la corporate governance

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la corporate governance
Facoltà di Economia
Corso di Laurea Magistrale in Economia Aziendale
TESI DI LAUREA
CORPORATE GOVERNANCE NEL SETTORE BANCARIO
Effetti sulla performance delle banche italiane
RELATORE
CANDIDATA
Prof.ssa Maria Mazzuca
Graziella Mendicino
Matr. 136070
Anno accademico 2010/2011
1
INDICE
Introduzione…………………………………………………………………………5
CAPITOLO 1 – CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI
DEFINITORI, TEORIE E PROBLEMI APERTI
1.1 Corporate governance: aspetti definitori…………………………………..8
1.2 Corporate governance, teoria dell’agenzia e conflitto d’interesse…….....13
1.2.1 Altri conflitti……………………………………………………....16
1.3 Incompletezza contrattuale........................................................................18
1.4 Meccanismi di corporate governance……………………………………20
1.4.1 Meccanismi di controllo interno…………………………………..20
1.4.2 Meccanismi di controllo esterno…………………………………..25
1.4.3 Product market competition……………………………………….26
1.5 Meccanismi legali e regolamentari………………………………………27
1.5.1 “Famiglie” di diritto commerciale e cenni storici…………............28
1.5.2 Modelli societari…………………………………………………..30
1.5.3 Uno sguardo all’Italia……………………………………………..33
1.6 Alcune prime considerazioni…………………………………………….36
CAPITOLO 2 –CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE
2.1 Specificità della corporate governance nelle banche…………………….37
2.1.1 Opacità…………………………………………………………….39
2.1.2 Regolamentazione…………………………………………………41
2.1.3 Banche e corporate governance delle altre imprese………………43
2.2. Sistema bancario italiano………………………………………………..46
2.2.1 Trasformazioni degli anni Novanta……………………………...46
2.2.2 Specificità della legislazione bancaria italiana…………………..51
2.2.3 Consiglio di amministrazione……………………………………53
2.2.4 Controllo interno…………………………………………………54
2.2.5 Particolarità dei nuovi modelli societari: monistico e dualistico..57
2.3 Modello tradizionale, monistico e dualistico: casi scelti di banche
italiane…………………………………………………………………...59
2.3.1 Ubi, Intesa San Paolo e Banco Popolare: motivi della scelta.........61
2.3.2 Mediobanca: motivi del ripensamento……………………………64
2.4 Riflessioni finali………………………………………………………….66
2
CAPITOLO 3 – EFFETTI DELLA CORPORATE GOVERNANCE
SULLA PERFORMANCE. L’EVIDENZA EMPIRICA PER LE
BANCHE ITALIANE
3.1 Introduzione……………………………………………………………68
3.2 Letteratura……………………………………………………………...70
3.3 Dati e campione………………………………………………………..81
3.4 Indici di corporate governance………………………………………...83
3.5 Metodologia……………………………………………………………93
3.6 Risultati……………………………………………………………….103
3.7 Considerazioni su corporate governance e crisi……………………...120
Conclusioni………………………………………………………………………...124
Bibliografia………………………………………………………………………...128
3
INDICE DELLE TABELLE
Tabella 1 – Origini dei sistemi giuridici europei……………………………………30
Tabella 2 – Strutture del Consiglio di Amministrazione in Europa…………………31
Tabella 3 – Campione……………………………………………………………….83
Tabella 4 – Banche del campione che adottano il Codice di Autodisciplina e
altri codici di autoregolamentazione……………………………….86
Tabella 5 – Amministratori indipendenti nel Consiglio di Amministrazione
delle banche del campione…………………………………………….88
Tabella 6 – Comitati interni al CdA delle banche del campione………………..…..90
Tabella 7 – Azionisti di maggioranza delle banche del campione (anno 2009) ……92
Tabella 8 – Variabili ……………………………………………….……………...102
Tabella 9 – Principali statistiche descrittive ………………………………………103
Tabella 10 – Risultati: indici di corporate governance e ROE…………………….104
Tabella 11 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e ROE………………………...107
Tabella 12 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e Z-score……………………...109
Tabella 13 – Risultati: indice “Gov-board” e ROE………………………………..111
Tabella 14 – Risultati: indice “Gov-board” e Z-score……………………………..113
Tabella 15 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e ROE………………………...114
Tabella 16 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e Z-score……………………...116
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INTRODUZIONE
Tra i temi che recentemente hanno attirato l’attenzione di studiosi, managers,
investitori, policy-makers e regulators, va sicuramente menzionata la corporate
governance. Negli ultimi anni, infatti, è stato riportato al centro del dibattito
economico e politico il delicato argomento del governo societario, delle sue finalità e
del funzionamento equilibrato degli organi preposti alla gestione delle imprese.
I recenti scandali societari (dai casi Enron e WorldCome negli Stati Uniti, ai dissesti
di Parmalat e Cirio in Italia, alla crisi delle Banche dei Laender tedeschi), seppur
caratterizzati da diversi aspetti, si sono concentrati in un arco temporale
relativamente limitato, imponendo un ripensamento degli assetti proprietari e dei
meccanismi di governo delle imprese.
La corporate governance è un tema complesso e pluridisciplinare. Non è un caso,
quindi, che si trovino diverse visioni e definizioni di governo societario, a seconda
degli aspetti privilegiati. Esistono studi che attribuiscono alla corporate governance
la finalità di tutelare esclusivamente gli interessi degli azionisti (Shleifer e Vishny,
1997) ed altri secondo i quali, invece, l’attività di governo societario deve
contemplare gli interessi di tutti gli stakeholders (Masera, 2006; Salvatori, 2001).
Analogamente, si registrano posizioni contrapposte circa l’individuazione dei
meccanismi principali di corporate governance: alcuni riconoscono al Consiglio di
Amministrazione un ruolo primario (Hermalin e Weisbach, 2001), altri esaltano la
composizione della struttura proprietaria ed il sistema di regole vigenti in un
determinato Paese (La Porta et al., 1999, 2002).
Elemento comune a molti degli studi in materia, tuttavia, è la ricerca di una qualche
relazione esistente tra la corporate governance e la performance aziendale.
Un’ampia parte della letteratura economica, infatti, ha confrontato e continua a
confrontare i diversi assetti possibili, in un’analisi tra i modelli di governance
dominanti e gli effetti sulla ricchezza prodotta dalle imprese (La Porta et al., 1998;
Core et al., 2006; Iannotta et al., 2007). Si cerca insomma di individuare le principali
determinanti dei meccanismi di governance per poi verificarne l’eventuale impatto
sulla performance delle imprese.
5
Se gli studi che hanno indagato l’esistenza di una relazione tra governance e
performance delle imprese industriali si sono moltiplicati negli anni, meno numerose
sono le ricerche che hanno affrontato l’argomento con riferimento alle imprese
finanziarie e, nello specifico, alle banche (Fama, 1985; Levine, 2004).
Gli istituti bancari, tra l’altro, si collocano al centro del processo di intermediazione
fra risparmio e investimento; costituiscono il tessuto connettivo per il sistema dei
pagamenti; sono esposte a rischi finanziari molto più accentuati e suscettibili di
generare effetti sistemici di una certa gravità sull’intero sistema economico.
Il settore bancario, negli ultimi anni, ha affrontato cambiamenti significativi a livello
internazionale. Comprendere come e in che misura i meccanismi di corporate
governance riescono a influenzare la capacità delle banche di produrre valore e di
raggiungere determinati risultati in termini di performance complessiva, diventa
fondamentale per capire ed indirizzare ulteriori cambiamenti ed evoluzioni.
Il presente lavoro ha come obiettivo lo studio della corporate governance nel settore
bancario. A conclusione della tesi viene anche svolta un’analisi empirica volta a
verificare l’esistenza di una relazione tra i meccanismi di corporate governance e la
performance aziendale, misurata in termini di ROE e di Z-score. Il campione oggetto
di studio si compone di tutte le banche quotate italiane nel periodo compreso tra il
2005 e il 2009.
Il lavoro si articola in tre capitoli. Nel primo capitolo si trattano tutti i delicati aspetti
definitori legati alla corporate governance. Vengono poi discusse le teorie che
giustificano il dibattito sul governo societario; tra queste particolare attenzione è
dedicata alla teoria dell’agenzia. Successivamente l’analisi si sposta sui meccanismi
di corporate governance. Principalmente vengono studiati i meccanismi di controllo
interno, quelli di controllo esterno e quelli legali e regolamentari. Il capitolo si
conclude con l’analisi del caso italiano e con alcune prime considerazioni finali.
Nel secondo capitolo l’analisi si concentra sulla corporate governance nel settore
bancario. Ne vengono innanzitutto evidenziate le specificità quali la maggiore
opacità, l’intensa regolamentazione, la complessità derivante dall’attività di
intermediazione finanziaria che lega le banche stesse alle altre imprese del settore
economico. Lo studio prende poi in considerazione il settore bancario italiano.
Innanzitutto si analizzano le importanti trasformazioni degli anni Novanta.
6
Successivamente l’analisi si concentra sulla corporate governance bancaria, sulle sue
peculiarità e sui meccanismi di controllo. Il capitolo si conclude con lo studio di
scelti casi emblematici, quali quelli di UBI, Intesa San Paolo, Banco Popolare e
Mediobanca.
Il terzo capitolo, infine, propone l’analisi empirica avente ad oggetto la relazione tra
alcuni indici di corporate governance appositamente costruiti e la performance delle
banche quotate italiane.
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CAPITOLO 1
CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI DEFINITORI,
TEORIE E PROBLEMI APERTI
1.1 CORPORATE GOVERNANCE: ASPETTI DEFINITORI
L’etimologia del termine Governance non è del tutto chiara: secondo alcuni il
termine deriva dal sanscrito kubara che significa “timone”; altri ne riconducono
l’origine al greco kubernan ossia “reggere il timone” o al latino gubernare vale a dire
“condurre la nave”.
Indipendentemente dalla derivazione etimologica, il significato appare comunque
facilmente intuibile: la Governance applicata all’impresa 1 (da cui il termine
“Corporate”) attiene a quel sistema di regole ed istituzioni che consentono ed
indirizzano l’attività imprenditoriale.
Ciò nonostante è difficile trovare un’unica definizione che sappia riassumere tutti gli
aspetti e le funzioni tipiche della Corporate Governance.
Secondo la Banca Centrale Europea (2004) “The corporate governance structure
specifies the distribution of rights and responsibilities among the different
participants in the organisation – such as the board, managers, shareholders and other
stakeholders – and lays down the rules and procedures for decision-making”.
In base ai principi OCSE, ancora, la Corporate Governance “involves a set of
relationships among a company’s management, its Board, its shareholders and other
stakeholders. Corporate governance also provides the structure through which the
objectives of the company are set, and the means of attaining those objectives and
monitoring performance are determined” (OECD, 1999).
1
In tutto il presente lavoro, il termine di impresa si riferisce essenzialmente alle società di capitali.
8
In Italia il Codice Preda 2 riporta la seguente definizione: “Corporate Governance, in
the sense of the set of rules according to which firms are managed and controlled, is
the result of norms, traditions and patterns of behaviour developed by each economic
and legal system. . . . the main aim of a good Corporate governance system is
creating shareholder value”.
Onado (2000), invece, considera la Corporate Governance come “il sistema mediante
il quale le imprese vengono gestite e controllate e dunque vengono rappresentati e
composti i molteplici interessi dei vari soggetti (stakeholders) che hanno (o possono
avere) rapporti economici con l’impresa”.
Ponendo l’attenzione sull’aspetto finanziario, si potrebbe giungere alla conclusione
secondo cui la Corporate Governance “deals with the ways in which suppliers of
finance to corporations assure themselves of getting a return on their investment”
(Shleifer e Vishny, 1997).
La definizione più semplice e diffusa, tuttavia, è quella fornita dal Cadbury Report
3
secondo la quale “corporate governance is the system by which businesses are
directed and controlled”.
La presenza di tante, diverse, spiegazioni circa il concetto di governance non è altro
che la prova di quanto acceso e vivo sia il dibattito che in questi anni ha fatto
notevolmente aumentare l’attenzione nei confronti del tema del governo societario.
2
Codice di Autodisciplina per le Società Quotate: è stato redatto dal Comitato per la Corporate
Governance ed emanato da Borsa Italiana nel 1999, edizioni rivisitate nel 2002 e nel 2006. Deve il suo
nome al prof. Stefano Preda, fondatore e presidente del comitato guida sulla corporate governance.
Il Codice si propone di aumentare l’affidabilità delle società quotate attraverso l’applicazione di un
modello organizzativo in grado di gestire correttamente i rischi d’impresa e gli eventuali conflitti
d’interesse tra gestione (amministratori) e proprietà (azionisti), tra minoranze e maggioranze.
La sua adozione è facoltativa.
3 Il “Financial Aspects of Corporate Governance”, meglio noto come “Cadbury Report”, è un
codice di autodisciplina inglese contenente indicazioni circa l’organizzazione dei consigli di
amministrazione e i sistemi contabili al fine di limitare i rischi e i problemi connessi alle questioni di
corporate governance. Il report è stato pubblicato nel 1992 e parzialmente adottato nell’Unione
Europea, negli Stati Uniti e dalla World Bank.
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A partire dall’analisi dell’evoluzione dei mercati, è possibile identificare diversi
fattori che hanno significativamente contribuito all’evoluzione di questo dibattito: il
graduale spostamento dai finanziamenti bancari e privati a favore di un sempre
maggiore ricorso al capitale di rischio; i processi di privatizzazione;l’aumento degli
investimenti cross-border; l’accresciuta importanza del market for corporate control
(si pensi all’ondata di fusioni e acquisizioni realizzate a partire dai primi anni
Ottanta); le pressioni competitive della globalizzazione; lo sviluppo di nuove
tecnologie. Se a tutto ciò aggiungiamo le crisi economiche e finanziarie, il moltiplicarsi
degli scandali finanziari e delle critiche e accuse per il disinteresse verso i diritti dei
lavoratori, la tutela ambientale o più in generale il benessere complessivo della società,
possiamo facilmente comprendere come e perché alla corporate governance sia stato
riconosciuto un ruolo cruciale nel determinare la competitività delle imprese e dei
sistemi economici cui le imprese stesse appartengono.
“L’evoluzione delle norme di corporate governance può dunque essere analizzata
alla stregua di un processo dinamico: i) plasmato dall’innovazione finanziaria, dalla
globalizzazione dei mercati e degli intermediari e, in Europa, dall’integrazione
dell’Unione; ii) volto a riconciliare gli obiettivi di creazione di valore per gli
azionisti, di disciplina e di incentivazione del management, di attenzione ai più ampi
interessi degli stakeholders dell’impresa” (Masera, 2006).
Se la vita di un’impresa si presenta dunque strettamente connessa all’evoluzione dei
mercati, allora la “buona governance” può essere definita soltanto con riferimento ai
vari stakeholders cui si rapporta e alle loro aspettative (Salvatori, 2001).
In linea generale, si annoverano tra gli stakeholders 4 diverse categorie di soggetti: gli
azionisti, i creditori, i lavoratori, i fornitori, le istituzioni, i consumatori e la comunità
locale.
4
La prima definizione di stakeholders fu quella elaborata nel 1963 dallo Stanfort Research Institute
per indicare tutti coloro che hanno un interesse nell’attività di un’azienda e senza il cui appoggio
un’organizzazione non è in grado di sopravvivere. Quella tuttavia più utilizzata è la definizione di
Friedman (1984) secondo il quale lo stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può
influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e
processi lavorativi.
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Ognuna di queste categorie valuta la “buona governance” con riferimento ad aspetti
diversi se non addirittura divergenti e contrapposti.
Il concetto di “good governance” è nato peraltro quando l’Organization for
Economic Cooperation and Development (OECD) ha stilato nel 1999 i “Principles on
Corporate Governance”.Lo scopo del documento era quello di stabilire alcuni criteri
che garantissero, nel governo delle imprese, condizioni di trasparenza e
accountability capaci di “assure that corporations use their capital efficently. […]
ensure that corporation take into account the interests of a wide range of
constituencies, as well as of the communities within which they operate, and that
their board are accountable to the company and shareholders. […] to assure that
corporations operate for the benefit of the society as a whole” (OECD, 1999).
Se da un lato si è voluto incidere su quegli aspetti più propriamente legati alla natura
finanziaria dell’impresa per garantirne l’efficienza degli investimenti ed il controllo
nell’operato da parte degli shareholders, dall’altro lato, si è anche voluto favorire il
rispetto degli interessi complessivi della stessa impresa.
Non a caso, infatti, uno dei principles afferma che “The corporate governance
framework should recognise the rights of stakeholders as established by law and
encourage active co-operation between corporations and stakeholders in creating
wealth, jobs, and the sustainability of financially sound enterprises” (OECD, 1999).
La good corporate governance esprime quindi una responsabilità condivisa (shared
responsibility), nei termini in cui essa è anche il risultato dell’azione e delle scelte
operative e strategiche dei diversi soggetti coinvolti. Allora «there is no single model
of good governance» (OECD, 1999) ma, caso per caso, un buon governo societario
dipende da come si combinano i diversi interessi e le diverse ragioni di tutti gli
stakeholders. Da questo punto di vista, gli azionisti giudicheranno una buona
governance in base alla capacità di generare valore e utili in linea con le attese; i
creditori valuteranno positivamente un’informativa che permetta di stimare le
prospettive di business e la capacità dell’impresa di “servire” il proprio debito. I
lavoratori focalizzeranno la loro attenzione sulla possibilità di realizzazione
personale con riferimento alle remunerazioni, agli avanzamenti di carriera, al clima
aziendale. Le istituzioni vedranno la buona governance in termini di osservanza delle
leggi e dei regolamenti, piuttosto che nel pagamento delle imposte dovute. I clienti, i
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partner commerciali e le altre controparti con cui un’impresa si rapporta definiranno
la buona governance sotto il profilo dell’efficienza e della qualità: è ben gestita
un’impresa che offre prodotti e servizi di qualità elevata, in modo efficiente e
tempestivo.
Come spesso accade, però, se le diverse aspettative degli stakeholders non trovano
una comune corrispondenza ma, anzi, si rivelano essere in conflitto tra loro, allora,
proprio una “buona corporate governance”, è chiamata ad intervenire come
strumento regolatore degli interessi in gioco.
Una soluzione possibile diventa così quella della massimizzazione del valore
complessivo
dell’impresa
che,
non
necessariamente,
coincide
con
la
massimizzazione dei profitti degli azionisti.
Proprio gli shareholders, però, in quanto titolari dei diritti di proprietà, esercitano una
significativa influenza nell’assunzione delle decisioni di indirizzo strategico a scapito
degli altri soggetti portatori di interesse nell’impresa. Si genera, così, una delle fonti
di conflitto aziendale più enfatizzate dalla letteratura sulla corporate governance.
Se il disallineamento di interessi tra shareholders e altri stakeholders, tuttavia, può
essere incisivo nel breve termine, discussa è la sua durata in un’ottica di lungo
termine. Il Codice Preda, ad esempio, pur identificando l’obiettivo della
massimizzazione del valore per gli azionisti come primario, riconosce che “in the
longer term, the pursuit of this goal can give rise to a virtuous circle in terms of
efficiency and company integrity, with beneficial effects for other stakeholders such as customers, creditors, consumers, suppliers, employees, local communities,
and the environment - whose interests are already protected in the Italian legal
system.”
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1.2 CORPORATE
GOVERNANCE, TEORIA DELL’AGENZIA E CONFLITTO
D’INTERESSE
Come spiegato nel precedente paragrafo, la corporate governance cerca di mediare
fra gli interessi dei diversi stakeholders al fine di minimizzare le relative situazioni di
“conflittualità”.
Finora si è fatto riferimento solo al generico conflitto di interessi che può sorgere tra
shareholders e le diverse categorie di stakeholders.
La letteratura però approfondisce l’analisi di un caso particolare di conflitto
d’impresa: quello tra shareholders e management. Si solleva il problema della
separazione tra proprietà e controllo.
Già Adams Smith (1776) in An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of
Nations scriveva: “The directors of such [joint-stock] companies, however, being the
managers rather of other people’s money than of their own, it cannot well be
expected, that they should watch over it with the same anxious vigilance with which
the partners in a private copartnery frequently watch over their own. Like the
stewards of a rich man, they are apt to consider attention to small matters as not for
their master’s honour, and very easily give themselves a dispensation form having it.
Negligence and profusion, therefore, must always prevail, more or less, in the
management of the affairs of such a company.”
