Emanuele Cusa I ristorni* 1.
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Emanuele Cusa I ristorni* 1.
Emanuele Cusa [email protected] I ristorni* SOMMARIO: 1. Premessa. (...) – Parte II. I ristorni. – 7. Il ristorno come costo commisurato agli utili è parte della retribuzione o del compenso – 8. Il ristorno disciplinato dall'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 è una quota dell'utile di esercizio. – 9. Il ristorno come impiego di utili non integra il corrispettivo della prestazione lavorativa. – 10. La quota ristornabile dell'utile di esercizio. – 11. La liquidazione indiretta del ristorno. – 12. L’organo sociale competente a decidere la distribuzione dei ristorni. 1. (...) La disposizione in commento si segnala altresì per aver finalmente introdotto nel nostro ordinamento cooperativo la parola «ristorno» (1) e per avere parzialmente disciplinato la fattispecie così denominata. Il ristorno corrisponde ad un istituto tipico del movimento cooperativo. In effetti, quest'ultimo ha da sempre indicato tra i propri princìpi ispiratori (i cc.dd. princìpi cooperativi) quello secondo cui i soci possano distribuirsi l'eventuale surplus realizzato dalla cooperativa “in proporzione alle loro transazioni con la cooperativa stessa” (2). Nonostante la rilevanza che avrebbe dovuto avere il ristorno per le cooperative, il legislatore italiano l'ha disciplinato soltanto con pochi frammenti di natura speciale (3). Tale insufficienza del dato normativo ha reso quanto mai incerta l'applicazione della figura in esame; incertezza poi aggravata dal fatto che vi è una diversità di opinioni sulla stessa nozione di ristorno. * Il presente lavoro è stato pubblicato in Nuove Leggi Civili Commentate, CEDAM, Padova, settembre 2002. (1) Fino ad ora la suddetta parola è stata usata nell'ordinamento italiano solo in un altro caso, vale a dire nell'art. 5, comma 2°, lett. a), l. 3 ottobre 2001, n. 366 (delega al Governo per la riforma del diritto societario). (2) Così è statuito nel terzo principio cooperativo, il quale è parte della Dichiarazione di identità cooperativa (interamente pubblicata in Riv. coop., 1995, n. 22, p. 7) approvata dal XXXI Congresso dell'Alleanza Cooperativa Internazionale a Manchester nel 1995. (3) Diversamente è accaduto, per esempio, nella legislazione statale spagnola (con l'art. 58, nn. 3 e 4, Ley 27/1999, de 16 de julio, de Cooperativas) o in quella francese (con l'art. 15, commi 1° e 2°, loi n. 47-1775 du 10 septembre 1947 portant statut de la coopération) 2 Sebbene la dottrina maggioritaria (4) consideri il ristorno come una rettifica di ricavi o un costo di produzione o, comunque, un debito sociale in grado di ridurre l'utile di esercizio iscritto nel conto economico, si è cercato di dimostrare sulla base dell'ordinamento vigente (5) che il ristorno non solo dovrebbe essere attribuito ai cooperatori (6) in proporzione agli scambi mutualistici intercorsi con la loro società, ma dovrebbe anche corrispondere ad una quota dell'utile di esercizio (più precisamente, ad una porzione dell'utile di gestione ottenuto con i soci). La conclusione testé ricordata non sembra contraddetta dall'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, il quale, anzi, conterrebbe interessanti elementi capaci di confermare la predetta qualificazione. In una cooperativa non solo possono essere presenti diverse tipologie di soci lavoratori (subordinati o meno), ma anche diverse tipologie di ristorno. Come si illustrerà meglio nella seconda parte di questo commento, sono individuabili essenzialmente due forme di ristorno, a seconda che quest'ultimo trovi la propria fonte nel contratto di società o nel contratto avente ad oggetto lo scambio mutualistico (ossia nel contratto di lavoro in presenza di un socio lavoratore): nel primo caso il ristorno corrisponderà ad un impiego di utili, mentre nel secondo il ristorno corrisponderà ad un costo commisurato agli utili (7). Nel presente scritto non sarà esaminata la ripartizione degli utili ai non soci in proporzione al loro lavoro prestato in favore della cooperativa, poiché tale fattispecie non rientra nel ristorno disciplinato dall'art. 3, l. n. 142/2001, la cui rubrica, significativamente, recita “trattamento economico del socio lavoratore”. Vale però la pena di rammentare come (4) Il più recente esponente della suddetta tesi è A. ROSSI, Mutualità e ristorni nelle banche di credito cooperativo, in Riv. dir. civ., 2001, II, p. 493 ss., ivi alle pp. 504-507. (5) Da parte di CUSA, sia in I ristorni nelle società cooperative, Milano, 2000, sia in I ristorni nella nuova disciplina delle società cooperative, in Graziano (a cura di), La riforma del diritto cooperativo, Padova, 2002, p. 11 ss. Poiché il libro per primo citato offre già un’ampia ricostruzione tanto della nozione giuridica di ristorno (sia come impiego di utili, sia come costo commisurato a questi ultimi), quanto della relativa disciplina e dei possibili spazi lasciati sul punto all'autonomia statutaria, il presente commento tratterà i soli tratti della disciplina del ristorno introdotti (o legati a quanto disposto) dalla l. n. 142/2001. (6) Rectius, ai soci utenti, i quali possono appartenere anche ad una categoria di soci diversa da quella dei cooperatori. (7) Se non diversamente precisato, in questo commento (anche alla luce del tenore dell'art. 3, comma 2°, l. n. 142/2001) si userà la parola “ristorno” con l'intenzione di riferirsi al solo ristorno riconosciuto come impiego di utili. 3 tale attribuzione degli utili – effettuata magari in modo indiretto (8) – sia assolutamente legittima (9) e, anzi, andrebbe auspicabilmente realizzata da una cooperativa che volesse conformarsi in massimo grado ai princìpi cooperativi e alla nostra Carta fondamentale (10). (...) Parte II I ristorni 7. Come anticipato nella premessa del presente commento, si può riconoscere il ristorno o come un impiego di utili o come un costo commisurato agli utili. Una cooperativa, qualora intenda attribuire ai propri soci lavoratori un ristorno come un costo commisurato agli utili, deve inserire nei relativi contratti di lavoro una clausola parziaria (11), la quale determini un aumento della retribuzione o del compenso del socio lavoratore in ragione dell'utile realizzato dalla cooperativa nel corso dell'esercizio sociale. La tipologia di ristorno testé indicata è sussumibile nel primo comma dell'art. 3, l. n. 142/2001 (12), poiché trova la propria fonte nel contratto di lavoro e, pertanto, concorre a formare il corrispettivo pagato dalla società al socio lavoratore. Ciò può accadere in ragione del fatto che il predetto corrispettivo – tanto per i rapporti di lavoro subordinato ai sensi del combinato disposto degli artt. 2099, ult. cpv. e 2102 c.c., quanto, a maggior ragione, per i rapporti di lavoro non subordinato – è calcolabile anche in base agli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato. Anzi, il ristorno può concorrere in modo ottimale a garantire che il “trattamento economico complessivo [sia] proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato” (art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001) (13). (8) Facendo cioè diventare socio il lavoratore che non lo sia. Si pensi, per esempio, all'assegnazione di azioni ex art. 2349 c.c. in proporzione al lavoro prestato in favore della cooperativa. (9) Tanto è vero che vi è un'apposita disposizione che la prevede, ossia l'art. 9, r.d. 12 febbraio 1911, n. 278, riguardante determinate categorie di cooperative (e loro consorzi) ammessi ai pubblici appalti. (10) Per un approfondimento sul tema sopra indicato v. CUSA, I ristorni nelle società cooperative, cit., pp. 86-94 e 172-175. (11) Circa il negozio parziario o la relativa clausola cfr., per tutti, IRTI, voce “ Negozio parziario ”, in Nov. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 223 ss. (12) Ma anche – come si osserverà al termine di questo paragrafo – nell'art. 3, comma 2°, lett. a), l. n. 142/2001. (13) Come sarà precisato nella prima nota del § 10, entrambi i suddetti criteri dovrebbero valere anche in presenza di ristorni riconosciuti come impieghi di utili. 