proviene da una minoranza islamica, gli Alawiti. E' ormai intollerabile il fatto che il clero islamico - che sia Sunnita, Sciita o altro - non riesca a condannare l'uccisione di musulmani da parte di altri musulmani e gli attacchi contro gli "infedeli". Il terrorismo somalo Al Shabaab, letteralmente "la gioventu'", e' sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche affiliate ad Al Qaeda. Il suo fondatore e' Sheikh Hassan Dahir Aweys, ex colonnello dell'esercito somalo che diserto' nei primi anni '90. Nel 1996 fondo' Al Ittihad al Islami, la prima formazione fondamentalista somala. Un decennio piu' tardi aiutera' le Corti Islamiche a prendere il controllo della capitale somala Mogadiscio a seguito di una serie di uccisioni mirate finanziate da CIA e Stati Uniti che prendevano di mira i presunti attentatori alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998 e 2002. Hassan Dahir Aweys ha lasciato gli Al Shabaab dopo averne perso la leadership per fondare Hizbul al Islam. Da oltre due mesi e' sotto la custodia del governo somalo. Il presidente Mohamud deve ancora decidere se processarlo o rilasciarlo. L'ascesa degli estremisti somali e' stata inizialmente finanziata dagli imprenditori di Mogadiscio che volevano prendere il posto dei signori della guerra nella gestione delle attivita' piu' redditizie della citta': il porto, l'aeroporto e quindi tutti i diversi commerci. Uno dei loro piu' accesi sostenitori era Abukar Omar Addane, un ottantenne sulla sedia a rotelle dalla barba rossa che e' stato accusato di aver ospitato presso il suo Ramadan Hotel i terroristi Abu Talha al Sudani e Fazul Abdallah Mohamed. L'Unione delle Corti Islamiche che ha preso il controllo di Mogadiscio all'inizio del 2006 aveva nella milizia della corte Ifka Halane il suo ramo piu' radicale. Il suo leader era un protetto con addestramento afghano di Hassan Dahir Aweys, Aden Hashi Ayro. Il loro campo di addestramento era inizialmente nel cimitero italiano di Mogadiscio, profanato per l'occasione. Le Corti Islamiche sono state cacciate nel Gennaio 2007 dagli Etiopi e gli Al Shabaab sono stati spinti fuori della capitale e si sono installati nella Somalia meridionale. Ayro e' stato ucciso da un drone americano nel Maggio 2008. Negli ultimi anni hanno avuto il controllo di porzioni del territorio e, soprattutto, della citta' portuale di Chisimaio, persa negli ultimi mesi. Con il ritiro dell'Etiopia ed il suo rimpiazzo con una missione di peacekeeping africana, la Amisom, gli Al Shabaab hanno dichiarato guerra agli occupanti stranieri e contro gli infedeli. Il fatto che l'Amisom sostenesse e continui a sostenere il Governo Federale Transitorio che sta cercando di guidare il Paese fuori da 23 anni di assenza dello Stato e' uno dei motivi aggravanti dietro la loro resistenza. Tuttavia, la maggior parte degli attacchi degli Al Shabaab prendono di mira altri somali. Dal primo attentato suicida contro un posto di blocco governativo a Baidoa nel 2006, il gruppo estremista somalo ha ucciso dozzine di studenti, pubblici ufficiali e sostanzialmente chiunque stia cercando di ripristinare la legge nel Paese. Nelle zone sotto il loro controllo hanno invece applicato la Sharia in stile talebano con il suo arsenale di amputazioni, lapidazioni, divieto di musica e cinema e via discorrendo. In un Paese al 99% musulmano e membro della Lega Araba, gli Al Shabaab stanno portando avanti una guerra contro l'Islam Sufita proprio della tradizione somala. In altre parole, il loro obiettivo di instaurare uno Stato islamico in Somalia avverra' in primo luogo alle spese dei somali musulmani. Questo avviene con la benedizione di tutte quelle organizzazioni caritatevoli saudite e qatariote che, negli ultimi 20 anni, hanno finanziato e promosso le visioni radicali del Wahabismo e del Salafismo a discapito del Sufismo, assieme a tutti quegli imprenditori somali che ancora continuano a trarre guadagno dall'economia di guerra e che non vogliono vedersi sottratti i loro dividendi dal ritorno di un governo centrale. Terrorismo senza un obiettivo Ancora oggi, come in un recente editoriale pubblicato sul New York Times a firma del viceMinistro della Difesa Danny Danon, rappresentanti israeliani bollano Yasser Arafat come un "arciterrorista". Terrorista o paladino per la liberta', Arafat e la sua Organizzazione per la Liberazione della Palestina avevano (hanno) un chiaro obiettivo politico: uno Stato Palestinese indipendente e libero dall'occupazione israeliana. Arafat ha sicuramente impiegato delle tecniche terroristiche per raggiungere i suoi obiettivi in quella che era, e ancora e', una guerra asimmetrica fra uno degli eserciti piu' potenti del mondo e dei civili disarmati. La storia e' piena di esempi di come presunti terroristi siano diventati combattenti per la liberta' o viceversa, incluso il sofferente Nobel per la Pace Nelson Mandela. I denominatori comuni sono pero' sempre simili: un governo centrale che abusa del proprio potere o opprime una minoranza o un'occupazione straniera o il colonialismo, l'assenza di mezzi democratici per mettere fine agli abusi e quindi il ricorso alla lotta armata e, in alcuni casi, al terrorismo. L'ideologia di riferimento poteva essere il Marxismo, la ricerca di liberta' civili o quello che vi pare. Ma vi era sempre un chiaro obiettivo: l'indipendenza, l'autonomia, una nuova forma di Stato o la fine delle oppressioni. A prescindere dal fatto che la decisione di abbracciare le armi fosse legittima o meno, c'era sempre l'idea (o la pretesa) che coloro che combattevano lo facevano in nome di un popolo e