Se ad Adams Smith va quindi riconosciuto il merito di aver intuito per primo
l’esistenza di questo problema, la sua completa teorizzazione, però, è da attribuire in
parte a Coase nel 1937 e, soprattutto, a Michael Jenses e William Meckling che,
esattamente 200 anni dopo l’opera di Smith, hanno pubblicato il paper Theory of
firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure.
Jensen e Meckling (1976) hanno definito una relazione d’agenzia (agency
relationship) come: “… a contract under which one or more persons (the principal(s))
engage another person (the agent) to perform some service on their behalf which
involves delegating some decision making authority to the agent. If both parties to
the relationship are utility maximizers, there is good reason to believe that the agent
will not always act in the best interests of the principal”.
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In ambito prettamente aziendalistico, il principal può essere considerato il
proprietario dell’impresa, vale a dire colui o coloro i quali detengono la quota
azionaria di controllo. Gli agents, di contro, possono essere identificati nei managers
cui gli azionisti delegano la gestione quotidiana dell’impresa.
Jensen e Meckling (1976) hanno supposto che sia azionisti che managers siano
razionali e perciò intenzionati a massimizzare le rispettive utilità. Gli shareholders
mireranno quindi a massimizzare i profitti o il valore dell’impresa; i managers
perseguiranno il raggiungimento di benefici diversi, legati a forme di remunerazione,
bonus e realizzazione personale. È impossibile arrivare alla massimizzazione
congiunta degli interessi di entrambi i soggetti. Allora, secondo i due autori: “the
principal can limit divergences from his interest by establishing appropriate
incentives for the agent and by incurring monitoring costs5 designed to limit the
aberrant activities of the agent. In addition in some situations it will pay the agent to
expend resources (bonding costs) to guarantee that he will not take certain actions
which would harm the principal or to ensure that the principal will be compensated if
he does take such actions” (Jensen e Meckling, 1976). Indirettamente, Jensen and
Meckling hanno esposto un primo, embrionale, modello di corporate governance.
Se la gestione di un impresa è affidata ai managers e non ai soggetti proprietari, è
lecito sospettare che i soggetti gestori, trovandosi ad amministrare denaro altrui,
siano tentati di assumere comportamenti opportunistici. La disgiunzione tra proprietà
e controllo è un fenomeno molto diffuso soprattutto nelle grandi imprese, le
cosiddette public company 6 , caratterizzate da un’accentuata frammentazione del
capitale proprio. Gli azionisti perdono così la capacità di esercitare di fatto il potere
insito nella loro posizione e la gestione dell’azienda finisce con l’essere affidata a
chi, in effetti, non la possiede.
Si pone, quindi, il problema di come tutelare gli interesse del piccolo azionista. Egli
non controlla nulla della gestione aziendale, che è integralmente delegata ai
managers; non possiede informazioni particolari utili a valutare la fondatezza nel
tempo delle sue aspettative, né ha strumenti idonei a esercitare una sua influenza
5
I costi cui Jensen e Meckling (1976) si riferiscono sono i cosiddetti “costi d’agenzia”.
6
Il termine “public” vuole intendere la presenza di una moltitudine di azionisti.
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sulle scelte”: il rischio maggiore è quello di subire l’espropriazione delle risorse
investite (Forestieri, 2006). Si configura, così, un vero e proprio problema di
governance.
Analizzando il problema della separazione tra proprietà e controllo più nel dettaglio,
è possibile trovare, nella letteratura esistente, l’indicazione di diverse fonti da cui il
conflitto di interesse tra azionisti e managers trae origine.
Denis (2001) individua le seguenti tre cause:
-
“Managers’ desire to remain in power”: nessuno vorrebbe perdere il proprio
lavoro e i managers non fanno eccezione. Un principio base è “the right
management team at the right time”. Quando, però, per qualche motivo, il
team management di una particolare impresa non è più capace di garantire
una gestione efficace ed efficiente, nasce un inevitabile conflitto di interessi
tra gli azionisti che vorrebbero nominare nuovi amministratori ed i manager
che tenteranno di proteggere la loro posizione.
-
“Managerial risk aversion”: managers e shareholders presentano diversi gradi
di propensione al rischio. Tipicamente, un azionista possiede un portafoglio
di attività ben diversificate, all’interno del quale l’investimento nella singola
impresa rappresenta una minima parte. Ne consegue una certa preferenza ad
intraprendere progetti altamente remunerativi seppur più rischiosi. Di contro,
il manager dell’impresa, ha una propensione al rischio molto più bassa. Se un
nuovo progetto dovesse rivelarsi un fallimento, gli amministratori sarebbero i
primi a pagarne le conseguenze.
-
“Free cash flow”: Jensen (1986) ha definito il free cash flow come “cash flow
generated by the firm in excess of the amount required to fund all available
positive NPV [Net Present Value] projects”. Quando un amministratore ha a
disposizione una certa quantità “cash”, in misura superiore al necessario, ha
tre alternative: distribuire dividendi, reinvestire in nuovi progetti oppure
mantenere la liquidità seppur in eccesso. Il conflitto d’interesse nasce nel
momento in cui gli azionisti preferiscono ricevere i dividendi mentre i
managers trattengono la liquidità incrementando gli assets complessivamente
controllati.
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Brealey et al. (2007), invece, individuano cinque fonti:
-
“Riduzione dello sforzo”: trovare e realizzare investimenti che creano valore
comporta uno sforzo considerevole e un’attività intensa che i manager
potrebbero essere tentati di evitare.
-
“Benefici privati”: gli amministratori di un’impresa potrebbero non
accontentarsi del loro stipendio concedendosi anche uffici lussuosi, incontri
di lavoro in luoghi turistici, aerei personali, autisti e altro, tutto a spese
dell’impresa gestita.
-
“Costruzioni di imperi”: coeteris paribus, la gestione di grandi imprese è
motivo di potere e prestigio per gli amministratori. Il passaggio da piccola a
grande impresa, tuttavia, potrebbe non essere un tipo di investimento con
valore attuale netto positivo.
-
“Entrenching investment”: Shleifer e Vishny (1999) hanno definito tale un
investimento appositamente progettato per richiedere o premiare le
competenze dei managers esistenti, così da renderli indispensabili per
l’impresa e quindi insostituibili.
-
“Rinuncia al rischio”: se un manager finanziario riceve solo uno stipendio
fisso e non può partecipare ai maggiori profitti generati dai progetti rischiosi,
preferirà certamente intraprendere quelli più sicuri.
A questo punto, risulta chiaro che la sopravvivenza dell’impresa dipende dalla
capacità di ridurre quanto più possibile i costi d’agenzia generati dalla separazione
tra proprietà e controllo. Questa capacità è strettamente legata proprio alla presenza
di idonei meccanismi di corporate governance.
1.2.1 ALTRI CONFLITTI
Un problema d’agenzia sorge ogniqualvolta l’interesse di un soggetto (principal)
dipende dalla performance di un altro soggetto detto agente (o agent).
Possedendo migliori informazioni del principal, l’agente è incentivato a comportarsi
in modo opportunistico, riducendo la qualità della sua prestazione o, più in generale,
cercando di ottenere dei vantaggi personali.
Hansmann e Kraakman (2004) individuano ben tre generici problemi di agenzia.
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Il primo riguarda il conflitto d’interessi che sorge tra il proprietario dell’impresa e i
managers. Sul tema non mi soffermo oltre, ma rimando a quanto scritto in
precedenza.
Il secondo problema di agenzia sorge a causa del conflitto d’interesse esistente tra gli
azionisti di maggioranza, da un lato, e gli azionisti di minoranza, dall’altro.
Proprio gli azionisti di minoranza (non-controlling owners) assumono il ruolo di
principal mentre quelli di maggioranza (controlling owners) possono essere
considerati degli agents. Nello specifico, il problema riguarda la difficoltà nel
tutelare gli azionisti di minoranza da un’eventuale espropriazione delle risorse
finanziare investite ad opera dei controlling owners.
Il terzo problema d’agenzia identificato da Hansmann e Kraakman (2004) riguarda,
invece, il conflitto d’interessi esistente tra l’impresa nel suo complesso (con
particolare riferimento agli shareholders) e le altre parti con le quali l’impresa stessa
intrattiene delle relazioni contrattuali, come creditori, lavoratori e consumatori. In
questo caso la difficoltà nasce nel garantire che l’impresa, in qualità di agent, non
assuma comportamenti opportunistici a svantaggio dei diversi principals attraverso,
per esempio, l’espropriazione dei creditori, lo sfruttamento dei lavoratori o l’inganno
ai consumatori.
In tutti questi casi, quindi, diventa fondamentale stabilire regole e procedure che
rendano più trasparente l’operato degli agents e più semplice il controllo da parte dei
principals al fine di limitare comportamenti disonesti e negligenti.
Paradossalmente, proteggere i principals dai comportamenti opportunistici degli
agenti, può comportare un beneficio per entrambe le parti.
Il principal, ad esempio, se è sicuro dell’onestà e della qualità della performance
degli agents, sarà disposto ad accordare loro una maggiore remunerazione. Ma
ancora: in caso di regole e procedure che proteggano i creditori dal succitato rischio
di espropriazione delle risorse finanziarie investite, il tasso d’interesse richiesto dagli
stessi creditori potrebbe essere più basso. Allo stesso modo, meccanismi a garanzia
degli interessi degli azionisti di minoranza potrebbero ridurre il costo dell’equity
oppure sistemi che allineino gli interessi dei managers con quelli degli azionisti
potrebbero portare ad una maggiore remunerazione per gli amministratori.
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In generale, ridurre i costi d’agenzia è interesse di ciascun soggetto coinvolto nella
vita aziendale, sia principals che agents. Ancora una volta, un’adeguata corporate
governance può presentarsi come lo strumento privilegiato per la massimizzazione
delle utilità aggregate di tutti gli stakeholders.
1.3 INCOMPLETEZZA CONTRATTUALE
In base alla definizione fornita da Fama e Jensen (1983) un’impresa “is the nexus of
contracts, written and unwritten, among owners of factors of production and
customers”. Questi contratti possono essere considerati come “the rules of the game”
in quanto specificano i diritti di ciascun soggetto coinvolto nell’attività d’impresa.
Allora, come ribadisce Forestieri (2007) se “la corporate governance è il sistema di
meccanismi che regola il governo di un’impresa e definisce le relazioni tra i soggetti
in questione […] si può pensare che i soggetti coinvolti nell’impresa siano coloro che
con essa intrattengono relazioni contrattuali”.
Nelle economie moderne, i contratti si pongono come parte fondamentale di un
sistema di corporate governance in quanto capaci di limitare la discrezionalità dei
soggetti coinvolti.
La discrezionalità dei managers, per esempio, è vincolata da una serie di regole
sancite dalle norme di legge, dallo statuto delle società, dai contratti di debito
bancario e così via. Idealmente, si vuole specificare esattamente ciò che gli
amministratori possono decidere di fare nell’ambito della gestione aziendale.
In realtà, i contratti non potranno mai contenere clausole relative ad ogni possibile
situazione: i managers finiscono perciò con l’essere liberi di prendere quelle
decisioni che non sono già definite contrattualmente. La teoria economica definisce
questa situazione con l’espressione “incompletezza contrattuale”.
Il problema, a questo punto, è quello di distribuire i cosiddetti “diritti residuali di
controllo”, vale a dire i diritti di decidere in occasione di tutte quelle situazioni non
espressamente previste dal contratto (Grossman e Hart ,1986; Hart e Moore, 1990).
Si ripresenta, allora, l’annosa questione riguardante la categoria di stakeholders da
scegliere.
18
I diritti residuali di controllo potrebbero essere attribuiti ai finanziatori di un’impresa
(azionisti e creditori) così da evitare il rischio di eventuali espropriazioni o
allocazioni inefficienti di risorse finanziarie. Questa soluzione, tuttavia, non può
funzionare: innanzitutto i soggetti finanziatori non sono sufficientemente coinvolti
nell’attività d’impresa, non possiedono tutte quelle informazioni che sono invece
essenziali per assumere delle decisioni adeguate. Inoltre, pur possedendo le
informazioni necessarie, potrebbero non essere in grado di interpretarle
correttamente e di agire di conseguenza. D’altronde, se hanno assunto dei managers è
proprio per poter usufruire di competenze professionali specifiche.
Oltre a non essere qualificati per l’esercizio dei diritti residuali di controllo, alcuni
soggetti potrebbero anche non essere incentivati a farlo. Basti pensare, ad esempio, al
piccolo azionista di una public company: titolare di una minima quota del capitale
societario, giudicherà eccessivamente oneroso esercitare un controllo sui managers.
In generale, il piccolo azionista ritiene ininfluente il controllo che è in grado di
esercitare sugli amministratori e, perciò, sceglie di delegarlo totalmente ad altri
soggetti. Si parla, cioè, del cosiddetto “free riding”.
“Si noti che l’azionista così come il creditore, se pure non hanno il potere di
decidere, vantano diritti sulla ricchezza generata dall’impresa: per il primo si tratta
dei dividendi eventualmente distribuiti, per il secondo degli interessi e del rimborso
del capitale. Il problema della corporate governance può quindi essere riformulato in
termini di disgiunzione tra diritto di prendere le decisioni sulla gestione aziendale
(che di fatto è nelle mani del manager) e diritto sul flusso di cassa prodotto
dall’impresa, che spetta ai creditori prima e, in via residuale, agli azionisti. Quando la
separazione tra questi diritti è marcata (ossia, mancano adeguati strumenti di
informazione, controllo e incentivo), chi decide è soggetto alla tentazione di
appropriarsi del flusso di cassa prodotto dalla gestione” (Forestieri, 2007).
A questo punto, si ripropongono come fondamentali dei meccanismi di corporate
governance tali sia da garantire informazione, controllo e diritti di rivalsa nei
confronti dei managers, sia da favorire l’allocazione delle risorse finanziarie e da
permettere alle imprese di trovare soggetti disposti a investire nelle loro attività, con
capitale proprio o capitale di debito.
19
1.4 MECCANISMI DI CORPORATE GOVERNANCE
Esistono diversi meccanismi di corporate governance che possono mitigare i
problemi e i conflitti di interessi tra stakeholders, permettendo di gestire e controllare
adeguatamente l’attività d’impresa.
Jensen (1993) ne ha individuato quattro categorie:
-
meccanismi legali e regolamentari;
-
meccanismi di controllo interni;
-
meccanismi di controllo esterni;
-
“product market competition”.
Per i meccanismi legali e regolamentari, vista l’ampiezza dell’argomento, si rimanda
la trattazione al prossimo paragrafo. Si prosegue, quindi, con l’analisi degli altri tre
meccanismi di corporate governance.
1.4.1 MECCANISMI DI CONTROLLO INTERNI
Tra i meccanismi interni di governance, quelli che la letteratura considera come
principali sono il Consiglio di Amministrazione (board of directors), i piani di
remunerazione dei managers, la struttura proprietaria e la struttura del debito della
società considerata. Ognuno di questi meccanismi è stato oggetto di numerose
ricerche, studi e analisi.
Il Consiglio di Amministrazione è solitamente eletto dagli azionisti ed ha il compito
di nominare e controllare il top management. In teoria, si tratta di un gruppo di
persone con le capacità e l’autorità necessarie ad assicurare agli azionisti il buon
operato del top management.
Se in teoria il CdA è considerato un efficace meccanismo di corporate governance,
sfortunatamente, nella realtà, non è proprio certo che gli amministratori siano
abbastanza incentivati ad assolvere ai loro compiti. Talvolta, può essere difficile
prevenire la nomina di amministratori in qualche modo legati al management e
quindi indirizzati ad assumere comportamenti opportunistici. Non a caso, negli ultimi
anni, molte società hanno cercato di favorire un cambiamento per migliorare la
situazione, realizzando una sorta di board reform (Denis, 2001). In particolare, si è
20
cercato di ridurre il numero di amministratori del CdA; di incrementare la presenza
relativa dei cosiddetti outside directors, vale a dire di amministratori che non hanno
legami economici o personali con il top management; di affidare proprio agli outside
directors alcuni compiti quale l’elaborazione dei piani di remunerazione dei
managers; di separare le posizioni di chief executive officer (CEO) e presidente del
Consiglio di Amministrazione; di stabilire che i membri del CdA possiedano azioni
della società gestita.
Da studi recentemente condotti 7 è emerso che sono due le caratteristiche del
consiglio di amministrazione meritevoli di maggior interesse: la board size e la
presenza di membri indipendenti nello stesso CdA.
Con riferimento al numero di componenti del Consiglio di Amministrazione,
l’opinione generale è che tanto più piccolo è il board of directors tanto più,
quest’ultimo, riuscirà ad operare in modo efficace: è possibile garantire una
maggiore trasparenza, una maggiore rapidità nell’assunzione di decisioni e, quindi,
un miglior controllo dell’operato del top management.
Riguardo, invece, alla presenza di “outside directors” (amministratori indipendenti
e/o amministratori non esecutivi) il parere più diffuso è che gli “insider directors”
(vale a dire amministratori che sono essi stessi parte del top management) e gli
“affiliated/grey directors” (ossia membri del CdA in qualche modo affiliati a uno o
più managers) esercitino un controllo meno incisivo sull’operato del top management
rispetto agli amministratori indipendenti che non hanno nessun tipo di legame con i
managers. D’altronde anche la Commissione Europea in una raccomandazione del
2005 ha ribadito l’importanza di garantire, all’interno del Consiglio di
Amministrazione, un sufficiente numero di amministratori indipendenti “to ensure
that any material conflict of interest involving directors will be properly dealt with”8 .
7
Hermaling, Weisbach, Boards of directors as an endogenously determined institution: a survey of
the economic literature, 2001
8
European Commission Recommendation of 15.2.2005 on the role of non-executive or supervisory
directors of listed companies and on the committees of the (supervisory) board, OJEU L 52/51,
section II no. 4.
21
Quello della remunerazione riconosciuta ai managers di una società, è uno degli
argomenti più discussi e criticati degli ultimi anni e che più di ogni altro ha suscitato
e continua a suscitare critiche e polemiche.
Studi e ricerche sulla remunerazione del top management di sono concentrati
soprattutto su due aspetti: il livello della remunerazione e la sua sensibilità rispetto
alla performance aziendale (Jensen e Meckling, 1976; Fama, 1980; Murphy, 1999).
Per quanto riguarda il primo aspetto Murphy (1999) ha sottolineato come la
remunerazione media dei CEOs dell’imprese comprese nell’indice S&P 500 sia
raddoppiata rispetto al 1970. Se poi si considera il totale dei compensi che i
managers ricevono, compresi ad esempio i guadagni per l’esercizio di eventuali
opzioni su azioni della società gestita, risulta che la loro remunerazione è addirittura
quadruplicata in pochi decenni.
Il livello della remunerazione è certamente un fattore di corporate governance:
maggiore è il proprio compenso, maggiore sarà l’attenzione del manager al
mantenimento del proprio posto di lavoro e quindi al raggiungimento di risultati
aziendali soddisfacenti. Allora la remunerazione diventa uno strumento di
governance nella misura in cui riesce ad allineare gli interessi del management con
quelli degli azionisti. A questo punto, è facile comprendere come anche la sensibilità
del compenso dei managers alla performance dell’impresa diventi un altro
importante fattore di corporate governance.
Il management, infatti, sarà tanto più disposto a massimizzare il valore per gli
azionisti, quanto più riuscirà ad ottenerne dei vantaggi. Si parla, in questi casi, dei
cosiddetti incentive contracts i quali, a loro volta, possono assumere una varietà di
forme: dalla sostituzione del management in caso di risultati insoddisfacenti,
all’emissione di stock options. (Jensen e Meckling, 1976; Fama, 1980).
Le soluzioni maggiormente diffuse, tuttavia, sono l’emissione a favore del top
management di azioni ordinarie o di opzioni su azioni ordinarie della società di
riferimento. La scelta di un’alternativa piuttosto che l’altra implica alcune differenze
non trascurabili. Innanzitutto i managers di un’impresa, come molte altre persone,
possono essere avversi al rischio: hanno già investito il proprio capitale umano
nell’impresa per cui lavora, potrebbero essere razionalmente riluttanti nell’investire
in quella stessa impresa anche il proprio capitale finanziario.
