Perdono e Giustizia 1 28.10.2004 GABRIELE MANDEL KHÂN

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Perdono e Giustizia 1 28.10.2004 GABRIELE MANDEL KHÂN
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Perdono e Giustizia
28.10.2004
GABRIELE MANDEL KHÂN
PERDONO E GIUSTIZIA NELL’ÎSLÂM1
PERDONO
Consentitemi una breve promessa. Il verbo dell’Îslâm è contenuto nel Corano e tutto ciò che
non è coranico non è Islâm.
Dice il Corano (5ª68-69): Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la
Thorà e il Vangelo e ciò che è stato rivelato dal Signore [...]. Sì, i musulmani, gli Ebrei, i Sabei, i
Cristiani – chiunque crede in Dio, nell’aldilà, e compie opera buona – nessun timore per loro, e
non verranno afflitti.
Dice il Corano (2ª136): Dì: noi crediamo in Dio, in quel che ci ha rivelato, e in quello che
ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle tribù, in quel che è stato dato a Mosé
e a Gesù, e in quel che è stato dato ai Profeti dal Signore: noi non facciamo differenza alcuna con
nessuno di loro. A Lui noi siamo sottomessi. In definitiva, per l’Islâm l’Ebraismo è la religione della
speranza, il Cristianesimo è la religione dell’amore, e l’Islâm è la religione della fede.
E il Profeta Maometto disse: «O genti, state attente all’estremismo (ossia integralismo) in
fatto di religione, perché popoli del passato sono stati distrutti a causa del loro estremismo»
(Trasmesso da Ahmed e da Nissây). Questo estremismo, in materia di religione è quella esagerata
intransigenza che il Profeta disprezzò esclamando: «Gli estremisti saranno distrutti, gli estremisti
saranno distrutti, gli estremisti saranno distrutti» (trasmesso da Muslim). Ciò ha fatto materia d’un
sermone dello shaykh Abdallâh lo scorso venerdì 20 novembre (1998) nella Moschea di Milano, via
Padova 38, un sermone indicante che «la retta Via è lontana dall’integralismo».
E veniamo ora all’argomento di questo incontro: Perdono e Giustizia. Il Corano insiste
particolarmente sul fatto che il peccato (2ª18; 4ª112; 71ª25) può ottenere la misericordia di Dio.
«Secondo il mio ardente desiderio, dice Abramo, Egli perdonerà i miei peccati nel Giorno del
Giudizio» (26ª82). Dio appunto chiama gli esseri umani, attraverso i Suoi libri e i Suoi profeti, per
poter perdonare loro (14ª10; 46ª31; 71ª4). Dio accetta il pentimento e assolve i peccati; e li perdona
del tutto. Uno dei "Novantanove Nomi di Dio", l’60° è âlTawwâbu: il Perdonatore (Colui che torna
al peccatore); e il 15° è âlGhaffâru (l’Indulgente; ossia il Perdonatore che non cessa di perdonare); e
il 35° âlGhafûru (il Clemente, è il Perdonatore benevolo); e ogni azione del musulmano inizia con
l’invocazione Bismi'Llahi âlRahmàni âlRahìmi: nel Nome di Dio, Colui che è Misericordioso, Colui
che fa misericordia.
Nelle cinque preghiere canoniche, alla prima raka, il fedele si prosterna toccando il suolo
con la fronte (e il naso), e in questa posizione pronuncia per due volte la formula Tawba:
«Signore, sono stato gravemente ingiusto verso me stesso, e nessun altro che Te può
assolvere i miei peccati. Assolvi i miei peccati e fammi misericordia. Tu sei il Perdonatore e il
Misericordioso per eccellenza.»
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Vicario generale per l’Italia della Confraternita sufi Jerrahi-Halveti. Il testo qui riportato riprende e amplia i temi
trattati nella conferenza del 28..10.2004.
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Perdono e Giustizia
Il perdono è un grande dono di Dio, riservato a coloro che pur compiendo dei peccati a
causa della debolezza precipua dell’essere umano, si pentono della mala azione e compiono opere
meritorie. Secondo l’Îslâm, per ottenere il perdono di Dio è necessario che – se il peccato è solo una
infrazione ad una Legge di Dio 1) il peccato non abbia più luogo;
2) il peccatore provi rimorso per la sua azione;
3) abbia la ferma intenzione di non ricaderci più (in accordo con Corano, 3ª129).
Se l’infrazione lede anche altri esseri umani, è necessario un quarto punto:
4) che il male fatto, di qualsiasi specie esso sia, venga riparato.