per il suo bene. Dall'altra, i gruppi islamici estremistici hanno la tendenza a confondere chi rappresentino in realta'. Idealmente e' per l'Umma, la nazione islamica, che lottano. Ma fanno veramente poco per unire realmente e mettere assieme tutti i musulmani. Hanno usato la bandiera dell'Islam come uno strumento per combattere occupazioni straniere - come in Afghanistan prima contro i sovietici e poi contro le coalizioni a guida Usa o come Hamas ed Hezbollah fanno contro gli israeliani - in quelle che possono essere considerate come motivazioni comprensibili per lottare. Questo non significa giustificare gli attentati suicidi, ma non e' difficile identificare le motivazioni che li ispirano. Ma se la guerra al terrorismo puo' considerarsi conclusa - dopotutto Al Qaeda e' stata cacciata dall'Afghanistan, Osama bin Laden e' morto, il suo successore Zayman al Zawahiri offre un ombrello ideologico a quanti ancora guardano "alla base" e poco piu' - le sue tossine sono ancora vive e vegete. L'obiettivo e' adesso diventato quello dell'instaurazione di regimi islamici teocratici, come in Iran, ma a differenza di esso a guida Sunnita. Questi movimenti fondamentalisti hanno gradualmente abbracciato istanze Wahabite e Salafite - spesso guidando o prendendo il sopravvento sui movimenti della Primavera Araba - menando una jihad contro chiunque si opponga ai loro programmi politici. Ma come progressivamente e' avvenuto nella maggior parte dei Paesi musulmani, lo spostamento verso un Islam politicizzato e' troppo spesso finito per prendere di mira altri musulmani. Sia che fossero di un'altra corrente del credo - Sunniti contro Sciiti come avviene nella guerra civile in Iraq - o perche' ritenuti troppo secolarizzati - come in Tunisia ad esempio - gli estremisti hanno rivolto la loro guerra santa contro dei compatrioti e credenti dello stesso Dio. Jihad in Siria L'esempio piu' lampante e' in Siria. Invisible Dog ha spiegato in lungo e in largo il contesto geopolitico della lotta per rovesciare il presidente Bashar al Assad. Ma quella che due anni fa e' cominciata come una legittima lotta da parte di gruppi di opposizione per mettere fine a decenni di dittatura dinastica, oggi e' diventata altro. Se abbracciare le armi contro un leader autocratico nella lotta per la democrazia puo' essere comprensibile. Far diventare il conflitto una guerra santa che attrae legioni di radicali stranieri per combattere una setta minoritaria dell'Islam - gli Alawiti dai quali provengono gli Assad - e' totalmente un'altra storia. Ancora una volta la bandiera dell'Islam viene usata contro altri musulmani. E, come nel vicino Iraq, il significato della lotta e' perso per strada, rimpiazzato da una guerra senza senso nel nome di una religione comune, ma contro dei presunti infedeli che pregano lo stesso Dio. Il fatto stesso che vi siano degli scontri fra le diverse fazioni ribelli in Siria e' significativo. Il recente cessate-il-fuoco negoziato fra l'Esercito Libero Siriano - l'organizzazione che raggruppa diversi gruppi di opposizione - ed il gruppo filo Al Qaeda dell'ISIS (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante) mette in luce una frizione fra due visioni inevitabilmente conflittuali sul futuro della Siria. Anche se hanno un obiettivo in comune, e' difficile credere che tutti quegli estremisti non-siriani oggi sul terreno siano li' per garantire alla Siria un domani democratico migliore. Non e' difficile prevedere che la loro lotta continuera' fino a quando non si instaurera' a Damasco una leadership rispondente ai loro criteri "islamici". Democrazia Islamica La domanda di fondo e' se l'Islam e la democrazia siano due concetti capaci di coabitare sotto lo stesso sole. Per troppo tempo siamo stati indotti a credere che vi fossero delle differenze inconciliabili e si puntava il dito contro quelle teocrazie o monarchie dove l'Islam e' usato come un pretesto per imporre guide autocratiche o oligarchie. Ma ci siamo dimenticati di quegli esempi democratici come nel nord della Nigeria dove la Sharia e' legge dal 2000, ma dove il rispetto dei codici - sia a livello locale che federale - hanno impedito degli abusi a sfondo religioso. E non e' una coincidenza che sia proprio il nord della Nigeria il teatro dell'ascesa del gruppo terrorista di Boko Haram in quegli stessi stati dove la Sharia e' gia' parte integrante della legge. Ancora una volta, gli estremisti ritengono che la loro personale visione dell'Islam sia "migliore" di quella degli altri. Qualunque religione ha un insieme di norme comportamentali che cerca di imporre sui propri fedeli. I 10 comandamenti dati da Dio a Mose' sono il primo esempio di cosa bisogna evitare per ridurre i conflitti (non rubare, non uccidere o prendere la donna d'altri). Il Corano e le Sunna rivelati al Profeta Maometto sono andati un passo avanti codificando una serie di norme sociali, civili e penali. Condanne e punizioni sono state aggiunte ai singoli provvedimenti. Ma il fatto che siano state dettate oltre 14 secoli fa non significa che non possano essere adattate alla nostra societa' contemporanea senza che perdano il loro significato originale. Coloro i quali predicano il Salafismo e finiscono invischiati nel terrorismo vorrebbero che vivessimo nel sesto secolo quando invece il mondo e' andato avanti. Puo' non piacergli, ma non possono evitarlo. Quello che manca veramente e' un clero islamico che indichi la via allineando il credo con la democrazia. Un rinascimento islamico capace di combinare sia le istanze religiose che quelle laiche presenti all'interno delle societa' musulmane. E