Per non ridurre una storia di vita a una storia di

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Per non ridurre una storia di vita a una storia di
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar
Per non ridurre
una storia di vita
a una storia di alcol
La possibilità di cambiare
passa dal produrre
sempre nuove narrazioni
di
Elisa Martino,
Teo Vignoli
Come sostenere quanti si rivolgono
ai Sert per problemi nel consumo
e nell’abuso di alcol? I casi crescono
in numero e varietà e gli operatori
si interrogano su come promuovere
reale cambiamento. Una possibilità
è rappresentata dallo sperimentarsi
in un gruppo che abbia nella narrazione
il suo metodo portante. Quanto
narrarsi può aiutare a superare
i confini di scomode etichette
e ad aprire lo sguardo su inedite
risorse e opportunità? Quale posizione
devono assumere gli operatori
per lasciare maggior spazio
alle proposte, alle idee, ai desideri
delle singole persone e del gruppo?
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N
egli ultimi anni si rivolgono al Sert
sempre più persone che hanno
perso il controllo sul consumo di
alcol ma che non hanno ancora pienamente
sperimentato le conseguenze di ciò a livello
fisico, psichico e di inserimento sociale. Per
queste persone il comportamento di abuso
rimane circoscritto nella sfera del privato,
gestito individualmente o nell’ambito del
gruppo ristretto di appartenenza.
Accanto a esse, rimane costante il numero
di persone che, dopo aver attraversato un
periodo di vera e propria dipendenza fisica
e psicologica, sono rimaste intrappolate tra
le maglie di narrazioni auto- o eteroattribuite, nelle quali viene a mancare la pluralità
degli aspetti che caratterizzano una storia
di vita e assume invece un ruolo centrale il
rapporto con l’alcol, con l’effetto di ridurre
le possibilità di cambiamento.
Le biografie
che ispirano il metodo
Queste persone chiedono aiuto per raggiungere l’astensione e gestire le conseguenze fisiche dell’astinenza, ma anche per
riappropriarsi di una visione progettuale di
sé e recuperare ruoli sociali frammentati,
compromessi.
«Guarda
dove sono finita...»
Francesca entra al Sert, accompagnata dai
figli adulti che l’hanno costretta a riconoscere di avere un problema con l’alcol. Ha
un’espressione confusa e lo sguardo intimorito: per arrivare davanti alle porte sulle
quali c’è scritto «medico» e «psicologa», ha
dovuto incrociare nel corridoio le persone
che quotidianamente vengono a ritirare il
metadone e le terapie antagoniste. Chissà
quali domande si è posta, nel calcare questo
inedito palcoscenico sul quale fino a oggi era
convinta potessero recitare solo personaggi
appartenenti a un mondo diverso dal suo,
immaginati con i termini un po’ caricaturali
con cui il senso comune delinea il profilo del
consumatore di sostanze: «tossicodipendente», «marginale» e «deviante». Chissà
quali ipotesi ha formulato su se stessa, sul
suo percorso di vita e sul suo futuro: «sono
un’alcolizzata», «come mi sono ridotta»,
«non riuscirò a cambiare».
Francesca ha una casa, una famiglia, un
lavoro e una solida rete di relazioni. Come
dice lei stessa, il suo percorso di vita, seppur
caratterizzato da fluttuazioni tra periodi di
soddisfazione per la propria vita familiare
e periodi di depressione, rientra in un quadro di normalità. Ma nella sua esperienza
soggettiva qualcosa in questo sistema apparentemente perfetto si è inceppato: come se
il vaso si fosse scheggiato e un po’ di liquido
iniziasse a traboccare dal contenitore sociale dell’adattamento. Francesca ha avuto la
capacità, supportata dalle risorse familiari,
di chiedere aiuto. E ha varcato per la prima
volta la soglia del Sert.
Quando la incontriamo, dopo il consueto
rito della presentazione reciproca, le chiediamo: «Che cosa ha provato oggi venendo
qui?». Lo sguardo di Francesca si rilassa, si
avverte un impercettibile sospiro di sollievo: «Ho pensato: come mi sono ridotta...
guarda dove sono finita».