Il peccato è una violazione (per una causa terrena e quindi effimera, quale la sensualità,
l’interesse egoistico, ecc) d’una legge istituita da Dio, e quindi eterna. Commesso da un essere
finito (l’essere umano nella sua esistenza terrena) ha una gravità infinita, poiché offende Dio, che è
infinito. Ma Dio, nella Sua onniscienza, nella Sua misericordia, nella Sua saggezza e nella Sua
bontà, lo può perdonare. Dice il Corano (6ª12): Dì:« a chi appartiene ciò che è nei cieli e sulla
terra?» Dì: «A Dio». Egli ha prescritto a Se stesso la misericordia.
E dice ancora il Corano (39ª53): Dì: «O miei fedeli! Voi che avete commesso degli eccessi a
vostro proprio detrimento, non disperate della misericordia di Dio. Certo: Dio perdona tutti
peccati, perché Egli è il Clemente, il Misericordioso. (11ª90): Chiedete perdono al Signore, e
tornate pentiti a Lui. (66ª8): Credenti, tornate a Dio pentiti d’un pentimento senza riserve
Un hadîth del Profeta Maometto (trasmesso da Bukharî, Muslim e Nawawî 1°652) dice di
Gesù: «Il suo popolo lo bastonò a sangue, ed egli, asciugandosi il sangue dal volto, disse: “Mio Dio,
perdona loro, perché non sanno”».
E’ vero: l’ignorante è perdonato per la sua ignoranza, ma l’ignoranza è in se stessa
considerata negativa, peccaminosa, nociva, come il Corano stesso ripete più volte. Pertanto la via
maestra per una intesa pacifica FRA LE RELIGIONI DEL MONDO è la conoscenza. «Tutto
conoscere per tutto amare», fu il motto di Rûmî. Non conoscere e non riconoscere i valori dell’altro
è una delle quattro ragioni di vita dell’integralismo, forma diabolica d’odio e di presunzione
indiscriminati.
Il Profeta Maometto disse ancora: «Dio l’Altissimo stende la Sua Mano la notte perché chi
ha commesso misfatti durante il giorno ritorni a Lui pentito; e stende la Sua Mano il giorno perché
ritorni a Lui pentito chi ha compiuto misfatti durante la notte» (trasmesso da Muslim e Nawawî
1°16).
Un’ultima citazione dal Profeta: «Il credente vede i propri peccati come colui che seduto ai
piedi di una montagna, teme che questa gli piombi addosso; l’empio vede i propri peccati come
fossero delle mosche che gli passano davanti al naso» (Bukharì, 80°4,1).
Quindi: Dio perdona il peccatore pentito. Îbn cAbbâs sentenziò: «Nessun peccato è grave
se si implora il perdono di Dio; nessun peccato è veniale se chi lo commette persevera». Il concetto
generale di peccato è per l’Îslâm quello di "disobbedienza" (macsiya) alle leggi divine, tanto che
sovente “disobbedienza” sarà sinonimo di peccato e di colpa. Vi è inoltre un senso di "computo dei
peccati", per cui è peccatore l' essere umano le cui azioni negative sono superiori a quelle positive.
Su una sola cosa tutte le Scuole concordano: Dio è libero di assolvere e di punire; e a
questo proposito è della massima importanza il passo coranico (3°129): «Dio perdona a chi Egli
vuole perdonare» Egli è colui che accoglie volentieri il pentimento. Gran parte delle discussioni
teologiche al proposito verte sul fatto che, poiché Dio possiede già a priori la consapevolezza del
perdono ancor prima che l' essere umano vi giunga, l' opinione espressa dagli esseri umani in questo
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campo è pura illazione. In questo caso né un essere umano può stabilire il gradiente di una colpa, né
presumere di poter intercedere presso Dio per un altro essere umano.
E' fra i più celebri il passo che dice: «Mi abbandono a Colui che perdona, Egli è il
migliore dei perdonatori». A questo proposito il Corano precisa (4°17): «Spetta a Dio accogliere il
pentimento di quelli che fanno il male per ignoranza, e a volte si pentono; ecco: da loro Dio
accoglie il pentimento.» Ancora (39°53): «Non disperate della misericordia di Dio. Sì, Dio perdona
tutti i peccati, perché Lui è il perdonatore, il misericordioso.»
Quindi, sicuro della bontà divina, sicuro dell' assoluzione totale a condizione che si penta,
che ripari per quanto è possibile al male fatto, e compia opere buone, il vero musulmano ben
difficilmente è portato a macerarsi di incessantemente nel "senso di colpa".