se devono essere fondate sulla Sharia, questo non significa che si debba rinunciare a tutti i controlli ed i bilanciamenti propri di ogni sistema giuridico. Lo stesso vale per le differenti correnti dell'Islam, le cui differenze non possono essere ridotte alla scelta di chi sia il legittimo discendente del Profeta. La guerra fra Sunniti e Sciiti non ha senso da un punto di vista islamico. Bisogna smettere di prendere di mira altri musulmani e i non credenti. E sarebbe ora che quanti hanno l'autorita' morale sugli altri musulmani - che siedano al Cairo, alla Mecca o a Tehran - alzino la voce o altrimenti continueranno ad essere considerati troppo tolleranti ed accomodanti nei confronti di quanti, agitando la bandiera dell'Islam, continuano a perpetrare insensati crimini contro l'umanita'. LO SCANDALO DATAGATE: TANTO RUMORE PER NULLA Dopo circa tre anni, assistiamo al secondo "psicodramma" che vede per protagonisti i Servizi di intelligence, soprattutto degli Stati Uniti e i palazzi del potere di mezzo mondo. Dopo lo scandalo "WikiLeaks", che ha visto come "mattatore" assoluto sul palcoscenico Julian Assange - e come vittima sacrificale il soldato Manning, "gola profonda" dello scandalo e, per il momento, unico condannato (35 anni di carcere) - un altro dipendente del governo americano, sempre nel nome dei piu' nobili diritti alla liberta' di informazione e alla trasparenza, ha deciso di vuotare il sacco (ma fino a che punto?) e di lanciare il sasso nello stagno diffondendo informazioni classificate ad alcuni organi di stampa e quasi certamente, cosa piu' preoccupante per l'amministrazione USA, ad altri Servizi di intelligence di Paesi non proprio "amici". Come tutti i sassi lanciati in uno stagno provocano, lì per lì, un allarme generale tra anfibi, rettili e uccelli che abitano l'ecosistema, per poi tornare in breve tempo alla "stagnazione" tipica dell'ambiente palustre, così, in una proporzione piu' ampia, le rivelazioni dell'analista informatico della NSA (National Security Agency, l'agenzia di intelligence statunitense che si occupa di SIGINT ed ELINT - Signal e Electronic Intelligence), Edward Snowden, hanno provocato un'altra tempesta in un bicchier d'acqua, tanto eclatante quanto, alla resa dei conti, inconsistente, con reazioni che hanno oscillato tra i toni melodrammatici del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, a quelli battaglieri, tipici della grandeur francese, dell'inquilino dell'Eliseo, Francois Hollande, passando attraverso una oramai tristemente tipica via di mezzo (che forse vorrebbe ispirarsi alle teorie di Guicciardini, ma ne e' solo una brutta copia, o meglio, un'errata interpretazione) delle autorita' italiane, e il piu' coerente e decoroso silenzio di quelle britanniche. Da alcuni anni assistiamo ad una sovraesposizione mediatica dei Servizi di intelligence, con i riflettori dei media - ma anche cinema, "fiction" ecc. - che sempre piu' frequentemente si accendono su un'attivita' che invece, per sua natura, dovrebbe svolgersi nell'ombra. In merito a quanto questi ultimi scandali siano causa o effetto di questa spettacolarizzazione dell'attivita' di intelligence, al momento sospendiamo il giudizio, così come sulla valutazione della sincerita' o ipocrisia delle reazioni dei governi coinvolti nella vicenda, nonché sull'ambiguita' che emerge prepotente nei rapporti tra "vittime e carnefice" nei retroscena dello psicodramma in questione. Tracciamo allora un sia pur breve excursus delle tappe fondamentali di questa vicenda, per poi passare alle considerazioni sui problemi e le criticita' che da essa emergono. Va detto innanzitutto che il recente scandalo, noto come "Datagate", e' solo l'ultimo di una serie di scandali che si sono abbattuti sull'amministrazione Obama dall'inizio del secondo mandato (tralasciamo quindi lo scandalo "Wikileaks", iniziato alla fine del 2009), tanto che questo secondo mandato del Presidente sembra contrassegnato, almeno nella fase iniziale, da una vera e propria "iattura": - alcuni ispettori del fisco sembrano accanirsi su alcune ONG (organizzazioni non governative) legate al "Tea Party" che, dietro la facciata di associazioni filantropiche senza fini di lucro, scaricano "fiscalmente" le donazioni dei sostenitori, diventando così veri e propri strumenti di finanziamento dei conservatori; - l'attentato terroristico dell'11 settembre 2012 contro il Consolato USA a Bengasi non e' costato solo la vita ad un diplomatico e a tre funzionari americani, ma anche la carriera ad alcuni importanti esponenti dell'amministrazione e degli apparati di sicurezza statunitensi: primo tra tutti, il direttore della CIA, Generale David Petraeus, "silurato" con il pretesto di una relazione clandestina con la sua biografa, ma in realta' per non aver dato il giusto risalto al ruolo di al-Qaeda nella pianificazione ed esecuzione del suddetto attentato (come sostenuto dai Repubblicani); il Segretario di Stato Hillary Clinton si e' salvata "per il rotto della cuffia" e il Gen. Petraeus ha pagato per tutti; - viene diffusa la notizia che l'intelligence americana tiene sotto controllo i telefoni dell'importante agenzia di stampa "Associated Press", per carpire le informazioni che i giornalisti ottengono dalle loro "fonti" (per deontologia professionale dovrebbero rimanere riservate) riguardo l'attivita' terroristica di al-Qaeda nello Yemen. Alla luce di quanto detto, il terreno politico (e l'opinione pubblica) sembra sufficientemente fertile per accogliere il seme di un nuovo e piu' eclatante scandalo. Partiamo dal protagonista, Edward Snowden Edward