4 In effetti, gli utili riconosciuti a tale titolo fanno variare il corrispettivo pagato al socio in funzione non solo della quantità, ma anche della qualità del lavoro prestato (14). Ma, allora, il ristorno potrebbe diventare lo strumento ideale per trattare nel medesimo modo i soci prestatori dello stesso lavoro, senza violare pertanto la parità dei loro diritti negli scambi mutualistici (15); parità, quest'ultima, che potrebbe invece essere infranta in presenza di superminimi individuali o di premi, se tale differenziazione avvenisse non rispettando i valori cooperativi. La parte del corrispettivo misurata in funzione degli utili non solo può essere riconosciuta in aggiunta ai trattamenti economici minimi indicati nell'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001, ma può anche concorrere al raggiungimento dei predetti valori minimi (16). La prima ipotesi è possibile in quanto la disposizione testé citata fissa solo l'ammontare minimo del trattamento economico da riconoscersi ai soci lavoratori; la cooperativa può dunque decidere di pagare a costoro un corrispettivo pari alla somma dei minimi di cui all'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001 con gli eventuali ristorni. La seconda ipotesi – sicuramente la più interessante, poiché introduce un compenso minimo anche per il socio che sia lavoratore non subordinato (17) – è invece ammissibile (18), poiché non pare esservi alcuna norma in grado di imporre il riconoscimento in cifra (14) Tutto ciò è conforme al fatto che la cooperativa, nel determinare il corrispettivo da riconoscersi al socio lavoratore, dovrà riferirsi al valore economico dello specifico lavoro da lui prestato. La presenza di questo generale e flessibile indice di riferimento per determinare il corrispettivo della prestazione del socio nello scambio mutualistico è stata sostenuta da CUSA, I ristorni nelle società cooperative, cit., pp. 222-225. (15) In altre parole, la cooperativa, in presenza di due soci con la stessa professionalità che offrono la stessa prestazione, deve riconoscere loro corrispettivi uguali. Ciononostante, tale parità di diritti (Gleichberechtigung) può essere derogata nel contratto sociale entro certi limiti (sul punto si rinvia a CUSA, op. ult. cit., pp. 220-239). (16) Come esempio di clausola parziaria contenuta nello statuto della società e capace di eterointegrare il contratto di lavoro tra socio e cooperativa si ipotizzi la seguente: “la retribuzione o il compenso del socio lavoratore saranno incrementati attraverso il ristorno fino al 20% in più di quanto riconosciutogli in cifra fissa”. In tal caso la cooperativa potrà riconoscere ristorni di diverso valore, essendo calcolati sulla base sia del numero di ore di lavoro (quantità del lavoro prestato), sia del tipo di prestazione effettuata (qualità del lavoro prestato). In presenza di una clausola di questo genere è possibile che i ristorni riconosciuti come costi commisurati agli utili non esauriscano completamente l'utile di esercizio sulla cui destinazione è chiamata a decidere l'assemblea dei soci ai sensi dell'art. 2536, ult. cpv., c.c.; ma allora i predetti soci lavoratori potrebbero vedersi riconosciuti ulteriori ristorni, da qualificarsi, in quest'ultimo caso, come impieghi di utili. (17) Una diversa disciplina era invece applicabile prima dell'entrata in vigore della l. n. 142/2001, come ha cercato di dimostrare CUSA, I ristorni nella società cooperativa, cit., p. 72 ss. (18) Stante il chiaro dettato dell'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001, sarebbe invece inammissibile riconoscere i ristorni di cui all'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, qualora non fosse stato ancora pagato ai soci lavoratori il corrispettivo minimo garantito dal primo comma della predetta disposizione; il che è 5 fissa dell'intero trattamento economico minimo stabilito nell'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001 (19). In entrambe queste ipotesi (20) il ristorno corrisponde ad un credito di lavoro (21) e viene disciplinato anche dal diritto del lavoro (così, per esempio, dall'art. 2113 c.c.). Il ristorno in parola dovrà poi essere considerato, agli effetti previdenziali, reddito da lavoro dipendente (22), concorrendo pertanto a formare la base di calcolo della contribuzione previdenziale ai sensi dell'art. 4, comma 2°, l. n. 142/2001 (23). Il credito corrispondente a tale ristorno beneficia inoltre del privilegio sui mobili ai sensi del combinato disposto degli 2751-bis c.c. e 5, comma 1°, l. n. 142/2001. Infine, in presenza di una lite giudiziaria avente ad oggetto questo trattamento economico, la competenza funzionale spetterà al giudice del lavoro ai sensi dell'art. 5, comma 2°, l. n. 142/2001, poiché la predetta controversia attiene ad un rapporto di lavoro. Qualora il ristorno serva a raggiungere il corrispettivo minimo fissato nell'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001, il lavoratore non perderà il diritto a vedersi attribuita tale quota variabile del trattamento economico complessivo nemmeno quando mancasse l'utile ristornabile, in forza dell'inderogabile garanzia riconosciutagli dal citato art. 3, comma 1° (24); in pacifico in dottrina: per tutti v. MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamento forte dopo la legge n. 142/2001), in Dir. prat. lav. (inserto), 2001, n. 34, p. III ss., ivi alla p. XVII. (19) CUSA, I ristorni nella nuova disciplina delle società cooperative, cit., p. 24, ha però auspicato che la riforma del diritto cooperativo delimiti la nozione di ristorno (sia come impiego di utili, sia come costo commisurato agli utili) in modo da essere integrata solo quando il socio sia stato già trattato dalla cooperativa con le stesse condizioni ottenibili sul mercato. (20) Un'opposta disciplina – come si tenterà di provare nel § 9 – vale invece in presenza di ristorni riconosciuti come impieghi di utili. (21) Il che non è una precisazione di poco momento, allorquando l'applicazione di determinate disposizioni sia subordinata alla causa del credito. (22) Sul tema, in generale, si rimanda al recente contributo di CINELLI, La nuova disciplina del lavoro nelle cooperative alla luce degli effetti previdenziali, in Riv. prev. pubbl. priv., 2002, n. 1, p. 9 ss. (23) Circa però le numerose cooperative disciplinate dal d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602 si ricorda il d.lgs. 6 novembre 2001, n. 423 con cui è stata attuata la delega contenuta nell'art. 4, comma 3°, l. n. 142/2001. (24) Vale la pena di chiedersi se dopo la l. n. 142/2001 il socio lavoratore di cooperativa – quand'anche non sia un lavoratore subordinato – abbia diritto al trattamento garantito dall'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001 pure nell'ipotesi in cui la cooperativa non sia in grado di offrirgli occasioni di lavoro. Sebbene il citato art. 3, comma 1°, parrebbe comunque collegare il corrispettivo minimo all'effettiva prestazione di un lavoro, TARTAGLIONE, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Guida al Lavoro, 2001, n. 20, p. 8 ss., ivi alla p. 13, sostiene che con la nuova disciplina in commento i soci lavoratori non sarebbero “più soggetti al c.d. rischio d'impresa”; la cooperativa, pertanto, dovrebbe riconoscere ai propri soci l'esposto trattamento garantito anche qualora essi non avessero lavorato. In senso analogo sembra andare anche RAGAZZINI, Nuove norme in materia di società cooperative. Commento alla legge 31 gennaio 1992, n. 59, Bologna, 2001, pp. 810 s. e 815, sulla base dell'art. 6, comma 1°, lett. d), l. n. 142/2001. 