Il Che Guevara - 21/01/2013 (www.miogiornale.com)

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Il Che Guevara - 21/01/2013 (www.miogiornale.com)
Il Che Guevara
controlacrisi.org
di 21 gennaio 2013 - 21/01/2013
miogiornale.com
Cent’anni fa, il futuro
20/01/2013 di Sandro Medici (il manifesto)
I trasporti, la scuola, i diritti sociali: un secolo fa, gli stessi problemi
Di anni ne sono trascorsi ben cento. E cento sono proprio tanti. In politica, è un’era: da un inizio secolo all’altro.
Eppure ad ascoltare gli interventi, le suggestioni, le argomentazioni, perfino le ricostruzioni storiche, che ieri
mattina si sono snodati nella Casa dell’Architettura a Roma sembrava proprio di parlare del presente, di come
questa città continui a rappresentare un problema capitale e di come sia possibile (e giusto) governarla meglio,
aiutarla a liberarsi dai suoi cronici mali. Passione politica e tensione culturale sono stati i principali ingredienti
che hanno animato il convegno “Ernesto Nathan 1913-2013, la storia e il futuro di Roma”. Un’iniziativa nata
dall’intuizione di un gruppo di intellettuali, spinti dal desiderio di riproporre l’esperienza di un grande e anomalo
sindaco nell’imminenza della nuova stagione politica che si avvierà in primavera a Roma, sulle macerie
dell’amministrazione della destra di Alemanno. Maria Immacolata Macioti ed Enrico Pugliese, Pierluigi Sullo e
Vincenzo Naso, Antonello Sotgia e Roberto Musacchio, Vezio De Lucia e Anna Pizzo, Rossella Marchini e Roberto
Magi, con il contributo di altri e altre, hanno voluto insomma rileggere un passato straordinariamente
stimolante per sollecitare una riflessione che dovrebbe tratteggiare una prospettiva futura. Cercando di
scuotere una discussione cittadina, in verità piuttosto modesta, se non direttamente manchevole e reticente.
«Su Ernesto Nathan c’è stata una sistematica e colpevole rimozione», ha spiegato Valentino Parlato.
Un sindaco ebreo, massone e molto mazziniano è stato imprigionato in una parentesi della storia, in una sorta
di incidente eretico lungo una traiettoria costantemente connotata dalla subalternità alla rendita e dalla
subordinazione al comando vaticano (più temporale che spirituale). Certo, con l’eccezione delle giunte rosse
tra gli anni settanta e ottanta, con i sindaci Argan, Petroselli e Vetere, con la travolgenti attività
dell’indimenticato Renato Nicolini: unica esperienza lungo quest’ultimo secolo che a più riprese ha saputo
contrastare ed erodere il sistema di potere capitolino.
Parlare di Nathan oggi, ha osservato Alessandro Portelli, è la dimostrazione di come la memoria storica si
trasformi in battaglia politica, in conflitto sociale. C’è da impallidire dalla vergogna (come ha rilevato Clotilde
Pontecorvo), se si paragona il programma di estensione del sistema scolastico comunale sviluppato da Nathan
all’attacco alla scuola pubblica che negli ultimi tempi sta devastando il paese. Si resta allibiti di fronte
all’intelligenza delle politiche urbanistiche di cent’anni fa, oggi che Roma è praticamente ostaggio di
immobiliaristi e finanzieri, potentati politici e faccendieri d’ogni categoria. Le lungimiranti riforme sui servizi
cittadini strategici per l’acqua, l’energia, i trasporti, ecc., attraverso la costituzione di aziende municipali, è
desolatamente stridente con le scelte di alienazione e privatizzazione delle grandi società comunali, Acea in
testa.
Ed è forse proprio qui, in questa profonda differenza tra quanto avviato allora e quanto oggi deteriorato, il
principale contrasto politico che si dovrà agire in vista della prossima battaglia elettorale per il Campidoglio. A
Roma non si deve più edificare nulla, niente di niente («Bisogna tracciare una linea rossa invalicabile», ha
affermato Vezio De Lucia): la città è finita , ha raggiunto il suo limite di sostenibilità. Le risorse pubbliche, il
patrimonio pubblico, le stesse aziende comunali appartengono alla città e a essa vanno restituite, non possono
essere vendute per compensare i tagli assassini imposti da governi nazionali e continentali. Basta con le grandi
opere e si avvii un’estesa rigenerazione dei tessuti urbani, un recupero dell’edilizia vuota e abbandonata, che è
una vera e propria riserva, indispensabile per corrispondere ai molteplici bisogni sociali e culturali.