Snowden, ventinovenne analista della NSA, "genio" del computer pur non avendo completato le scuole superiori (secondo alcune fonti le avrebbe completate privatamente), dopo un'esperienza fallimentare nelle Special Forces nel 2003 (si frattura entrambe le gambe durante un'esercitazione), viene congedato ma un anno dopo, in virtu' della sua competenza nel settore informatico, viene "arruolato" dalla CIA; passa quindi alla NSA, facendo la spola con societa' che collaborano con la suddetta agenzia nel settore dello spionaggio informatico. Le sue responsabilita' aumentano, come il suo stipendio e, a 29 anni, si ritrova a guadagnare 200.000 dollari all'anno. Lavora alle Hawaii e convive con la sua bella fidanzata in una confortevole villa sul mare, vicino Honolulu. Cosa volere di piu', a 30 anni non ancora compiuti? Ma Snowden e' uno spirito inquieto e, il 1° maggio di quest'anno, chiede ai suoi superiori un permesso di un paio di settimane per curarsi una recrudescenza di epilessia, che lo aveva afflitto in passato; alla sua ragazza racconta un'altra bugia e, il 20 maggio, parte per Hong Kong, portandosi appresso il computer con una quantita' di file pieni di informazioni classificate. Giunto a destinazione, contatta il Guardian e il Washington Post e comincia a "cantare". Il 5 giugno, il Guardian pubblica le prime rivelazioni di Snowden (nome in codice, Verax "colui che dice la verita'", in latino). La NSA, attraverso una serie di programmi (il piu' importante dei quali si chiama PRISM), e con la complicita' di "big-data" (i giganti del settore informatico, come Google, Microsoft, Facebook, Yahoo!, Skype, Youtube, Apple eccetto Twitter) e di Verizon (il piu' grande gestore di telefonia degli Stati Uniti) controlla e registra milioni di telefonate, e-mail e connessioni a siti internet di cittadini americani, da e per l'estero: un vero e proprio "Grande Fratello" - nell'accezione orwelliana del termine - di fronte al quale il diritto alla privacy sembra ridursi ad un mero pretesto per speculazioni astratte da parte di filosofi e giuristi che hanno tempo da perdere. L'amministrazione Obama cerca di correre ai ripari, affermando che si tratta di una misura ineludibile nella lotta contro il terrorismo internazionale, e che grazie ad essa sarebbero stati "sventati almeno tre attacchi"; ma questo non le evita le ironie dei Repubblicani, i quali affermano che il secondo mandato di Obama "e' il quarto mandato di Bush", e le pesanti critiche del New York Times che scrive: "Obama ha perso ogni credibilita'". Il tutto, mentre e' ancora in corso la visita ufficiale del Presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti, durante la quale, manco a farlo apposta, Obama ha "garbatamente" rimproverato il suo ospite per i frequenti "attacchi informatici" operati dai cinesi contro siti governativi e militari americani. Snowden - che nel frattempo, il 9 maggio, e' uscito allo scoperto rivelando la sua vera identita' - non si lascia sfuggire l'occasione per rincarare la dose e affermare, sempre dalle colonne del Guardian, che la Cina e' uno dei bersagli preferiti dello spionaggio cibernetico americano, e che buona parte delle 61.000 operazioni di "hackeraggio" messe in atto dall'intelligence statunitense contro i siti cinesi riguardano obiettivi civili. Facile immaginare, a questo punto, l'imbarazzo del Presidente Obama, colto con le mani nel sacco proprio mentre stava bacchettando quelle del suo omologo cinese, da una parte, e, dall'altra, la soddisfazione di Xi Jinping che ha potuto "guardare dall'alto in basso" chi pretendeva di dargli lezioni di bon ton spionistico-telematico. Intanto il governo americano, se da un lato cerca di limitare i danni di immagine - e, in prospettiva, diplomatici - affermando che, grazie al sistema di intercettazione della NSA, sono stati sventati 50 attentati in 20 Paesi, anche europei (ma non in Italia, come dichiarato dai portavoce dei nostri Servizi), dall'altro passa al contrattacco contro la persona di Snowden, accusandolo di alto tradimento e facendo filtrare la voce di una sua collaborazione con i Servizi di intelligence di Pechino. Snowden naturalmente smentisce ogni addebito, mentre incassa il sostegno del governo dell'Ecuador, che gli offre asilo politico - si ricorda che proprio nell'Ambasciata dell'Ecuador a Londra si e' rifugiato il protagonista dello scandalo "WikiLeaks", Julian Assange, strenuo sostenitore (anche materialmente, avendogli messo a disposizione il suo avvocato) di Edward Snowden. Gli USA, inoltre, chiedono ufficialmente alle autorita' cinesi l'estradizione di Snowden. La Cina, come era prevedibile, respinge la richiesta americana. Il 23 giugno, con la benedizione del governo di Pechino, Snowden, accompagnato da Sarah Harrison, avvocato di WikiLeaks, si imbarca su un volo Aeroflot e, dopo qualche ora, sbarca all'aeroporto Sheremetevo di Mosca. Qui, una macchina dell'Ambasciata ecuadoregna, scortata da due auto dei Servizi russi, preleva sottobordo Snowden, appena sbarcato dall'aereo, per portarlo all'hotel "Capsule", nell'area transiti dell'aeroporto, dove l'Ambasciatore dell'Ecuador formalizza l'offerta di asilo. A questo punto, la reazione di Washington si fa rabbiosa; non solo perché i suoi Servizi di intelligence, che stavano braccando Snowden, sono stati beffati una seconda volta da quest'ultimo (la prima con la "diserzione") - non senza il determinante supporto dei Servizi di Cina e Russia - ma anche, e soprattutto, perché con l'"affare Snowden" gli Stati Uniti devono registrare una preoccupante convergenza di interessi da parte dei