Le spieghiamo che nel nostro lavoro incontriamo molte persone che, proprio come lei,
non corrispondono in modo semplicistico
alla rappresentazione dell’alcolizzato con la
quale si è confrontata già prima di incontrarci. Le diciamo che è stata molto brava
a rivolgersi a un servizio prima che il suo
problema diventasse persistente nel tempo
e pervasivo nelle aree dell’adattamento che
ancora mantiene salde.
Francesca appare rassicurata: intuisce di
essere giunta in un luogo in cui non verrà
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giudicata a priori sulla base del problema
con il quale si è presentata e dove non verrà
etichettata come «alcolizzata».
«Come
posso recuperare?»
Giovanni è un uomo di 39 anni. La prima
volta che lo incontriamo notiamo che i lineamenti del viso e il fisico appaiono sciupati
dalla prolungata dipendenza dall’alcol. La
sua è l’espressione di chi è convinto di non
aver più niente da perdere nella vita, perché
ha già perso tutto: famiglia, lavoro, credibilità sociale e aspettative positive su di sé. Fin
da subito colpisce il fatto che, nonostante
tale convinzione, manifestata anche verbalmente, abbia scelto di rivolgersi al Sert.
Giovanni appartiene alla categoria di persone che nel corso degli anni hanno perso
il controllo sulla propria esistenza, pur partendo da una posizione di vantaggio e di
adeguatezza sociale.
Giovanni stesso ricostruisce l’evoluzione
del suo problema con l’alcol. Da un consumo iniziale di tipo occasionale e conviviale,
nel tempo è passato all’abuso per supportare lo svolgimento dell’attività lavorativa
imprenditoriale, che richiede produttività e
«pensiero veloce». Quindi, a seguito di una
furiosa lite familiare che ha indotto i vicini
di casa a richiedere l’intervento delle Forze
dell’ordine, il problema è diventato di dominio pubblico e l’abuso si è consolidato in
una vera e propria dipendenza, con un corollario di conseguenze sociali: separazione
dalla moglie, perdita del lavoro, progressivo
e inesorabile isolamento sociale.
Dopo alcuni colloqui Giovanni accetta un
ricovero in clinica, per disintossicarsi e provare a imboccare la strada del cambiamento.
E fin da subito chiede di poter continuare a
venire al servizio dopo la dimissione, perché
l’esperienza passata gli ha insegnato che da
solo non ce la può fare.
Una narrazione che
promuove cambiamento
Le richieste sono tante e le risorse disponibili insufficienti per strutturare trattamenti
medici e psicologici individuali, adeguati in
fase acuta e continuativi nel periodo in cui
il rischio di ricaduta rimane alto.
Nel pensare a un intervento efficace per
rispondere a tali richieste ci siamo domandati: è possibile facilitare un cambiamento individuale attraverso il confronto
tra persone che vivono esperienze così
diverse, cioè, da un lato, tra persone i cui
ruoli sociali sono vacillanti ma non ancora
pesantemente intaccati dal rapporto problematico con l’alcol e, dall’altro, persone
ufficialmente etichettate come «alcolizzate»? E soprattutto, qual è la metodologia
più efficace per promuovere esperienze di
cambiamento?
BOX 1
RACCONTARSI VUOL DIRE
RIELABORARE E PROGETTARE
L’approccio narrativo si basa sul presupposto
che le persone attribuiscono significato agli
eventi in forma di storie. Innanzitutto, il pensiero stesso è di tipo narrativo. Le storie che le
persone raccontano, su se stesse e sul mondo
che le circonda, guidano i vissuti emotivi, gli
atteggiamenti, le azioni e i progetti.
Inoltre, attraverso l’attività del raccontare
ognuno attribuisce arbitrariamente una sequenzialità al flusso della memoria, selezionando
aspetti, eventi e situazioni cui dare rilievo, ed
escludendone altri, per rendere coerente la rievocazione dell’esperienza autobiografica con
l’attuale percezione di sé.
Le storie non sono mai solo individuali ma
sempre anche intersoggettive, in quanto costruite attraverso le conversazioni e le relazioni,
all’interno di un contesto socio-culturale che
predefinisce le narrazioni accettabili e potenzialmente raccontabili.