Nathan fu insomma il sindaco che introdusse a Roma la modernità, una modernità laica e democratica,
quand’ancora l’eco delle spingarde a Porta Pia non s’era del tutto assopita. Una modernità che viaggiava con i
primi embrioni di welfare («Per la prima volta si parlava di diritti sociali», ha spiegato Catia Papa), con i primi
correttivi di democrazia diretta attraverso i referendum, con i primi progetti di gestione e razionalizzazione del
trasporto pubblico («Arrivarono i tram, magari ce ne fossero oggi», ha evocato Enzo Naso). Una modernità che
forse oggi potrebbe tradursi in bisogno di contemporaneità («O di complessità», come ha chiosato Lorenzo
Romito). Un impulso alla trasformazione radicale del sistema-città: non più centrifugo, espansivo e
consumistico, ma invece centripeto, rivolto al recupero e al riuso; non più giganteggiante e scioccamente
competitivo con altre città, votato alla rincorsa a chi realizza il grattacielo più lungo, ma al contrario introflesso
e teso al lavoro di cura di morfologie e territori, al rilancio di economie tenui e redistributive nella cultura, nei
servizi sociali, nell’agricoltura. Insomma, per Roma non sarebbe male costruirsi un futuro di cent’anni fa.
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Elezioni, ecco la 'prima linea' dei supereroi candidati di Rivoluzione Civile
19/01/2013 di fabio sebastiani
Antonio Ingroia li chiama “la nostra prima linea”. E il risultato è che più di qualcuno di loro di fronte al fuoco di
fila dei flash dei fotografi ha come l’istinto di coprirsi una parte del volto con la mano. Vengono dalla società
civile gli undici candidati alle prossime elezioni politiche che Rivoluzione civile ha presentato questa mattina a
Roma, a due passi da Montecitorio (Hotel Nazionale).
Se c’è davvero una ‘prima linea’, per loro è stata quella dei drammi sociali e della violenza criminale. E’ così
per Franco La Torre, figlio di Pio, trucidato dalla mafia. E’ così per Garbriella Stramaccioni, presidente di Libera,
candidata in Calabria. E’ così per Sandro Ruotolo, per Flavio Lotti, Stefano Leoni (Wwf) e Vladimiro Giacché,
economista. E ancora, per Ilaria Cucchi, costretta a vivere sulla sua pelle quella che chiama la violenza del
potere giudiziario e poliziesco “quando è dalla parte del torto”; per Sandra Amurri, giornalista, una vita ad
indagare i segreti della mafia, e non solo. Ed anche per due personaggi che con la loro professione non sono
stati esattamente dalla parte dei deboli: Claudio Giardullo, sindacalista del sindacato di polizia (Silp), e Leo
Beneduci, che ha fatto lo stesso mestiere tra gli agenti della polizia penitenziaria.
Uno ad uno fanno le loro “dichiarazioni di voto”. Cinque minuti a testa per dire su quali temi si impegneranno
e quale stile di lavoro adotteranno. Impegno che Stramaccioni sintetizza con “costruire la giustizia sociale”.
E la prima pietra ce la mette lei stessa devolvendo la parte del suo futuro stipendio da parlamentare
superiore a 1.500 euro alle cause della società civile. Per Lotti, instancabile organizzatore della Perugia-Assisi,
la vera bomba da disinnescare non è quella dell'islam in Mali ma la “Bomba E”. Dove “E” sta per ‘Economia
finanziaria’. Cucchi punta dritto al Reato di tortura, all’Amnistia e a maggiori garanzie per chi è costretto a
subire la violenza delle istituzioni totali. C’è poi la lotta degli operatori in uniforme, e l’impegno di Beneduci
ad impiegare i 500 milioni stanziati per costruire nuove carceri nel portare più lavoro nelle case di reclusione.
Sandro Ruotolo, invece, pretende una “politica alta” e Franco La Torre di “ridare fiducia ai cittadini”; perché,
dice, il rischio è che stavolta vinca il partito del non voto. Il tema dell’Ambiente, e del disastro dell’attuale
modello di sviluppo, è affidato a Stefano Leoni, che si è fatto le ossa seguendo il risanamento della Val Bormida,
dove l’Acna portò la morte biologica. Leoni ha anche fatto due calcoli sulla Tav. E sapete cosa ha scoperto? Ha
scoperto che il costo non è di 6 miliardi come dichiara, falsamente, il presidente del Consiglio Mario Monti, ma
di trenta. Il calcolo è semplice: se la Francia, come hanno dichiarato i giudici contabili, spenderà 27 miliardi per
coprire il 47% del percorso, l’Italia che dovrà fare il resto non potrà certo cavarsela con meno risorse.
Alla conferenza stampa è intervenuto anche Giovanni Favia. Per lui non c’è stato bisogno di presentazioni. “La
mi storia è ampiamente nota”, dice. Una immagine efficace la trova però: “I politici? Dipendenti ‘a progetto’
dei cittadini”. Un bel modo per chiudere con un passato di ‘antipolitica populista’.