due Paesi sopra citati - Paesi con i quali, per motivi diversi (in questa sede non ne entreremo nel merito), soprattutto negli ultimi tempi i rapporti si erano sensibilmente deteriorati (per non parlare del riavvicinamento tra Mosca e Pechino, da sempre diffidenti, per non dire ostili, nei confronti l'una dell'altra - con buona pace del Patto di Shangai, piu' noto come SCO "Shangai Cooperation Organization" del 15 giugno 2001). Tra l'altro, l'"affare Snowden" costringe gli USA a scoprire il fianco su una serie di questioni che tradizionalmente costituivano il loro punto di forza nei contenziosi con questi Paesi: prima tra tutte, la difesa dei diritti umani, con i governi di Mosca e Pechino che possono finalmente presentarsi come difensori di un "povero idealista perseguitato dai cattivi americani", con il relativo corollario del diritto alla privacy, in merito al quale Putin può far passare il suo SORM (il sistema di intercettazione russo, utilizzato soprattutto in funzione anti-dissidenti) come un contraltare dell'americano PRISM, e le autorita' di Pechino, dopo le rivelazioni di Snowden sui milioni di sms cinesi intercettati dalla NSA, possono togliersi la soddisfazione di affermare esplicitamente: "Gli Stati Uniti si fingono vittime, ma sono i piu' grandi fuorilegge dei nostri tempi". A questo va aggiunto che i governi di Russia e Cina hanno approfittato dell'occasione per ricompattare l'opinione pubblica di ciascun Paese intorno ai rispettivi regimi: i popoli russo e cinese accolgono sempre con favore qualunque iniziativa dei rispettivi governi contro gli "storici" nemici americani. Certo, vedere Putin - ex- colonnello del KGB in Germania Orientale durante l'epoca sovietica, e successivamente direttore dell'FSB nella Russia di Boris Eltsin - e il governo cinese - che tuttora mantiene in piena attivita' i famigerati "campi di rieducazione" per i dissidenti - presentarsi come paladini dei diritti umani e' un po' come immaginarsi Jack lo Squartatore spacciarsi per difensore dei diritti delle donne; ma tant'e': in politica e' un fenomeno molto piu' frequente di quanto si immagini, a tutte le latitudini! La richiesta di estradizione avanzata dagli USA presso il governo russo viene accolta con un ironico atteggiamento di sufficienza, così come le furiose minacce, da parte di Washington, ai limiti dell'isteria, di terribili ripercussioni, a seguito di un eventuale rifiuto, sui futuri rapporti tra i due Paesi. La reazione di Putin e' improntata ad un olimpico (e provocatorio) distacco, tipico di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico: "Purtroppo Snowden, essendo passeggero in transito, non si trova ufficialmente sul suolo russo". Ciò che piu' preoccupa le autorita' statunitensi e' che il governo russo possa barattare l'asilo politico a Snowden in cambio di preziose informazioni segrete; preoccupazione piu' che fondata, dal momento che gli agenti dei Servizi russi non lo hanno lasciato un attimo da quando e' sbarcato a Mosca. A questo segue un "balletto" di voci, conferme, smentite di un'imminente partenza di Snowden alla volta di Quito in Ecuador, passando per L'Avana il cui governo, va sottolineato, ha sempre tenuto un profilo bassissimo nel corso dell'intera vicenda, senza mai compromettersi o sbilanciarsi, per non pregiudicare le delicate manovre di riavvicinamento con gli Stati Uniti, che sfociano addirittura in un incidente diplomatico:il 3 luglio infatti al "Falcon" che riporta in patria il Presidente boliviano Evo Morales, dopo la visita a Mosca, viene impedito l'ingresso nello spazio aereo di Francia, Italia, Spagna e Portogallo, per il sospetto che a bordo ci sia Snowden, costringendo il velivolo ad uno scalo d'emergenza a Vienna. Tre categorie di alleati Mentre Mosca indugia, con evidente compiacimento, sull'opportunita' di estradare o meno Snowden, tenendo Washington sui carboni ardenti, l'ex analista della NSA "cala un asso" (uno dei tanti che sembra avere): attraverso il Guardian e il tedesco Der Spiegel fa sapere che la NSA tiene costantemente sotto controllo molte sedi diplomatiche, di Paesi europei e non solo, a Washington e a New York (le Nazioni Unite), intercettandone le comunicazioni ed anche facendo ricorso a dispositivi di intercettazione ambientale, come microfoni nascosti e un dispositivo per leggere le comunicazioni criptate via fax. Sarebbero 38 i "bersagli" delle attenzioni della NSA, tra cui le ambasciate di Italia, Francia e Grecia, oltre agli uffici di rappresentanza dell'Unione Europea, per quanto riguarda l'Europa, e poi Giappone, Messico, India, Turchia, Corea del Sud ecc. Ma non e' tutto! Le intercettazioni delle comunicazioni non riguardano solo le sedi diplomatiche, ma il territorio dei Paesi stessi. Secondo quanto riportato da Der Spiegel, l'intelligence americana ha diviso i Paesi alleati in tre categorie: prima: gli Stati Uniti; seconda: Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, ovvero i Paesi anglosassoni, alleati storici degli USA, e per questo esclusi dalle intercettazioni delle comunicazioni - da sottolineare che questi Paesi costituiscono i cardini dell'oramai famoso sistema globale di intercettazione "Echelon"; terza: tutti gli altri Paesi europei, che possono essere sistematicamente spiati. Tra i Paesi di quest'ultima categoria, spicca la Germania, con una media di 500 milioni di telefonate e comunicazioni via internet intercettate dall'intelligence americana ogni mese in particolare Francoforte, sede della Banca Centrale Europea e della Bundesbank. Segue la Francia, con una media di 60 milioni di intercettazioni al