22
Ancora, stocks o stock options possono essere attribuiti al management come una
forma di compenso. Bisogna però sottolineare come i managers potrebbero preferire
un compenso in contanti: per soddisfare le aspettative del management, l’impresa
dovrà accordare loro azioni o opzioni per un valore superiore rispetto a quello del
compenso cash, andando così incontro a maggiori costi (Denis, 2001).
Core et al. (2001) e Murphy (1999) sottolineano, tuttavia, che la concessione di
opzioni su azioni come forma di remunerazione, non richiede un’uscita monetaria
per l’impresa che, quindi, può meglio affrontare eventuali problemi di liquidità.
Il vero problema, fonte di tante critiche, che induce molti a guardare con sospetto ai
contratti incentivanti, è la possibilità che queste forme alternative di remunerazione,
attraverso azioni e/o opzioni, permettano ai managers di assumere comportamenti
opportunistici. Al riguardo, Yermack (1997) in un suo studio ha rilevato come i
managers ricevano opzioni su azioni appena prima l’annuncio sul mercato di
informazioni positive oppure ne ritardino l’emissione in concomitanza a notizie
negative.
Allineare gli interessi di managers e azionisti non è quindi facile: non esiste
d’altronde un meccanismo di corporate governance capace di risolvere
completamente i problemi d’agenzia.
Un altro mezzo ritenuto utile per la riduzione dei conflitti d’interesse tra shareholders
e management, è la concentrazione della proprietà azionaria in capo ad un numero
limitato di soggetti. Un azionista di maggioranza, infatti, ha la possibilità di
controllare meglio l’operato del consiglio di amministrazione esercitando
un’influenza notevole all’interno dell’assemblea degli azionisti. Nel caso di una
public company, tra l’altro, basta detenere azioni per una percentuale sul capitale
complessivo anche di molto inferiore al 51% per esercitare il controllo.
La letteratura si è dedicata all’approfondimento di questo argomento, studiando le
realtà di diversi Paesi nel mondo: si è dimostrato che imprese caratterizzate dalla
presenza di azionisti di maggioranza sostituiscono il management più di frequente e
sostengono spese in advertising e ricerca e sviluppo inferiori. (Kaplan e Minton,
1994; Yafeh e Yosha, 1996). Come ribadito anche da Shleifer e Vishny (1997) la
23
presenza di large shareholders gioca un ruolo fondamentale nei meccanismi di
corporate governance.
Un problema che non può assolutamente essere trascurato, però, è che l’esistenza
nella compagine azionaria di un’azionista di maggioranza, può generare forti conflitti
d’interessi tra i large shareholders stessi e gli altri azionisti di minoranza.
Il rischio è che l’azionista di controllo approfitti del suo potere per ottenere benefici
personali espropriando risorse dell’impresa a danno degli azionisti di minoranza. La
Porta et al. (2000) hanno definito questo fenomeno con il termine tunneling. Dai loro
studi, è emerso che il rischio di tunneling è prevalente in quelle imprese
caratterizzate da una struttura proprietaria piramidale: investendo una quota di
controllo nella sola impresa al vertice della piramide, indirettamente, per l’azionista
di maggioranza è possibile controllare anche tutte le altre imprese collocate lungo la
linea di controllo. A questo punto è facile trasferire risorse dalle imprese ai livelli più
bassi a quelle al vertice: le imprese alla base della piramide potrebbero vendere merci
o assets a quella al vertice ad un prezzo inferiore oppure potrebbero comprarne ad un
prezzo elevato rispetto a quello di mercato.
Altro inconveniente spesso citato dalla letteratura, soprattutto statunitense, è quello
del cosiddetto greenmail. Con questo termine si vuole indicare una particolare
transazione tra l’azionista di maggioranza e la società di riferimento che accetta di
acquistare le azioni del large shareholders ad un prezzo maggiorato. Il rischio, in
alternativa, è che l’azionista di maggioranza venda le proprie azioni ad un altro
soggetto che, di fatto, acquisirebbe il controllo della società.
Non va trascurata, inoltre, l’attribuzione dei diritti di voto. Per quanto riguarda
l’Italia, per esempio, Zingales (1994) in uno studio sulle imprese quotate alla Borsa
di Milano ha rilevato l’esistenza di un problema di espropriazione delle risorse
finanziarie a danno degli azionisti di minoranza a causa dei cosiddetti voting
premium riconosciuti agli azionisti di controllo.
Oltre alla struttura proprietaria, molti autori esaltano anche il ruolo del debito come
meccanismo di governance, capace di ridurre i problemi di agenzia tra managers e
shareholders.
24
Shleifer e Vishny (1997), infatti, hanno sottolineato come il debito possa
rappresentare uno strumento di disciplina per gli amministratori. Se infatti il
management può scegliere se distribuire o meno i dividendi agli azionisti, è invece
obbligato a “servire” il debito contratto pagando ai creditori dell’impresa quanto
dovuto alle scadenze prestabilite. Un eventuale inadempimento delle obbligazioni
debitorie potrebbe causare gravi problemi all’impresa e quindi al suo management
fino, nei casi più gravi, alla dichiarazione di fallimento. Per tutti questi motivi, in
caso di indebitamento, i managers sono ancor più incentivati a lavorare in modo
efficiente ed efficace al fine di garantire la capacità dell’impresa gestita di generare
quei flussi di cassa necessari a “servire” il debito.
1.4.2 MECCANISMI DI CONTROLLO ESTERNI
Quando si parla di meccanismi esterni di governance, si fa prevalentemente
riferimento all’effetto disciplinante del mercato. In particolare, si vuole sottolineare il
ruolo dei takeovers (meglio ancora se ostili) nel ridurre i conflitti di interesse tra
azionisti e managers.
In una tipica acquisizione ostile, un bidder trasmette un’offerta di acquisto agli
azionisti dell’impresa obiettivo, per ottenerne il controllo. In un certo senso, i
takeovers possono essere considerati come un meccanismo di rapida concentrazione
proprietaria.
Diverse teorie ed evidenze empiriche supportano la tesi secondo la quale le
acquisizioni ostili sono uno strumento di corporate governance capace di risolvere i
problemi di agenzia (Manne, 1965; Jensen, 1988; Scharfstein, 1988).
L’aspetto principalmente evidenziato dalla letteratura è che le acquisizioni ostili
tipicamente generano delle importanti sinergie tra l’impresa target e quella bidder,
incrementandone il valore congiunto (Jensen e Rubaci, 1983).
Si rileva, infatti, come spesso i takeovers riguardino imprese caratterizzate da basse
performance con successiva sostituzione del management (Shleifer e Vishny, 1997;
Franks e Mayer, 1996). È evidente che quanto più un’impresa è sottovalutata dal
mercato e ha a disposizione opportunità di investimento positive, tanto più sarà
attraente per un bidder. Quest’ultimo, quindi, avrà l’obiettivo di acquisire il controllo
25
dell’impresa target ad un valore inferiore, realizzare le opportunità di investimento
non sfruttate dal precedente management (perciò rimpiazzato) e ottenere, così, un
profitto. È allora interesse del management di un’impresa lavorare al meglio per
sfruttare ogni opportunità di investimento ed evitare che la propria impresa,
eventualmente sottovalutata dal mercato, diventi obiettivo di acquisizioni ostili.
A tal proposito, comunque, il top management ha a disposizione diverse tattiche
difensive utili per proteggersi ed evitare un’acquisizione ostile. Sotto questo punto di
vista, allora, quello che doveva essere uno strumento capace di risolvere i conflitti
d’interesse tra shareholders e managers, in realtà, finisce con l’esacerbare il problema
d’agenzia.
Una proposta di acquisizione, infatti, che potrebbe essere conveniente per gli
azionisti, con estrema probabilità, verrà ostacolata dal management che teme di
perdere la propria posizione.
In generale, Holmstrom e Kaplan (2001) hanno evidenziato che se negli anni Ottanta
i takeovers ostili erano molto diffusi, dal decennio successivo hanno cominciato ad
essere un pò meno frequenti. I due autori, hanno suggerito che, probabilmente, alle
acquisizioni ostili, si preferiscono orami i meccanismi interni di corporate
governance.
Per quel che riguarda l’Europa continentale, inoltre, i takeovers non sembrano essere
particolarmente diffusi visto la propensione alla concentrazione azionaria.
1.4.3 PRODUCT MARKET COMPETITION
Un’impresa che voglia mantenersi competitiva, deve essere in grado di vendere un
prodotto di buona qualità al prezzo di mercato.
Un management inefficiente, però, può diventare fonte di costi aggiuntivi i quali, a
loro volta, si traducono in un aumento del prezzo di vendita o comunque in
performance
finali
insoddisfacenti.
Nel
peggiore
delle
ipotesi,
managers
incompetenti possono trascinare un’impresa fino al fallimento.
Jensen (1993) suggerisce allora che la tensione di un’impresa alla vendita di prodotti
che possano essere competitivi sul mercato è, indirettamente, una forma di disciplina
del management e quindi di corporate governance. Lo stesso Jensen (1993), tuttavia,
26
riconosce che seppur valido in teoria, nella realtà, si tratta di un meccanismo di
governance trascurabile.
1.5 MECCANISMI LEGALI E REGOLAMENTARI
Il sistema di leggi e regole di un Paese che presidiano al governo societario inteso
come meccanismo di corporate governance, fino a qualche tempo fa, ha ricevuto
scarsa attenzione da parte degli studiosi di economia, almeno rispetto all’interesse
rivolto agli altri fattori, interni ed esterni.
Nel 1993, infatti, Jensen definì proprio i meccanismi di governance legali e
regolamentari “…far too blunt an instrument to handle the problem of wasteful
managerial behaviour effectively”.
Più di recente, tuttavia, nuovi studi hanno sottolineato come il sistema legale di un
Paese possa notevolmente influenzare la corporate governance delle imprese. La
Porta et al. (1998, 2000), per esempio, hanno dato prova che sia le leggi vigenti sia la
loro applicabilità hanno un peso notevole nel disciplinare i conflitti di interesse tra
managers e azionisti.
In un’analisi che ha riguardato diverse nazioni, sempre La Porta et al. (1999) hanno
dimostrato che le differenze nella struttura proprietaria, nel mercato dei capitali, nelle
scelte di finanziamento e nelle politiche di distribuzione dei dividendi, sono tutte
strettamente correlate al grado di protezione legale riconosciuto agli investitori
contro il rischio di espropriazione ad opera di managers e azionisti di maggioranza.
In particolare, hanno evidenziato l’esistenza di una relazione inversa tra il grado di
protezione garantito dalla legge di uno Stato e il livello di concentrazione azionaria
delle imprese di quello stesso Paese.
Shleifer e Vishny (1997), inoltre, sostengono che nelle grandi imprese di molti Paesi,
il più grave problema di agenzia non riguarda il conflitto di interesse tra shareholders
e management ma, piuttosto, quello tra azionisti di controllo e di minoranza. Appare,
perciò, chiaro come l’intervento del legislatore a protezione degli azionisti di
minoranza per la risoluzione del conflitto d’agenzia, possa essere a ragione
considerato un meccanismo di corporate governance indispensabile. Quanto più le
leggi di un Paese proteggono i diritti degli investitori, tanto più si faciliterà lo
sviluppo economico ed industriale.
27
Se da una parte, allora, gli azionisti di maggioranza sembrano essere utili per
disciplinare l’operato del top management, dall’altra è necessario proteggere gli
investitori di minoranza dall’eventuale espropriazione delle risorse impiegate
nell’impresa. Protezione legale degli azionisti e concentrazione proprietaria possono
considerarsi quindi strumenti complementari di governance.
1.5.1 “FAMIGLIE” DI DIRITTO COMMERCIALE E CENNI STORICI
Il diritto commerciale esiste in tutti i Paesi e si occupa di disciplinare i rapporti
giuridici tra l’impresa, in tutte le sue forme, e i relativi stakeholders.
Diritto fallimentare, disciplina su acquisizioni, fusioni e altre operazioni
straordinarie, bilanci e contabilità, trasparenza e informativa obbligatoria, diritti
riconosciuti a protezione di azionisti e creditori, rappresentano tutti degli strumenti
che, disciplinando la gestione e il controllo di un’impresa, si configurano come
meccanismi di corporate governance fondamentali.
Come evidenziato da La Porta et al. (1998), seppur non esistono due nazioni con
leggi esattamente identiche, alcuni sistemi giuridici nazionali sono sufficientemente
simili da permettere di effettuare una loro classificazione in alcune grandi families of
law.
I criteri utilizzati per la classificazione sono i seguenti: (1) background storico ed
evoluzione nel tempo del sistema legale; (2) fonti del diritto; (3) metodologie
giuridiche; (4) principi giuridici di base; (5) istituzioni giuridiche fondamentali; (6)
divisione nelle diverse discipline del diritto (Glendon et al., 1992).
In base a questo approccio, si identificano due tradizioni giuridiche generali: la civil
law e la common law.
La civil law è la più antica e la più diffusa tradizione giuridica del mondo. Ha origine
dal diritto romano e si ritiene che da essa derivino tre famiglie di sistemi giuridici:
quello francese, tedesco e scandinavo.
Il codice commerciale francese fu scritto da Napoleone nel 1807 e venne esteso a
Belgio, Olanda, parte della Polonia, dell’Italia e della Germania. In Europa,
l’influenza francese è stata molto forte in Lussemburgo, Portogallo, Spagna, alcuni
cantoni svizzeri e in Italia (Glendon et al., 1994).
28
Il codice commerciale tedesco, invece, fu scritto nel 1897 dopo l’unificazione della
Germania di Bismarck. Non si diffuse tanto quanto quello francese, tuttavia,
influenzò notevolmente la teoria giuridica e la dottrina di alcuni importati Paesi
europei tra cui Austria, Grecia, Ungheria, Italia e svizzera.
Il diritto scandinavo è solitamente considerato come parte della civil law tradizionale
sebbene abbia meno elementi in comune con il diritto romano rispetto alle tradizioni
francese e tedesca. I codici civili dei paesi nordici risalgono al XVIII secolo e la
letteratura ne descrive le leggi come molto simili tra loro ma diverse dagli altri Paesi.
In definitiva, le quattro Nazioni dell’Europa del Nord (Svezia, Norvegia, Finlandia e
Danimarca) sono considerati una categoria a sé stante.
La common law, invece, si basa poco su leggi scritte; si tratta di un diritto
prevalentemente consuetudinario che trova fondamento nelle sentenze giudiziarie
emesse a soluzione delle controversie. Si tratta della tradizione giuridica tipica
anglosassone che, tuttavia, ad eccezione della Gran Bretagna, non ha trovato
particolare diffusione nel resto d’Europa.
Tabella 1 – Origini dei sistemi giuridici europei
Legal Origins
Common Law
Civil Law
English
Origin
French
Origin
Scandinavian
Origin
German
Origin
Ireland
Belgium
Denmark
Austria
United Kingdom
France
Finland
Germany
Greece
Sweden
Italy
Luxemburg
Netherlands
Portugal
Spain
See: La Porta, Lopez-de-Silanes, Shleifer & Vishny (1998); Reynolds & Flores (1989)
Fonte: Gotshal, Manges & Weil, 2002
29
Secondo lo studio di La Porta et al. (1998), nei paesi caratterizzati dalla presenza
della common law, la legge riconosce agli investitori importanti diritti legali a
protezione della loro posizione. Di contro, questi diritti si ritrovano sensibilmente
ridotti nella French civil law mentre la Scandinavian e la German civil laws si
collocano in una posizione intermedia.
1.5.2 MODELLI SOCIETARI
Passando in rassegna i principali meccanismi di governance, interni ed esterni, come
è stato in precedenza evidenziato, il board of directors rappresenta uno strumento di
corporate governance fondamentale. Altrettanto fondamentale, di conseguenza, è il
sistema di leggi che regola l’organizzazione del board stesso e degli altri organi
societari.
Esistono essenzialmente due modelli di board: uno di origine anglosassone (c.d. onetier board), l’altro di origine renana (c.d. two-tier board).
La Tabella che segue classifica i diversi Paesi in base al modello adottato. Si noterà
che si è inclusa una terza classe, in cui hanno trovato collocazione tutti quei Paesi nei
quali è prevista la possibilità di scelta tra i due modelli.
Tabella 2 – Strutture del Consiglio di Amministrazione in Europa
Strutture del consiglio di amministrazione (Board)
Struttura unitaria
(one-tier)








Danimarca
Grecia
Irlanda
Lussemburgo
Regno Unito
Spagna
Svezia
Svizzera
Struttura mista
(one-tier o two-tier)






Belgio
Finlandia
Francia
Italia
Paesi Bassi
Portogallo
Struttura duale
(two-tier)
 Austria
 Germania
Fonte: Commissione Europea e PricewaterhouseCoopers research
30
A livello internazionale, è evidente che il modello unitario del one-tier board è il più
diffuso, non solo in Europa ma anche nel resto del mondo.
Di recente nei Paesi in cui è prevalente la scelta della struttura unitaria e soprattutto
nel Regno Unito, si è osservata una sempre maggiore propensione alla presenza nel
board di amministratori indipendenti e alla separazione delle cariche di presidente del
board e CEO. Entrambi i fenomeni sembrano portare ad una sorta di convergenza tra
i due sistemi di one-tier e two-tier board.
Analizzandoli più nel dettaglio, è possibile notare che nel modello anglosassone, le
funzioni di controllo sono concentrate proprio in un solo organismo, da qui
l’espressione one-tier board.
Il
modello
esigenze
di
risponde
una
alle
struttura
attenta ai cambiamenti del
mercato, agile nel decision
making
e
orientata
alla
creazione di valore per gli
azionisti.
Fonte: PricewaterhouseCoopers
Il modello renano (two-tier) prevede invece una suddivisione tra le funzioni di
supervisione
e
di
controllo.
Risponde
ad
concezione
come
una
dell’azienda
istituzione
di
carattere sociale in cui
vari soggetti sono titolari
di
diritti.
In
questa
situazione, la struttura di
tipo
renano,
Fonte: PricewaterhouseCoopers
31
potenzialmente, riesce a meglio distinguere tra le funzioni di gestione e di controllo,
con il Consiglio di Gestione a rappresentare gli interessi degli azionisti e quello di
Supervisione a rappresentare invece i diritti degli altri stakeholders.
In effetti, il modello duale deriva dal sistema di codeterminazione tedesco, nato alla
fine del XIX secolo, nel tentativo di conciliare le esigenze di industrializzazione con
il principio democratico di coinvolgimento dei lavoratori nella vita aziendale
(cogestione). In sostanza, si prevedono due Consigli di Amministrazione (Brealey et
al (2007)): il Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat) e il Consiglio di Gestione
(Vorstand). La metà dei componenti del Consiglio di Sorveglianza è eletto dai
lavoratori, l’altra metà dagli azionisti. Si tratta sostanzialmente di un organo
societario che rappresenta gli interessi dell’impresa nel suo complesso e che
sovrintende alla strategia aziendale eleggendo e controllando il Consiglio di
Gestione.
Anche in Francia, il modello duale introdotto come facoltativo già da diverso tempo,
è adottato soprattutto dalle grandi imprese operanti nel settore delle public utilities e
da quelle a partecipazione pubblica. L’obiettivo di fondo è sempre lo stesso:
permettere un maggior coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte aziendali.
Nel modello duale francese, infatti, è prevista la presenza del Directoire,
responsabile della gestione dell’impresa e del Conseil de Surveillance, simile al
Consiglio di Sorveglianza tedesco. In questa struttura societaria, però, i dipendenti
non sono rappresentati direttamente: i delegati dei lavoratori hanno il diritto di
assistere alle assemblee degli amministratori in qualità di osservatori.
È evidente, comunque, che in base al modello societario scelto variano i sistemi di
“checks and balance”, variano i giochi di forza tra i diversi stakeholders e le relazioni
tra gli organi societari. Non si può, dunque, non considerare anche i meccanismi
legali e regolamentari come fondamentali strumenti di corporate governance.
32
1.5.3 UNO SGUARDO ALL’ITALIA
La riforma del diritto societario italiano del 2003, tra le altre innovazioni, ha
enfatizzato l’autonomia statutaria delle società per azioni prevedendo che, con
espressa indicazione nello statuto, si possa scegliere quale modello societario
adottare tra tre diversi sistemi alternativi di amministrazione: ordinario, dualistico e
monistico.
Senza alcuna pretesa di completezza, passo brevemente in rassegna le caratteristiche
principali di ciascun modello.
Il sistema ordinario o tradizionale, prevede la distribuzione delle prerogative di
governo societario fra tre organi: l’Assemblea degli azionisti, il Consiglio di
Amministrazione e il Collegio Sindacale.