#Elezioni, Vendola apre a Monti e Ingroia chiude al Pd, adesso è tutto chiaro a
#sinistra
19/01/2013 (paoloferrero.it)
Le dichiarazioni odierne di Vendola ed Ingroia chiariscono perfettamente i rapporti a sinistra. Vendola apre a
Monti chiarendo così che il prossimo governo sarà un Bersani-Monti che proseguirà le politiche di austerità che
stanno aggravando la crisi e impoverendo l’Italia. Ingroia chiude al PD chiarendo che Rivoluzione Civile è e sarà
contraria alle politiche neoliberiste. Mi pare che gli elettori e le elettrici di sinistra abbiano adesso un quadro
chiaro su cui poter scegliere: da un lato la prosecuzione delle politiche di Monti, dall’altra il rovesciamento di
quelle stesse sciagurate politiche. [Paolo Ferrero]
«La patrimoniale è indispensabile»
19/01/2013 (RASSEGNA.IT)
“Noi pensiamo che sia indispensabile fare la patrimoniale in questo Paese. Non ci raccontino che c’è già”. È
quanto ha affermato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, intervenendo a un’iniziativa sindacale
a Bari. In mattinata il segretario del Pd Pierluigi Bersani ha invece escluso l’ipotesi di una patrimoniale, qualora
vincesse le elezioni. Per la Cgil, invece, si tratta di un intervento necessario, che la confederazione chiede da
tempo. “Oggi – ha spiegato Camusso, ripresa dalle agenzie di stampa Ansa e Adnkronos – c’è una straordinaria
diseguaglianza tra chi paga regolarmente le tasse sul suo reddito e sulla casa e chi invece non paga sulla multi
proprietà immobiliare e sulle rendite”.
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“Ed è su questo – ha continuato Camusso – che bisogna ricongiungere la forbice applicando la regola
fondamentale, prevista dalla costituzione, che la tassazione è progressiva sul reddito delle persone”. Secondo
il leader Cgil “ci vuole una patrimoniale e ci vuole un riordino finanziario, e sarebbe ingiusto che ci fosse solo
la patrimoniale su chi denuncia le sue ricchezze e il ‘salvi tutti’ dei tanti che non denunciano i propri redditi
e le proprietà. Ci vuole una patrimoniale e contemporaneamente una lotta all’evasione fiscale che guardi
anche al mondo del lavoro sommerso”. L’Imu, per Camusso, è “una quota della tassazione dei patrimoni,
ma non sufficiente a ricostruire un punto di equilibrio sulla progressività fiscale e sulla giustizia fiscale che è
necessaria”.
Bersani in mattinata, intervistato da Radio24, ha assicurato: “Non voglio fare Robespierre o Saint-Just: niente
patrimoniale ma solo la tracciabilità fiscale”. “L’ho detto in tutte le lingue: non credo nella patrimoniale. Noi
abbiamo una patrimoniale sugli immobili, si chiama Imu. Intendo, come primo approccio a questa patrimoniale
sugli immobili, che ci sia maggiore progressività”. A dirlo è il segretario del Pd Pierluigi Bersani ospite di
Radio24. “Per la restante parte dei patrimoni, quelli finanziari – ha aggiunto -, non intendo affatto concepire
una patrimoniale perché penso che il nostro problema sia la tracciabilità. Questo penso. L’operazione è di
tracciabilità verso una Maastricht di fedeltà fiscale, senza fare il Robespierre”.
“La previsione del governo è un po’ ottimistica ma non credo sia saggio continuare a procedere sul Pil con
nuove manovre. Non facciamo promesse a vanvera ma procederemo in forme da tali da non deprimere
l’economia”. Ha detto torna sulla possibilità di una manovra correttiva in primavera. “Dalle cose che ho detto
nessuno può arguire che serva una manovra correttiva. Dico no a ragionamenti raffazzonati su un tema
delicatissimo. Non ho detto che serve una manovra ma attenti a raccontare che siamo a posto. Siamo usciti
dal precipizio ma ci sono ancora una serie di problemi”.
Sulle tasse, “Berlusconi parla di tagli subito alle tasse, ma con lui la pressione fiscale è aumentata 4 punti e ora
è pesantissima. Il problema fiscale c’è e bisogna supportare le imprese, la quota lavoro sull’Irap va ridotta e
stabilizzata”. Netta la posizione sul condono: “Mai più”, dice alzando il tono quando risponde a un ascoltatore
e gli spiega che un eventuale governo di centrosinistra non farà condoni. “Noi lavoriamo per la fedeltà fiscale
in modo che ogni euro che ricaviamo lo mettiamo a ridurre le tasse per chi le paga. Se non cominciamo mai
non ne usciamo mai”.
“E’ bene far pagare le tasse a chi non le paga piuttosto che mettere nuovi tributi. Sulla patrimoniale il mio
giudizio è chiaro: serve soltanto se i proventi venissero sicuramente e con certezza reinvestiti per la riduzione
delle tasse”. E’ quanto afferma, invece, il segretario generale della Uil Luigi Angeletti.