6 quest'ultimo caso, tuttavia, ciò che sarà dato al socio non potrà essere qualificato come ristorno, non costituendo esso una parte dell'utile di esercizio. Di norma, il ristorno attribuito come un costo commisurato agli utili dovrebbe essere stabilito dall'organo amministrativo della cooperativa (25), poiché tale decisione costituisce sicuramente un atto di gestione (corrispondente alla stipulazione di contratti parziari con i soci lavoratori). Ciononostante, alla luce specialmente dell'art. 1, comma 2°, lett. b) e c), l. n. 142/2001 (26), non sarebbe azzardato sostenere che – almeno per le “cooperative nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio” (art. 1, comma 1°, l. n. 142/2001) (27) – la competenza in parola sia propria dell'assemblea ordinaria dei soci (28); in altre parole, il citato art. 1, comma 2°, lett. b) e c) obbligherebbe la cooperativa a stabilire nello statuto (29) che l'indicata competenza debba essere annoverata tra quelle spettanti all'assemblea ai sensi dell'art. 2364, comma 1°, n. 4, c.c. Naturalmente, anche i contratti collettivi di cui all'art. 2, l. n. 142/2001 sono in grado di inserire nei contratti di lavoro individuali stipulati dai soci la clausola parziaria, in base alla quale la cooperativa riconoscerà loro dei ristorni come costi commisurati agli utili. (25) Per vero, anche l'assemblea può eterointegrare il contratto con cui si realizzi lo scambio mutualistico prevedendo la clausola parziaria in parola in due modi: o mediante un'apposita deliberazione ai sensi dell'art. 2364, n. 4, c.c., o mediante una corrispondente modifica statutaria. (26) In particolare, si veda la succitata lett. c), nella parte in cui stabilisce che i soci lavoratori “partecipano (...) alle decisioni sulla (...) destinazione” dei risultati economici. In effetti, in base al principio di non ridondanza e al correlato argomento c.d. economico (sul punto v. TARELLO, L'interpretazione della legge, in Tratt. di dir. civ. e comm. già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1980, I, 2, pp. 151 s. e 371 s.), non si dovrebbe attribuire ad un enunciato normativo un significato che è già proprio di un altro enunciato normativo; ma allora, la disposizione in commento, affinché non sia superflua (in quanto ripetitiva di una regola più generale ricavabile dal combinato disposto degli artt. 2433 e 2536 c.c.), pare non potere avere altro significato che il seguente: l'assemblea dei soci è competente in materia tanto di distribuzione degli utili, quanto di partecipazione agli utili (corrispondente alla fattispecie legale disciplinata in modo frammentario dagli artt. 2102, 2340, 2341, 2389, comma 1°, e 2432 c.c.). (27) Una condivisibile interpretazione della frase riportata nel testo è offerta da BIAGI e MOBIGLIA, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al Lavoro, 2001, n. 45, p. 12 ss., ivi alla p. 13. In argomento, da ultimo, v. la circolare del Ministero del lavoro del 17 giugno 2002, n. 34. (28) Oppure forse – stante l'incipit del secondo comma dell'art. 1, l. n. 142/2001 – dei soli soci lavoratori, qualora la cooperativa fosse composta da altre categorie di soci. Nella situazione appena descritta, tuttavia, sembrerebbe possibile (anzi, forse auspicabile) prevedere nello statuto che anche i soci non lavoratori partecipino alle suddette decisioni, così da garantire un costante bilanciamento tra i diversi interessi dei soci della cooperativa; una tale pattuizione garantirebbe inoltre l'attribuzione ad uno stesso organo – l'assemblea dei soci – di qualsiasi decisione relativa ai ristorni. (29) Quand'anche la cooperativa rimanesse inerte di fronte a questa novità normativa, i soci lavoratori sarebbero comunque competenti a decidere sui ristorni riconosciuti loro come costi, in forza dell'inserzione automatica della suddetta disposizione nel contratto sociale ai sensi dell'art. 1379 c.c. 7 In tal caso questi ristorni potrebbero tanto integrare i trattamenti economici complessivi di cui all'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001, quanto costituire un trattamento economico ulteriore ai sensi dell'art. 3, comma 2°, lett. a), l. n. 142/2001. Qualora si scegliesse la seconda disciplina negoziale testé prospettata, tuttavia, l'efficacia della clausola parziaria sarà subordinata alla deliberazione assembleare di cui al citato art. 3, comma 2°, lett. a). 8. Dall'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 deriva l'univoca attribuzione all'assemblea dei soci, convocata per approvare il bilancio, del potere di decidere se riconoscere “trattamenti economici ulteriori (...), a titolo di ristorno”. Tale competenza pare porsi, almeno de iure condito, in insanabile contrasto con la tesi che qualifica i ristorni riconosciuti in una cooperativa di lavoro come una rettifica di costi (cioè delle retribuzioni o dei compensi riconosciuti ai soci) risultante dal conto economico. In effetti, nel diritto delle società con personalità giuridica vige la regola – chiaramente fissata dal combinato disposto degli artt. 2364, comma 1°, n. 1, e 2423, comma 1°, c.c. – secondo la quale la redazione del progetto del bilancio (e perciò la decisione circa le poste attive e passive in esso iscrivibili) spetta in via esclusiva all'intero organo amministrativo, mentre l'approvazione del predetto documento contabile spetta soltanto all'assemblea (30). L'esposta ripartizione di competenze non sembra nemmeno scalfita dall'art. 1, comma 2°, l. n. 142/2001, il quale, nondimeno, sembra accrescere in modo significativo le competenze gestorie dell'assemblea o, comunque, dei soci lavoratori non amministratori. La deliberazione di attribuzione di ristorni non pare neanche comprensibile nell'ipotesi in cui l'assemblea, sempre che lo possa fare (31), modifichi il progetto di bilancio prima di approvarlo; in effetti, se l'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 è oltremodo chiaro nell'attribuire all'assemblea dei soci l'esclusiva competenza circa il riconoscimento dei ristorni, gli amministratori, come non possono iscrivere nel progetto di bilancio gli utili che verranno destinati a seguito della delibera assembleare (32), così non potranno anticipare la decisione dell'assemblea iscrivendo già nell'anzidetto progetto le rettifiche conseguenti ai ristorni, salvo modifica successiva dei soci in sede di approvazione del bilancio. (30) Che la regola su riportata si applichi anche alle cooperative è opinione pacifica; così, da ultimo, proprio con riguardo ai ristorni, v. Cass., 8 settembre 1999, n. 9513, in Giur. comm., 2000, II, p. 317. (31) Per l'ammissibilità dell'ipotesi sopra ventilata è la dottrina maggioritaria (ex pluribus v. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, quinta edizione, Torino, 2002, p. 463; contra, fra gli altri, LIBONATI, Formazione dl bilancio e destinazione degli utili, Camerino, 1978, p. 93 ss.). (32) Situazione che a volte si verifica nelle società di capitali; contro tale prassi, però, COLOMBO, Il bilancio d'esercizio, in Tratt. delle s.p.a. diretto da Colombo e Portale, 7*, Torino, 1994, p. 508, nt. 73. 8 In ogni caso, le cooperative sono soggette allo stesso diritto contabile delle società per azioni ai sensi dell'art. 2516 c.c. (33). Quando allora l'art. 1, comma 2°, l. n. 142/2001 stabilisce che i soci “partecipano al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione”, tali “risultati economici” dovranno essere necessariamente qualificati, se positivi, come gli utili di esercizio, non essendo stata prevista, almeno de iure condito, una peculiare nozione di avanzo di gestione valevole solo nell'ordinamento cooperativo (34). Il riferimento all'approvazione del bilancio di esercizio contenuto nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 è dunque particolarmente significativo nel caso di specie, in quanto il ristorno dovrà per forza apparire nel predetto documento contabile. Se infatti è pacifico che la cooperativa potrà distribuire ristorni soltanto a condizione che la gestione mutualistica dell'impresa si sia “chiusa con un'eccedenza dei ricavi rispetto ai costi” (35) e se la predetta eccedenza non può che corrispondere ad una parte dell'utile di esercizio, è giocoforza concludere, allora, che i ristorni sono una quota dell'utile di esercizio risultante dal bilancio regolarmente approvato. Un ultimo decisivo dato testuale a sostegno della