Due peccati comunque non otterranno perdono: l’idolatria e il suicidio consapevolmente
voluto.
Il buon musulmano cita il Versetto 10ª162: La mia vita e la mia morte appartengono a Dio.
Il Corano ripete per ben dieci volte E' Dio Colui che dà la vita e la morte. Al proposito si legga lo
hadîth: «Colui che si sarà ucciso con un'arma tagliente, nel fuoco della Gehenna sarà punito con
quella stessa arma (Bukhârî, XIII, 84,1). Colui che si sarà strangolato da se stesso, continuerà a
strangolarsi nell'inferno. Colui che si sarà trafitto, nell'inferno continuerà a trafiggersi (Bukhârî,
XXIII, 84, 3).»
Quindi: voler consapevolmente avanzare l'ora della propria morte è contravvenire in tutto a
un decreto di Dio, e per questo motivo il suicidio consapevole è il secondo grave peccato per
l'Îslâm. Ancor più grave se con il proprio suicidio chi lo compie provoca anche la morte di altre
persone. Peccato che esclude in modo tassativo il colpevole dal Paradiso, a meno che – se non
muore subito – abbia il tempo di pentirsene e chiedere perdono. Solo Dio sa.
GIUSTIZIA
Il Corano, base e fondamento dell'Îslâm, è ad tempo un trattato di teologia e un codice di
Giurisprudenza. Il senso della Giustizia quindi è strettamente connaturato al senso religioso. Cito da
Ziauddin Sardar e Zafar Malik: «Nell'Islâm la Giustizia (`adl) è un valore supremo. Anzi, per alcuni
studiosi musulmani lo scopo principale della rivelazione e il compito principale dei profeti è quello
di stabilire la giustizia sulla terra. Tutta la vita sociale dell’Islâm ruota attorno all’idea di giustizia, e
il credente è tenuto a comportarsi con il suo prossimo secondo giustizia». Consideriamo per inciso
che il Corano diede alla donna veste legale, tutela legale e parità di valori spirituali. Uno dei molti
passi del Corano a questo proposito dice chiaramente (33ª35): «Certo: i musulmani e le musulmane,
i credenti e le credenti, gli oranti e le oranti, gli uomini veritieri e le donne veritiere, i perseveranti
e le perseveranti, quelli e quelle che temono Dio, quelli e quelle che sono temperanti, quelli e quelle
che invocano sovente Dio, a costoro Dio ha riservato perdono e una ricompensa magnifica».
Il comportamento equilibrato e giusto sta nei rapporti con i familiari, con se stessi, con la
comunità, con il mondo che ci ospita e che Dio ha dato in usufrutto al genere umano, a tutto il
genere umano senza discriminazioni di sorta. Per il Corano (sempre se lo si intende correttamente e
non lo si usa artatamente per i propri scopi egoistici) è dovere di ogni musulmano, maschio o
femmina, giungere ad un grado di conoscenza tale per cui sappia vivere secondo giustizia. Molti
gravi disastri e orrende ingiustizie di cui si macchiano alcune comunità umane sono dovuti
massimamente all’ignoranza. Pertanto solo coltivandosi e agendo secondo giustizia il musulmano
obbedisce alla Legge di Dio.
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Perdono e Giustizia
Tra i già citati 99 Nomi-attributi con cui il limitato intelletto umano cerca di afferrar un
riflesso, pur se inadeguato, di Dio, abbiamo âlMuqsitu e âlHakamu.
âlMuqsitu: il Giusto. Nessun altro è perfettamente giusto se non Dio, e solo Dio è la fonte
alla quale tutti gli assetati di giustizia possono abbeverarsi. Solo da Dio possiamo aspettarci vera
equità. âlHakamu: il Giudice. Solo Dio è in grado di conoscere l'infinita serie di circostanze e di
cause; e quindi Dio è il solo giudice portatore di giustizia e di verità integrali.
Si evidenziano così vari campi di "giudizio": giudicare sulla fede compete solo a Dio, e
nessun essere umano può arrogarsi il diritto di definire qualcuno «un fedele buono o cattivo»,
giacché nessuno possiede tutti gli elementi necessari per farlo. Giudicare atti umani relativi alla
comunità è invece un dovere sociale, tenendo debitamente conto del valore etico del giudizio, con
serena umiltà, del tutto liberi da preconcetti e da devianze psichiche Per il Corano, e quindi per
l'Islâm, uno degli esseri più abbietti fra quanti seguono le orme di Satana è il giudice corrotto.