La rotta d'Italia. Una discussione sui contenuti della politica
19/01/2013 di SBILANCIAMOCI. INFO (il manifesto)
Sapete tutto ormai sulle liste elettorali? Vi siete stufati delle polemiche su esclusi e ammessi, liste personali e
schieramenti, presenze e assenze televisive, alleanze e desistenze? Pensate che siano importanti i contenuti
della politica? Allora potete leggere su www.sbilanciamoci.info la discussione su "La rotta d'Italia". L'articolo
di apertura, "Vincere per cambiare" spiega perché le elezioni sono decisive per far cambiare rotta al paese
e perché al centro devono esserci le politiche che potrà realizzare il prossimo governo, per chiudere con gli
anni di Berlusconi e Monti. Il contesto europeo è analizzato da Claudio Gnesutta nell'articolo «L'Italia nella
rotta d'Europa» che presenta le prospettive di scontro con Berlino e Bruxelles e gli spazi di manovra per fare
politiche espansive e mettere limiti alla finanza. L'agenda italiana è in «Le cose da fare nei primi cento giorni»:
meno armi più scuole, dai soldi sporchi lavori verdi, un fisco contro le disuguaglianze, il lavoro da tutelare. E
una da fare prima: cittadinanza per chi nasce da noi. E il modo in cui la politica può iniziare a fare tutto questo
lo spiega Guglielmo Ragozzino in «La politica come professione. Onesta»: contro l'idea che la politica sia una
serie di compromessi accettati per arricchirsi in fretta occorrono regole sicure, parole chiare, azioni trasparenti
e un rapporto stretto con la società.
I contributi finora pubblicati affrontano diversi problemi di come far «cambiare rotta» al paese. Il quadro
europeo è esaminato nell'articolo di Francesco Bogliacino «Egemonia al centro, declino in periferia». Felice
Roberto Pizzuti fa una critica dell'agenda Monti nel suo «Cambiare l'agenda, scegliere le priorità». Il che fare
sulle banche è affrontato da Andrea Baranes in «Capitali spariti, banche da cambiare» che spiega perché il
credito non c'è, i paradisi fiscali restano e le entrate Imu finiscono nel salvataggio di Monte Paschi.
La qualità dello sviluppo deve cambiare, lo spiegano gli articoli di Gianni Silvestrini e Sergio Andreis. Il primo,
in «Un Pil al verde» spiega che per uscire dalla crisi servono politiche industriali verdi e un riorientamento
dello sviluppo dell'economia in tutti i settori. Il secondo, in «Altre energie per cambiare clima» affronta
la strategia energetica nazionale, l'occasione per ribaltare un'impostazione basata sul petrolio e legare le
politiche energetiche a quelle per il clima.
Le tasse sulla casa sono al centro delle polemiche della campagna elettorale, un ritornello - spiega Roberta
Carlini in «La casa al centro, i giovani al margine» - che oscura le vere emergenze del momento, che sono
i giovani senza casa. E poi c'è il lavoro, come ricorda Francesco Garibaldo in «Recuperare imprese, creare
lavoro»: ogni manovra economica deve darsi l'obiettivo dell'occupazione, e per farlo, non bastano le (pur
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necessarie) politiche espansive, e un mercato che selezioni le imprese: occorre recuperare il grosso delle forze
manifatturiere del paese. I contributi alla discussione continuano, uno al giorno fino alle elezioni.
Si può leggere tutto - e diffondere in rete - su www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/La-rotta-d-Italia-16276 .
Infine, una notizia: le 50 organizzazioni della campagna Sbilanciamoci!, a seguito delle dimissioni del portavoce
Giulio Marcon, candidato indipendente nelle liste di Sel alle elezioni - hanno nominato i nuovi portavoce:
Andrea Baranes, presidente della Fondazione culturale responsabilità etica e Grazia Naletto, presidente di
Lunaria
Groucho Marx scrive ad Ingroia: facciamo divenire illegale il copy right?
18/01/2013
Dopo le polemiche sollevate sulla stampa per la campagna informale a favore di Ingroia che si è
sviluppata in rete, Groucho Marx scrive ad Ingroia dalla pagina di Anche noi votiamo rivoluzione
civile e gli chiede di aprire una discussione sul copy right e diritto di atutore.
Caro Ingroia,
chi le scrive è un personaggio d'autore, nel senso che il mio trapasso ha consegnato alla storia il mio
personaggio e cancellato il mio vero nome. In poche parole io non esisto più ma esiste il personaggio che ho
creato qualche tempo addietro. Questo è ancora più vero in questo paese.
In Italia mi conoscono grazie al fatto che un autore che io stimo, mi ha “copiato ed incollato” dai film in bianco
e nero per inserirmi in un fumetto. Mi sono ritrovato così, a condividere con un personaggio in giacca nera e
camicia rossa un sacco di avventure contro morti viventi, demoni e tante altre creature che sono degli agnellini
se penso ai mafiosi che lei ha combattuto ed ai politicanti che ammorbano le istituzioni di questi paese. Per
me è stato come rinascere. Ero rimasto ad ammuffire in vecchi film che nessuno guardava più, e mi sono
ritrovato in una esperienza fantastica in cui abbiamo riadattato tantissime pellicole, e toccato temi sociali
importantissimi parlando con milioni di giovani. Nessuno mi ha chiesto – sarebbe stato complicato vista la mia
dipartita – il permesso per inserirmi in quel fumetto, ma queste sono cose che capitano, e penso che sia un
bene. Io penso infatti che vada data a tutti la possibilità di far circolare le idee al di fuori del meccanismo del
profitto, altrimenti non sarei un comico marxista e vorrei ragionare con lei, partendo proprio dalla vicenda che
ha visto un paio di burloni comunisti prendersi gioco dell'intero sistema mass mediatico italiano per aprire una
discussione sul tema del copy rght e del diritto di autore.