qualificazione del ristorno come una quota dell'utile di esercizio è ancora offerto dall'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, nella parte in cui consente di utilizzare il ristorno per aumentare gratuitamente il capitale sociale della cooperativa (36). In effetti, se il diritto societario esclude che si possa eseguire un incremento del capitale sociale avvalendosi di una voce negativa del bilancio (come sarebbe una rettifica del costo di produzione) (37) e se la natura del ristorno non cambia a seconda che venga liquidato direttamente (“mediante integrazioni delle retribuzioni medesime”) o indirettamente (33) In senso conforme la stessa Cassazione con la sentenza 8 settembre 1999, n. 9513, cit. (34) Diversamente accade, per esempio, in Spagna, con l'art. 58, Ley 27/1999, de Cooperativas. L'avanzo di gestione su cui calcolare la quota da attribuire a titolo di ristorno o di dividendo o quella da destinare a riserva legale costituisce un concetto non univoco nei vari ordinamenti cooperativi nazionali. A dimostrazione della delicatezza e della difficoltà di disciplinare il punto in esame cfr. l'iter legis del progetto di regolamento comunitario recante statuto della Società cooperativa europea (la sua ultima pubblicazione sul GUCE risale al 31 agosto 1993, C 236/17). Ebbene, nella più recente versione di tale progetto [corrispondente al documento in lingua inglese del Consiglio dell'Unione europea del 22 maggio 2002 (8998/02)], proprio negli articoli riguardanti la destinazione dell'avanzo di gestione della cooperativa, si è addivenuto alla quasi totale sostituzione della parola “profits” con la parola “surplus”. (35) Così perfino Cass., 8 settembre 1999, n. 9513, cit. (36) Sul punto v., infra, § 11. (37) Secondo il codice civile, infatti, le uniche voci utilizzabili dalla cooperativa per aumentare gratuitamente il suo capitale sociale sono o le riserve disponibili (arg. dall'art. 2442 c.c.) oppure gli utili distribuibili (artt. 2536, comma 3°, c.c. e 7, l. 31 gennaio 1992, n. 59). 9 (“mediante aumento gratuito del capitale sociale”), bisogna concludere nel senso che il ristorno debba considerarsi una parte dell'utile di esercizio sulla cui destinazione decide liberamente l'assemblea dei soci. L'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, quindi, indica correttamente l'assemblea dei soci (38) come l'organo chiamato a decidere sulla distribuzione dei ristorni, in quanto la corrispondente delibera, fissando la destinazione dell'utile risultante dal bilancio di esercizio regolarmente approvato, risulta essere di sua competenza esclusiva ai sensi degli artt. 2433, comma 1°, e 2536, comma 3°, c.c. Da questa qualificazione si può dunque capire perché un socio di una cooperativa non possa vantare, di norma, alcun diritto al ristorno (39); quest'ultimo, infatti, come il diritto al dividendo, matura solo se lo vuole la maggioranza riunita in assemblea. La sfera di applicazione dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 non è però limitata all'ipotesi in cui l'assemblea sia libera di decidere se distribuire parte dell'utile di esercizio a titolo di ristorno. La disposizione poc'anzi citata sembra infatti disciplinare anche il caso in cui l'assemblea sia obbligata dallo statuto a riconoscere l'indicata posizione soggettiva ai soci, ossia quando una clausola statutaria imponga al predetto organo (convocato ai sensi dell'art. 2364, comma 1°, n. 1, c.c.) di distribuire come ristorno parte dell'avanzo ripartibile a tale scopo; ipotesi, quella appena ventilata, ritenuta legittima dalla stessa Suprema Corte (40). Poiché il ristorno matura con la deliberazione assembleare di destinazione degli utili, il lavoratore, qualora ne intenda beneficiare, deve rimanere socio almeno fino alla data in cui l'assemblea delibera la distribuzione degli utili a tale titolo (41); il lavoratore non potrà pertanto godere del ristorno se la cessione dell'intera sua partecipazione, il suo recesso, la sua esclusione o la sua morte abbiano effetto verso la cooperativa prima della predetta data. (38) Di norma convocata in sede ordinaria; per un approfondimento sul punto v., infra, § 12. (39) Da ultimo, tale orientamento è stato fatto proprio dalla stessa Cassazione, con sentenza 8 settembre 1999, n. 9513, cit.; in senso contrario, tuttavia, v. ROSSI, Mutualità e ristorni nelle banche di credito cooperativo, cit., pp. 499, 504 e 507 ss. (40) Nella sentenza 14 maggio 1992, n. 5735, in Giur. comm., 1993, II, p. 461. In effetti, la fattispecie concreta oggetto della predetta decisione riguardava una cooperativa di produzione e lavoro il cui statuto prevedeva che una metà dell'utile di esercizio disponibile dall'assemblea ordinaria dovesse essere ripartita in proporzione alla quantità di lavoro prestata da ciascun socio, mentre l'altra metà dovesse essere destinata a fini mutualistici. Questa sentenza, sebbene contenga alcuni errori concettuali (in effetti, confonde, per esempio, i dividendi con i ristorni), si segnala per un ulteriore aspetto: l'aver chiaramente detto nel 1992 quanto il legislatore ha sancito nell'art. 1, comma 3°, l. n. 142/2001, ossia che i soci lavoratori sono legati alla loro cooperativa sia mediante il contratto di società, sia mediante un contratto di lavoro. (41) Diversamente accade nell'ipotesi in cui il ristorno costituisca un costo commisurato agli utili. 10 Da ultimo, un'osservazione circa i ristorni riconoscibili (a qualsiasi titolo) una volta che sia stato deliberato un piano di crisi aziendale ex art. 6, comma 1°, lett. d), l. n. 142/2001. Se questa norma parrebbe consentire la riduzione temporanea dei soli ristorni attribuiti ai sensi dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 e non anche dell'altra parte del trattamento economico riconosciuto al socio lavoratore; se il ristorno deve corrispondere sempre ad una parte dell'utile di esercizio; se tutto ciò è corretto, il riferimento agli utili contenuto nell'art. 6, comma 1°, lett. d), l. n. 142/2001 va inteso nel limitato senso di dividendi. Ma allora l'assemblea dei soci, in presenza di una crisi aziendale previamente regolata con un apposito piano, dovrà (forse) mantenere invariati i ristorni attribuiti come costi commisurati agli utili, potrà ridurre i ristorni distribuiti come impieghi di utili e non potrà distribuire dividendi. 9. Il ristorno, quando costituisce una parte dell'utile di esercizio attribuita in seguito ad una deliberazione assembleare presa ai sensi degli artt. 2433, comma 1°, e 2536, comma 3°, c.c., non può essere sussunto nella nozione di retribuzione o di compenso riconosciuti al socio lavoratore (42). Detto altrimenti, in tale caso la causa del ristorno sta non tanto nel contratto di lavoro, quanto nel contratto di società. Che il trattamento economico riconoscibile ai sensi dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 non integri il compenso o la retribuzione corrisposti al socio lavoratore è confermato da diversi indici testuali presenti nella predetta legge. Sul piano civilistico ciò emerge dall'art. 5, comma 1°, l. n. 142/2001, ai sensi del quale il diritto di credito al ristorno non gode del privilegio generale sui mobili di cui all'art. 2751-bis c.c.; privilegio che è invece riconosciuto alla retribuzione (43) e a tutti gli altri trattamenti economici attribuiti al socio lavoratore. (42) Un'opposta conclusione vale invece per i ristorni attribuiti in virtù di una clausola parziaria inserita nel contratto di lavoro; sul punto si rimanda al § 7. (43) E si direbbe anche al compenso, cioè a quanto corrisposto al socio che sia un lavoratore non dipendente; della stessa opinione è MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamento forte dopo la legge n. 142/2001), cit., pp. XIII e XVII; contra, però, DE LUCA, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001 n. 142), in Foro it., 2001, V, c. 233 ss., ivi alla c. 245. 