In sintesi, il racconto della realtà soggettivamente prodotto genera la scrittura di una
biografia personale che, intrecciandosi con le
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e che la
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di cambia
storie di altre persone e ricalcando le narrazioni
socialmente accettabili, conferisce un senso
alle esperienze umane e costruisce il filo conduttore della propria autobiografia.
Una descrizione
saturata dal problema
In questa prospettiva, anche l’etichetta autoed eteroattribuita di «alcolizzato» è una storia, ovvero un modo di sintetizzare un’esperienza di vita ponendo al centro il consumo
problematico di alcol. Nello specifico, tale
etichetta rappresenta una descrizione di sé
«saturata» dal problema, in quanto utilizza
come nucleo narrativo centrale il rapporto
con l’alcol e non altre parti dell’esperienza
presente o passata della persona. In coerenza
con tale racconto, tenderanno a essere selezionati gli elementi biografici e esperienziali
che confermano il problema, ed esclusi quelli
che lo disconfermano.
L’etichetta di alcolizzato è il correlato narrativo della dipendenza fisica. L’attribuzione
di tale etichetta tende a generarsi quando
il consumo di alcol, uscito dal potere di
controllo della persona, incorre in una
reazione sociale e diventa pubblicamente
noto, ovvero quando il consumo problematico di alcol mette in crisi il sistema di
funzionamento individuale e incide sulle
sfere dell’adattamento sociale. In seguito a
questo passaggio, la persona viene a perdere
i ruoli funzionali all’integrazione, con conseguenze sulle possibilità di cambiamento,
che inesorabilmente si restringono.
Tali processi di significazione sociale, cioè
di stigmatizzazione e di etichettamento, in
riferimento ai quali un individuo viene pubblicamente identificato come dipendente
da alcol («alcolizzato») possono essere sintentizzati dal concetto di stigma esterno. Il
concetto di stigma interno, invece, descrive
l’organizzazione dell’identità individuale
intorno al comportamento di abuso di alcol,
che diventa il nucleo narrativo centrale in
coerenza con il quale la persona si racconta
ed è descritta dagli altri.
L’accesso a una mente
terapeutica interattiva
Se si condivide il presupposto che la narrazione è sempre intersoggettiva, il lavoro
clinico con il gruppo rappresenta il principale strumento di lavoro per promuovere
esperienze di cambiamento. A differenza
del colloquio individuale, tale tipologia di
intervento rende accessibile una mente terapeutica interattiva in grado di potenziare le
competenze narrative, relazionali e comunicative di ogni singolo partecipante attraverso il confronto non solo con il punto di
vista professionale dei conduttori (che svolgono un ruolo di «regia» dell’interazione in
corso) ma anche con quello esperienziale
degli altri partecipanti.
La condivisione con il gruppo rende accessibili due tipi di lavoro narrativo:
• la riscrittura dell’esperienza, che mira a
sostituire le descrizioni di sé saturate dal
problema con nuove storie soggettivamente
soddisfacenti e socialmente accettabili, in
funzione di un maggior benessere percepito
e di un equilibrio emotivo della persona;
• la moltiplicazione dei punti di vista
sull’esperienza, che mira ad amplificare
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le prospettive possibili da cui osservare e
descrivere la realtà, generando narrazioni
nuove e talvolta inaspettate, con un alto
potere ristrutturante.
Un approccio maieutico
per ricostruire significati
La nostra risposta di operatori del Sert al
primo dei quesiti precedentemente posti –
se, cioè, sia realizzabile un intervento che
metta a confronto persone appartenenti a
fasi diverse nell’esperienza di consumo problematico di alcol – è stata quella di avviare
una sperimentazione con un gruppo clinico
narrativo.
Accanto ai tradizionali interventi offerti
dal servizio, è stato introdotto un lavoro di
gruppo rivolto a persone che hanno perso
il controllo sul proprio consumo di alcol,
sia nel senso dell’abuso sia nel senso della
vera e propria dipendenza.