Un caro saluto
Groucho Marx.
P.S. Dott. ingroia lei lo sa che il matrimonio è la causa principale del divorzio?
"Meglio un magistrato candidato premier che un Parlamento pieno di corrotti".
Intervista a Gabriella Stramaccioni
18/01/2013 di fabio sebastiani
Flavio Lotti nell’intervista a ‘Controlacrisi’ ha parlato di una società civile che non può non partire
da un profondo senso di responsabilità nel rapporto con le istituzioni e con la politica.
Condivido la riflessione di Flavio Lotti sul concetto di responsabilità, anche perché fa parte di un percorso
condiviso insieme. La società civile deve compiere un passo in avanti però stando con i piedi per terra. Che
significa anche tenere in considerazione il funzionamento della democrazia in questo paese. I partiti sono
previsti dalla Costituzione della Repubblica italiana come unico strumento per poter legiferare e stare in
parlamento. Partendo da questa constatazione, che sembra ovvia ma va ripetuta bisogna cercare una via che
tenga conto di tutte le istanze. E’ sbagliato pensare a una società civile buona e a una politica cattiva. Abbiamo
conosciuto tanti amministratori per bene e tanta società civile che di fatto ha lavorato male. Cosa significa
società civile, non avere la tessera di un partito? No, non credo. Società civile vuol dire essere organizzati
per il bene comune. A questo patrimonio e a questi percorsi che ha permesso di difendere i diritti facciamo
riferimento.
Questi ultimissimi mesi sono stati difficili nel costruire un rapporto tra società civile e politica…
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Sappiamo che c’è un cammino difficile da fare. Libera ha vent’anni di percorso. Così come con l’esperienza di
'Cambiare si può' abbiamo rimesso in moto una pratica concreta e costruito un luogo in cui si sono incontrate
forze ed esperienze prima distanti. Certo, abbiamo bisogno di maggiori tempi di sedimentazione. Comunque si
tratta di una esperienza bella. E’ evidente che Rivoluzione civile è lo strumento che ci siamo dati, stante questa
condizione, per poter organizzare un soggetto che possa rientrare in Parlamento. Cioè, istanze che altrimenti
sarebbero rimaste fuori come un pezzo di cultura di sinistra che è stata espropriata di questa possibilità.
Aver personalizzato un lista in che misura può aiutare questo percorso?
Parto da un presupposto, dal punto di vista della società civile impegnata aver candidato Ingroia vuol dire
implicitamente aver dichiarato fallimento, cioè che da soli non siamo riusciti a produrre altro. Detto questo,
sono più preoccupata dalle persone corrotte che non da un magistrato che scende in politica. Nella mia
esperienza ho sempre cercato di far politica. Gli apolitici non esistono tra chi si impegna nella società. Del
resto abbiamo fatto Libera per incidere in termini politici nella società. E oggi siamo all’unica lista che non ha
indagati nelle proprie fila.
E’ stata difficile questa fase di formazione delle liste? Come l’hai vissuta?
Così come la seconda fila dei candidati al Parlamento, parliamo di esperienze che vengono dalla società e dai
movimenti. I militanti dei partiti non sono persone che vivono su marte e sono staccate dalla società reale.
Fanno le lotte e stanno raccogliendo le firme nei banchetti. Ho trovato molta più gente nei partiti disposta
a dare il proprio contributo anche sostanziale sapendo di non essere eletto che non dalla società cosiddetta
civile. Certo quella della formazione delle liste è stata una fase difficile. Si sapeva dall’inizio che sarebbe stata
una scelta complicata. Eleggeremo dai dieci ai diciassette candidati. Ingoria ha preteso l'inserimento di chi ha
fatto percorsi nelle lotte sociali. Stante i temi e le modalità organizzative si è cercato di fare il massimo con
pochissimi giorni a disposizione.
Tu ti sei candidata in Calabria, una scelta coraggiosa e difficile…
C’era un problema aperto in Calabria e ho scelto di lasciare i collegi più sicuri. Vado come numero due in
Calabria perché credo a certe esperienze radicate nel territorio . Molti politici sono scappati da quella terra, ma
quella terra non va lasciata sola.. In Calabria c’è un alto tasso di mafiosità ma quel tasso è alto perché ormai c’è
un meccanismo corrotto che ha sostituito il diritto con il favore. Se la politica continua a rappresentare interessi
di parte continuerà ad essere un sistema tribale. Ora però noi dobbiamo sostenere quelle tante energie che
questa terra non l’hanno lasciata. A Reggio Calabria sta nascendo un movimento contro il pizzo. Libera conta
già sessanta commercianti. Il cambiamento è possibile e bisogna dare una mano.