L’Assemblea degli azionisti rappresenta l’organo proprietario, a cui sono riservate
decisioni fondamentali quali la nomina e la revoca degli amministratori e dei sindaci
e l’approvazione annuale del bilancio d’esercizio.
Il Consiglio di Amministrazione è, invece, l’organo cui spetta la gestione
dell’impresa e il potere di compiere le operazioni necessarie all’attuazione
dell’oggetto sociale. Nelle società di più grandi dimensioni, il CdA non si occupa
quotidianamente della gestione, ma delega questa funzione a uno o più dei suoi
membri. Si tratta dei c.d. amministratori delegati (o comitato esecutivo nel caso in
cui la delega sia affidata a più persone).
Il Collegio Sindacale, infine, è l’organo incaricato di controllare la legittimità
dell’operato degli amministratori in termini di conformità alla legge e allo statuto.
Vigila inoltre sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare,
sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.
Il controllo contabile è esercitato da un revisore contabile iscritto all’apposito
registro e nominato dall’assemblea dei soci. Per le società emittenti azioni quotate sui
mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante, il controllo
contabile è svolto da una società di revisione. Le società che comunque non si
rivolgono al mercato di capitali di rischio e che non sono tenute alla redazione del
bilancio consolidato possono anche prevedere che il controllo contabile sia esercitato
dal Collegio Sindacale.
33
Il sistema dualistico prevede la presenza oltre che dell’Assemblea degli azionisti, di
altri due organi: il Consiglio di Gestione e il Consiglio di Sorveglianza.
In questo modello societario, all’Assemblea degli azionisti sono attribuite
competenze ridotte rispetto a quelle previste nel sistema tradizionale. Le principali
differenze riguardano l’assemblea ordinaria e, in particolare, l’approvazione del
bilancio e la nomina dell’organo incaricato della gestione che, nel sistema dualistico,
sono sottratte alla competenza assembleare.
Di contro, mentre il Consiglio di Gestione ha un ruolo analogo a quello del Consiglio
di Amministrazione nel modello ordinario, il Consiglio di Sorveglianza è
fondamentalmente configurato come organo di controllo ma, di fatto, è dotato di
competenze molto più ampie rispetto a quelle normalmente attribuite al Collegio
Sindacale. Proprio al Consiglio di Sorveglianza, infatti, spetta il potere di nominare e
revocare gli amministratori e di approvare il bilancio annuale. In caso di espressa
previsione nello Statuto, inoltre, può anche deliberare in ordine alle operazioni
strategiche e ai piani industriali e finanziari della società predisposti dal Consiglio di
Gestione.
Il legislatore, insomma, “consente di attribuire al Consiglio di Sorveglianza sia i) un
potere di autorizzazione sia ii) un potere di approvazione sia iii) un potere di vera e
propria decisione” (Montalenti, 2007).
Per il controllo contabile vale essenzialmente quanto detto per il modello
tradizionale.
Il sistema monistico, infine, prevede la distribuzione delle prerogative di governo
societario sempre fra tre organi: l’Assemblea degli azionisti, il Consiglio di
Amministrazione e il Comitato per il Controllo Interno.
Con riguardo al Consiglio di Amministrazione valgono in sostanza le norme previste
nel modello ordinario, salvo il fatto che almeno un terzo dei suoi componenti debba
essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci e, se lo statuto lo
prevede, di quelli eventualmente previsti da codici di comportamento di associazioni
di categoria o società di gestione dei mercati regolamentati.
La differenza con il sistema tradizionale, quindi, è sostanzialmente rappresentata dal
ruolo attribuito al Comitato per il Controllo Interno. Si tratta di un organo che svolge
una funzione analoga al Collegio Sindacale, tuttavia, i suoi membri sono nominati
34
dal Consiglio di Amministrazione e scelti tra gli amministratori in possesso di
requisiti di onorabilità, professionalità stabiliti dallo statuto e di requisiti
indipendenza previsti per i sindaci.
Con la riforma del diritto societario, insomma, il legislatore ha inteso accordare alle
società per azioni un maggior grado di libertà nel diversificare la fisionomia
societaria, articolando sistemi in grado di rispondere meglio alle specifiche
caratteristiche delle realtà aziendali sotto il profilo degli assetti proprietari, delle
strutture organizzative, dei settori di appartenenza e delle priorità strategiche
(Bianchi e Conti, 2008).
D’altronde la ricerca di modelli di governance più flessibili e in grado di rispondere
alle nuove condizioni di competitività di mercati sempre più integrati e di
fronteggiare le opportunità e i rischi, coinvolge i sistemi giuridici e le prassi
applicative di tutti i principali Paesi.
In Italia, dove massima era la separazione di funzioni garantita dal modello
tradizionale, si è voluta offrire una strada di maggiore integrazione: l’obiettivo è
quello, non facile, di individuare un equilibrio tra l’esigenza di garantire un adeguato
livello informativo e di conoscenza diretta sulla gestione alle funzioni di controllo e
la necessità di assicurare un’effettiva indipendenza dai possibili condizionamenti da
parte degli interessi gestionali.
Il tutto non è certo esente da critiche. Per quanto riguardo il modello dualistico,
alcuni evidenziano la possibilità di una separazione più netta fra proprietà (soci) e
management (Consiglio di Gestione) visto la presenza intermedia del Consiglio di
Sorveglianza. Inoltre, proprio quest’ultimo appare più come un organo di indirizzo
che non di controllo professionale.
Per il sistema monistico, invece, la critica più diffusa riguarda il controllo esercitato
dal Comitato per il Controllo Interno che sembrerebbe caratterizzato da forti conflitti
di interessi: i controllati, di fatto, eleggono i controllori.
Resterà da giudicare come si evolverà, con il passare del tempo, la scelta delle
imprese per un modello piuttosto che per un altro.
35
1.6 ALCUNE PRIME CONSIDERAZIONI
I temi e i problemi che caratterizzano ciò che si usa definire con l’espressione
corporate governance sono complessi e diversificati.
La governance è un modello di conflict resolution tra attori portatori di interessi
potenzialmente conflittuali e rappresenta un insieme di dispositivi di problem solving
e di governo del conflitto.
Se l’esistenza della corporate governance è spiegata dalla presenza dei problemi
d’agenzia e dall’incompletezza contrattuale, i meccanismi che ne stanno alla base
sono più complessi da individuare.
La letteratura in merito è particolarmente ampia, tuttavia, è possibile ricondurre la
governance societaria a tre meccanismi fondamentali: quelli legali, interni ed esterni.
Un primo filone di studi sulla corporate governance si è prevalentemente concentrato
sui meccanismi di controllo interni ed esterni (Kaplan e Minton, 1994; Hermalin e
Weisbach, 2003). Altre ricerche, invece, hanno riconosciuto anche l’importanza degli
aspetti legali e regolamentari nonché della tendenza ad una sempre più forte
convergenza dei modelli societari internazionali (La Porta et al., 2002; Zingales,
1994).
Il legislatore italiano, negli ultimi anni, ha dimostrato di dedicare particolare
attenzione al tema del governo societario, cercando di offrire alle imprese la
possibilità di scegliere l’assetto di governance più idoneo alle proprie caratteristiche.
Non esiste tuttavia la soluzione giusta per una “buona corporate governance” che
valga in ogni situazione. Ogni Paese, ogni impresa, infatti, si distingue in base a
determinate caratteristiche; la “buona governance” è quella che, caso per caso, riesce
a valorizzare le diverse peculiarità e a limitare le varie fonti di conflitto e di criticità.
36
CAPITOLO 2
CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE
2.1.
SPECIFICITÀ DELLA CORPORATE GOVERNANCE NELLE BANCHE
La disciplina dell’attività bancaria costituisce una questione di primaria importanza
per il sistema finanziario ed economico, sia a livello nazionale che internazionale.
Le banche, infatti, si collocano al centro del processo di intermediazione fra
risparmio e investimento; costituiscono il tessuto connettivo per il sistema dei
pagamenti; sono esposte a rischi finanziari molto più accentuati e suscettibili di
generare effetti sistemici di una certa gravità sull’intero sistema economico.
Non è un caso che molti abbiamo ravvisato nell’attività bancaria stessa, interessi e
funzioni di una certa rilevanza pubblicistica 9 . Fino agli anni Ottanta, d’altronde, in
Italia l’attività bancaria era definita un “pubblico servizio in senso oggettivo”,
indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’ente che in concreto svolgeva
l’attività.
Una parziale inversione di tendenza, almeno per l’Europa, è arrivata con la
cosiddetta Prima Direttiva in materia bancaria 10 che, nel suo primo articolo, ha
definito l’ente creditizio come impresa. Ancor più di prima, allora, la nuova banca–
impresa ha avvertito l’esigenza di coniugare la tutela degli interessi del pubblico dei
risparmiatori con il perseguimento dei tipici obiettivi aziendali: dotarsi, quindi, di
nuovi assetti organizzativi e di governo societario efficaci ed efficienti è presto
diventato un presupposto fondamentale.
9
Per esempio, l’articolo 1 della legge bancaria del 1936-38 in Italia recitava così: «La raccolta del
risparmio tra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse
pubblico».
10
Si tratta delle Direttiva 77/780/CEE del Consiglio, del 12 dicembre 1977, relativa al
«coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso
all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio»
37
“L’adozione di un’efficiente governance per le banche è di importanza critica per
l’intero sistema economico. Le banche, infatti, sono una componente fondamentale
di ogni economia. […] Da qui l’esigenza che le banche dispongano di solidi sistemi
di governance, anche al fine di evitare che inefficienze di gestione ed inadeguatezza
di controlli possano determinare dissesti che rischierebbero di produrre effetti
dannosi per una vasta gamma di soggetti con gravi ripercussioni sull’intera economia
di un Paese. Pertanto, l’adozione generalizzata di efficaci sistemi di governo
societario può contribuire a mantenere e sviluppare la fiducia collettiva nel sistema
bancario, fattore essenziale sia per l’ottimale funzionamento del settore, sia per
l’economia in generale” (Masera, 2006).
I
mutamenti
normativi,
l’aumento
della
competitività
di
mercato,
la
despecializzazione bancaria, l’innovazione di prodotti e processi, soprattutto negli
ultimi anni, hanno insomma acceso il dibattito sulla corporate governance delle
banche.
È possibile ricondurre la letteratura esistente a due diversi filoni: uno secondo il
quale per le banche valgono le stesse considerazioni e gli stessi meccanismi di
governance delle imprese non finanziarie 11 ; l’altro secondo cui, invece, le banche si
differenziano notevolmente a causa di alcune caratteristiche intrinseche.
Ad aprire il dibattito fu Eugene Fama nel 1985 con il suo orami famoso articolo
What’s different about banks?: è quest’ultima, una domanda ancora oggi
particolarmente attuale i cui risvolti hanno un notevole impatto sulle questioni di
governance.
In effetti, sono tre le teorie sull’intermediazione finanziaria che hanno sottolineato le
specificità delle banche, seppur in base a diverse ragioni. In ordine cronologico, si
tratta della teoria classica, della new view (Gurley e Shaw, 1960; Tobin, 1985) e della
teoria sulle asimmetrie informative (Diamond e Dybvig, 1983; Diamond, 1984).
Queste tre teorie hanno focalizzato l’attenzione sui tre ruoli “tradizionali” delle
banche commerciali: il sistema dei pagamenti, la trasformazione delle scadenze e la
creazione di liquidità.
11
Vedi capitolo precedente.
38
Di contro, le più recenti teorie sull’intermediazione finanziaria (Allen e Santomero,
1996, 1999; Allen e Gale, 1997) nel descrivere l’attività degli intermediari finanziari
e, quindi, anche delle banche, hanno posto l’accento prevalentemente sulla loro
tendenza all’assunzione di sempre maggiori rischi. Le innovazioni tecnologiche e
finanziarie, la migliore circolazione delle informazioni, la diffusione della tecniche
della cartolarizzazione, infatti, sono tutti fattori che hanno contribuito e stanno
ancora contribuendo al graduale declino dell’attività di intermediazione tradizionale.
Sempre più spesso, ormai, soprattutto per le banche di maggiori dimensioni, le
principali fonti di reddito sono le commissioni da servizi e i guadagni da
negoziazione piuttosto che i ricavi dall’area di intermediazione tradizionale.
In realtà, comunque, i primi a studiare più approfonditamente la corporate
governance delle banche sono stati Caprio e Levine (2002) e Levine (2004). Nei loro
scritti, dopo una breve disamina dei principali elementi di corporate governance in
generale, hanno puntato l’attenzione su tre aspetti caratteristici delle banche: la loro
maggiore opacità rispetto ad ogni altra tipologia d’impresa, la forte e specifica
regolamentazione cui sono sottoposte, il loro modo di essere soggetti attivi nella
corporate governance delle imprese.
Di seguito queste tre peculiarità verranno analizzate più nel dettaglio.
2.1.1 OPACITA’
Le banche sono considerate generalmente più opache rispetto alle altre tipologie di
imprese non finanziarie. Nonostante le asimmetrie informative siano una costante per
ogni settore economico, da diversi studi 12 emerge come siano molto più accentuate
per le banche rispetto alle altre imprese non finanziarie.
Nelle banche, la qualità dell’attivo (ad esempio dei prestiti erogati) è più
difficilmente osservabile e può essere nascosta anche per diverso tempo. Le banche,
inoltre, hanno la possibilità di alterare la composizione del loro portafoglio di
12
Furbine, 2001; Caprio e Levine, 2002; Levine, 2004.
39
attività, modificando il grado di esposizione al rischio, molto più facilmente rispetto
ad altre tipologie di imprese non finanziarie (Levine, 2004).
Non è un caso, infatti, che le due principali agenzie di rating internazionali, Moody’s
e Standard & Poor’s, nel giudicare le banche, emettano giudizi discordi molto più
spesso rispetto che per ogni altro settore (Morgan, 2002; Iannotta, 2004).
Questa maggiore opacità, quindi, intesa come accentuazione delle asimmetrie
informative, rende più difficoltoso il superamento dei problemi di agenzia e
l’allineamento degli interessi dei diversi stakeholders.
Le banche, come ogni altra impresa, hanno bisogno di essere monitorate dagli
investitori al fine di prevenire i problemi di azzardo morale e selezione avversa.
I depositanti di una banca, tuttavia, quasi sempre, non hanno le competenze e la
capacità di valutare opportunamente gli assets di un istituto bancario che, quindi, in
questo senso, si presentano opachi.
Secondo Iannotta (2004), “banks appear to be among the more opaque industries, but
not the most opaque one […] part of bank uncertainty may be caused by the unclear,
implicit government guarantees on bank liabilities. If government guarantees are
vague, because they are extended beyond their de jure boundaries, market valuation
of bank risk will be more subjective and less certain. Although bank risk is inherently
hard to judge, there are some margins to increase bank transparency in order to
enhance market discipline.” Per Morgan (2002), insomma, “the push for increased
market discipline and disclosure may shed light”.
In letteratura, comunque, esistono anche altre tesi che smentiscono questa presunta
opacità delle banche. Flannery et al. (2004), ad esempio, non hanno rilevato
significative evidenze empiriche a dimostrazione della maggior opacità delle banche,
anzi sostengono che “loan illiquidity and private information about specific
borrowers need not necessarily make banks more difficult to value than nonfinancial
firms are. Just as many loans do not trade in active secondary markets, neither do
many assets of nonfinancial firms: e.g., plant and equipment, patents, managers’
human capital, or accounts receivable. How can outside investors accurately value
the public securities issues by these firms?”. E anche se una certa opacità fosse
intrinseca all’attività bancaria la presenza di apposite autorità di vigilanza, che
40
controllano l’operato delle banche, interverrebbe a mitigare l’opacità stessa
garantendo, di contro, una maggiore trasparenza.
Come sostiene Polo (2007) “if a unique conclusion must be drawn, we might say that
there is scope for government intervention to improve governance in banking by
reducing bank opacity. Improving the flow of information through increased
disclosure should enhance market discipline, in other words, it should foster the
different potential bank monitors to do their job well. This is the rationale behind the
third pillar of the New Basel Capital Accord”.
2.1.2 REGOLAMENTAZIONE
L’industria bancaria è una delle più regolamentate al mondo. Le due ragioni
tipicamente addotte a giustificazione di questa forte regolamentazione sono la
necessità di evitare i rischi sistemici intrinseci nell’attività bancaria e la tutela dei
depositanti e del pubblico dei risparmiatori in generale.
Gli istituti bancari d’altronde sono fondamentali per lo sviluppo dell’economia e,
come anche la storia recente ci ha dimostrato, le crisi bancarie possono generare
gravi esternalità negative che finiscono col ripercuotersi pericolosamente su tanti e
diversi settori dell’economia anche internazionale.
Se le banche, inoltre, sono delle tipologie di imprese particolarmente opache, è facile
intuire come proprio una regolamentazione che garantisca una maggiore trasparenza,
diventi essenziale.
D’altronde, fattori quali l’apertura alla concorrenza internazionale, i processi di
privatizzazione e aggregazione, l’affermazione di nuovi modelli di intermediazione,
la rapida innovazione finanziaria e l’integrazione dei diversi segmenti (assicurativo,
bancario e dei servizi di investimento) di mercato hanno spinto le banche ad
attribuire una sempre maggior rilevanza all’assetto organizzativo.
Le autorità di vigilanza bancaria hanno assecondato questa evoluzione attraverso un
graduale passaggio da una vigilanza strutturale, caratterizzata dalla significativa
compressione delle scelte gestionali, alla vigilanza prudenziale, un nuovo impianto di
supervisione delineato dal “Nuovo Accorso di Basilea” del 2006.
41
Ciascun ente creditizio deve dotarsi di “solidi dispositivi di governo societario, ivi
compresa una chiara struttura organizzativa con linee di responsabilità ben definite,
trasparenti e coerenti, di processi efficaci per l’identificazione, la gestione, la
sorveglianza e la segnalazione dei rischi ai quali è o potrebbe essere esposto e di
adeguati meccanismi di controllo interno, ivi comprese valide procedure
amministrative e contabili” 13 .
Il legame tra governance bancaria e regolamentazione è ormai evidenze. Come
sostenuto da Prowse (1997), allora, “the most important corporate control
mechanism in banking is regulatory intervention”.
I sistemi di assicurazione dei depositanti e la presenza delle banche centrali quali
prestatori di ultima istanza, sono alcuni dei principali strumenti pensati per prevenire
il fallimento di una banca e l’eventuale, conseguente, effetto contagio nel resto del
mercato finanziario. Questi meccanismi cosiddetti di safety net, tuttavia, possono
anche accentuare il problema di moral hazard riducendo l’incentivo dei depositanti a
monitorare l’attività bancaria e, contemporaneamente, incentivando la banca stessa
ad incrementare la propria esposizione al rischio. In quest’ottica, si giustificano il
primo e il secondo pilastro di Basilea 2, volti rispettivamente a fissare dei requisiti
patrimoniali minimi e un sistema efficiente ed efficace di controllo.
A proposito dei pilastri di Basilea 2, un lavoro empirico circa gli effetti prodotti da
queste regole è stato condotto da Barth, Caprio e Levine (2006). I tre autori hanno
rilevato che “empowering direct official supervision of banks and strengthening
capital standards neither boost bank development nor improve bank efficiency,
reduce corruption in lending, or lower banking system fragility”. Al contrario, hanno
evidenziato che “fortifying official supervisory oversight and disciplinary powers
impedes the efficient operations of banks, increase corruption in lending and hurts
the effectiveness of capital allocation (although the negative impact vanishes when
countries have extremely open, competitive, democratic political institutions). In
contrast, bank supervisory and regulatory policies that facilitate private sector
monitoring of banks, for example forcing banks to disclose accurate information to
the public (III pillar), improve bank operations, bank efficiency and reduce
corruption in lending”.
13
Cfr. l’art. 22 della direttiva 2006/48/CE.
42
Non sorprende quindi che Paesi con sistemi di assicurazione dei depositanti più
generosi, sono soggetti con maggior frequenza a crisi bancarie (Demirguc-Kunt e
Detragiache, 2003).