Tale gruppo si caratterizza come:
• clinico, ovvero orientato a obiettivi di trattamento a parziale o totale sostituzione dei
percorsi medici e psicologici individuali;
• a conduzione pluriprofessionale, in quanto
sono presenti una psicologa psicoterapeuta
e un medico internista;
• aperto, cioè con possibilità di turnover dei
partecipanti, in corrispondenza di nuovi ingressi e uscite dal percorso;
• a durata indeterminata.
Il percorso di gruppo non ha un inizio e
una fine, ma dura continuativamente nel
tempo: gli incontri si svolgono a cadenza
settimanale presso il Sert, per la durata di
due ore ciascuno. Di volta in volta vengono inserite persone che, in sede di colloqui
preliminari di valutazione, dopo aver impostato la terapia medica in caso di sindrome astinenziale, accettano e condividono
la proposta di partecipare a un lavoro di
gruppo. Anche le dimissioni sono sempre
discusse e concordate con i conduttori e gli
altri partecipanti.
Nel rispondere al secondo quesito – quale
metodologia adottare per promuovere
esperienze di cambiamento – è stato scelto
un approccio di tipo narrativo derivante
dalla psicoterapia interazionista.
Tale approccio trae ispirazione dal noto
metodo maieutico, utilizzato da Socrate per
accompagnare i suoi discepoli a far emergere in loro stessi una «verità soggettiva»,
anziché guidarli verso la scoperta di una
presunta «verità oggettiva». In tal senso,
i conduttori gestiscono ogni incontro in
modo da indurre i partecipanti a individuare autonomamente le criticità da affrontare,
piuttosto che indicare loro aree di riflessione o argomenti predeterminati, e da accompagnarli nel processo di ricostruzione
di un significato che apra opportunità di
cambiamento.
L’ampliamento delle possibilità narrative
che tale processo comporta può essere gestito in modo competente da parte dei due
conduttori tenendo conto del fatto che tali
possibilità non sono potenzialmente infinite, bensì preselezionate sia dal contesto
di intervento (il Sert), che implicitamente
definisce gli argomenti trattabili, sia dal metodo di lavoro che è mirato a focalizzare
l’attenzione su argomenti atti a promuovere
cambiamento.
Nella conduzione del gruppo, il medico
e lo psicologo non propongono moduli
differenziati di intervento sulla base delle
proprie specifiche competenze professionali, ma operano in modo complementare e
interconnesso, prediligendo di volta in volta
un intervento rispetto a un altro a seconda
di quanto richiesto dall’argomento trattato. Se, ad esempio, nel gruppo si affronta
il tema delle terapie farmacologiche e dei
loro effetti collaterali, viene dato maggiore
rilievo all’intervento del medico, mentre se
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si discutono le conseguenze dell’assunzione di tali terapie sulla relazione di coppia,
acquista maggiore centralità l’intervento
dello psicologo.
Alcune strategie
di intervento
La metodologia adottata nell’ambito
dell’approccio narrativo prevede differenti
strategie di intervento.
L’utilizzo
di domande generative
Si parte da domande generative, ossia domande aperte, che non prevedono una risposta predefinita o dicotomica e sono finalizzate ad avviare o sviluppare un racconto.
L’obiettivo di tali domande è consentire ai
conduttori di valutare non solo il contenuto della risposta ma anche il modo con cui
una persona struttura tale contenuto: quali
eventi sceglie di narrare tra i tanti possibili (e
quali sceglie di escludere), quali connessioni
instaura tra i fatti che espone, quali significati attribuisce alle esperienze vissute.
Un tipico esempio di domanda aperta che
può essere proposta all’inizio di un incontro è: «Come è andata questa settimana?».
Domande di questo tipo danno origine a
un racconto profondamente differente rispetto a quello che emergerebbe se venisse
chiesto: «Come è stato il vostro rapporto
con l’alcol questa settimana?».
Le risposte alle domande generative prodotte a turno da tutti i partecipanti, oltre
a essere un cardine del colloquio motivazionale, offrono l’opportunità per lavorare
sugli attrattori.
L’individuazione
degli attrattori
In una conversazione o in un racconto, gli
attrattori sono quei termini o quei concet-
ti che mostrano un alto potere organizzatore rispetto alla narrazione in corso.