mese. Per quanto riguarda l'Italia, nella seconda decade di dicembre 2012 si e' registrata una media record di 4 milioni di intercettazioni al giorno, con un picco di 8 milioni di telefonate intercettate il 7 gennaio 2013. A questo punto, di fronte all'imbarazzo montante da entrambe le parti - (presunti) "spioni" e (presunti) spiati - si registra un'oscillazione nell'interpretazione dei fatti e nelle relative prese di posizione da parte dei politici, che va dalla cauta dichiarazione di un normale scambio di informazioni tra Servizi "amici" (sul significato che questa parola assume nel mondo dell'intelligence, torneremo piu' avanti) nel settore del terrorismo internazionale in nome della sicurezza preventiva - soprattutto dopo l'11 settembre 2001 - e nel rispetto della privacy dei cittadini europei, alle manifestazioni di (palesemente falsa) indignazione da parte dei portavoce di alcuni governi europei, in particolare francesi ma anche tedeschi, che raggiungono l'apice con le melodrammatiche dichiarazioni del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz: "Sono scioccato…mi sento trattato come un nemico. e' sconvolgente che gli Stati Uniti possano prendere contro il loro alleato piu' stretto, misure compatibili con quelle messe in pratica dal KGB nell'Unione Sovietica ai tempi della "guerra fredda"…Lo chiedo al governo americano: siamo dei nemici?". Sarebbe opportuno ricordare al Presidente Schulz che il primo obiettivo del KGB, durante la "guerra fredda", erano proprio i partiti comunisti dei Paesi dell'Europa occidentale (per non parlare di quelli dei Paesi "satelliti"), non semplicemente alleati, ma "fratelli" (nell'accezione che il termine può avere in politica) in nome della comune adesione all'ideologia marxista. Il tutto, passando attraverso il trait d'union costituito dalle dichiarazioni dei partiti di opposizione, in Germania ma anche in Italia, che paventano l'ipotesi di una "complicita'" dei Servizi europei, e relativi governi, nel "lasciarsi spiare". Ma, una volta iniziata la commedia, gli attori devono continuare a recitare la parte fino in fondo, sia pure controvoglia: alle virulente affermazioni del Presidente Hollande (che approfitta anche di questa occasione per riguadagnare il terreno perduto dalla grandeur francese in ambito internazionale) fanno da contraltare quelle, un po' piu' misurate, di Stefen Seibert, portavoce di Angela Merkel. Il cardine della disputa e' il trattato di libero scambio tra Europa e USA, la cui stipula e' imminente, che rischierebbe di saltare (il condizionale e' d'obbligo) a causa della "perfidia" degli Stati Uniti a fronte della "lealta'" e della "sincerita'" degli europei. Commovente, vero? Dalla "fermezza" di queste prese di posizione si distaccano da una parte il governo britannico, dall'altra quello italiano: - il governo britannico oppone all'intera vicenda un dignitoso e coerente silenzio, in virtu' dell'oramai storica alleanza con l'ex-colonia d'oltre Oceano (gli Stati Uniti); - il governo italiano adotta la oramai consueta "via mediana", evitando prese di posizione nette e sbilanciamenti di ogni sorta, confidando ciecamente nelle risposte "sicuramente soddisfacenti" che gli USA sapranno fornire agli interrogativi degli europei. In questa altalena di dichiarazioni e prese di posizione, il 1° luglio Vladimir Putin può compiacersi nel "girare il coltello nella piaga", oramai sanguinante, di Barak Obama, affermando ironicamente, a seguito della richiesta ufficiale di Snowden di asilo politico alla Russia: "Certo che può restare. Ma solo se promette di non creare piu' problemi ai nostri partner americani". Dichiarazione tanto piu' irritante per l'amministrazione americana, quanto piu' si considera che, dal suo arrivo a Mosca, Snowden e' costantemente sotto l'ala "protettiva" dei Servizi di intelligence russi. Il 12 luglio, Putin rincara la dose dichiarando che "Bisogna salvare quel giovane dalla sicura condanna a morte negli USA"; e' evidente che non gli pare vero di presentarsi come paladino dei rifugiati politici. In questo scenario, Snowden si diverte a "snocciolare", con studiato tempismo, ulteriori dettagli sulle attivita' investigative della NSA a danno delle sedi diplomatiche estere in territorio americano; in particolare, per quanto ci riguarda, il nome in codice dell'Ambasciata italiana presso le Nazioni Unite e' "Cicuta", mentre quello della nostra Ambasciata a Washington e' "Bruneau" o "Hemlock" ("cicuta", in inglese). Intanto la Francia continua a fare la voce grossa minacciando di far naufragare il negoziato sul libero scambio tra USA e UE, ma guardandosi bene dal mettere in pratica la suddetta minaccia, tant'e' che l'8 luglio (data di apertura dei negoziati), ufficialmente dietro pressioni della Germania, la Francia sara' presente: in effetti, far saltare un accordo che, sulla carta, prevede due milioni di nuovi posti di lavoro, solo perché un agente della NSA, a suo dire in preda a scrupoli di coscienza, ha deciso di svelare il "segreto" che gli USA spiano i propri alleati - che, come ben sanno gli addetti ai lavori, e' il "segreto di Pulcinella" - e' una responsabilita' difficile da assumersi - oltre che poco credibile! Col passare del tempo, anche alla luce dell'impossibilita' di trasferire Snowden incolume dalla Russia all'America Latina (dove vari Paesi sono disposti ad accoglierlo), si fa sempre piu' concreta l'ipotesi dell'asilo politico concesso dalla Russia. La reazione della Casa Bianca e' immediata e rabbiosa: Obama minaccia gravissime ripercussioni nei rapporti tra i due Paesi, tra cui il boicottaggio del