Ancora Levine (2004) ha analizzato le diverse implicazioni della regolamentazione
per la corporate governance delle banche in ben 107 diverse nazioni. In primo luogo,
ha rivelato che molte regole limitano la concentrazione della proprietà degli istituti
bancari. In alcuni Paesi esistono anche limiti sui soggetti che possono acquisire
azioni del capitale di una banca. Il vincolo più diffuso riguarda, ad esempio, le
partecipazioni bancarie eventualmente detenute da imprese non finanziarie. Si tratta
di limitazioni poste per evitare eventuali concentrazioni di potere economico in mano
a determinati soggetti 14 . Levine (2004), tuttavia, ha dimostrato che una larga
percentuale (circa il 75%) delle banche del suo campione non sono a proprietà
diffusa ma anzi, in buona parte, controllate da vere e proprie famiglie proprietarie. È
un paradosso: “government regulatory restrictions are often ineffective at limiting
family dominance of banks, but the regulatory restrictions on purchasing equity
actually protect these family-controlled banks from takeover and hinder corporate
governance” (Levine, 2004).
La regolamentazione del settore finanziario diventa, insomma, un aspetto
fondamentale di corporate governance nella misura in cui limita e, in un certo senso,
si sostituisce ai meccanismi di mercato, costituendo così una complessità aggiuntiva
nello schema della teoria dell’agenzia e del rapporto principal – agent (Forestieri,
2007).
2.1.3 BANCHE E CORPORATE GOVERNANCE DELLE ALTRE
IMPRESE
Nell’ambito del sistema economico, sia i mercati che i sistemi finanziari, giocano un
ruolo fondamentale: si ritiene, infatti, che determinino la competitività delle imprese
a cui garantiscono l’approvvigionamento di quelle risorse finanziarie senza le quali le
imprese stesse non potrebbero esistere.
14
Come scrisse Louis Brandeis nel 1914: “A license for banking is a license to steal”.
43
In particolare, è possibile affermare che le banche svolgano un funzione importante
anche in quanto soggetti della corporate governance delle altre imprese.
Oggi più che mai, i rapporti banca-impresa tendono ad essere sempre più ampi e
complessi. Le banche offrono ricchi ventagli di servizi alle aziende: forniscono
credito, capitale di rischio, consulenze. Seppur in maniera diversa, a causa dei
differenti possibili contenuti contrattuali, si creano delle relazioni tra l’istituto
bancario e l’impresa che portano a combinazioni di interessi e di incentivi del tutto
peculiari, talvolta anche difficili da gestire (Forestieri, 2007).
L’attività di corporate e investment banking, d’altronde, in molte sue operazioni (dal
venture capital alla gestione delle crisi, dalla quotazione alle operazioni straordinarie
di fusione o acquisizione) si pone come uno degli elementi elettivi per l’eventuale
ristrutturazione degli assetti proprietari e di controllo delle imprese coinvolte. Allora
una banca che gode di una “buona governance” potrà certamente meglio orientare le
scelte delle imprese assistite.
In un’ottica ancor più generale, si può ragionevolmente ritenere che la corporate
governance influenzi, più o meno sensibilmente, l’attività svolta dalle banche, il
costo del capitale oltre che (è questo che nel seguito si cercherà di dimostrare) la
performance e i comportamenti relativi all’assunzione dei rischi.
Se le banche esercitano un impatto notevole sullo sviluppo di un sistema economico,
allora, quando riescono anche ad allocare in modo efficiente le risorse finanziarie di
cui dispongono, potranno garantire: un costo del capitale inferiore per le imprese di
quel sistema economico, la diffusione di maggiori e migliori informazioni e nuovi
stimoli alla crescita economica generale (Levine, 2004).
Quindi “since banks exert corporate governance on firms, as creditors of firms and,
in many countries, as equity holders, the corporate governance of banks becomes
crucial for growth and development” (Polo, 2007).
Alla base della teoria per la quale la banca influenza notevolmente la diffusione di
una buona governance tra le imprese, c’è la capacità propria delle banche di
instaurare delle relazioni di lungo termine con le imprese clienti. È come se la
stabilità del rapporto banca-impresa, legittimasse la banca stessa ad esercitare il
cosiddetto delegated monitoring sull’azienda cliente: la banca, forte delle proprie
44
competenze professionali, riesce a meglio limitare i problemi di agenzia, esercitando
il controllo al posto di altri stakeholders (Allen e Carletti, 2008).
Tutto ciò si ritiene possa verificarsi soprattutto in quei Paesi nei quali manchi un
forte mercato del corporate control.
Il rapporto banca-impresa, comunque, dipende, in larga misura, anche dalla tipologia
del sistema finanziario considerato. È possibile, infatti, distinguerne due modelli
alternativi: l’outsider system e l’insider system.
Il primo è tipico del contesto anglosassone (statunitense in particolare), caratterizzato
da proprietà diffusa e grande tutela degli investitori, in cui il mercato finanziario
riveste un ruolo fondamentale.
Il secondo, invece, è orientato agli intermediari finanziari, caratterizzato da strutture
proprietarie concentrate e da un peso rilevante assunto dal sistema bancario. Proprio
le banche, infatti, finiscono col sostituirsi parzialmente al mercato attraverso la
concentrazione del debito accompagnato talvolta dalla partecipazione azionaria e
comunque da un incisivo controllo sul management. Il c.d. relationship banking ne è
un classico esempio: la banca è incentivata a controllare l’operato degli
amministratori e ad intervenire sulla governance aziendale in caso di performance
negative.
In letteratura, tuttavia, non manca chi sostiene che il ruolo delle banche nella
corporate governance delle imprese clienti sia sopravvalutato.
Edward e Fisher (1994), ad esempio, in uno studio che ha riguardato il sistema
finanziario tedesco, hanno mostrato una serie di evidenze empiriche secondo le quali
proprio le banche, in qualità sia di creditori che di azionisti, non esercitano influenze
particolarmente rilevanti.
In generale, le operazioni sul capitale di rischio, sul debito e quelle di advisoring
coinvolgono necessariamente le posizioni dei diversi stakeholders e, in primis, di
azionisti e creditori. Le clausole dei contratti che ne derivano contengono, anche solo
indirettamente, condizioni che si riflettono sulla funzionalità del sistema di corporate
governance delle imprese nella misura in cui possono favorire o frenare la spinta del
management al raggiungimento degli obiettivi aziendali. È quindi possibile affermare
che “un’efficiente governance bancaria è un presidio non solo rispetto a
45
comportamenti fraudolenti, ma anche rispetto a “semplici” (e molto più diffusi) casi
di gestione aziendale inefficiente” (Santella, 2006).
2.2.
SISTEMA BANCARIO ITALIANO
Il sistema bancario italiano, negli ultimi venti anni, è stato interessato da profonde
trasformazioni. Le spinte verso una crescente integrazione dei mercati, soprattutto
finanziari, hanno favorito una progressiva tendenza ad uniformare le caratteristiche e
le specificità dei diversi sistemi bancari, sempre più dominati dal principio della
ricerca della massima redditività anche nelle operazioni finalizzate all’erogazione del
credito. Non sempre, nel passato, è stato così: in alcuni sistemi, proprio come in
quello italiano, si considerava l’attività creditizia, e bancaria in generale, come
equivalente ad una funzione pubblica, svolta nell’interesse dell’intero sistema
economico e, quindi, caratterizzata dalla massiccia presenza di soggetti istituzionali
nel capitale delle banche.
La crescente globalizzazione dell’economia, inoltre, ha imposto la ricerca di
dimensioni sempre più ampie per gli operatori bancari e ciò ha portato a progressive
concentrazioni e alla conseguente scomparsa di molti operatori creditizi minori, che
meglio interagivano con le imprese di dimensioni più modeste presenti in uno
specifico territorio (Panizza, 2002).
Di seguito, si propone un breve excursus storico delle fasi che hanno permesso una
riorganizzazione del sistema bancario italiano; si cercherà poi di esaminare le
particolarità che il legislatore ha previsto per i modelli giuridici bancari e di
analizzare più approfonditamente i motivi che hanno spinto alcune grandi banche
italiane ad adottare recentemente il modello dualistico.
2.2.1 TRASFORMAZIONI DEGLI ANNI NOVANTA
Con specifico riferimento al governo societario dell’impresa bancaria, è inevitabile
rilevare come gli interessi pubblici, le peculiarità strutturali e gli specifici problemi di
opacità e asimmetrie informative che la caratterizzano, richiedano l’introduzione di
46
adeguati meccanismi di corporate governance, nell’interesse tanto degli azionisti
quanto della pluralità degli stakeholders e delle collettività in generale.
Sulla base di queste considerazioni, l’attenzione non può non rivolgersi anche
all’evoluzione del sistema bancario e del relativo quadro istituzionale per poter
meglio comprendere come il governo societario e, più in generale, la variabile
organizzativa sia diventata un elemento decisivo non solo per la competitività ma
anche per la stabilità degli intermediari. I giusti meccanismi di governace, infatti,
possono diventare lo strumento capace di coniugare correttamente l’interesse alla
massimizzazione del valore dell’investimento azionario e l’interesse alla sana e
prudente gestione della banca (Cappiello e Ronchi, 2009).
Fino agli inizi degli anni Novanta, il sistema creditizio italiano era disciplinato dalla
legge bancaria del 1936-38 15 che aveva come obiettivi fondamentali la stabilità e
l’efficienza funzionale degli intermediari del credito. Il fine era quello di prevenire il
ripetersi di una grave crisi bancaria, come quella dei primi anni Trenta, e di garantire
il buon funzionamento del sistema economico. La banca era considerata
un’istituzione incaricata di svolgere un compito con finalità pubbliche: non era
considerata come un’impresa finalizzata a soddisfare logiche di redditività, ma a
compiere il pubblico servizio di erogazione del credito.
Sul piano delle configurazioni istituzionali, i soggetti operanti nel settore del credito
erano distinti, a seconda della loro diversa operatività, in due categorie principali:
istituti di credito e banche di credito ordinario (o aziende di credito).
Gli istituti di credito erano prevalentemente di diritto pubblico e si caratterizzavano
per un’operatività a medio-lungo termine, avente cioè ad oggetto attività finanziarie
con scadenza superiore a 18 mesi, che si concretizzava prevalentemente
nell’erogazione di credito in settori particolari come il credito fondiario, edilizio o
agrario.
15
Si tratta del R. D. L. del 12 marzo 1936, n. 375 sulle “disposizioni per la difesa del risparmio e per
la disciplina della funzione creditizia”. Il decreto fu poi convertito, con rilevanti modifiche, con la
legge del 7 marzo 1938, n. 141. A queste disposizioni si aggiunsero quelle della legge 7 aprile 1938,
n. 636 con cui venne convertito il D. L. 17 luglio 1937, n. 1400. “Il complesso di queste disposizioni
ha dato vita ad un corpo organico di norme comunemente noto come legge bancaria” (Costi, 2001, p.
56).
47
Le aziende di credito, invece, erano caratterizzate da un’operatività a breve termine
quindi in attività finanziarie con scadenza pari o inferiore ai 18 mesi, che consisteva
nell’erogazione di credito alle imprese per la copertura del normale fabbisogno
finanziario aziendale. Le aziende di credito, a loro volta, si dividevano in: banche
ordinarie, costituite da privati prevalentemente nella forma di società per azioni;
casse rurali ed artigiane, che erano società cooperative aventi ad oggetto
l’erogazione del credito a favore di artigiani ed agricoltori; banche popolari,
anch’esse società cooperative che tuttavia derogavano in parte alla disciplina
generale in materia di cooperazione; casse di risparmio e monti di pietà, vale a dire
banche di natura pubblica costituite nella forma di enti pubblici economici senza
scopo di lucro; banche di interesse nazionale, cioè banche la cui operatività era tale
da incidere sull’economia nazionale (presupposto fondamentale era, ad esempio,
l’esistenza di filiali in almeno trenta province).
Si trattava, quindi, di una legislazione particolarmente dirigista che delimitava le
azioni degli istituti in mano prevalentemente pubblica. “In sostanza, alla ripartizione
di attività a breve, medio e lungo termine, corrispondeva una specializzazione
dell’attività bancaria, nel senso che determinati settori dell’attività bancaria erano
riservati solo a determinate categorie di soggetti” (Bontempi, 2006).
Con la legge del 30 luglio 1990 n. 218 (nota come legge Amato-Carli) e il decreto
legislativo di attuazione del 20 novembre 1990 n. 356 ha avuto inizio un profondo
processo di cambiamento del sistema bancario italiano. L’obiettivo era ristrutturare e
trasformare le banche pubbliche in società per azioni.
In un libro bianco del 1981, la Banca d’Italia individuò tre limiti delle banche
pubbliche rispetto a quelle private: una ripartizione dei poteri tra gli organi
amministrativi non in grado di assicurare la distinzione tra funzioni di indirizzo e
funzioni di gestione; una generale sottocapitalizzazione dovuta al procedimento di
formazione dei fondi di dotazione e alla difficoltà strutturale di attingere a capitali di
finanziatori esterni, la presenza di limitazioni operative dipendenti dall’esercizio,
oltre che dell’attività bancaria, anche di altre funzioni pubbliche connesse alle origini
degli enti (Clarich, 2001).
Visto, insomma, l’aumento della concorrenzialità e un mercato che, in quegli anni,
tendeva ad assumere dimensioni sempre più internazionali, si è avvertita l’esigenza
48
di rivitalizzare la foresta pietrificata degli enti creditizi, esaltandone la natura
imprenditoriale.
Come molti hanno scritto, la legge Amato-Carli ha attuato una privatizzazione fredda
del sistema bancario: non ha infatti messo in discussione né l’esistenza né la natura
giuridica sostanziale degli enti bancari. Per questa ragione è più opportuno parlare di
liberalizzazione della proprietà e del controllo delle banche piuttosto che di
privatizzazione vera e propria (Mottura, 1996).
La consapevolezza che il permanere del controllo pubblico avrebbe potuto
rappresentare un ostacolo alla crescita delle banche e il timore che la gestione delle
imprese bancarie fosse influenzata da interessi estranei ai criteri dell’efficienza
operativa, ha rappresentato il motivo dell’emanazione del D.L. 31 maggio 1994 su
“norme per l’accelerazione delle procedure di dismissioni dello Stato e degli enti
pubblici in società per azioni”. Si è così abrogato l’articolo 19 del decreto legislativo
357/90 con il quale si stabiliva che la maggioranza delle azioni con diritto di voto
nell’assemblea ordinaria delle società bancarie dovesse necessariamente appartenere
a enti pubblici o a società bancarie o finanziarie controllate da enti pubblici. Nella
stessa direzione si è inserita la direttiva del 18 novembre 1994 dell’allora Ministro
del Tesoro Lamberto Dini, tesa ad agevolare la dismissione delle banche da parte
delle fondazioni (Trivieri, 2005).
Rimanevano, però, diverse questioni aperte, alle quali si cercò di trovare una
soluzione con la legge delega del 23 dicembre 1998, n. 461, famosa come legge
Ciampi, poi perfezionata con il decreto legislativo del 17 maggio 1999, n. 153.
L’obiettivo era quello di delegare il Governo ad emanare una serie di decreti
legislativi per il riordino della disciplina civilistica e fiscale delle operazioni di
ristrutturazione bancaria. Con questo provvedimento si stabiliva finalmente che la
dismissione delle partecipazioni detenute dalle fondazioni nelle aziende bancarie
fosse, non più solo possibile, ma proprio necessaria. L’articolo 6 del D.Lgs. 153/99,
infatti, impedisce alle fondazioni bancarie di detenere il controllo di società che non
svolgano attività strumentali al conseguimento dei loro fini di utilità sociale e di
promozione dello sviluppo economico.
Ad oggi, insomma, la categoria delle banche pubbliche non esiste più e le fondazioni
bancarie venutesi a creare sono espressamente qualificate come persone giuridiche
49
private. Questo processo di profonda ristrutturazione del sistema bancario ha ottenuto
due risultati importanti: la dismissione delle partecipazioni detenute dallo Stato e la
realizzazione di operazioni di consolidamento tra un numero assai considerevole di
imprese bancarie.
Le necessità imposte dall’adesione al progetto dell’Unione europea, recependo le
Direttive in materia bancaria degli anni Ottanta, hanno reso necessaria una profonda
revisione delle leggi riguardanti il sistema bancario e creditizio in Italia. Le norme
succedutesi su questo tema hanno poi avuto una compiuta espressione nel Testo
unico in materia bancaria e creditizia approvato nel 1993, che ha ulteriormente
incentivato la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni, con il
formale riconoscimento della loro natura imprenditoriale. Il nuovo quadro
regolamentare ha consentito, quindi, la despecializzazione temporale, funzionale e
territoriale dell’attività creditizia, liberalizzando l’apertura di nuovi sportelli e di
nuove banche. Con questi provvedimenti il legislatore ha perseguito l’obiettivo di
accrescere il grado di concorrenza all’interno del sistema bancario, aumentandone, di
conseguenza,
l’efficienza.
Tuttavia,
simili
cambiamenti
hanno
modificato
profondamente l’ambiente all’interno del quale le banche hanno operato per decenni,
imponendo ad esse di sottoporsi a significativi processi evolutivi, quale unica
condizione per garantire loro la sopravvivenza in un nuovo ambiente che, tra l’altro,
ha visto crescere anche la competitività internazionale. E questa evoluzione, sia
direttamente che indirettamente, non ha potuto non riguardare anche gli assetti di
corporate governance.
In generale, comunque, il sistema economico italiano è ancora considerato da molti
saldamente “bancocentrico”: né la Borsa né il mercato dei finanziamenti non bancari
hanno saputo imporsi come primaria fonte di finanziamento per le imprese. Così,
anche, i legami azionari diretti tra banche e aziende sono aumentati. Alcuni grandi
gruppi bancari hanno assunto un ruolo rilevante nell’azionariato di grande imprese
industriali o società di servizi, entrando spesso nei patti di sindacato che le
controllano; allo stesso tempo un numero crescente di imprese partecipa al capitale
degli istituti di credito, cosa che rende loro più semplice garantirsi protezione
finanziaria. Questo reticolo è ovviamente un freno alla concorrenza, rende più facile
conflitti di interesse e difficile il raggiungimento di una “buona governance”.
50
2.2.2
SPECIFICITA’
DELLA
LEGISLAZIONE
BANCARIA
ITALIANA
La profonda revisione della disciplina di diritto comune, operata con la riforma del
diritto societario del 2004, ha indotto il legislatore e le autorità di vigilanza ad
occuparsi delle implicazioni della stessa riforma rispetto all’ordinamento bancario.
Nel valorizzare l’autonomia imprenditoriale delle banche rispettando comunque gli
interessi generali alla sana e prudente gestione, le autorità di vigilanza hanno scelto
di coordinare la novella del codice civile con la normativa di settore in modo da
perseguire due obiettivi: consentire alle banche di sfruttare le nuove opportunità di
miglioramento dell’efficienza gestionale, scegliendo il modello societario più
adeguato; definire le condizioni minime volte a prevenire il rischio che queste stesse
opportunità si traducano in assetti organizzativi invece pregiudizievoli per
l’efficienza della gestione e l’efficacia dei controlli.
In particolare, a fronte della criticità dei nuovi modelli, “la soluzione perseguita è
stata
quella
di
un
equilibrato
dosaggio
di
autoregolamentazione
ed
eteroregolamentazione, così da consentire alle banche di fruire degli spazi concessi
all’autonomia statutaria nella scelta e nella conformazione dei propri assetti di
governo societario e, al tempo stesso, introdurre le integrazioni e i correttivi
necessari ad assicurarne la compatibilità con l’interesse pubblico alla sana e prudente
gestione” (Cappiello e Ronchi, 2009).
Il primo passo è stato rappresentato dall’emanazione, da parte del ministro
dell’Economia e delle Finanze in qualità di presidente del Comitato interministeriale
per il credito ed il risparmio, del decreto del 5 agosto 2004 (Organizzazione e
governo societario). Con tale provvedimento si è rimesso alla Banca d’Italia il
compito di emanare disposizioni attuative, individuare principi e fornire indicazioni
di carattere generale in merito agli assetti di governance.