Non credi che ci sia il rischio di dar vita a una forza politica panzgiustizialista?
Una cosa che ho imparato è che se lo Stato funziona garantisce democrazia e giustizia. Noi abbiamo conosciuto
un Stato infedele a questo principio. Una giustizia forte con i forti è il primo presupposto. La cosa che mi ha
convinto di Ingroia è che è uno dei pochi magistrati che ha deciso di portare a processo lo Stato infedele. E noi
sappiamo quanto sia importante uno Stato che riprenda la capacità di difendere i cittadini. Non è giustizialismo
ma una aspirazione a una giustizi vera e giusta.
Dario Fo: "Ingroia mi piace molto"
18/01/2013
"Se voto Grillo? Non so, al momento Ingroia mi piace molto: ora mi sento piu' vicino a lui". A dichiararlo è il
premio Nobel Dario Fo, al programma di Radio2 "Un Giorno da Pecora", condotto da Claudio Sabelli Fioretti e
Giorgio Lauro.
Una scia di sangue dal Mali fino all' Algeria
19/01/2013 di Anna Maria Merlo (il manifesto)
Nuovo attacco algerino a In Amenas: liberati 650 ostaggi, ma ci sarebbero 40 morti, 30 ostaggi e 11 jihadisti.
In nord-Mali violenti combattimenti a Konna e Diabali
PARIGI. L'intervento dell'esercito algerino sul sito di estrazione di gas di In Amenas è continuato ancora per
tutta la giornata di ieri. In serata, la situazione restava confusa: secondo fonti algerine, sarebbero stati liberati
650 ostaggi, tra cui 100 stranieri, ma una trentina sarebbero dispersi e 7 ancora nelle mani dei rapitori (3
belgi, un americano, un britannico e 2 giapponesi). Algeri, che comunica con il contagocce, aveva fatto sapere
nel pomeriggio che 18 rapitori e 12 ostaggi erano stati uccisi. Secondo la Reuters, ci sarebbero stati una
quarantina di morti nell'assalto, 30 ostaggi e 11 islamisti, tra cui il capo del commando, Tahar Ben Chened e
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un salafita francese. A fine mattinata, il primo ministro francese, Jean-Marc Ayrault, aveva soltanto confermato
che «vari ostaggi» erano morti nell'azione algerina, ma non aveva dato né il numero né la nazionalità.
Secondo un islamista arrestato ieri dagli algerini, il gruppo degli assalitori sarebbe stato composto da 32
persone e ancora in serata tra i 7 e 10 rapitori erano ancora asserragliati nel sito gestito dalla Bp. Il sito è
immenso, vivevano qui 2mila persone. L'assalto dell'esercito algerino ha sgombrato la zona residenziale, ma
nella parte industriale l'intervento si è rivelato molto più complesso e lungo. Secondo il primo ministro dell'Eire,
l'ostaggio irlandese liberato giovedì ha raccontato che alcuni sono stati obbligati a indossare delle cinture
esplosive e che i rapitori cercavano gli stranieri. Per timore che i terroristi facciano esplodere il sito, come
hanno minacciato, tutti gli impianti sono stati fermati ieri.
C'è stato un tentativo di trattativa. I rapitori avrebbero chiesto uno scambio tra ostaggi e due prigionieri
islamisti in carcere negli Usa, la pakistana Aafia Siddiqui e l'egiziano Omar Abdel Rahman. Ma gli Usa hanno
rifiutato: «Non negoziamo con i terroristi». Il segretario alla difesa Usa, Panetta, ha affermato che «i terroristi
devono sapere che non troveranno nessun rifugio né in Algeria, né nell'Africa del nord né da nessuna parte».
La condanna del terrorismo è unanime nella comunità internazionale, ma sulla scelta dell'Algeria di investire
il sito, che si è tradotta in un bagno di sangue, le critiche sono cresciute ancora ieri. Algeri è criticata per
aver deciso da sola di intervenire, senza informare nessuno. I contatti con l'estero sono tenuti ad Algeri dal
primo ministro, Abdelmalek Sellal, e non dal presidente Bouteflika. Il ministro degli esteri, Mourad Medelci, ha
ricevuto ieri gli ambasciatori di Usa, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Austria, Norvegia, Canada e Unione
europea, le nazionalità degli ostaggi. David Cameron ha parlato al telefono con Barak Obama e ha rivelato di
aver proposto ad Algeri dei negoziatori per risolvere la crisi in modo non violento. Ma l'Algeria ha poi scelto
di agire senza interpellare nessuno: il potere attuale ad Algeri fonda la propria legittimità proprio sulla lotta
al terrorismo degli anni '90 e ora si considera sfidato dalla spettacolare azione a In Amenans, nella zona
dell'estrazione del gas e del petrolio, che dovrebbe essere la più sicura del paese.