L’individuazione di un attrattore da parte
dei conduttori non deve essere effettuata
sulla base di un criterio di valutazione soggettiva – su ciò che secondo loro sarebbe
opportuno dire –, ma sulla base di un criterio di tipo narrativo.
Ecco, di seguito, alcuni dei differenti criteri di tipo narrativo mediante i quali individuare gli attrattori all’interno di una
narrazione.
• Ridondanza L’attrattore può essere individuato in un racconto ribadito, un significato più volte evocato, una parola ripetuta,
che organizza la narrazione dei partecipanti
e che spesso sono introdotti nei primi interventi effettuati.
Individuato e «restituito» al gruppo da
parte dei conduttori, tale attrattore può
diventare esplicito e orientare i processi di
consapevolezza del gruppo stesso, consentendo in tal modo di sviluppare una successiva riflessione.
Nei vostri interventi ognuno di voi ha parlato degli effetti dell’alcol sui rapporti interpersonali: Fabio sulla relazione con la moglie,
Francesca sulla relazione con i figli, Daniele sul
rapporto sia con la compagna sia con i genitori… C’è qualcosa che volete ancora aggiungere su questo tema?
• Rilevanza per contrasto Possono essere
considerati attrattori anche due o più racconti emersi dal gruppo che implicano un
posizionamento dicotomico rispetto a un
significato o a un contenuto rilevante per
l’argomentazione.
L’intervento di conduzione, allora, consiste nel restituire al gruppo tali racconti in
modo che ognuno elabori, insieme agli altri
partecipanti, un proprio personale posizionamento rispetto al tema trattato e, quando
possibile, condivida una posizione comune
all’interno del gruppo.
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Un tema che spesso si impone per contrasto
nei racconti dei partecipanti è l’obiettivo
di raggiungere un consumo controllato di
alcol, di contro alla necessità di perseguire
una completa e definitiva astensione.
Giovanni ha detto: «Quando bevo non capisco più niente, mi bastano pochi bicchieri per
perdere il controllo e diventare aggressivo»;
Marco invece ha detto: «Quando bevo, anche
se esagero mantengo il controllo».
Come vi ponete rispetto a questi due racconti
opposti?
• Assenza Un attrattore può essere individuato anche nell’assenza dal racconto di un
elemento valutato come significativo dai
conduttori in riferimento agli obiettivi di
contesto, sui quali si vuole riflettere.
Poniamo, ad esempio, che i partecipanti
siano invitati a riflettere su quali indicatori
devono essere presenti per poter parlare di
dipendenza da alcol e che essi, elencandoli,
citino tutti i criteri presenti nel Dsm (1) tranne
il craving (2): a fine racconto, i partecipanti
vengono stimolati a riflettere sul criterio
omesso e sulle ragioni per le quali non è stato
nominato, approfittando della circostanza
per fornire una spiegazione.
Alcuni attrattori assenti dal racconto possono essere fatti emergere anche mediante
l’impiego di «domande indovinello»:
l’oggetto della discussione viene individuato partendo dai problemi espressi di
volta in volta da un partecipante o identificati utilizzando l’analisi degli attrattori
che emergono dopo che ogni persona ha
risposto a una domanda generativa. Si può,
ad esempio, scegliere di ridefinire e riformulare un problema che un partecipante
ha incontrato nel corso della settimana e
proposto all’attenzione del gruppo, stimolando la riflessione e attivando processi di
consapevolezza. Come già sottolineato, gli
argomenti affrontati di volta in volta sono
sempre pertinenti in quanto implicitamente
preselezionati dal contesto.
«Ognuno di voi, nel descrivere il problema,
non ha nominato un’importante risorsa attualmente in vostro possesso: di che risorsa si
tratta?». Se non fornita dagli stessi partecipanti, la risposta sarà fornita al gruppo da parte
dei conduttori: «La capacità di chiedere aiuto,
testimoniata dal fatto che siete qui».