Il legislatore, insomma, si è limitato a specificare che le banche devono dotarsi “di
un assetto organizzativo e di corporate governance tale per cui:
- il modello di amministrazione e controllo prescelto garantisca l’efficienza della
gestione e l’efficacia dei controlli. Tale modello deve essere coerente con: la struttura
proprietaria e il grado di apertura della società al mercato del capitale di rischio; le
51
dimensioni, la complessità e le strategie aziendali; l’organizzazione della banche e
del gruppo in cui essa è eventualmente inserita;
- i compiti gestionali, esecutivi e di controllo siano ripartiti in modo da favorire la
dialettica interna alla società, assicurando il bilanciamento dei poteri dei diversi
organi sociali;
- i flussi informativi siano idonei a consentire a ciascun organo sociale e ai suoi
componenti di disporre, anche a livello di gruppo, delle informazioni necessarie allo
svolgimento effettivo e consapevole dei compiti loro affidati;
- la gestione dei rischi da parte degli organi aziendali competenti sia consapevole e
coerente con le strategie prescelte;
- i poteri e le responsabilità per ogni livello decisionale siano precisamente definiti,
anche mediante un chiaro sistema di deleghe interne;
- la composizione degli organi sociali sia quantitativamente e qualitativamente
adeguata alle esigenze gestionali e di controllo proprie della singola banca e tale da
consentire l’efficiente assolvimento dei compiti;
- i meccanismi di remunerazione e di incentivazione degli amministratori e del
management non incoraggino scelte gestionali incoerenti con gli interessi aziendali e
con le strategie di lungo periodo della banca;
- il sistema di controllo contabile sia adeguato alla dimensione, alla complessità
operativa e alla situazione tecnica della banca, con riguardo sia alla professionalità e
all’esperienza del revisore prescelto sia al raccordo e coordinamento di quest’ultimo
con l’organo e le funzioni di controllo” 16 .
Senza alcuna pretesa di completezza, di seguito si cercherà di approfondire alcuni
degli elementi che, caratterizzando la governance bancaria, permettono di
raggiungere questi obiettivi.
16
Parte del testo del decreto del 5 agosto 2004.
52
2.2.3 CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Si tratta di un organo fondamentale nell’ambito della struttura di governo della banca
come di ogni altra impresa: ad esso la legge e le disposizioni dell’autorità di
vigilanza, attribuiscono la responsabilità organizzativa, di indirizzo gestionale e di
controllo.
La legge per la tutela del risparmio, emanata nel 2005, ha in parte modificato le
regole sulla composizione dell’organo amministrativo delle società con azioni
quotate: “lo statuto prevede che i componenti del Consiglio di Amministrazione
siano eletti sulla base di liste di candidati e determina la quota minima di
partecipazione richiesta per la presentazione di esse, in misura non superiore a un
quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilita dalla Consob con
regolamento 17 ”. Inoltre, si deve eleggere almeno un amministratore dalla lista di
minoranza.
Nelle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia è stabilito che: “la composizione
del Consiglio di Amministrazione va resa coerente con le caratteristiche operative e
dimensionali dell’intermediario e vanno evitate composizioni pletoriche. Per
garantire unità di conduzione, oltre alle attribuzioni non delegabili per legge, va
riservata alla competenza decisionale del consiglio la definizione delle linee
strategiche, la nomina del direttore generale, l’assunzione e la cessione di
partecipazioni che determinano variazioni del gruppo, l’approvazione e la modifica
di regolamenti interni, l’eventuale costituzione di comitati o commissioni con
funzioni consultive o di coordinamento 18 ”.
Circa la composizione del Consiglio di Amministrazione, la legge per la tutela del
risparmio stabilisce (art. 1) che: “qualora il consiglio di amministrazione [nel sistema
tradizionale] sia composto da più di sette membri, almeno uno di essi deve possedere
i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci”. Il Codice di Autodisciplina 19
17
Parte dell’art. 147-ter del Testo Unico della Finanza novellato dalla legge 262/2005.
18
Istruzioni di Vigilanza per le banche, Circolare n. 229 del 21 aprile 1999 e successivi
aggiornamenti.
19
Si tratta del codice in materia di corporate governance, elaborato nel 1999 dal Comitato per la
Corporate Governance delle Società Quotate (vedi nota n. 2)
53
auspica, inoltre, la presenza di amministratori non esecutivi e, tra questi, di
amministratori indipendenti in numero adeguato, tale da poter esercitare un ruolo
significativo.
Il Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate rileva che, nelle
società ad azionariato diffuso, l’aspetto più delicato consiste nell’allineamento degli
interessi degli amministratori delegati con quelli degli azionisti. In tali società,
quindi, prevale la caratteristica della loro indipendenza dagli amministratori delegati.
Viceversa, nelle società con proprietà concentrata, o dove sia comunque
identificabile un gruppo di controllo, pur continuando a sussistere la problematica di
allineamento degli interessi, emerge la necessità che alcuni amministratori siano
indipendenti anche dagli azionisti di controllo. È ulteriormente confermata,
l’importanza assunta dagli amministratori indipendenti nell’ambito dei meccanismi
di governance al fine di risolvere i problemi di agenzia.
2.2.4 CONTROLLO INTERNO
“Il sistema di controllo interno ha la funzione di supportare e guidare il management
nell’orientamento dei comportamenti gestionali. L’istituzione di un adeguato sistema
di controllo interno è, quindi, una componente fondamentale per l’attuazione di un
efficace ed efficiente sistema di corporate governance” (Masera, 2006).
Tale sistema è definito dalle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia come:
“l’insieme delle regole, delle procedure e delle strutture organizzative che mirano ad
assicurare il rispetto delle strategie aziendali e il conseguimento delle seguenti
finalità:
i)
l’efficacia e l’efficienza dei processi aziendali (amministrativi, produttivi,
distribuitivi, ecc);
ii)
la salvaguardia del valore delle attività e la protezione dalle perdite;
iii)
l’affidabilità e integrità delle informazioni contabili e gestionali;
iv)
la conformità delle operazioni con la legge, la normativa di vigilanza
nonché con le politiche, i piani, i regolamenti e le procedure interne”.
54
Secondo il Codice di Autodisciplina, invece, “il sistema di controllo interno ha il
compito di verificare che vengano effettivamente rispettate le procedure interne, sia
operative, sia amministrative, adottate al fine di identificare, prevenire e gestire nei
limiti del possibile rischi di natura finanziaria ed operativa e frodi a danno della
società”.
Il sistema di controllo interno può articolarsi organizzativamente in diversi assetti,
modulati sulla realtà di ciascuna società. Il Comitato per la Corporate Governance
delle Società Quotate raccomanda, però, che i preposti al controllo interno siano
liberi da vincoli gerarchici nei confronti dei soggetti sottoposti al loro controllo, così
da evitare interferenze con la loro autonomia di giudizio.
È bene, inoltre, che il sistema di controllo interno si estenda sia ai rischi finanziari,
sia ai rischi operativi, inclusi quelli sull’efficacia e sull’efficienza delle operazioni e
sul rispetto delle leggi e dei regolamenti. Non è un caso, ad esempio, che proprio la
gestione del compliance risk abbia acquisito, negli ultimi tempi, una sempre
maggiore importanza, presentandosi come un ulteriore e qualificante elemento di
corporate governance. Diverse banche europee, infatti, “hanno istituito al loro interno
una funzione di compliance, il cui responsabile assiste e consiglia i vertici aziendali
nell’individuazione, valutazione e controllo di questa specifica categoria di rischio”
(Masera, 2006).
Vista, quindi, l’importanza del sistema di controllo interno, molte banche hanno
costituito, all’interno dei Consigli di Amministrazione, dei veri e propri Comitati di
Controllo Interno, detti anche comitati audit.
Secondo quanto consigliato dal Codice di Autodisciplina, infatti, il Comitato per il
Controllo Interno, composto da un adeguato numero di amministratori non esecutivi,
assolve a funzioni consultive e propositive proprio in tema di controllo interno.
“In particolare il comitato per il controllo interno:
a) valuta l’adeguatezza del sistema di controllo interno;
b) valuta il piano di lavoro preparato dai preposti al controllo interno e riceve le
relazioni periodiche degli stessi;
c) valuta le proposte formulate dalle società di revisione per ottenere
l’affidamento del relativo incarico, nonché il piano di lavoro predisposto per
la revisione e i risultati esposti nella relazione e nella lettera di suggerimenti;
55
d) riferisce al consiglio, almeno semestralmente, in occasione dell’approvazione
del bilancio e della relazione semestrale, sull’attività svolta e sulla
adeguatezza del sistema di controllo interno;
e) svolge gli ulteriori compiti che gli vengono attribuiti dal consiglio di
amministrazione, particolarmente in relazione ai rapporti con la società di
revisione” 20 .
Più nello specifico, le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, attribuiscono una
certa importanza anche all’attività di revisione interna delle banche, detta internal
audit. Si tratta di una funzione “volta da un lato a controllare, anche con verifiche in
loco, la regolarità dell’operatività e l’andamento dei rischi, dall’altro a valutare la
funzionalità del complessivo sistema dei controlli interni e a portare all’attenzione
del consiglio di amministrazione e dell’alta direzione i possibili miglioramenti alle
politiche di gestione dei rischi, agli strumenti di misurazione e alle procedure” 21 .
Affinché l’internal audit possa operare liberamente ed efficacemente, è necessario
che “non dipenda gerarchicamente da alcun responsabile di aree operative; sia dotato
di personale qualitativamente e quantitativamente adeguato ai compiti da svolgere;
abbia accesso a tutte le attività della banca 22 ”.
Anche se il Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate nulla dice
in merito, come invece ribadito da Masera (2006), è opportuno che l’internal audit
sia indipendente non solo dalle strutture operative ma anche dal vertice operativo.
“Appare, infatti, contraddittorio rendere autonomo l’internal audit rispetto alle
funzioni produttive e, al contempo, porla alle dipendenze di chi coordina ed è
responsabile dell’operato di tali funzioni” (Masera, 2006).
20
Codice di Autodisciplina, art. 10.2
21
Istruzioni di Vigilanza per le banche, Circolare n. 229 del 21 aprile 1999, Titolo IV, Sezione II.
22
Ibidem
56
2.2.5 PARTICOLARITA’ DEI NUOVI MODELLI SOCIETARI:
MONISTICO E DUALISTICO
L’introduzione nell’ordinamento italiano della possibilità di scelta tra tre modelli
societari alternativi (tradizionale, monistico e dualistico) ha aperto una nuova fase
nella corporate governance delle imprese italiane e, di conseguenza, anche delle
banche.
In generale, alla base dell’evoluzione del nostro ordinamento è possibile rintracciare,
come filo conduttore, la ricerca di un equilibrio tra le manifestazioni dell’autonomia
imprenditoriale, riconosciute e valorizzate dal diritto comune, e la necessità che
queste siano sempre coerenti con i criteri prudenziali presidiati dalla vigilanza
bancaria.
Sotto questo punto di vista la riforma societaria introduce qualche elemento di
discontinuità perché da un lato riprende, con riferimento ai sistemi di governo
tradizionali, alcune soluzioni di fatto già sperimentate nell’ambito delle norme di
vigilanza, ma dall’altro, nel configurare i modelli alternativi, demanda l’applicazione
all’autonomia statutaria, segnando così uno squilibrio con l’impostazione delle
norme codicistiche (Vella, 2008).
In altri termini, al fine di graduare le esigenze di efficacia ed efficienza aziendali con
quelle di una sana e prudente gestione bancaria, la Banca d’Italia, nelle disposizioni
di vigilanza 23 , ha stabilito, per le banche, delle deroghe alla normativa generale.
Per quanto riguarda il sistema monistico, mentre nel codice civile è scritto che “salvo
diversa disposizione dello Statuto, la determinazione del numero e la nomina dei
componenti del Comitato per il controllo sulla gestione spetta al Consiglio di
Amministrazione 24 ”, le disposizioni della Banca d’Italia stabiliscono che “lo Statuto
delle banche che adottano il modello monistico deve attribuire all’Assemblea il
compito di nominare e revocare i componenti del Comitato per il controllo sulla
23
“Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche”, del 4
marzo 2008.
24
Articolo 2409-octiesdecies, comma 1 del c.c.
57
gestione”. La Banca d’Italia, insomma, ha sottratto al Consiglio di Amministrazione
un potere invece riconosciutogli dalla normativa generale, rendendo obbligatoria una
soluzione che il diritto societario considera solo come eventuale e comunque
subordinata ad un’espressa previsione statutaria.
È evidente, in questo caso, l’intenzione della Banca d’Italia, di porre un argine al
principale “difetto” del modello monistico evitando che i controllati eleggano i
controllori.
Per il sistema dualistico, l’articolo 2409-terdecies, al comma 4, del codice civile,
prevede che “i componenti del Consiglio di Sorveglianza possono assistere alle
adunanze del Consiglio di Gestione e devono partecipare alle assemblee”.
Le disposizioni della Banca d’Italia, invece, dopo aver previsto che nel Consiglio di
Sorveglianza deve essere nominato un Comitato per il Controllo Interno qualora il
consiglio stesso svolga una funzione di supervisione strategica o sia di ampia
composizione, precisa che il presidente del Consiglio di Sorveglianza non può far
parte di tale comitato e che, comunque, almeno un componente del Consiglio di
Sorveglianza deve partecipare alle riunioni del Consiglio di Gestione. Si specifica,
però, che tale partecipazione, strettamente connessa allo svolgimento delle funzioni
di controllo, va riservata ai soli componenti del Comitato per il Controllo Interno.
In sostanza, per le banche, è fatto divieto al presidente del Consiglio di Sorveglianza
di partecipare alle adunanze del Consiglio di Gestione (Costi, 2008). Inoltre, mentre
per le altre società che scelgono il modello dualistico, la nomina di un Comitato per
il Controllo Interno è facoltativa, per le banche è obbligatoria.
In un certo senso, è possibile interpretare queste deroghe alla normativa generale del
codice civile come un’ulteriore dimostrazione della specificità delle banche rispetto
ad altre tipologie di imprese.
Gli istituti di credito, infatti, devono contrapporre alle ragioni di mercato gli interessi
e la tutela dei depositanti. È fisiologico quindi che le scelte di governance
fuoriescano dal terreno tipico delle società di diritto comune per divenire il
presupposto di obiettivi diversi, volti alla ricerca di un equilibrio tra l’autonomia
imprenditoriale e la sana e prudente gestione (Favella, 2008).
58
Seguendo la traccia già segnata dai principi di Basilea II, la Banca d’Italia, con le sue
Disposizioni, ha ribadito l’importanza della governance societaria nella gestione
dell’impresa bancaria. Nel disciplinare certi aspetti della struttura di comando e
gestione, con divergenze rispetto ai modelli legali, quindi, l’Autorità di vigilanza ha
mostrato di credere nella relazione fra corretta ed efficace gestione e performance
positiva dell’azienda (Costi e Vella, 2008).
2.3 MODELLO TRADIZIONALE, MONISTICO E DUALISTICO:
CASI SCELTI DI BANCHE ITALIANE.
La riforma del diritto societario ha aperto un ventaglio di possibilità agli operatori
che si accingono a disegnare le strutture di governo della società bancaria.
La loro libertà di scelta deve essere guidata da una precisa valutazione del modello
che appare più idoneo e confacente a realizzare i disegni imprenditoriali, nell’ambito
del principio della equivalenza di tutti i modelli (Costi e Vella, 2008).
D’altronde come dichiarato da Draghi (2008/1) “assieme all’adeguamento del
patrimonio e dell’organizzazione, il terzo presidio cui è affidata la stabilità del
sistema bancario è la qualità del governo societario”.
Con l’obiettivo, quindi, di garantire al sistema bancario italiano i necessari presidi di
good governance, la Banca d’Italia, nelle “Disposizioni di vigilanza in materia di
organizzazione e governo societario delle banche” del 2008, ha imposto agli istituti
bancari italiani di dotarsi, entro il 30 giugno 2009, di un sistema di governo
societario coerente con i modelli disciplinati dalle norme codicistiche a seguito della
riforma del 2003.
Nonostante le diverse prescrizione alle quali le banche devono attenersi, è comunque
concesso ampio spazio all’autonomia statutaria cosicché gli istituti bancari abbiano
la possibilità di applicare le disposizioni alla propria realtà nel rispetto del principio
di proporzionalità (Brogi, 2009).
Le banche italiane che, ad oggi, si sono organizzate secondo il modello dualistico
sono il Banco Popolare, Intersa San Paolo e UBI Banca. Mediobanca, invece, dopo
59
aver adottato il modello dualistico per circa un anno (dal 2 luglio 2007 al 28 ottobre
2008) è tornata al modello tradizionale.
Già il legislatore della Riforma del diritto societario del 2003, vedeva nel modello
dualistico una soluzione organizzativa in grado di agevolare il governo societario in
presenza di compagini sociali diffuse dove, in maggior misura, si “realizza la
dissociazione tra proprietà (dei soci) e potere (degli organi sociali)” 25 .
Le banche italiane, tuttavia, sembrano imputare le potenzialità del modello
dualistico, non tanto alle ragioni addotte dal legislatore, quanto, piuttosto, alla
possibilità di raggiungere un equilibrio di poteri in caso di processi di aggregazione.
“Nel modello dualistico il Consiglio di Sorveglianza, ben distinto dal Consiglio di
Gestione, a cui spettano le decisioni operative, è frapposto tra azionisti e manager ed
esercita funzioni di supervisione che nel sistema tradizionale spettano agli azionisti
stessi. In presenza di strutture azionarie particolarmente complesse, tale modello può
consentire un controllo più efficace dell’operato dei gestori. Nel caso di recenti
operazioni di aggregazione bancaria, i promotori hanno visto nel modello dualistico
uno strumento per valorizzare tradizioni e patrimonio di esperienza delle realtà
bancarie preesistenti” (Draghi, 2007).
La previsione di un Consiglio di Gestione, infatti, affiancato da un Consiglio di
Sorveglianza titolare delle funzione di controllo ma anche della supervisione
strategica e d’indirizzo, permette di coinvolgere un numero più ampio di soggetti e
organi dei processi decisionali (Favella, 2009).
Per quanto concerne il sistema monistico, invece, bisogna rilevare come, per il
momento, non sia stato adottato da nessuna banca italiana. Il modello monistico, in
effetti, può essere considerato più adatto a realtà aziendali caratterizzate da un
azionariato diffuso, da notevole dimensioni e quindi maggiormente sottoposte
all’effetto disciplinante del mercato. Inoltre, a differenza del sistema dualistico, non
consente il coinvolgimento nei processi decisionali di diversi soggetti e/o organi.
Non si deve, ad ogni modo, escludere la possibilità di una sua maggiore diffusione
nel futuro. Come rileva Brogi (2008), infatti, “per le banche italiane che hanno
adottato il dualistico a seguito di fusioni, raggiungendo una dimensione che consente
25
Dalla relazione al d.lgs. 6, 17/1/2003.
60
loro la competizione sui mercati dei capitali con le grandi società quotate europee, il
modello dualistico potrebbe rappresentare un passaggio intermedio prima
dell’approdo al sistema monistico, come del resto è recentemente avvenuto per
alcune grandi società francesi del campione Eurotop”.
2.3.1 UBI, INTESA SAN PAOLO E BANCO POPOLARE: MOTIVI
DELLA SCELTA
Le ragioni in base alle quali l’Unione delle Banche Italiane (UBI Banca) ha optato
per il modello dualistico possono essere rinvenute nella “Relazione di UBI Banca in
materia di governo societario” 26 nella quale è scritto, appunto, che il sistema duale è
“ritenuto maggiormente rispondente alle esigenze di governance della nuova
Capogruppo UBI Banca e al contempo più appropriato per rafforzare la tutela degli
azionisti-soci, soprattutto per il tramite dell’attività del Consiglio di Sorveglianza,
organo nominato direttamente dai soci e rappresentante degli stessi”.
Il caso UBI 27 , d’altra parte, si colloca proprio in quel contesto di processi di
aggregazione che guarda con maggior interesse al sistema dualistico e al
bilanciamento tra poteri che questo stesso sistema permette di realizzare,
“garantendo per il tramite della scorporazione della funzione amministrativa in
gestione e supervisione, un posto al sole a più interessati” (Favella, 2009).
In quest’ottica, quindi, UBI Banca ha inteso attribuire al Consiglio di Sorveglianza,
oltre alle normali funzioni di controllo, anche quelle di supervisione strategica e
indirizzo; mentre al Consiglio di Gestione sono affidate la gestione ordinaria e
straordinaria della banca. In altri termini, il Consiglio di Sorveglianza non solo può
nominare i consiglieri di gestione e approvare il bilancio, ma può anche svolgere
funzioni tipicamente gestionali.
Nello Statuto di UBI Banca, infatti, si legge che il Consiglio di Sorveglianza “su
proposta del Consiglio di Gestione, delibera sulla definizione degli indirizzi generali
26
27
Scaricabile dal sito www.ubibanca.it
Il gruppo UBI Banca, è nato il 1 aprile 2007 dalla fusione tra Banca Lombarda e BPU Banca.