La Francia è stata la meno critica. Parigi ha bisogno dell'Algeria per l'operazione Serval in Mali. Ieri, gli islamisti
sono stati respinti da Konna, mentre militari francesi e maliani combattevano ancora a Diabali, dove i ribelli
si soo confusi con la popolazione. Per Ayrault, il «primo obiettivo» dell'intervento è stato raggiunto: impedire
la caduta di Bamako nelle mani dei narco-terroristi. Adesso bisogna riconquistare il nord e permettere al Mali
di ricostruire lo stato. La forza africana, poco per volta, prende corpo: la Misma (Missione di sostegno al
Mali) potrebbe superare i 3300 militari. La Nigeria invia 1200 uomini (più dei 900 previsti). I soldati del Ciad
sono già sul posto. Burundi, Togo, Niger, Burkina, Senegal, Costa d'Avorio e Benin dovrebbero seguire. Ma
ci vorranno ancora settimane prima che la forza africana sia pronta ad intervenire. A Washington, è venuta
alla luce una certa irritazione nei confronti della precipitazione dei francesi, accusati di non aver informato
gli alleati. Anche il Qatar ha definito «precipitoso» l'intervento francese. Angela Merkel, sollecitata, accoglierà
mercoledì prossimo il presidente del Benin, Thomas Boni Yayi, che è anche alla testa dell'Unione africana.
In Francia l'unanimità comincia a mostrare sempre più crepe. Ieri, Marine Le Pen ha accusato Ps e Ump di
aver favorito il terrorismo con l'intervento in Libia. L'ex primo ministro, Dominique de Villepin, ha invitato a
«cambiare strategia», a «non entrare in una logica di guerra contro il terrorismo, perché questo dà uno statuto
ai terroristi» e ha invitato a restare «nello stretto quadro delle risoluzioni Onu». La Francia, intanto, comincia a
fare i conti: l'operazione in Mali dovrebbe costare 400mila euro al giorno. Il 29 gennaio ci sarà ad Addis Abeba
una conferenza dei donatori, la Ue darà 50 milioni di euro alla Misma. Per la Libia, la Francia aveva speso 368
milioni di euro (1,6 milioni al giorno), in Afghanistan 518 milioni nel 2011 e 492 nel 2012.
PARIGI
L'intervento dell'esercito algerino sul sito di estrazione di gas di In Amenas è continuato ancora per tutta la
giornata di ieri. In serata, la situazione restava confusa: secondo fonti algerine, sarebbero stati liberati 650
ostaggi, tra cui 100 stranieri, ma una trentina sarebbero dispersi e 7 ancora nelle mani dei rapitori (3 belgi,
un americano, un britannico e 2 giapponesi). Algeri, che comunica con il contagocce, aveva fatto sapere
nel pomeriggio che 18 rapitori e 12 ostaggi erano stati uccisi. Secondo la Reuters, ci sarebbero stati una
quarantina di morti nell'assalto, 30 ostaggi e 11 islamisti, tra cui il capo del commando, Tahar Ben Chened e
un salafita francese. A fine mattinata, il primo ministro francese, Jean-Marc Ayrault, aveva soltanto confermato
che «vari ostaggi» erano morti nell'azione algerina, ma non aveva dato né il numero né la nazionalità.
Secondo un islamista arrestato ieri dagli algerini, il gruppo degli assalitori sarebbe stato composto da 32
persone e ancora in serata tra i 7 e 10 rapitori erano ancora asserragliati nel sito gestito dalla Bp. Il sito è
immenso, vivevano qui 2mila persone. L'assalto dell'esercito algerino ha sgombrato la zona residenziale, ma
nella parte industriale l'intervento si è rivelato molto più complesso e lungo. Secondo il primo ministro dell'Eire,
l'ostaggio irlandese liberato giovedì ha raccontato che alcuni sono stati obbligati a indossare delle cinture
esplosive e che i rapitori cercavano gli stranieri. Per timore che i terroristi facciano esplodere il sito, come
hanno minacciato, tutti gli impianti sono stati fermati ieri.
C'è stato un tentativo di trattativa. I rapitori avrebbero chiesto uno scambio tra ostaggi e due prigionieri
islamisti in carcere negli Usa, la pakistana Aafia Siddiqui e l'egiziano Omar Abdel Rahman. Ma gli Usa hanno
rifiutato: «Non negoziamo con i terroristi». Il segretario alla difesa Usa, Panetta, ha affermato che «i terroristi
devono sapere che non troveranno nessun rifugio né in Algeria, né nell'Africa del nord né da nessuna parte».
La condanna del terrorismo è unanime nella comunità internazionale, ma sulla scelta dell'Algeria di investire
il sito, che si è tradotta in un bagno di sangue, le critiche sono cresciute ancora ieri. Algeri è criticata per
aver deciso da sola di intervenire, senza informare nessuno. I contatti con l'estero sono tenuti ad Algeri dal
primo ministro, Abdelmalek Sellal, e non dal presidente Bouteflika. Il ministro degli esteri, Mourad Medelci, ha
ricevuto ieri gli ambasciatori di Usa, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Austria, Norvegia, Canada e Unione
europea, le nazionalità degli ostaggi. David Cameron ha parlato al telefono con Barak Obama e ha rivelato di
aver proposto ad Algeri dei negoziatori per risolvere la crisi in modo non violento. Ma l'Algeria ha poi scelto
di agire senza interpellare nessuno: il potere attuale ad Algeri fonda la propria legittimità proprio sulla lotta
21/01/2013
Il Che Guevara
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al terrorismo degli anni '90 e ora si considera sfidato dalla spettacolare azione a In Amenans, nella zona
dell'estrazione del gas e del petrolio, che dovrebbe essere la più sicura del paese.