G-20 dei primi di settembre a San Pietroburgo. Alla fine, "tanto tuonò che piovve!": all'alba del 2 agosto, la Russia concede ufficialmente un asilo politico provvisorio (un anno) a Snowden; quest'ultimo lascia finalmente, dopo 39 giorni, l'area transiti dell'aeroporto Sheremetyevo - ammesso che ci abbia passato anche un solo giorno: e' molto piu' realistico che fin dall'inizio sia stato "custodito" dai Servizi russi in un luogo segreto, probabilmente alla periferia di Mosca - con l'impegno di non uscire dai confini del Paese. Obama, a questo punto, annulla il summit con Putin previsto per la fine di agosto, prima del G-20; ma questo atteggiamento aggressivo e intransigente appare addirittura controproducente se e' vero, come affermano fonti attendibili, che, nel corso di un colloquio telefonico segreto tra i due Presidenti, Putin avrebbe detto a Obama che "La Russia e' stata costretta in un angolo dall'aggressivita' americana, che ha impedito in ogni modo il trasferimento di Snowden in un altro Paese". Al di la' di ogni considerazione, non ci vuole un cremlinologo per sapere che Putin non e' certo uomo da lasciarsi spaventare da chi fa la voce grossa, anche (e, soprattutto, a maggior ragione) se questa viene da Washington. Il Presidente russo ha incassato addirittura il consenso di noti dissidenti e oppositori: a ulteriore conferma che il "vecchio nemico esterno" catalizza sempre il consenso intorno al regime all'interno. Verso la meta' di agosto, Obama cerca di ricucire il rapporto di fiducia con gli americani peraltro, mai seriamente compromesso, almeno in merito allo "scandalo Datagate", che e' stato tale solo per gli europei (gli americani sono molto piu' disposti a rinunciare alla loro privacy, se gli si racconta che e' nell'interesse della sicurezza nazionale) e convoca un vertice con i giganti della Silicon Valley per mettere a punto nuove misure di intercettazione dei dati, all'insegna della "trasparenza". Praticamente, una contraddizione in termini! Nel frattempo, Snowden "spara le ultime cartucce" (almeno quelle attraverso la stampa: dei suoi colloqui con gli agenti dei Servizi russi, che lo hanno preso in consegna dal suo arrivo a Mosca, non e' dato sapere), anche stavolta mirate a compromettere i rapporti tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea. Secondo un documento pubblicato da Der Spiegel, l'UE sarebbe in cima alle "attenzioni" dei Servizi di intelligence americani: in particolare Germania e Francia, seguite a breve distanza da Italia e Spagna. Secondo il documento, i Servizi USA hanno attribuito a ciascun Paese un punteggio da 1 a 5, in ordine decrescente di "interesse": al primo posto ci sono, come e' prevedibile, Paesi come Cina, Russia, Iran, Pakistan, Corea del Nord, Afghanistan. In Europa, Francia e Germania sono a quota 3 (come il Giappone, in Asia); seguono a un punto di distacco Italia e Spagna. Il Vaticano, con un punteggio di 5, sembra non suscitare alcun interesse per l'intelligence USA. I campionati mondiali di atletica leggera a Mosca e, soprattutto, l'aggravarsi del conflitto in Siria, con gli attacchi con aggressivi chimici - la cui paternita' e' ancora da stabilire! hanno finalmente steso un velo di silenzio sullo scandalo Datagate. Per quanto riguarda il recente vertice del G-20 a San Pietroburgo, sappiamo bene come e' andata a finire: la gravita' e l'urgenza della crisi siriana hanno avuto, giustamente, il sopravvento sulle ripicche; ma e' lecito supporre che i toni della vicenda si sarebbero comunque abbassati, nell'interesse di tutte le parti in causa. La vicenda di cui abbiamo tratteggiato sommariamente i contorni appare paradigmatica di alcuni rapporti che intercorrono tra intelligence e politica; una sorta di "caso clinico" da cui emergono problemi e criticita' in questa delicata zona grigia, tra il dire, il non dire e il lasciar intendere: questioni strettamente inerenti al caso in esame, ma che possono dare adito anche a considerazioni di carattere piu' generale. Essendo argomenti che meriterebbero, ciascuno, un'ampia trattazione specifica, anche in questo caso ci si limitera' a definire i caratteri essenziali, riservandosi di entrare eventualmente nel merito in un secondo momento. La spettacolarizzazione di un mondo segreto Partiamo allora da alcuni temi a cui si e' accennato in apertura di questo lavoro. Da alcuni anni a questa parte si assiste ad una progressiva "spettacolarizzazione" del mondo dell'intelligence; tralasciando la tradizionale narrativa di genere spionistico, ci si riferisce in particolar modo al cinema e alla televisione. Non me ne vogliano gli aficionados di questo genere di pellicole; loro non hanno alcuna colpa. Il problema e' che questa esasperata spettacolarizzazione dell'intelligence tende inevitabilmente a catalizzare l'attenzione e l'interesse - non supportati dalle necessarie competenze - dell'opinione pubblica su un mondo che, per sua natura e missione, deve rimanere celato nell'ombra (altro che "tecniche di comunicazione" e "G-men"!). Se a questo si aggiunge anche l'attenzione dei mezzi di comunicazione di massa (stampa, televisione, internet ecc.), sempre a caccia di scoop, "la frittata e' fatta", perché questo può indurre alcuni operatori dei Servizi, per i motivi piu' disparati (dai rancori personali alla sete di denaro e via dicendo) a rivolgersi ai media per utilizzarli come cassa di risonanza per le proprie rivendicazioni, o come veri e propri strumenti di ricatto nei confronti dei Servizi di appartenenza - il tutto, naturalmente, sempre nel nome delle piu' nobili cause. Questo rapporto di