11 Nella stessa direzione, ma sul piano previdenziale, si muove l'art. 4, comma 2°, l. n. 142/2001, il quale esclude appunto il ristorno dai trattamenti economici dei soci lavoratori imponibili a fini contributivi (44). Eventuali controversie che dovessero insorgere sul ristorno, poiché quest'ultimo inerisce “al rapporto associativo”, spetteranno dunque alla competenza del giudice civile ordinario ai sensi dell'art. 5, comma 2°, l. n. 142/2001. Conclusivamente, dunque, e più in generale, il ristorno non derivante da un contratto parziario sarà regolato non già dal diritto del lavoro, bensì dal diritto delle società cooperative. Infine, un'ultima precisazione; poiché il corrispettivo pattuito nel contratto di lavoro può essere composto anche da un ristorno [o integrante il trattamento economico complessivo di cui all'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001, o costituente la maggiorazione di cui all'art. 3, comma 2°, lett. a), l. n. 142/2001 (45)], il socio lavoratore, su uno stesso utile di esercizio, potrà ottenere due ristorni a titolo diverso: uno come costo commisurato agli utili e un altro come impiego di utili ai sensi dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001. 10. Per riconoscere legittimamente il ristorno non basta ripartire l'utile di esercizio distribuibile in base alla quantità e alla qualità del lavoro prestato dai soci alla cooperativa (46) o, eventualmente, in base ad altri criteri (accessori ai precedenti) capaci di differenziare i lavoratori in conformità ai valori cooperativi (47). In effetti, per esservi civilisticamente un ristorno occorre che la cooperativa utilizzi soltanto la parte dell'utile di esercizio derivante direttamente dall'attività lavorativa dei soci, (44) DE LUCA, op. ult. cit., c. 244, proprio dalla suddetta disposizione, ricava come il ristorno di cui all'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 attenga al rapporto societario e non a quello di lavoro. (45) Sul tema v., retro, § 7. (46) Nel nostro ordinamento il ristorno riconosciuto al socio lavoratore è tradizionalmente calcolato in ragione di entrambi i criteri sopra indicati. In effetti, questo trattamento economico è stato sempre rapportato al corrispettivo riconosciuto al socio, come si ricava, sul piano civilistico, sia dall'art. 7, r.d. n. 278/1911 (“in proporzione dei salari percepiti da ogni socio”), sia dallo stesso art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, allorché fissa il plafond ai ristorni. Anzi, proprio in virtù delle disposizioni sopra indicate, sembrerebbe quasi che le cooperative di lavoro italiane debbano calcolare il ristorno sulla base tanto della quantità, quanto della qualità del lavoro prestato. Nelle coopératives ouvrières de production francesi, invece, l'excédents nets de gestion è ripartito in base al numero di ore lavorative prestate dai cooperatori (“au prorata du temps de travail fourni”) ai sensi art. 33, n. 3, loi n. 78-763 du 19 juillet 1978 (portant statut des sociétés coopératives ouvrières de production). (47) I criteri capaci di alterare il principio di proporzionalità nella ripartizione dei ristorni sono stati studiati da CUSA, I ristorni nelle società cooperative, cit., p. 189 ss. 12 cioè, tecnicamente, l'utile di gestione con i soci (48). Ma, allora, il riconoscimento di ristorni presuppone una separazione contabile ogniqualvolta la cooperativa si avvalga di lavoratori non soci. L'assemblea ordinaria chiamata a decidere sulla distribuzione dell'utile a titolo di ristorno, se intende ottemperare alla l. n. 142/2001, non deve però limitarsi a rispettare il plafond testé indicato. In effetti, vi sono almeno altri due vincoli da osservare se si vogliono riconoscere in modo legittimo i ristorni come impieghi di utili. Da un lato, prima di attribuire i ristorni, è necessario che l'utile di esercizio non solo sia utilizzato per coprire eventuali perdite pregresse ai sensi dell'art. 2433, comma 3°, c.c., ma sia anche destinato a riserva legale e al fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione nelle percentuali fissate nell'art. 2536, commi 1° e 2°, c.c. (49). Dall'altro, al socio non può essere liquidato – direttamente o indirettamente – un ristorno “superiore al 30 per cento” della retribuzione o del compenso complessivamente riconosciutigli (50). Come emerge con chiarezza dallo stesso dettato dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, il plafond ivi fissato va calcolato sulla somma del corrispettivo riconosciuto ex art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001 con la possibile maggiorazione di cui all'art. 3, comma 2°, lett. a), l. n. 142/2001; sicché il ristorno come impiego di utili è non già alternativo (51), bensì (eventualmente (52)) aggiuntivo alla predetta maggiorazione (53). Se la cooperativa è obbligata a separare contabilmente l'attività lavorativa con i soci da quella con i terzi e perciò a riconoscere a titolo di ristorno solo la parte disponibile dell'utile (48) Così ancora CUSA, op. ult. cit., p. 45 ss. Di recente, la tesi esposta nel testo pare che sia stata fatta propria dall'amministrazione finanziaria; secondo, infatti, la circolare dell'Agenzia delle Entrate del 18 giugno 2002, n. 53, è riconoscibile come ristorno solo “l'avanzo – documentato – di gestione generato esclusivamente con le transazioni intercorse con i soci”, poiché il ristorno “ è possibile solo se risulta in utile l'attività che la cooperativa svolge con i soci”. (49) Ovviamente, tali diminuzioni dell'utile di esercizio possono non intaccare l'utile di gestione ottenuto con i soci e perciò la quota dell'utile ristornabile, potendosi utilizzare per le suddette allocazioni le altre componenti dell'utile di esercizio. (50) In favore del fatto che il limite sopra segnalato valga anche per i compensi dati al socio non lavoratore subordinato, nonostante l'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 parli di trattamenti retributivi, v., per tutti, DI PAOLA, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, in questa Rivista, 2001, p. 909 ss., ivi alla p. 933. (51) Pare di questa opinione MISCIONE, op. cit., p. XVII. (52) Atteso che si possono riconoscere ristorni anche in assenza della maggiorazione di cui all'art. 3, comma 2°, lett. a), l. n. 142/2001. (53) Conformemente BIAGI e MOBIGLIA, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, cit., p. 16. 13 di gestione ottenuto dall'attività con i soci, il tetto previsto dall'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 potrebbe forse trovare una ragionevole spiegazione se lo si considerasse un vincolo volto a salvaguardare un certo grado di patrimonializzazione della cooperativa, analogamente a quanto già stabilisce l'art. 2536, comma 1°, c.c. – in modo molto più stringente del corrispondente disposto contenuto nell'art. 2430, comma 1°, c.c., valevole per le sole società di capitali – per la quota di utile da destinarsi a riserva legale. Sempre che sia questa la ratio del plafond in commento, sarebbe tuttavia molto più efficace una disposizione che lo rapportasse non già ai ristorni riconosciuti, bensì agli utili ristornabili (54). Altra possibile (e forse più convincente) spiegazione del vincolo in parola potrebbe essere che con esso si è voluto evitare intenti speculativi o comunque eccessivamente egoistici dei cooperatori, specie a scapito dei lavoratori non soci (55). Tale norma, pertanto, in presenza di una cooperativa capace di realizzare alti utili, potrebbe avere l'indiretto effetto di spingere i soci ad allargare la base sociale, concretando così il principio cooperativo della c.d. porta aperta. Il plafond al ristorno contenuto nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, essendo di natura civilistica, determina sicuramente l'invalidità della deliberazione assembleare con la quale fossero stati riconosciuti ristorni superiori a tale tetto (56). In assenza di una norma di coordinamento, il limite fissato nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, proprio per la sua natura civilistica, non era in grado di sostituire quello diverso, di natura tributaria, contenuto nell'art. 