Il lavoro
sulle competenze autopoietiche
I partecipanti vengono attivati per fornire
sostegno alla persona che espone un problema, stimolati da interventi dei conduttori
quali: «Che consiglio dareste a Marco per
superare questa difficoltà?». Si parla, a questo proposito, di competenza autopoietica,
cioè della capacità dei partecipanti di un
gruppo di fare interventi secondo lo stile
proposto dai conduttori su uno specifico
argomento non trattato in precedenza.
Si tratta di una competenza creativa attraverso la quale il gruppo introduce qualcosa
di diverso e di nuovo, sul piano contenutistico e metodologico, rispetto ai pattern
proposti dai conduttori, mediante il riutilizzo di strategie già sperimentate su piani
di lavoro diversi da quelli precedentemente
affrontati.
La scelta
dell’argomento
I conduttori non stabiliscono a priori l’argomento da affrontare durante l’incontro:
In assenza di uno dei due conduttori, Francesca racconta le difficoltà sperimentate e i
tentativi inefficaci di smettere di bere. Fabio
interviene a supporto del conduttore presente
ponendole domande che la aiutano a non per-
1 | Il Dsm è il Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual
of mental disorders).
2 | Il craving è il desiderio improvviso, compulsivo
e apparentemente irrefrenabile di assumere una sostanza, in questo caso di consumare alcol.
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dere la speranza in un cambiamento possibile.
Nell’incontro successivo, Francesca dichiara di
aver interrotto il consumo di alcol.
La condivisione
affettiva
Attivata dal gruppo, la condivisione affettiva consente in primo luogo di considerare presente anche una persona in quel
momento assente, come se occupasse una
sedia vuota sulla quale ognuno sa che è simbolicamente seduta.
In un incontro in cui un partecipante parla
della difficoltà di sospendere il consumo di
alcol chiediamo al gruppo: «Cosa direbbe Nicola, se fosse qui?». Federica risponde: «Direbbe: pensa alle conseguenze sulla salute,
fermati adesso che stai ancora bene». (Nda:
Nicola ha avuto un ricovero in medicina d’urgenza in seguito a un episodio di abuso che
ha prodotto importanti conseguenze di tipo
internistico).
La condivisione affettiva, poi, facilita il reingresso nel gruppo in seguito a episodi di
ricaduta o a interruzioni temporanee della
partecipazione, dovute alla fluttuazione
del processo di consapevolezza che spesso
caratterizza un percorso di cambiamento.
Nello specifico, la regolare cadenza settimanale e la consapevolezza dei meccanismi di
accoglienza precedentemente sperimentati
nel gruppo consentono a chi lo decide di
riprendere il percorso senza dover prendere l’appuntamento di rito per fissare un
colloquio individuale.
Dopo aver partecipato ad alcuni incontri e
aver sospeso il consumo di alcol, Sergio ricade
e interrompe la partecipazione al percorso.
Alcune settimane dopo, partecipa a sorpresa a
un incontro e racconta: «Ieri mia sorella mi ha
trovato ubriaco a casa e si è arrabbiata con me;
io le ho chiesto, se voleva aiutarmi, di portarmi
oggi qui al gruppo. E quindi sono qui». Nello
stesso incontro, Sergio chiede di riprendere la
terapia avversivante con Antabuse, interrotta
prima della ricaduta.
La comunicazione
attraverso l’umorismo
Quando nel gruppo si instaura una dimensione di condivisione affettiva, l’umorismo
rappresenta una forma di comunicazione
e interpretazione degli eventi che può
suscitare in ciascuno dei partecipanti reazioni emotive piacevoli, riso e affiliazione
sociale, come conseguenza dell’uso di una
specifica struttura linguistica e/o di un uso
caricaturale della comunicazione verbale e
non verbale.
La regola sottesa all’umorismo è riconducibile alla rottura dell’aspettativa, all’effetto sorpresa e alla violazione di una norma
convenzionale. Nel lavoro con il gruppo
l’uso dell’umorismo rafforza la relazione
e favorisce la possibilità di far accettare
nuovi punti di vista attraverso i quali ciascuno possa osservare la propria situazione problematica. Una strategia umoristica
può consistere, ad esempio, nel rendere
esplicita un’incoerenza tra contenuto verbale e non verbale della comunicazione
in corso.