reciproco (e "morboso") interesse tra Servizi di intelligence e media può anche rappresentare lo sfondo (ma non la causa) del recente allarme anti-terrorismo del luglio scorso, lanciato dai Servizi USA in merito al pericolo di un imminente attacco terroristico da parte di al-Qaeda contro sedi diplomatiche americane in varie regioni del mondo. Chiunque abbia frequentato gli ambienti dell'intelligence sa bene che, se l'allarme e' vero, l'ultima cosa da fare e' divulgare la notizia, sempre in virtu' di quell'ombra che deve avvolgere le attivita' dei Servizi - oltre che per non creare il panico nella popolazione, che sarebbe gia' un obiettivo conseguito dai terroristi (a meno che l'obiettivo dei Servizi, e dei relativi governi, non sia proprio quello di creare il panico; ma non entriamo nel merito). Per quanto riguarda quest'ultimo allarme - che, come era prevedibile, e' risultato infondato - la vera ragione va probabilmente cercata proprio nelle pieghe dello scandalo Datagate, soprattutto quando le autorita' americane hanno lasciato filtrare la voce che i Servizi avevano ottenuto l'informazione proprio attraverso le tanto vituperate intercettazioni, come a volersi costruire un alibi e una giustificazione dell'operato della NSA di fronte alla protesta montante. Veniamo adesso ad un elemento essenziale emerso nel corso dello scandalo Datagate: l'ipocrita ostentazione di ingenuita' e di innocenza da parte delle autorita' dei Paesi "bersaglio" delle intercettazioni (non di tutti, e con differente intensita'). Gli esponenti dei governi europei e dell'Unione Europea che si sono strappati le vesti gridando allo scandalo - volendo passare come povere vittime di un'imperdonabile macchinazione ordita dagli americani ai loro danni, e invocando il rispetto dei rapporti di "amicizia" tra i loro Paesi (e i relativi Servizi) e gli Stati Uniti - si sono esposti al ludibrio di chiunque abbia un briciolo di dimestichezza con le relazioni internazionali. Se, in politica, il concetto di "amicizia" ha un senso solo come strumento propagandistico e come "norma di linguaggio" da utilizzare nelle dichiarazioni ufficiali di fronte ai giornalisti (anche se poi, negli incontri a porte chiuse, ci si e' sbranati a vicenda), nel mondo dei Servizi di intelligence e' addirittura un controsenso: chiunque sia "spiabile", deve essere spiato (se non lo si fa, e' perché non si e' tecnicamente in grado di farlo). Non esistono "matrimoni d'amore" tra Servizi segreti, ma solo di "interesse", o piu' spesso temporanee "relazioni clandestine", finche' si ritiene che ci siano obiettivi comuni da conseguire, e poi, "nemici come prima". Chi e' amico oggi, non e' detto che lo sia domani; pertanto, informazioni compromettenti raccolte sul suo conto, che al momento possono apparire inutili, in un prossimo futuro potrebbero diventare determinanti e addirittura vitali, in un eventuale capovolgimento di fronte: la storia e la cronaca sono piene di casi simili! A puro titolo di esempio, basti citare l'"incrollabile" amicizia tra Stati Uniti e Israele, che non ha impedito le periodiche espulsioni come "persone non grate" di agenti israeliani che operavano sotto copertura in territorio statunitense. Sussistono seri dubbi sul fatto che gli Stati Uniti si astengano del tutto dal controllare i loro "fraterni amici" anglosassoni, e dubbi ancora maggiori sul fatto che questa "cortesia" sia reciproca, conoscendo l'efficienza e la "disinvoltura" dell'MI 6 britannico. Che cosa muove le “talpe”? Qualche breve considerazione, in conclusione, sul presunto "idealismo" di queste "talpe" come il soldato Manning dello scandalo WikiLeaks e l'analista Snowden del Datagate che periodicamente suscitano imbarazzo nei palazzi del potere e dell'intelligence "a stelle e strisce". Innanzitutto desta qualche perplessita' il "ravvedimento" di un uomo che lavora nell'intelligence, che improvvisamente si rende conto di svolgere un lavoro che e' ai limiti (e qualche volta li supera) della legalita': non lo sapeva prima di arruolarsi? All'indomani della condanna, Manning ha dichiarato di voler cambiare sesso, per poter finalmente esprimere la donna che e' in lui. Naturalmente, il primo pensiero va ad una possibile, ulteriore manovra della difesa, volta a rincarare la dose sul fronte dell'infermita' mentale, puntando questa volta su una non ben definita identita' sessuale; il tutto nell'ottica di un ulteriore sconto di pena. Ma - sempre nel rispetto del "precetto" andreottiano - e' possibile formulare una seconda ipotesi (che, tra l'altro, non esclude la prima): qualche "agenzia governativa" potrebbe aver suggerito (leggasi "imposto") a Manning di inscenare questa crisi di identita' sessuale in modo da perdere ogni attendibilita' agli occhi dell'opinione pubblica; in altri termini, una sorta di "macchina della delegittimazione" della "talpa", che in questo modo viene completamente screditata. La cosa converrebbe a Manning, che in questo modo passerebbe nelle patrie galere solo pochissimo tempo, in cambio della sua totale perdita di credibilita'. Politica contro diritti Le modalita' operative dei Servizi di intelligence non sono e non possono essere le stesse di una qualunque istituzione statale. Non si può valutare un'attivita' eminentemente politica come quella dell'intelligence limitandosi ai parametri del diritto: il diritto ha a che fare con la giustizia; la politica con il potere e, quindi, con la sopravvivenza dello stato, di fronte alla quale qualunque altro valore, sia pure nobilissimo e necessario alla costituzione di una societa' civile, deve passare in secondo piano.