Dice il Corano (4ª58): Certo: Dio vi ordina [...], quando giudicate fra le genti, di giudicare
con equità. Sì, è il meglio cui Dio vi esorta. Certo: Dio è Colui che sente, che vede.
Dice il Corano (16ª90): Dio ordina la Giustizia e il bene [...], proibisce le turpitudini, il
biasimevole, la ribellione. Ecco a che cosa vi esorta. Rammentatevene.
Si evidenzia dunque che l'Islâm, come dice Si Hamza Boubakeur, «è all'un tempo un
dogma (dîn), una Legge (sharî`a), una comunità e una cultura. Intransigente sull'unicità e la
trascendenza di Dio, il dogma si unisce a una Legge positiva che si esprime in un sistema giuridicoteologico completo, coerente [...]. Pertanto i musulmani e le musulmane sono tenuti, sino alla fine
dei tempi, attraverso le generazioni, a raccomandare il bene e l'armonia sulla terra, a respingere il
male e la corruzione. La comunità islamica deve garantire a ciascuno dei suoi membri la libertà, il
rispetto della persona, della famiglia, dei beni, l'eguaglianza ben capita, la pace nella solidarietà
fraterna e una giustizia incondizionata».
Forgiata non su una base etnica, geografica, linguistica o politica, ma su un Libro sacro a
carattere universale, la comunità musulmana, sia a causa delle vicende temporali e della propria
vastità territoriale, sia per l'eterogeneità dei popoli, si è dovuta confrontare spesso con problemi di
natura religiosa, politica, sociale, economica che, sotto la pressione di avvenimenti contingenti,
doveva assolutamente risolvere per sopravvivere. Le soluzioni che diede ai molti problemi non
potevano essere immediate né unanimemente accettate.
Per assicurare la loro validità e prima ancora d'elaborarne la legislazione, fu necessario
anzitutto l'accordo dei responsabili sulle fonti di riferimento e sui metodi di ricerca e di applicazione
d'una legislazione ad un tempo religiosa e civile. Da ciò inevitabilmente differenze di scelta che,
senza mettere in causa il dogma stesso, suscitarono purtuttavia divergenze politico-legislative. Ciò,
tenendo conto che quali fonti di riferimento si intendono il Corano (univocamente comune a tutti), e
per i Sunniti la Sunna del Profeta (ossia gli âhâdit, i "detti del Profeta e dei suoi compagni"), per i
Mâlikiti il costume medinese, e per gli Shi`iti il comportamento degli Â’immâ (plurale di îmâm)
impeccabili.
Inoltre, in difetto delle fonti, dell'analogia, dell'accordo unanime dei dottori, venne fatto
ricorso alla libera opinione personale di persone effettivamente venerabili, sulla base metodologica
dell'effettivo ed onesto interesse generale in grado di non ledere diritto alcuno. L'espressione
formale della Giurisprudenza islamica è costituita da «perfezionamento ('istislâh), preferenza
('istihbâd), e utilità ('istihsân) ».
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Perdono e Giustizia
Ecco allora definirsi - fra ottavo e nono secolo - le quattro grandi scuole di Giurisprudenza,
scuole che abbracciano ancor oggi circa l'ottantacinque per cento del mondo musulmano: la Scuola
hanafita, la Scuola mâlikita, la Scuola Shâfi`ita, e la Scuola hanbalita,
Nel corso dei secoli susseguenti queste Scuole diedero origine a commistioni, revisioni,
rifondazioni varie. Fin dal suo apparire quindi la Giurisprudenza islamica non fu statica; non si
elaborò soltanto nei primi cinque secoli dell'Îslâm, come alcuni storici hanno affermato. La sua
formazione ha avuto un processo di sviluppo continuo, attraverso una moltitudine di scuole minori
o locali e in virtù del principio dello sforzo speculativo (Îjtihâd), che è universalmente ammesso.
Si è evoluta con prudenza ma fermamente, secolo dopo secolo, e continua ad evolvere
ancor oggi. Certo le differenze che mostra da un secolo all'altro o da un paese all'altro sono più
esteriori e apparenti che reali e profonde; se vogliamo studiarne e meditarne i metodi, le norme, i
risultati, ci si avvede che le similitudini delle scuole mostrano una certa unità fondamentale.