Filippo comunica al gruppo la decisione di
iniziare la terapia con Antabuse, farmaco che
comporta l’impossibilità di assumere alcol, ma
il tono della sua voce esprime palesemente una
scarsa convizione. Invitato dal conduttore a ripetere l’affermazione con maggiore fermezza,
Filippo ripete più volte sorridendo l’affermazione,
utilizzando un tono via via più allegro e finendo
con il suscitare il riso negli altri partecipanti. Il
lavoro di gruppo procede quindi nell’approfondimento del vissuto di «lutto» che Filippo prova nel
dover abbandonare l’alcol.
L’attivazione del gruppo
nella costruzione delle risposte
Nella concezione socratica, l’ironia rappresenta un atteggiamento dialettico che consiste nel mostrarsi ignoranti in merito a una
questione da affrontare, in modo da portare
l’interlocutore ad argomentare la propria
posizione. L’ironia socratica è coerente con
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il metodo maieutico, perché conduce l’interlocutore a trovare da sé le risposte alle
proprie domande, piuttosto che affidarsi a
una autorità intellettuale in grado di offrire
risposte preconfezionate.
È sulla base di un tale atteggiamento dialettico che nell’ambito di un gruppo clinico
narrativo, i conduttori non rispondono direttamente a una domanda posta dal gruppo, ma restituiscono tale domanda ai partecipanti, intervenendo successivamente per
organizzare i racconti prodotti, integrare le
risposte fornite e offrire spiegazioni specialistiche sulle tematiche affrontate.
Durante un incontro un partecipante chiede
al medico quando ci si possa considerare sufficientemente pronti e «sicuri» per poter scegliere di sospendere la terapia con Antabuse.
I conduttori propongono di risponsdere agli
stessi partecipanti; dalla discussione emerge
che è possibile sospendere l’assunzione del
farmaco quando:
• si riesce a non bere nonostante la situazione
(ad esempio, luoghi e circostanze in cui altri
bevono e si ubriacano);
• si riesce a non bere nonostante l’umore (ad
esempio quando si è depressi o irritati);
• si ha sufficiente forza di volontà, cioè si riesce
a guidare il proprio comportamento in riferimento alla propria motivazione;
• si hanno obiettivi che non si realizzerebbero
se si continuasse a bere;
• non si avverte la necessità di ottenere «certificati di sobrietà» dall’esterno (ad esempio, dai
familiari o dal servizio sociale);
• ci si trova all’interno di un percorso terapeutico che preveda anche un controllo medico.
Alla fine dell’incontro i criteri vengono discussi
in gruppo.
In un incontro successivo tutti i partecipanti
vengono stimolati ad autovalutarsi rispetto ai
criteri elencati in modo da poter riflettere sul
proprio stato di avanzamento nel processo di
cambiamento in corso.
La promozione
di un ruolo attivo dei partecipanti
Alcuni interventi sono focalizzati sulla prevenzione del rischio di ricadute e sulla anti-
cipazione di strategie volte a fronteggiare le
situazioni di rischio e mirano a promuovere
nei partecipanti un ruolo attivo nel percorso
di cura che li vede coinvolti.
Il valore aggiunto fornito dal gruppo è la
possibilità di confronto intersoggettivo
in quanto ciascun partecipante – con il
supporto del professionista, che aggiunge
indicazioni terapeutiche e spiegazioni specialistiche – può svolgere un ruolo di consulenza rispetto agli altri e può intervenire
per ampliare i punti di vista sul problema
esposto.
Nel loro insieme, tali interventi offrono la
possibilità di:
• fornire informazioni sul disturbo, sulle
caratteristiche dell’abuso e delle dipendenze, sugli effetti fisici e comportamentali dati
dall’assunzione di alcol;
• fornire informazioni sulle varie possibilità di trattamento (percorsi ambulatoriali, ricoveri, ecc.) e approfondimenti sulle
terapie farmacologiche e sui loro effetti
collaterali;
• costruire competenze e condividere
strategie utili per anticipare e gestire efficacemente il rischio di ricaduta, attraverso
l’individuazione dei segni premonitori e
dei fattori di stress specifici che possono
favorirne l’insorgere; a questo proposito è
fondamentale insegnare ai partecipanti a
riconoscere e gestire il craving;
• valutare e definire strategie per ampliare la
rete sociale, la quale può svolgere un ruolo
protettivo rispetto al consumo di alcol.