61
programmatici e strategici della Società del Gruppo”, “delibera sulle autorizzazioni
relative ai piani industriali e/o finanziari e ai budget della società e del Gruppo” e
“relative altre operazioni strategiche”, oltre ad essere competente per una serie di
altre funzioni che confermano l’importanza del ruolo rivestito da questo organo
sociale.
A scegliere il sistema duale è stato anche il Gruppo Intesa San Paolo nato dalla
fusione, avvenuta nel 2007, tra Banca Intesa e Banca San Paolo IMI.
Come si legge dalla “Relazione sul Governo Societario e Informazione sugli Assetti
Proprietari” del 2009, Intesa San Paolo ha avviato nel 2008 “un approfondito esame
del proprio assetto organizzativo, con particolare riferimento alla struttura e al
funzionamento dei propri Organi sociali, al fine di verificarne la rispondenza al
nuovo contesto normativo e di procedere, se del caso, ai conseguenti adeguamenti.
[…] Dall’analisi condotta è emerso che il sistema di amministrazione e controllo
dualistico adottato rappresenta in concreto il modello di governo societario più
idoneo ad assicurare una gestione della Banca efficiente, in linea con le strategie
aziendali di lungo periodo, controlli efficaci ed una supervisione strategica articolata;
si è rilevata inoltre una sostanziale coerenza del sistema adottato non soltanto con le
Nuove Disposizioni di Vigilanza ma anche con il generale contesto normativo e
regolamentare vigente.”
Come UBI Banca, quindi, anche l’istituto piemontese ha scelto di conferire al
Consiglio di Sorveglianza funzioni di supervisione strategica e di indirizzo aggiuntivi
rispetto a quelle di controllo.
Le ragioni di fondo sono sempre specificate nella Relazione della Gestione. “In
primo luogo, tale modello determina una migliore demarcazione tra proprietà e
gestione, in quanto il Consiglio di Sorveglianza si pone quale filtro tra gli azionisti e
l’organo gestorio – il Consiglio di Gestione – e sembra quindi poter rispondere più
efficacemente rispetto al modello tradizionale alle esigenze di maggior trasparenza e
riduzione dei potenziali rischi di conflitto di interessi. Inoltre, il ruolo attribuito al
Consiglio di Sorveglianza enfatizza la distinzione tra la funzione del controllo e degli
indirizzi strategici, da un lato, e la funzione della gestione dell’altro, consentendo di
62
delineare al meglio ruoli e responsabilità degli organi sociali, anche a garanzia di una
sana e prudente gestione della banca”.
Altra banca nata da un importante processo di aggregazione di precedenti istituti
bancari e che ha scelto di adottare il modello dualistico è il Banco Popolare 28 .
Le ragioni della scelta possono essere individuate nella “Relazione sulla corporate
governance e sull’adesione alle raccomandazioni contenute nel codice di
autodisciplina delle società quotate”.
Il Banco Popolare ha ritenuto il modello duale “più adeguato alla nuova realtà
aziendale” e capace di “contemperare l’esigenza di una salda unità di direzione e
governo, con la necessità di una rappresentanza delle componenti originarie
nell’aggregato bancario e con la presenza di principi di democrazia economica tipici
del modello del credito popolare” 29 .
Sempre il modello dualistico, inoltre, “consente di definire in maniera più nitida le
differenze tra l’organo gestorio e l’organo deputato alla vigilanza e sembra poter
rispondere più efficacemente del modello tradizionale all’esigenza di maggior
trasparenza e riduzione dei potenziali rischi di conflitto di interessi” 30 .
Quindi, come le due precedenti banche, anche per il Banco Popolare, lo Statuto
riconosce al Consiglio di Sorveglianza una serie di rilevanti poteri di alta
amministrazione, affidandogli il compito di assolvere a funzioni di indirizzo e
controllo, anche di merito, sulla gestione dell’istituto bancario.
28
Il Banco Popolare è nato nel 2007 dalla fusione della Banca popolare italiana (ex Banca Popolare di
Lodi) e della Banca Popolare di Verona e Novara.
29
Relazione sulla corporate governance e sull’adesione alle raccomandazioni contenute nel codice di
autodisciplina delle società quotate.
30
Ibidem
63
2.3.2 MEDIOBANCA: MOTIVI DEL RIPENSAMENTO
Particolare è il caso di Mediobanca che, dopo aver adottato il modello dualistico per
circa un anno, è ritornata a quello tradizionale.
Nella delibera del 23 maggio 2007, con la quale il Consiglio di Amministrazione
approvava l’adozione del sistema duale, si spiegava che la separazione di ruoli e
responsabilità tra l’attività di controllo e di indirizzo, attribuito al Consiglio di
Sorveglianza, e quella di gestione ed amministrazione del Gruppo, affidata al
Consiglio di Gestione, poteva consentire un funzionamento della governance più
consono all’assetto dell’azionariato di Mediobanca ed alle sue esigenze operative.
Inoltre, avrebbe potuto anche meglio assecondare la crescente presenza del Gruppo
sui mercati internazionali.
Si prevedeva, comunque, l’attribuzione al Consiglio di Sorveglianza, oltre che delle
competenze ordinarie di controllo, anche della facoltà di approvazione delle proposte
del Consiglio di Gestione in merito ai piani industriali e finanziari, al progetto di
bilancio, alle proposte di modifiche statutarie e alle operazioni sul capitale.
Il 30 luglio 2008, tuttavia, il Consiglio di Sorveglianza si è riunito per deliberare in
ordine all’elaborazione di un nuovo modello di governace da proporre
all’approvazione dell’Assemblea dei Soci. Si sentiva la necessità di rivedere l’intero
sistema di governance tenendo conto delle criticità emerse in ordine al
funzionamento del sistema dualistico e “dell’opportunità di valutare l’adozione del
sistema tradizione, il quale, peraltro, nelle sue concrete applicazioni, può atteggiarsi
in vari modi” 31 .
Con la redazione di un nuovo Statuto, si sono quindi apportati significative
innovazioni al sistema di governo societario del Gruppo bancario, proponendo un
modello di governance che potesse essere interpretato come un’evoluzione che ha
fatto propria l’esperienza maturata con il sistema dualistico superandone, al
contempo, alcune problematiche applicative.
31
Comunicato stampa del Consiglio di sorveglianza del 30/07/2008 consultabile sul sito internet
www.mediobanca.it.
64
Mediobanca è così ritornata ad un sistema di governance tradizionale, improntato ad
una valorizzazione del management ed ad una maggiore chiarezza dei ruoli dei
diversi organi societari.
Il risultato finale è stato particolare e, ad oggi, difficile da riscontrare in altre società
quotata.
Se in genere l’amministratore delegato è il solo a rappresentare l’anima operativa
dell’azienda, nel nuovo assetto di Mediobanca, tutti i top managers (in questo caso
cinque) sono consiglieri, partecipano al Comitato Esecutivo e sono presenti nei
comitati tecnici.
I più critici attribuiscono la “diversità” di Mediobanca alla presenza di un patto di
sindacato che vincola quasi metà del capitale e a cui partecipano soci che, nella
maggioranza dei casi, sono in potenziale conflitto di interessi o parti correlate.
L’adozione del sistema dualistico, per Mediobanca, è avvenuta quando nel 2007 i
soci più importanti, Unicredit e Capitalia, avevano deciso di fondersi. Nella delibera
dell’assemblea dei soci di approvazione del nuovo modello societario si specificava
che i soci concordavano “nel ravvisare nel sistema dualistico un presidio essenziale
per salvaguardare fisionomia, funzione e tradizione d’indipendenza dell’istituto e per
assicurare allo stesso unità di indirizzo di gestione”.
Mediobanca, insomma, a differenza delle altre tre banche italiane, non ha adottato il
modello duale a seguito di un’operazione di aggregazione ma dopo modifiche della
compagine societaria.
La scelta era stata, quindi, quella di prevedere un Consiglio di Sorveglianza con
funzioni di indirizzo e controllo che rappresentasse i soci e un Consiglio di Gestione,
composto dai soli cinque top managers più un amministratore indipendente.
Il ripensamento, tuttavia, e il conseguente ritorno ad un Consiglio di amministrazione
tradizionale che riunisse le funzioni di indirizzo strategico e di gestione, è stato
motivato da esigenze di “responsabilità”.
Il timore era infatti legato alla possibile riduzione di autonomia dei managers visto la
responsabilità attribuita al Consiglio di Sorveglianza per decisioni assunte da quello
di gestione.
65
Nel nuovo modello di governance, allora, si è riconosciuto ai managers un peso
determinante nel Consiglio di Amministrazione e decisivo nel Comitato Esecutivo,
così da garantire loro una maggiore autonomia operativa.
2.4 RIFLESSIONI FINALI
Dopo aver passato in rassegna alcuni dei più importanti meccanismi di governo
societario analizzati dalla letteratura circa la governance delle imprese non
finanziarie, in questo secondo capitolo sono stati presi in considerazione alcuni tra i
più importanti contributi sullo specifico tema della governance bancaria.
Le banche sono imprese diverse dalle altre, non solo per la tipologia di attività svolta
ma anche e soprattutto per la capacità di influenzare notevolmente il sistema
economico generale in virtù degli interessi pubblici coinvolti nella gestione bancaria
stessa.
Se la “good governance” è già importante per le imprese non finanziarie, tanto più lo
sarà, evidentemente, per le banche.
Gli studi di Caprio e Levine (2002) hanno permesso di individuare alcune peculiarità
proprie degli istituti bancari: le banche sono caratterizzare da un’opacità più
accentuata, sono soggette ad una maggiore regolamentazione, influenzano il governo
societario delle altre imprese. Tutte queste peculiarità richiedono, perciò,
un’attenzione particolare nella gestione dei conflitti aziendali e nell’implementazione
di idonei meccanismi di corporate governance.
D’altronde, l’attenzione che il legislatore ripone nel disciplinare l’attività bancaria
altro non è che la prova della stessa specificità e originalità delle banche rispetto alle
altre imprese.
Il legislatore italiano, negli ultimi decenni, si è particolarmente dedicato a rinnovare
la disciplina bancaria anche e soprattutto con riferimento agli assetti di governance.
Ne è derivata una disciplina specifica seppur ancora in evoluzione.
Certamente la riforma del diritto societario del 2003 e l’introduzione dei nuovi
modelli di corporate governance hanno spinto le banche ad un processo di auto-
66
valutazione dei propri assetti di governo societario. Processi che hanno favorito
cambiamenti e miglioramenti in termini di governance e che, in alcuni casi, si sono
addirittura tradotti nell’adozione di modelli di corporate governance del tutto nuovi e
diversi.
Non resta che valutare, allora, se e in che misura questi stessi modelli di governo
societario influenzino la performance delle banche.
67
CAPITOLO 3
EFFETTI DELLA CORPORATE GOVERNANCE SULLA
PERFORMANCE DELLE BANCHE.
L’EVIDENZA EMPIRICA PER LE BANCHE ITALIANE.
3.1 INTRODUZIONE
Uno dei temi che, negli ultimi anni, è stato posto al centro del dibattito economico e
politico internazionale è quello della corporate governance.
Il governo dell’impresa, la disciplina dei conflitti e l’assetto equilibrato degli
organismi preposti alla gestione aziendale sono argomenti ormai oggetto
dell’attenzione di studiosi, managers, policy-makers e regulators.
Nei precedenti capitoli si è cercato di analizzare le principali teorie generali sulla
corporate governance e le implicazioni che queste teorie comportano se applicate alle
banche, intese come particolare categoria di impresa con le proprie peculiarità e
specificità.
Il presente capitolo, invece, si propone di verificare l’esistenza di una relazione tra i
diversi meccanismi di corporate governance e la performance delle imprese creditizie
del nostro Paese.
L’interesse per questo tema di ricerca è da ricondurre alle importanti implicazioni
economiche ad esso connesse. Comprendere se e in che misura i meccanismi di
governo societario esercitano un’influenza sui risultati di performance aziendali,
infatti, significa avere la possibilità di favorire lo sviluppo delle imprese e,
conseguentemente, la crescita economica.
Come ormai più volte ribadito, proprio nei processi di sviluppo economico, gli
istituti bancari rivestono un ruolo cruciale, non solo perché costituiscono un canale di
trasmissione della politica monetaria e per il ruolo di intermediari finanziari, ma
anche per la funzione di rilievo che possono svolgere nel governo societario delle
imprese clienti.
68
Negli ultimi anni, perciò, si sta sempre più diffondendo l’interesse per il filone di
ricerca che studia i legami tra i meccanismi di corporate governance, l’efficienza e la
redditività nel settore bancario.
Se le imprese finanziarie hanno cominciato ad attrarre l’attenzione degli esperti di
governo societario solo negli ultimi anni, le ricerche che hanno indagato l’esistenza
di una relazione tra governance e performance delle imprese industriali sono state
molto più numerose ed hanno raggiunto la massima popolarità in concomitanza degli
scandali societari 32 verificatisi agli inizi del nuovo millennio.
Managers, investitori e legislatori hanno ormai acquisito la consapevolezza di quanto
importante sia cercare di stimare l’impatto dei meccanismi di corporate governance
sui processi di decision-making e di creazione del valore.
In altri termini, si tratta di analizzare come e in che misura i meccanismi di governo
societario riescono a risolvere i conflitti di interessi tra principal e agent,
permettendo all’impresa di massimizzare il valore per i propri stakeholders.
Tanto più i meccanismi di corporate governance si rivelano idonei a garantire un
buon governo societario e un corretto funzionamento degli organismi preposti alla
gestione d’impresa, tanto più si possono raggiungere risultati aziendali soddisfacenti.
Di contro, meccanismi di governo societario poco adatti non riescono a risolvere o,
comunque, a limitare i conflitti d’interesse ed, inevitabilmente, producono effetti
negativi sulla performance aziendale e sul valore d’impresa.
La difficoltà principale sta nel tradurre aspetti solitamente qualitativi della vita
d’impresa in fattori quantitativi da rapportare ad opportune misure di redditività,
rischiosità ed efficienza.
Si è cercato di trovare una soluzione al problema attraverso la costruzione di appositi
indici di corporate governance.
In realtà, stabilire una relazione tra corporate governance e performance può essere
difficile visto i possibili problemi di endogeneità, tuttavia, nel proseguo del lavoro, si
32
I casi più eclatanti sono numerosi e diffusi in tutti i paesi con economia capitaliste: Enron,
WorldCom, Adelphia e Tyco negli USA; Ahold in Olanda, le sventure di Parmalat, Cirio,
Freedomland e Giacomelli in Italia, gli scandali minori delle Banche dei Laender tedeschi e della
Volkswagen (Pugliese, 2008).
69
cercherà proprio di costruire indici di corporate governance originali e di stimare gli
effetti prodotti su alcune misure di performance delle banche quotate italiane.
Il settore bancario a livello internazionale sta affrontando dei cambiamenti
significativi. Comprendere se i meccanismi di corporate governance riescono a
influenzare la capacità delle banche di produrre valore diventa allora fondamentale
per capire ed indirizzare ulteriori cambiamenti ed evoluzioni.
Il presente capitolo è così articolato: si inizia con lo studio dei principali indici di
corporate governance utilizzati in letteratura. Successivamente alla definizione del
campione oggetto di analisi, si procede alla descrizione dei tre indici di corporate
governance costruiti. Dopo la spiegazione della metodologia adottata, si continua
riportando i risultati ottenuti. Il capitolo, infine, si conclude con alcune
considerazioni circa il possibile legame tra la corporate governance e la recente crisi
finanziaria.
3.2 LETTERATURA
Il filone di ricerca che studia come le regole di corporate governance di un paese o le
pratiche di governo societario delle singole imprese possano influenzare il valore
complessivo e la performance aziendali, è ormai ben noto ed ha avuto origine dagli
studi di La Porta, Lopes-de-Silanes, Shleifer and Vishny (1997).
La Porta et al. (1998, 2002), infatti, furono i primi a mettere in evidenza come nei
Paesi caratterizzati da una maggiore protezione legale degli azionisti di minoranza, le
imprese vantino un maggior valore dei titoli azionari.
A partire dalla fine degli anni Novanta, comunque, sono stati realizzati diversi studi
in cui si è cercato di analizzare l’impatto su valore e performance aziendali di diversi
aspetti di corporate governance.
Nella maggior parte dei casi, le ricerche si sono concentrate su elementi specifici del
governo societario. Ne sono degli esempi: il board, lo shareholders’ activism, i piani
di remunerazione, gli strumenti di difesa da eventuali takeovers ostili, l’investor
protection (Hermalin e Weisbach, 1991; Black, 1998; Shleifer e Vishny, 1997).
In realtà, però, la letteratura empirica che ha investigato l’esistenza di una relazione
tra governance e performance non ha ancora raggiunto delle conclusioni univoche.
70
Non sempre, infatti, sono state confermate evidenze di relazioni positive
statisticamente significative.
Tantissimi sono gli studi che hanno esaminato l’impatto della board composition
sulla performance aziendale e non tutti hanno confermato, per esempio, l’esistenza di
una relazione positiva tra la presenza di amministratori indipendenti e la performance
d’impresa 33 .
Allo stesso modo, altri studi hanno cercato di misurare l’impatto sulla performance
del cosiddetto shareholders’ activism inteso come capacità degli azionisti di
influenzare la vita e le decisioni di impresa (Black, 1998).
La relazione diretta tra esercizio dei diritti di voto e performance, tuttavia, non è stata
esaminata tanto quanto quella con il Consiglio di Amministrazione, cui è stata
sempre rivolta maggiore attenzione.
Poiché esercizio dei diritti di voto e struttura proprietaria sono considerate due facce
di una stessa medaglia, gli studi 34 circa la relazione esistente proprio tra struttura
proprietaria e performance sono valutati come equivalenti a quelli tra esercizio dei
diritti di voto e performance (Bhagat et al. 2007).
Massimo comune denominatore di quasi tutte le ricerche sul legame tra performance
e governo societario è stata la costruzione di indici di corporate governance, cioè di
misure che potessero riassumere in un unico numero i diversi e complessi aspetti di
governo societario.
33
Si possono leggere al riguardo: Sanjai Bhagat e Bernard Black, The Uncertain Relationship
Between Board Composition and Firm Performance, (1999) Roberta Romano, Corporate Law and
Corporate Governance, (1996). Ma ancora: Hermalin e Weisbach, The effects of board composition
and direct incentives on firm performance, Financial Management, (1991) ed anche Bhagat e Black,
The non-correlation between board independence and long-term firm performance, Journal of
Corporation Law, (2002).
34
Si possono leggere al riguardo: Randall Morck, Andrei Shleifer e Robert Vishny, Management
Ownership and Corporate Performance: An Empirical Analysis, (1988); John J. McConnell e Henri
Servaes, Additional Evidence on Equity Ownership and Corporate Value, (1990).
71
Uno dei primi e più importanti indici di corporate governance è stato quello costruito
da Paul Gompers, Joy Ishii and Andrew Metrick (2003). Dalle iniziali dei suoi autori
si parla di “GIM Index”.
L’indice fu elaborato con riferimento ad un largo numero di imprese statunitensi (ben
1.500) e i tre studiosi rilevarono una relazione positiva tra l’indice stesso e il valore
delle azioni delle imprese considerate.
Il “GIM Index” si componeva di 28 elementi, poi ridotti a 24 e classificati in 5
diverse categorie:
-
“Delay” e “other”: sono due diverse categorie che contemplano fattori di
difesa adottati dalle imprese contro eventuali takeovers ostili;
-
“Voting”: riguardante l’esercizio dei diritti di voto da parte degli azionisti;
-
“Protection”: circa le forme di protezione degli amministratori da eventuali
responsabilità nonché le loro particolari forme di remunerazione;
-
“State”: riguardante le leggi di uno stato circa i casi di takeovers ostili.
Gompers, Ishii e Metrick (2003), insomma, costruirono un indiche che ritenevano in
grado di riflettere “the balance of power between shareholders and managers”.
L’indice poteva assumere un valore da zero a 24: si assegnava un punto per la
presenza di ogni fattore di restrizione dei diritti degli azionisti.
L’indice così costruito è stato poi rapportato a diverse misure di performance: “stock
returns”, la Q di Tobin e le tre misure contabili “net profit margin”, “return on
equity” e “sales growth”.