Così, grazie agli sforzi dei tradizionalisti ('al âlHadîth), dei giureconsulti (fuqahâ') e dei
teologi filosofi (mutakallimûn) d'Oriente e d'Occidente, si è andata elaborando lungo il corso dei
secoli una legislazione generale (shara`) che riguarda sia la vita religiosa e morale, sia la vita civile
ed economica. E' una Legislazione notevole per la sua ampiezza e la sua originalità, e che per
realizzare la sua unità profonda doveva a priori appoggiarsi su basi sicure e valide per tutta la
comunità islamica, ossia su una base metodologica comune: la scienza delle radici che contempla il
Corano e la Tradizione, cioè quanto di Dio il limite umano riesce a intendere, fermi nella
convinzione che solo Dio è il Giusto, unicamente Dio è l'impeccabile Giudice.
prof dott Gabriele Mandel Khân, vicario generale per l’Italia
della Confraternita sufi Jerrahi-Halveti
FONDAMENTI DEL DIRITTO E DELLA LEGGE espressi dal CORANO. Nel Libro
sacro troviamo esposti, spesso più volte o con abbondanza di indicazioni, i seguenti temi:
* Equità: l'ingiustizia deve essere combattuta (versetti: 4ª135 - 42ª39);
* La Legge in generale e la Legge del taglione in particolare (versetti 2ª178 - 5ª45 42ª40);
* La testimonianza in generale e la prova testimoniale (versetti 5ª107 - 38ª20, 69 56ª6 - 85ª3);
* I giuramenti (versetti 2ª224, 226 - 24ª35 - 65ªtitolo);
* L'unione coniugale: moltissimi versetti, soprattutto nella seconda sura;
*Il Diritto privato. Eredità (versetti 2ª180 - 2ª226-228 - 2ª233 - 4ª34 - 4ª119 - 8ª75
33ª6);
Omicidio e prezzo del sangue (versetti 5ª42 - 17ª33 - 42ª39);
Schiavitù e liberazione degli schiavi (versetti 16ª71 - 24ª33 - 90ª13);
Usura (versetti 2ª275);
* Il Diritto pubblico, istituzioni politiche, diritto sociale.
I casi non previsti dal Corano o dalla Sunna debbono fare l'oggetto d'una
concertazione comunitaria, chiamata "il consenso dei dottori" (versetti 3ª159 - 42ª38);
L'imposta (versetti 2ª431 - 7ª167 - 9ª28 - 9ª29, 34, 74, 76,103);
Il diritto di proprietà non può essere alienato (versetto 9ª34);
Beni a carattere comunitario che sfuggono a appropriazione o diritto privato
(9ª34);
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Censura dei costumi e controllo dei mercati (versetti 3ª110 - 7ª164 - 16ª90);
Diritti dei parenti, viaggiatori, stranieri, vicini (versetti: 4ª36 - 8ª48 - 17ª26 30ª38 - 43ª20.
TERMINI per la Giustizia
`âdl (o `adâla): Giustizia, rettitudine, onestà. Soprattutto la Giustizia distributiva, in tutti gli
aspetti sociale, economico, politico, ambientale, intellettuale, spirituale.
fatwâ (plurale fatâwâ): responso di un giureconsulto in rapporto alla Legge islamica;
sentenza legale emessa da un giurista. Vincola solo colui che la emette e quanti lo seguono o
comunque appartengono alla sua Scuola.
fiqh: la Giurisprudenza; il Diritto religioso; la cultura.
`ibâra: interpretazione; espressione annunciata.
'ijmâ: il consenso dei dottori, o più latamente il consenso della Comunità islamica di cui
essi sono i rappresentanti. In politica potrebbe essere il voto.
'ijtihâd: lo sforzo per raggiungere la comprensione formandosi così una opinione. Principio
fondamentale per adeguarsi ai mutamenti. 'ijtihâd `aqli: sforzo speculativo.
'istihsân (dal radicale h-s-n): preferenza personale nel metodo giuridico; far prevalere una
norma dettata da considerazioni dell'utilità pratica e di equità, su una norma dettata dall'analogia.
Utilitarismo.
îstislâh (dal radicale s-l-h): l'interesse della collettività. La correzione della Legge per
utilità pubblica, in particolare quando il passo relativo del Corano appare oscuro.
qiyâs: ragionamento per analogia.
ra'y (plurale ârâ'): parere, opinione, idea, opinione personale. Il parere secondo il proprio
giudizio e non tratto dal Corano o dalla Sunna.
sunna (plurale sunan): costume, uso, tradizione, precetto, norma, regola, opera meritoria,
preghiera volontaria, legge. La Sunna: il comportamento del Profeta.