11, ult. cpv., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (57), in base al quale la cooperativa poteva dedurre dal proprio reddito imponibile solo i ristorni che non eccedessero il 20% dei “salari correnti” (58). (54) Circa le forti resistenze in sede parlamentare all'introduzione del tetto ai ristorni sopra menzionato v. ALLEVA, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Società, 2001, p. 641 ss., ivi alla p. 650. (55) In senso analogo può essere spiegato l'art. 9, r.d. n. 278/1911, a tutela del lavoro degli operai salariati; dello stesso parere BASSI, La cooperazione vista attraverso il diritto tributario, in Bucci e Cerrai (a cura di), La riforma della legislazione sulle cooperative, Milano, 1979, p. 390. (56) Visto che la disposizione sopra commentata pare tutelare interessi generali, la sua violazione dovrebbe causare la nullità della relativa deliberazione assembleare. (57) Di avviso opposto, tuttavia, la gran parte degli interpreti, qui rappresentati da DE LUCA, op. cit., c. 244, nt. 29. (58) Un'interpretazione delle parole “retribuzioni effettivamente corrisposte ai soci” contenute nel primo comma dell'art. 11, d.P.R. n. 601/73 è offerta dalla risoluzione del Ministero delle finanze del 12 giugno 2001, n. 90. 14 Secondo l'Agenzia delle Entrate (59), tuttavia, il quadro normativo è mutato con l'entrata in vigore dell'art. 6, d.-l. 15 aprile 2002, n. 63, convertito con l. 15 giugno 2002, n. 112; per tale agenzia, infatti, tutto il ristorno riconosciuto ai sensi dell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 non solo è sempre deducibile dal reddito imponibile della cooperativa in forza dell'art. 12 d.P.R. n. 601/73, ma non concorre neanche a formare il reddito imponibile dei soci se tale somma viene liquidata loro indirettamente; ma allora, la cooperativa, se capitalizza i ristorni in misura non “superiore al 30 per cento dei trattamenti economici complessivi” riconosciuti ai soci lavoratori, non solo adotta una deliberazione assembleare legittima, ma beneficia anche (assieme ai propri soci lavoratori) di un particolare trattamento tributario sull'intera quota dei ristorni liquidati. Nonostante il recente intervento riformatore, tuttavia, la normativa tanto civilistica quanto tributaria del ristorno rimane assolutamente insufficiente e, comunque, assai disorganica. È necessario pertanto addivenire al più presto ad una chiara e coerente disciplina legale del ristorno; disciplina di cui si dovrebbe far carico il legislatore delegato in sede di attuazione della delega contenuta nell'art. 5, l. 3 ottobre 2001, n. 366 (60). 11. Il ristorno può essere liquidato direttamente “mediante integrazioni delle retribuzioni” o dei compensi (art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001) (61); il che significa che la cooperativa riconoscerà, di norma, una somma di danaro al lavoratore in aggiunta al corrispettivo pattuito nel contratto di lavoro. La stessa disposizione chiarisce, tuttavia, che il ristorno può essere liquidato anche indirettamente, ossia incrementando la partecipazione sociale del lavoratore oppure riconoscendogli azioni di partecipazione cooperativa (62). (59) In particolare, si vedano della suddetta agenzia sia la circolare del 18 giugno 2002, n. 53, sia le risoluzioni del 5 giugno 2002, n. 172 e del 2 luglio 2002, n. 212. (60) Su tale ius condendum si rimanda a CUSA, I ristorni nella nuova disciplina delle società cooperative, cit., p. 18 ss. (61) In effetti, le parole “retribuzioni medesime” presenti nella suddetta disposizione si riferiscono ai trattamenti economici complessivi di cui all'art. 3, comma 1°, l. n. 142/2001 e perciò anche ai compensi riconosciuti al socio lavoratore. (62) In presenza di ristorni attribuiti come costi commisurati agli utili, invece, non parrebbe possibile liquidarli aumentando contestualmente il capitale sociale della cooperativa. Ciononostante, se lo prevedesse la clausola parziaria, i ristorni da essa scaturenti potrebbero essere pagati dando non già somme di denaro, bensì beni in natura (in argomento v. CUSA, I ristorni nelle società cooperative, cit., p. 22 s.); di conseguenza, una cooperativa sarebbe forse in grado di liberarsi dal relativo debito consegnando, per esempio, proprie partecipazioni ai soci lavoratori che fossero creditori di ristorni commisurati agli utili. 15 La liquidazione indiretta di ristorni è sicuramente quella più complicata dal punto di vista operativo, ma dovrebbe riservare i maggiori vantaggi alla cooperativa. Che sia preferibile avvalersi del ristorno per incrementare il patrimonio della cooperativa è un'idea ormai condivisa dal movimento cooperativo. A dimostrazione di ciò basta ricordare sia la riformulazione dell'art. 12, d.P.R. n. 601/73 (63) operata dall'art. 6, l. 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), sia l'art. 6, comma 2°, sub art. 1 l. n. 112/2002, essendo tali disposizioni esempi significativi di legislazione concertata tra Stato e movimento cooperativo. Come chiarisce lo stesso art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, sulla scorta di quanto già previsto dall'art. 7, l. n. 59/92, l'operazione appena descritta va considerata come un'ipotesi di aumento gratuito del capitale (64). Poiché alla formazione del capitale sociale della cooperativa concorrono i conferimenti eseguiti dai cooperatori, dai sovventori (65) e dai titolari delle azioni di partecipazione cooperativa (66), tale società potrà decidere di liquidare indirettamente il ristorno ai propri lavoratori non solo incrementando la tipologia di partecipazione da essi già posseduta come (63) “Per le società cooperative e loro consorzi sono ammesse in deduzione dal reddito le somme ripartite tra i soci sotto forma di restituzione di una parte del prezzo dei beni e servizi acquistati o di maggior compenso per i conferimenti effettuati. Le predette somme possono essere imputate ad incremento delle quote sociali”. 64 ( ) In generale, sulla legittimità (prima e dopo l'approvazione della l. n. 59/92) dell'aumento gratuito del capitale di una cooperativa rinvio al recente lavoro di RAGAZZINI, Nuove norme in materia di società cooperative, cit., p. 427 ss. Proprio perché ci si trova di fronte ad una operazione di incremento del capitale, non può essere condivisa la tesi di MOSCONI, Il ristorno ai soci corrisposto dalle cooperative, in Riv. coop., 2001, n. 2, p. 7 ss., ivi alla p. 14, secondo la quale sarebbe il consiglio di amministrazione a deliberarla; almeno de iure condito, infatti, il potere di aumentare il capitale sociale (non attraverso l'ammissione di nuovi soci ex art. 2525 c.c.) spetta all'assemblea dei soci, la quale – come si vedrà nel prossimo paragrafo – potrà eventualmente delegare tale potere all'organo gestorio. 65 ( ) Si aderisce così alla tesi dominante in dottrina, qui rappresentata da COSTI, La riforma delle società cooperative: profili patrimoniali e finanziari, in Giur. comm., 1992, I, p. 935 ss., ivi alla p. 937; esponente dell'opposta opinione è invece ROMAGNOLI, La legge 31 gennaio 1992, n. 59: prime considerazioni sulla figura del socio sovventore, in Riv. soc., 1992, p. 1487 ss., ivi alla p. 1495. (66) Si richiama l'art. 5, commi 8° e 9°, l. n. 59/92 come dimostrazione indiretta del fatto che gli apporti necessari per acquistare i suddetti titoli vadano imputati, in tutto o in parte (se emessi con sopraprezzo), a capitale sociale. Tanto la dottrina maggioritaria (per tutti v. BASSI, Le società cooperative, Torino, 1995, p. 176) quanto la Commissione centrale per le cooperative (col parere del 16 giugno 1993, in Riv. coop., 1994, n. 16, p. 14) sono d’accordo nel sostenere che le azioni di partecipazione cooperativa rappresentano una quota di capitale sociale. 