Il potenziamento di competenze
e di esperienze di successo
Gli interventi dei conduttori sono sempre
orientati a valorizzare le esperienze di successo, a favorire la restituzione reciproca
dei punti di forza, a potenziare le competenze autoriflessive e d’azione funzionali al
processo di cambiamento.
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Durante un incontro i conduttori chiedono
ai partecipanti di raccontare la propria storia
di vita, scegliendo eventi e situazioni che vogliono condividere con gli altri per farsi conoscere meglio. Tutti raccontano l’evoluzione del
proprio rapporto con l’alcol nel tempo, i significati che lo hanno accompagnato e le sfere di
relazione ritenute significative.
Alla fine degli interventi, i conduttori restituiscono al gruppo: «Nella descrizione di sé e della
propria storia ognuno di voi ha citato esperienze
di dominio positivo degli eventi: Valentina nella
separazione dal marito, Giorgio nella scelta di
riprendere il percorso di studio, Francesca nel
rapporto costruito con la famiglia... Secondo
voi, quali risorse vi hanno permesso di mettere
in atto tali competenze?».
Un metodo rinnovato
per aprire a nuovi inizi
Nell’ottica del principio dell’«ecologia
della responsabilità», Gaetano De Leo attribuisce la responsabilità degli esiti di un
intervento a chi lo realizza, non a chi ne è
destinatario.
Analogamente, il pensiero teorico di
Gregory Bateson ispira la logica in base
alla quale «A, per cambiare B, deve prima
cambiare A»: in altri termini, se voglio cambiare una persona, devo prima cambiare il
mio modo di rapportarmi a lei e rendere
accessibile l’opportunità di crescere insieme nell’interazione.
In base a questi due principi ispiratori, in
quanto operatori abbiamo compreso che
per tentare di cambiare rappresentazioni e
prospettive di vita delle persone che si rivolgono al Sert dopo aver sperimentato una
perdita di controllo sul consumo di alcol,
occorreva tentare di cambiare innanzitutto
noi stessi, introducendo un nuovo metodo
di lavoro.
Per noi operatori è stato piacevole constatare come il co-cambiamento intrapreso
– in particolare a seguito di incontri particolarmente significativi e intensi sul piano
emotivo – abbia finito per produrre effetti
più ampi e inattesi di quanto fosse preventivabile all’inizio, ricavandone la sensazione
di aver appreso qualcosa di nuovo.
Tutto ciò aiuta a rinnovare la sfida di non
offrire soluzioni precostituite, ma di fornire risposte che, nella coerenza e nel rigore
metodologico, siano adeguate ai problemi
presentati di volta in volta dai nostri interlocutori.
Nell’ultimo incontro prima della festività natalizia un partecipante esprime il proprio disagio al pensiero di non poter festeggiare l’inizio
del nuovo anno con un brindisi.
Durante l’incontro che ha luogo la mattina del
31 dicembre, i conduttori esplicitano il concetto che è possibile effettuare il brindisi di rito
anche senza alcol. Quindi a ogni partecipante
consegnano un bicchiere e una candela, con la
richiesta di effettuare il brindisi di mezzanotte
accendendo la candela, soffiandoci sopra ed
esprimendo un desiderio che vorrebbe vedere
realizzato nel 2014.
I partecipanti escono dall’incontro dicendo che
fotograferanno tale momento per condividere
con il gruppo, nel primo incontro del nuovo
anno, l’inconsueto brindisi.
Elisa Martino è psicologa e psicoterapeuta,
dipendente presso l’Ausl di Ravenna, Unità
operativa Dipendenze patologiche, distretto
di Lugo: [email protected]
Teo Vignoli è medico, dipendente presso
l’Ausl di Ravenna, Unità operativa Dipendenze patologiche, distretto di Lugo. è segretario
della Società italiana di alcologia, sezione
Emilia Romagna: [email protected]