La Francia è stata la meno critica. Parigi ha bisogno dell'Algeria per l'operazione Serval in Mali. Ieri, gli islamisti
sono stati respinti da Konna, mentre militari francesi e maliani combattevano ancora a Diabali, dove i ribelli
si soo confusi con la popolazione. Per Ayrault, il «primo obiettivo» dell'intervento è stato raggiunto: impedire
la caduta di Bamako nelle mani dei narco-terroristi. Adesso bisogna riconquistare il nord e permettere al Mali
di ricostruire lo stato. La forza africana, poco per volta, prende corpo: la Misma (Missione di sostegno al
Mali) potrebbe superare i 3300 militari. La Nigeria invia 1200 uomini (più dei 900 previsti). I soldati del Ciad
sono già sul posto. Burundi, Togo, Niger, Burkina, Senegal, Costa d'Avorio e Benin dovrebbero seguire. Ma
ci vorranno ancora settimane prima che la forza africana sia pronta ad intervenire. A Washington, è venuta
alla luce una certa irritazione nei confronti della precipitazione dei francesi, accusati di non aver informato
gli alleati. Anche il Qatar ha definito «precipitoso» l'intervento francese. Angela Merkel, sollecitata, accoglierà
mercoledì prossimo il presidente del Benin, Thomas Boni Yayi, che è anche alla testa dell'Unione africana.
In Francia l'unanimità comincia a mostrare sempre più crepe. Ieri, Marine Le Pen ha accusato Ps e Ump di
aver favorito il terrorismo con l'intervento in Libia. L'ex primo ministro, Dominique de Villepin, ha invitato a
«cambiare strategia», a «non entrare in una logica di guerra contro il terrorismo, perché questo dà uno statuto
ai terroristi» e ha invitato a restare «nello stretto quadro delle risoluzioni Onu». La Francia, intanto, comincia a
fare i conti: l'operazione in Mali dovrebbe costare 400mila euro al giorno. Il 29 gennaio ci sarà ad Addis Abeba
una conferenza dei donatori, la Ue darà 50 milioni di euro alla Misma. Per la Libia, la Francia aveva speso 368
milioni di euro (1,6 milioni al giorno), in Afghanistan 518 milioni nel 2011 e 492 nel 2012.
L’esperienza afghana non è servita a niente
20/01/2013 di red. (il manifesto)
«Il nuovo conflitto internazionale scoppiato in Mali pone ancora una volta la questione del ruolo da un lato del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dall’altro dell’Unione Europea, che si sono trovate a dover prendere
atto dell’azione d’oltralpe.
L’iniziativa francese nei confronti della grave crisi del paese dell’Africa occidentale ha provocato
immediatamente il coinvolgimento di altri paesi come l’Algeria con la vicenda degli ostaggi e degli alleati
occidentali, chiamati a dare sostegno all’azione di Parigi». Lo sottolinea Maurizio Simoncelli, vicepresidente
dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo.
«Non va dimenticato che l’aggravamento della crisi già preesistente nel Mali è strettamente connessa alla
guerra libica, con milizie ben addestrate e armate che, alla fine del conflitto, sono confluite da Tripoli nelle file di
Ansar Dine», dice Simoncelli: «Al di là dell’evoluzione del conflitto e delle sue conseguenze, ancora una volta
emerge la necessità di una riflessione adeguatamente approfondita sulle modalità con cui affrontare la
minaccia del terrorismo della galassia musulmana integralista. Evidentemente – osserva Simoncelli – non è
servita l’esperienza afghana, dove il più potente esercito del mondo, quello statunitense, con i suoi alleati non
è riuscito a sconfiggere gli oppositori armati, al punto di dover programmare comunque il ritiro delle proprie
truppe».
«Contemporaneamente – rileva ancora Simoncelli – il terrorismo si è diffuso nell’area africana ed asiatica (Siria,
Pakistan, Algeria, Somalia, Kenya, ecc.), mostrando come lo strumento militare con le sue peculiarietà non sia
quello risolutivo nello scontro asimmetrico con il terrorismo stesso. Le nuove dotazioni di armamenti (portaerei,
aerei invisibili F35, bombe nucleari B61-12 potenziate ecc.) sembrano sempre più non rispondere alle
necessità». A giudizio di Simoncelli «è opportuno, pertanto, che siano riconsiderate sia le procedure decisive
degli organi internazionali (spesso messe di fronte al fatto compiuto), sia la risposta alla minaccia terroristica
(dato che quella sinora utilizzata è riuscita solo a farla sviluppare)».
21/01/2013
Il Che Guevara
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