16 soci utenti, ma anche riconoscendo loro partecipazioni di sovvenzione (67) e/o azioni di partecipazione cooperativa. L'aumento gratuito del capitale può avvenire non solo innalzando il valore nominale delle partecipazioni già emesse, ma anche emettendone di nuove; se l'ammissibilità della prima opzione è dimostrata chiaramente dalla rubrica dell'art. 7, l. n. 59/92 (“rivalutazione delle azioni o delle quote”) (68), l'ammissibilità della seconda è presupposta nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001, allorché prevede la “distribuzione gratuita” di nuove azioni di partecipazione cooperativa. La cooperativa, quindi, allorché aumenta gratuitamente il proprio capitale, può avvalersi delle stesse modalità fissate per le società di capitali dall'art. 2442, commi 2° e 3°, c.c. La cooperativa di lavoro può assegnare non solo nuove azioni, ma anche nuove quote. Quest'ultimo caso può verificarsi in quanto pare possibile nelle cooperative – contrariamente a quanto si ritiene comunemente per le società a responsabilità limitata (69) – che il socio sia titolare di una pluralità di quote (70). In effetti, si potrebbe leggere l’art. 2521, comma 2°, c.c., nella parte in cui fissa il valore nominale massimo delle sole azioni (71), come una norma dispositiva (72); sicché, unicamente nel silenzio dello statuto, il socio 67 ( ) In effetti, de iure condito, è pienamente ammissibile il cumulo delle posizioni di cooperatore e di sovventore; in senso analogo la gran parte degli studiosi (ex multis v. OPPO, Mutualità e lucratività, in Riv. dir. civ., 1992, II, p. 361 ss., ivi alla p. 362); per la tesi opposta si ricorda, invece, MARASÀ, Problemi in tema di finanziamento delle cooperative e di finanziamento della cooperazione nella l. n. 59 del 1992, in Riv. not., 1993, p. 1110 ss., ivi alla p. 1117. 68 ( ) La rivalutazione di cui all'art. 7, l. n. 59/92 è però soggetta nel caso di specie al limite fissato nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001. 69 ( ) Così, di recente, AMBROSINI, in Schiano di Pepe (a cura di), Le società di capitali, seconda edizione, Milano, 1999, pp. 964-966, al quale si rimanda per le opportune citazioni dottrinali e giurisprudenziali. La tesi della necessaria unitarietà della quota di società a responsabilità limitata si giustificherebbe in ragione di vari indici testuali (artt. 2477, 2480, 2481 e, soprattutto, 2474, comma 2°, c.c.) e sulla base della Relazione ministeriale al codice civile, n. 1006. 70 ( ) Sebbene la lettera della legge non sia univoca, la disciplina delle cooperative sembra consentire l’eventualità prospettata nel testo; al riguardo l’art. 2524 c.c. potrebbe essere ricco di significato laddove, in modo differente dall’art. 2477, comma 1°, c.c. (in cui vi è la locuzione di “pagamento della quota”), parla di “pagamento delle quote”; sicché i ripetuti riferimenti alla “quota” presenti nell’ordinamento cooperativo potrebbero interpretarsi nell’unico senso di “porzione di partecipazione sociale”. 71 ( ) Mentre, sempre nel suddetto comma, si fissa il valore nominale minimo “di ciascuna quota o azione”. 72 ( ) Non si rinviene, infatti, alcun ragionevole motivo a sostegno dell’inderogabilità della citata disposizione. Una ponderata riflessione circa l’imperatività o meno del principio di unitarietà della quota, rispetto però alle società a responsabilità limitata, è offerta da ZANARONE, Società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, VIII, Padova, 1985, pp. 81-83. 17 dovrebbe disporre di un’unica quota (73), rimanendo perciò liberi i paciscenti di prevedere nel contratto sociale che i soci possano possederne diverse (74). Ciascuna di queste quote potrebbe poi avere lo stesso valore nominale delle altre, così come è la regola per le azioni (art. 2348, comma 1°, c.c.) (75). Tutto ciò, dunque, potrebbe consentire il rilascio di nuove quote aventi “le stesse caratteristiche di quelle in circolazione” (art. 2442, comma 2°, c.c.) (76). In presenza di azioni (o di quote con valore nominale unitario) la cooperativa sarà quasi sempre costretta ad eseguire la capitalizzazione dei ristorni emettendo nuove partecipazioni sociali. In effetti, poiché il ristorno viene riconosciuto in proporzione alla quantità di scambi mutualistici intercorsi tra socio e cooperativa, i lavoratori riceveranno normalmente quote diverse dell'utile a tale titolo; questa ripartizione costringerebbe pertanto la società ad aumentare il valore nominale unitario in modo differenziato tra i vari soci; ma ciò è in contrasto con la regola secondo la quale le azioni devono essere di uguale valore (art. 2348, comma 1°, e 2521, ult. cpv., c.c.). Anche l'emissione di nuove azioni (o quote) a fronte di ristorni può tuttavia causare inconvenienti alla cooperativa, atteso che la somma da imputarsi a capitale potrebbe essere di un importo tale da non consentire la completa liberazione delle partecipazioni da assegnare al singolo lavoratore. I conseguenti resti dovrebbero pertanto essere allocati in un apposito fondo fino a che quest'ultimo, grazie ai successivi ristorni assegnati a detto lavoratore, non raggiunga la cifra necessaria per assegnargli nuove azioni (o quote). In base alla lettera del primo comma dell'art. 7, l. n. 59/92 sembra che la rivalutazione della partecipazione sociale possa essere effettuata limitatamente a quella parte del suo valore nominale che sia stata versata (77). Lo stesso inciso (“aumento gratuito del capitale 73 ( ) RIVOLTA, La società a responsabilità limitata, in Commentario del Cod. Civ. Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1982, pp. 159-161, pare argomentare in modo analogo rispetto alle quote delle società a responsabilità limitata. 74 ( ) Si è riscontrato nella prassi cooperativa che quanto sopra prospettato si verifica non di rado in presenza di cooperatori. 75 ( ) Al socio titolare di più quote sociali la cooperativa potrà rilasciare uno o più certificati di quota, i quali costituiranno semplice prova scritta della qualità di socio e della misura della partecipazione, non invece documenti destinati a circolare secondo le regole dei titoli di credito. 76 ( ) Nelle società a responsabilità limitata, di contro, proprio perché si ritiene inammissibile derogare al principio della unitarietà della quota, è pacificamente esclusa l’applicazione dell'art. 2442, comma 2°, c.c. (per tutti v. ZANARONE, in Allegri e altri, Diritto commerciale, terza edizione, Bologna 1999, p. 387 ss.). 77 ( ) Diversamente accade nelle società di capitali (così CERA, Il passaggio di riserve a capitale, Milano, 1988, pp. 170-173, ove ulteriori riferimenti bibliografici), argomentandosi in base al dettato dell'art. 2438 c.c., il quale si riferisce solo all'emissione di nuove azioni. 18 sociale sottoscritto e versato”) contenuto sia nella predetta disposizione, sia nell'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 non lascia dubbi (78), invece, sul fatto che l'assegnazione gratuita di nuove partecipazioni sia subordinata all'integrale liberazione di quelle vecchie. La capitalizzazione del ristorno è incentivata sia sul piano civilistico, sia su quello tributario. Circa il primo piano, infatti, l'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 – analogamente a quanto dispone già l'art. 5, comma 5°, l. n. 59/92 per le azioni di partecipazione cooperativa – consente alle cooperative di aumentare la partecipazione sociale dei loro lavoratori anche al di sopra del plafond fissato dal combinato disposto degli artt. 24, comma 1°, d.lgs. C.p.S. n. 1577/47 e 7, comma 1°, l. n. 59/92 (79). Circa il secondo, invece, si richiama alla mente il già esaminato art. 6, comma 2°, sub art. 1 l. n. 112/2002. 12. L'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 stabilisce che l'assemblea dei soci delibera la liquidazione diretta o indiretta dei ristorni in sede di approvazione del bilancio di esercizio. Tale organo sociale, per poter esprimere validamente la propria volontà sulla materia testé indicata, viene di norma convocato in sede ordinaria (80). Tuttavia, lo stesso organo deve deliberare in sede straordinaria quando l'anzidetta destinazione degli utili avvenga non solo aumentando il capitale sociale, ma anche innalzando il valore nominale unitario delle azioni o, eventualmente, delle quote (81); in 78 ( ) Sul punto è invece divisa la dottrina che si è però occupata della questione in esame con riguardo alle sole società per azioni (vedila citata da CERA, op. loc. ultt. citt.). 79 ( ) Ai tetti massimi fissati nell’art. 24, comma 1°, d.lgs. C.p.S. n. 1577/47, rivalutati ogni triennio, va aggiunto infatti l’ulteriore incremento annuale consentito dall’art. 7, comma 1°, l. n. 59/92. Da notare che la legittimità di quest’ultimo incremento può essere valutata solo ex post, atteso che il Ministero delle attività produttive comunica solo a posteriori quali siano i coefficienti da rispettare in caso di rivalutazione delle partecipazioni sociali ai sensi del citato art. 7, comma 1°. 80 ( ) Nella suddetta sede potrà decidere anche di destinare i ristorni ad un'apposita riserva. 81 ( ) L'assemblea straordinaria non avrebbe competenza, invece, qualora lo statuto fissasse soltanto i valori nominali delle quote partecipative di ciascuno socio lavoratore. In effetti, in questo caso non sembrerebbe esservi una modifica dell’atto costitutivo, atteso che altrimenti le parti potrebbero pattiziamente derogare alla regola imperativa di cui all’art. 2520 c.c., in base alla quale la semplice variazione (in aumento o in diminuzione) del valore nominale dell’unica quota di partecipazione riguardante i vecchi sovventori non costituisce, appunto, alterazione dello statuto e, quindi, non è di competenza dell’assemblea straordinaria. 19 effetti, la corrispondente deliberazione presuppone una modifica statutaria e dunque il rispetto di quanto prescrive l’art. 2365 c.c. (82). Al di fuori di quest'ultimo caso l’aumento del capitale sociale della cooperativa non determina un mutamento dell’atto costitutivo, nemmeno nella parte in cui indica il capitale sociale (atteso l’art. 2520, comma 2°, c.c.) o in quella dove precisa “ la quota di capitale sottoscritta da ciascun socio ” (art. 2518, comma 2°, n. 5, c.c.) (83). Pare potersi far discendere dal combinato disposto degli artt. 2433, comma 1°, e 2536, ult. cpv., c.c. e 7, commi 1° e 2°, l. n. 59/92 la normale competenza dell'assemblea ordinaria in materia di destinazione dei ristorni a capitale. In effetti, se l'art. 7, commi 1° e 2°, l. n. 59/92 prevede espressamente che l'aumento gratuito del capitale possa essere ottenuto imputando – immediatamente e direttamente (84) – a capitale “una quota degli utili di esercizio”, le altre disposizioni succitate riconoscono all'organo in parola la competenza di decidere sulla destinazione di detti utili. Per incrementare il capitale sociale l'assemblea ordinaria è dunque libera di utilizzare la parte disponibile (fino al 77%) dell’utile di esercizio e perciò anche la porzione di quest'ultimo ripartibile a titolo di ristorno (85). Sebbene l'art. 3, comma 2°, lett. b), l. n. 142/2001 sembri imporre una contestualità tra il riconoscimento del ristorno e l'approvazione del bilancio d'esercizio, pare che l'assemblea ordinaria possa imputare a capitale la quota dell'utile ristornabile anche quando non sia stata convocata ai sensi dell’art. 2364, comma 2°, c.c., non dovendo la decisione sulla destinazione dell’utile essere per forza presa immediatamente dopo l’approvazione del 82 ( ) Così, in presenza di azioni emesse da banche popolari, Trib. Catania, 21 dicembre 1987 (decr.), in Giur. comm., 1989, II, p. 131. In generale, in favore dell'aumento gratuito del capitale delle cooperative mediante innalzamento del valore nominale delle azioni emesse v., ex multis, VERRUCOLI, La società cooperativa, Milano, 1958, p. 386. 83 ( ) Conformemente, fra gli altri, D'AMARO, in Bassi (a cura di), La riforma delle società cooperative, Milano, 1992, p. 150. 84 ( ) Dall'art. 7, l. n. 59/92 si ricaverebbe, almeno per le cooperative, un indice testuale a favore della tesi prevalente (sostenuta già da FERRI, Destinazione a capitale degli utili distribuibili e poteri del giudice in sede di omologazione, in Riv. dir. comm., 1966, II, p. 196 ss., ivi alla p. 198) secondo la quale “l'assemblea può deliberare la immediata imputazione a capitale degli utili distribuibili senza passare per la fase intermedia della costituzione delle riserve”. 85 ( ) L’assegnazione gratuita di nuove partecipazioni ha interessanti tratti di somiglianza con l’assegnazione gratuita di vecchie partecipazioni già possedute dalla società (per l’ammissibilità di questa operazione in presenza di società per azioni v. CARBONETTI, L'acquisto di azioni proprie, Milano, 1988, p. 128), utilizzate, queste ultime, per liquidare in natura gli utili di cui l’assemblea ordinaria ha deliberato la distribuzione ai sensi degli artt. 2433, comma 1°, e 2536, ult. cpv., c.c. (sul punto cfr., da ultimo, SALVATORE, Le assegnazioni di beni nelle società lucrative, in Contr. impr., 1999, p. 830 ss.). 20 documento da cui l'utile deve risultare (86). In assenza della predetta contestualità, è discusso se la relativa deliberazione assembleare possa essere presa solo se consti che non siano “sopravvenute perdite tali da intaccare la riserva che si vuol distribuire” (87) o imputare a capitale. L'assemblea ordinaria può anche delegare gli amministratori ad aumentare il capitale sociale avvalendosi dei ristorni (88). Tuttavia, questa delega non può essere disciplinata (eventualmente nello statuto) in modo da costituire, di fatto, un trasferimento di competenza dai soci ai gestori, con il conseguente aggiramento degli artt. 2433 e 2536 c.c. (89); ne deriva, allora, che, sussistendo la stessa ratio che aveva portato il legislatore a circoscrivere la diversa ma analoga facoltà regolata dall'art. 2443 c.c. (90), l'assemblea ordinaria potrà delegare agli amministratori la decisione circa la capitalizzazione dei ristorni, a condizione che la corrispondente deliberazione fissi tanto il termine (non superiore a cinque anni) entro cui i gestori possono esercitare la delega in discorso, quanto il tetto dell'aumento del capitale delegato (91). 86 ( ) Si legga infatti il primo comma dell'art. 2442 c.c., nella parte in cui correla la disponibilità delle riserve alla loro iscrizione in bilancio. Sembra dunque preferibile l'opinione di COLOMBO, Il bilancio d'esercizio, cit., p. 520, il quale (in modo condivisibile) sostiene la propria tesi sulla base di una lettura congiunta degli artt. 2364, ult. cpv., e 2433 c.c. 87 ( ) COLOMBO, Il bilancio d'esercizio, cit., p. 520. Esprime invece un'opinione diversa FIGÀTALAMANCA, Bilanci e organizzazione dei poteri dispositivi sul patrimonio sociale, Milano, 1997, p. 223 s., secondo il quale (alla p. 224) è “certamente utile e probabilmente opportuno che gli amministratori illustrino all'assemblea convocata per deliberare la distribuzione di dividendi in corso di esercizio le vicende dell'impresa sociale successive alla chiusura dell'esercizio precedente e la loro influenza sulla situazione patrimoniale, ma il potere dell'assemblea non può che commisurarsi ai dati dell'ultimo bilancio approvato”. 88 ( ) In senso analogo ROCCHI, Le società a capitale variabile, I, Una ricognizione per modelli, Modena, 2000, p. 90. 89 ( ) Sulla tendenziale intangibilità del sistema legale relativo alla distribuzione dei poteri decisionali nell’organizzazione societaria v., relativamente alle deleghe assembleari, MOSCO, Le deleghe assembleari nella società per azioni, Milano, 2000, passim, ma spec. p. 96 ss. 90 ( ) Vista la somiglianza delle due fattispecie indicate nel testo, alcune delle considerazioni proposte da ROBIGLIO, Delega dell'aumento del capitale e d.P.R. n. 30/1986, in Riv. soc., 1991, p. 657 ss., ivi alla p. 714 ss., circa la delega dell'aumento gratuito del capitale nelle società per azioni possono valere anche per l'analoga delega nelle cooperative. 91 ( ) Secondo i più (ex multis v. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, cit., p. 488 s., in materia però di società per azioni) la delega in oggetto può espressamente attribuire agli amministratori anche il potere di assegnare gratuitamente non solo azioni ordinarie ma anche speciali categorie di azioni, sempre che, naturalmente, siano state previamente regolate nello statuto. 21