Il risultato è stata una relazione statisticamente significativa tra l’indice di corporate
governance e le due misure non contabili di performance, lo “stock returns” e la Q di
Tobin. “Firms with the weakest shareholder rights (high values of G) significantly
underperformed firms with the strongest shareholder rights (low values of G) during
the 1990s” (Gompers e Metrick, 2003).
Gompers, Ishii e Metrick (2003) rilevarono, quindi, che le imprese caratterizzate da
un migliore assetto di corporate governance (e un più basso valore del “GIM Index”),
riuscivano sistematicamente a raggiungere delle performance superiori rispetto a
quelle contraddistinte da meccanismi di governo societario di “qualità” inferiore (e
caratterizzate da valori elevati del “GIM Index”).
72
Nel 2005 Lucian Bebchuk, Alma Cohen e Allen Ferrell (BCF) proposero un nuovo
indice di corporate governance, in alternativa a quello costruito da Gompers, Ishii e
Metrick (2003).
Condividendo la tesi dimostrata dal “GIM Index”, secondo la quale esiste una
relazione positiva tra una buona corporate governance e la performance aziendale, i
tre autori hanno cercato di costruire quello che loro consideravano “a better
motivated index”. Per far ciò hanno selezionato sei dei fattori considerati da
Gompers, Ishii e Metrick che più di altri sono in grado di rafforzare, se non
addirittura trincerare, la posizione dei managers nell’impresa 35 . L’indice è stato poi
costruito usando la stessa tecnica del “GIM Index”, vale a dire assegnando un punto
per la presenza di ogni elemento considerato e riconoscendo a tutti gli elementi lo
stesso peso.
Il nuovo indice, non a caso, è stato definito “Entrenchment Index” o più brevemente
“E Index” 36 .
I sei fattori considerati da Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005), risultarono comunque
essere i soli statisticamente significativi tra i 24 elementi complessivamente
esaminati nell’indice di Gompers, Ishii e Metrick (2003) nel caso di una regressione
che stimi gli effetti sulla performance d’impresa di tutti i 24 fattori considerati
separatamente.
Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005) hanno concluso, perciò, che la correlazione
esistente tra corporate governance e performance aziendale, rilevata nello studio di
35
Fattori inseriti nell’indice costruito da Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005) (GIM’s grouping in
parentheses):
1. Classified boards (Delay)
2. Limitations to shareholders= ability to amend the bylaws (Voting)
3. Supermajority voting for business combinations (Voting)
4. Supermajority requirements for charter amendments (Voting)
5. Poison pills (Other)
6. Golden parachutes (Protection)
36
Entrenchment in inglese significa proprio “trinceramento”.
73
Gompers, Ishii e Metrick (2003), fosse interamente determinata dal sottoinsieme di
fattori inseriti nell’“Entrenchment Index”.
Esaminando la relazione tra “E Index” e le due misure di performance “stock
returns” e “Tobin’s Q” (le stesse utilizzate da Gompers, Ishii e Metrick), Bebchuk,
Cohen e Ferrel (2005) hanno ulteriormente confermato la presenza di una
correlazione positiva tra corporate governance e performance aziendale.
Si potrebbe quindi considerare l’“E Index” preferibile al “GIM Index” in quanto
permette di ottenere lo stesso risultato ma “it is more parsimonious” e “better
motivated”.
Un anno dopo l’elaborazione dell’“Entrenchment Index”, i due studiosi Brown e
Caylor (2006) hanno creato un nuovo indice di corporate governance molto più
completo e complesso del “GIM Index” e dell’“E index”.
Definito “Gov-score”, il nuovo indice di governo societario riassume ben 51 diversi
fattori, compresi anche alcuni di quelli inseriti nel “GIM Index”.
I fattori di corporate governance inseriti nel “Gov-Score” possono essere
ulteriormente classificati nelle seguenti categorie:
- “Audit”: quattro fattori relativi alla presenza di comitati di controllo interni al
Consiglio di Amministrazione;
- “Board of directors”: diciassette diversi elementi riferiti alla composizione e al
funzionamento del Consiglio di Amministrazione:
- “Charter/bylaws”: sette fattori circa alcune precise previsioni statutarie capaci di
influenzare l’esercizio dei diritti di voto;
- “Director education”: un solo elemento circa la formazione dei managers;
- “Executive and director compensation”: dieci fattori riguardanti i piani di
remunerazione degli amministratori;
- “Ownership”: quattro elementi circa la composizione della struttura proprietaria di
impresa;
- “Progressive practise”: sette elementi riguardanti altri particolari aspetti della vita
d’impresa (ad esempio: “mandatory retirement age for directors);
- “State of incorporation”: un solo componente relativo alla presenza nello statuto di
regole circa i takeovers.
74
Per semplicità comunque, i due autori hanno selezionato anche un sottoinsieme di
sette elementi tra i 51 iniziali, con i quali elaborare un altro indice sintetico definito,
non a caso, con il nome di “Gov-7” 37 .
L’indice “Gov-Score” ha il vantaggio, riconosciuto dai suoi creatori, di fornire una
migliore misura della qualità della corporate governance di un’impresa grazie alla
possibilità di includere un vasto set di componenti sul governo societario che
trascendono e completano le cinque categorie previste da Gompers, Ishii e Metrick
(2003).
Altro elemento a suo favore è che la sua costruzione si basa sui dati raccolti rispetto
ad un numero elevato di imprese (più di 2.000).
Il difetto principale, però, è legato all’orizzonte temporale di riferimento. I dati
raccolti per la costruzione dell’indice, infatti, sono soltanto quelli relativi al 2003. Il
“GIM Index” e l’“Entrenchment Index”, di contro, si riferiscono ad orizzonti
temporali più lunghi, garantendo perciò una maggiore completezza e attendibilità
delle stime.
Brown e Caylor (2006) nell’esaminare la relazione esistente tra la corporate
governance e la performance aziendale hanno rapportato l’indice “Gov-score” con la
Q di Tobin, misura di performance peraltro utilizzata anche in relazione sia del “GIM
Index” che dell’“Entrechment Index”.
I risultati ottenuti hanno ancora una volta confermato l’esistenza di una relazione
positiva tra un buon livello di corporate governance e la performance aziendale.
37
Il sottoinsieme di fattori inseriti nell’indice sintetico “Gov-7” è composto dai seguenti elementi:
1. Annual director elections (Board of directors);
2. No poison pill or shareholder approved pill (Charter/bylaws);
3. No option repricing in past three years (Executive and director compensation);
4. Directors subject to stock ownership guidelines (Ownership);
5. All directors attended at least 75% of board meetings or had valid excuse for non-attendance
(Board of directors);
6. Average options granted in past three years as percentage of basic shares outstanding no
more than 3% (Executive and director compensation);
7. Board guidelines are in each proxy statement (Board of directors);
75
La differenza principale tra i risultati raggiunti da Brown e Caylor (2006) e quelli dei
due studi precedenti è rappresentata dalla relazione esistente tra la performance di
impresa e gli strumenti di difesa contro eventuali takeovers ostili.
Brown e Caylor (2006), infatti, hanno rilevato che i fattori di corporate governance
relativi alla composizione e al funzionamento del Consiglio di Amministrazione e
quelli relativi alla remunerazione dei managers, nel loro indice, presentavano una più
forte correlazione con la performance aziendale rispetto alle tecniche di difesa dai
takeovers, invece alla base della costruzione del “GIM Index” e, in parte,
dell’“Entrechment Index”.
Nell’approfondire il loro studio, i due economisti hanno disaggregato l’indice e,
regredendo ciascuno dei 51 componenti rispetto alla Q di Tobin, hanno potuto
identificare un sottoinsieme di elementi con la maggiore significatività statistica.
Sono arrivati così ad individuare i sette componenti della versione sintetica
dell’indice “Gov-score” denominata appunto “Gov-7”.
Poiché due componenti del “Gov-7” sono presenti anche nell’“Entrenchment Index”,
Brown e Caylor (2006) hanno cercato di investigare quale dei due indici permettesse
di ottenere le stime migliori: secondo il risultato finale ottenuto, proprio il “Gov-7”
pare possa meglio spiegare la relazione tra corporate governance e performance
aziendale.
Esistono poi anche altri indici elaborati da specifiche organizzazioni e definiti
“commercial index” per distinguerli dagli indici accademici elaborati dagli studiosi
di economia.
Tra gli indici commerciali si può segnalare il “Board effectiveness” elaborato dal
Corporate Library una società americana di ricerca specializzata sulla corporate
governance. L’indice è simile ad un rating: varia dalla lettera A alla lettera F.
L’assegnazione avviene mediante il calcolo di una media pesata di sette componenti
di governo societario ed è, però, influenzata anche da una valutazione soggettiva
degli analisti della società. I sette elementi dell’indice riguardano: la composizione
del board; la remunerazione del CEO; i poteri riconosciuti agli azionisti; la modalità
di risoluzione di eventuali contenziosi; le tattiche di difesa dai takeovers ostili; il
sistema di accounting; i processi di decision-making. I primi due componenti relativi
76
alla board composition e alla remunerazione del CEO, tuttavia, coprono la metà
dell’intero indice visto il particolare sistema di pesi previsto per la determinazione
dell’index.
Un altro indice commerciale è quello costruito dal GovernanceMetrics International,
un’altra organizzazione internazionale specializzata nel condurre ricerche di mercato
sul tema della corporate governance.
L’indice è il “Market and Industry index” e può variare in un range di valori
compreso tra 0 e 10, assegnati in base a determinati algoritmi statistici legati a sei
aree generali di governance: board accountability, financial disclousure and internal
controls, shareholder rights, executive compensation, market for control and
ownership base, corporate behavior and corporate social responsibility issues.
Altrettanto noto è il “Corporate Governance Quotient” elaborato dall’Institutional
Shareholder Services (ISS), leader di mercato nel settore dell’advisory e dei servizi
in tema di corporate governance.
L’indice deriva la sua composizione da ben 63 fattori di governo societario,
raggruppati in quattro categorie: board of directors, compensation, takeover
defenses, audit. Ad ogni componente è attribuito un peso proporzionale alla sua
correlazione con alcune determinate misure di performance, a loro volta divise in
altre quattro categorie: risk, market, valuation e profitability.
È insomma chiaro che l’approccio dominante nella valutazione della qualità della
corporate governance di un’impresa è rappresentato dalla costruzione di indici che,
comprimendo diversi fattori, offrono un misura sintetica della qualità del governo
societario.
La letteratura, nonostante gli indici costruiti, però, non ha ancora trovato una risposta
soddisfacente alla domanda circa l’esistenza o meno di una relazione significativa tra
una buona corporate governance e un’elevata performance aziendale.
Nonostante Gompers, Ishii e Metrick (2003), Bebchuk, Cohen e Ferrell (2005),
Brown e Caylor (2006), attraverso i loro indici, abbiano tutti trovato una correlazione
positiva tra qualità della corporate governance e performance di impresa, non è detto
77
che questa correlazione implichi che un’effettiva relazione positiva esista
necessariamente.
Lo studio di Gompers, Ishii e Metrick, subito dopo la sua pubblicazione, ha suscitato
una forte attenzione: realizzato nel 2001, pubblicato nel 2003, la ricerca è stata citata
in 50 articoli del “Social Sciences Research database” nei tre anni successivi. Il
numero delle citazioni è più che raddoppiato a ben 104 se si considerano anche i 16
mesi successivi 38 .
Conseguentemente all’attenzione suscitata, diversi studi hanno confutato la relazione
trovata tra corporate governance e performance aziendale.
Tra i principali studi, Lehn et al. (2006) hanno rilevato che la relazione trovata da
GIM su dati relativi agli anni Novanta, sparisce se l’analisi viene ripetuta
considerando come orizzonte temporale di riferimento gli anni Ottanta.
Nello spiegare il risultato ottenuto, gli studiosi hanno proposto l’esistenza di una
relazione in base alla quale sia la performance aziendale ad influenzare la corporate
governance e non viceversa.
Le imprese che presentano un basso valore azionario, potrebbero essere mal gestite e
anche più esposte ad eventuali takeovers ostili. È inevitabile, perciò, che nell’ambito
della corporate governance di quella stessa impresa, si cerchi di adottare idonei
strumenti di difesa dalle acquisizioni ostili. A questo punto non sono gli strumenti di
difesa dai takeovers a influenzare negativamente la performance ma viceversa è la
performance aziendale negativa che determina l’adozione di determinati elementi di
corporate governance.
La ricerca di un legame tra corporate governance e performance ha seguito sempre
un percorso unidirezionale, nel senso cioè di verificare l’impatto di un determinato
modello di governo sul valore delle imprese, e diretto, senza considerare la possibile
esistenza di relazioni intermedie. Negli ultimi anni, tuttavia, ci si è chiesti se al
contrario, potesse essere la performance delle imprese a impattare sul modello di
38
I dati si riferiscono ad una ricerca condotta dall’ ISI Web of Science nell’ottobre 2007 e citata nello
studio di Bhagat et al. 2007 (p. 34).
78
governance adottato (e non viceversa) o addirittura se si tratti di una relazione
bidirezionale e non univoca 39 (Pugliese, 2008).
Ancora Core et al. (2006) hanno approfondito uno dei problemi aperti lasciato dallo
studio di Gompers, Ishii e Metrick (2003), vale a dire perché la relazione tra
corporate governance esista rispetto alla “Q di Tobin” e allo “stock returns” ma non
rispetto alle misure contabili di performance.
Nell’approfondire lo studio, Core et al. (2006) hanno addirittura rilevato una
relazione negativa tra il “GIM Index” e le misure di “operating performance”.
In tutti gli studi appena esaminati, inoltre, l’oggetto esclusivo d’indagine è stata la
grande impresa, generalmente quotata, in cui gli organi della governance sono
formalizzati e facilmente identificabili.
Recentemente ha cominciato ad attirare l’interesse degli studiosi anche l’impresa di
dimensioni ridotte, che presenta criticità differenti rispetto alla corporation quotata,
ma ugualmente meritevoli di attenzione 40 .
In generale, dall’analisi della letteratura in materia, si può chiaramente evincere che
non esiste un indice di corporate governance considerato completamente attendibile.
Una buona misura di governo societario varia in base al contesto e al settore di
riferimento. Non è quindi possibile costruire un unico indice che si adatti ad ogni
tipologia di impresa. Per di più, è impensabile poter definire delle regole e delle
procedure che identifichino in modo univoco la “buona” corporate governance.
39
Huse, in Human Side, sottolinea che le analisi unidirezionali (governance-performance) non
consentono di cogliere a pieno l’intensità della relazione. Su questo stesso tema Airoldi si chiede
provocatoriamente perché l’assetto istituzionale non possa essere considerato il frutto di una scelta
strategica dell’impresa, al pari della struttura organizzativa o del mercato e delle modalità con cui
competere. L’accettazione di una tale impostazione logica, potrebbe favorire anche un approccio
metodologico differente rispetto a quello attuale che considera il modello di governance come un
“dato”, come una variabile statica che interviene sulla performance aziendale (Pugliese, 2008).
40
Uno degli studi più importanti sulle imprese di minori dimensioni è quello di Gabrielsson J.,
Correlates of board empowerment in small companies. Entrepreneurship theory and practice,
Working papers, 2007
79
Quelli che infatti possono considerasi meccanismi di governo societario di buona
qualità per una determinata tipologia di impresa, non necessariamente devono valere
per imprese differenti in settore o contesto di operatività.
Se identificare una misura di governance è un’idea apprezzabile in teoria, in pratica
si devono sempre ricordare alcuni aspetti fondamentali.
In primo luogo è raro che si arrivi a costruire un indice che presenti una relazione
significativa con ogni tipo di misura di performance aziendale.
In secondo luogo, gli indici sono costruiti nell’ipotesi base che gli elementi che li
compongono siano tra loro complementari. In realtà, spesso i dati hanno evidenziato
come alcuni meccanismi di corporate governance possano essere non complementari
ma sostitutivi.
In definitiva, la “good governance is therefore best understood as highly contextspecific, something that even the best-constructed index simply cannot capture and
convey” (Bhagar et al., 2007).
80
3.3 DATI E CAMPIONE
Per analizzare la relazione esistente tra corporate governance e performance delle
banche quotate italiane, è stato costruito un apposito database.
I dati su base consolidata sono stati raccolti relativamente alle sole banche quotate
italiane nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2009. Si è adottato il criterio della
quotazione sui mercati regolamentati sulla base di alcuni importanti studi 41 che,
nell’esaminare la relazione esistente tra corporate governance e performance,
prendono in considerazione solo le grandi imprese quotate. Non si esclude,
comunque, che una relazione statisticamente significativa possa esistere anche per le
banche non quotate e di minori dimensioni. La questione potrebbe anzi essere
oggetto di ulteriori ricerche e approfondimenti.
L’orizzonte temporale di riferimento è composto da cinque anni (dal 2005 al 2009).
Il lustro preso in considerazione è caratterizzato da diversi cambiamenti nei sistemi
di corporate governance delle banche italiane. Non è un caso che, ad esempio,
proprio nel 2008 la Banca d’Italia abbia emanato delle nuove disposizioni di
vigilanza in materia di organizzazione e governo societario. In ogni caso, anche la
riforma del diritto societario del 2004 ha prodotto effetti significativi. Certo un
orizzonte temporale di riferimento più ampio avrebbe permesso una maggiore
variabilità dei dati e quindi una maggiore attendibilità delle stime. Si ritiene tuttavia
che il periodo preso in considerazione sia sufficiente per l’analisi empirica proposta.
La fonte da cui sono state tratte alcune delle informazioni necessarie alla stima è
stata Bankscope, un database che offre dati su migliaia di banche, pubbliche e
private, con una copertura geografica mondiale.
I dati relativi agli specifici elementi di corporate governance utilizzati nella
costruzione dell’indice, tuttavia, sono stati tratti dai bilanci consolidati annuali e dalle
relazioni sulla corporate governance dei singoli istituti bancari.
Le banche inserite nel database di riferimento della stima sono 30 per un totale di
126 osservazioni.
Il database così ottenuto si presenta come un panel non bilanciato. Viste le recenti e
numerose operazioni di fusioni ed acquisizioni che hanno riguardato il settore
41
La Porta et al. 1998; Adams e Mehran 2005; Laeven e Levine 2008.
81
bancario italiano, alcune banche sono uscite dal mercato mentre altre nuove sono
state costituite.
La seguente Tabella riporta l’elenco delle banche inserite nel database con il relativo
periodo di osservazione.
Tabella 3 – Campione
BANCHE
PERIODO
D'ANALISI
ANTONVENETA
2005 - 2007
BANCA LOMBARDA
2005 - 2006
BANCO DESIO BRIANZA
2005 - 2009
BANCO POPOLARE
2007 - 2009
BANCO SARDEGNA
2005 - 2009
BNL
2005 - 2009
CARIGE
2005 - 2009
CR FIRENZE
2005 - 2009
CREDITO ARTIGIANO
2005 - 2009
CREDITO BERGAMASCO
2005 - 2009
CREDITO EMILIANO
2005 - 2009
CREDITO VALTELLINESE
2005 - 2009
FINNAT
2005 - 2009
INTESA
2005 - 2006
INTESA SAN PAOLO
2007 - 2009
IW BANCA
2005 - 2009
MEDIOBANCA
2005 - 2009
MELIORBANCA
2005 - 2009
MPS
2005 - 2009
POP. EMILIA ROM.
2005 - 2009
POP. ETRURIA
2005 - 2009
POP. SONDRIO
2005 - 2009
POP. SPOLETO
2005 - 2009
POPOLARE INTRA
2005 - 2009
POPOLARE ITALIANA
2005 - 2006
POPOLARE MILANO
2005 - 2009
RETI BANCARIE
2005
SAN PAOLO IMI
2005 - 2006
UBI BANCA
2007 - 2009
UNICREDIT
2005 - 2009
82
3.4 INDICI DI CORPORATE GOVERNANCE
Sono stati elaborati tre diversi indicatori della qualità del governo societario delle
banche inserite nello studio. Ogni indicatore, infatti, fa riferimento a degli “aspetti”
particolari di corporate governance.
Obiettivo dell’indagine è capire anche quali meccanismi di governo societario
risultino esercitare la maggior influenza sulle misure di performance aziendali.
Per una sintesi di tutte le variabili inserite nel modello e delle dummy utilizzate nella
costruzione dei tre indici si rimanda alla Tabella 8.
Il primo indice elaborato è il Gov-firm specific Index: si tratta di un indice il cui
valore può oscillare da 0 a 4 e che comprende alcuni elementi caratterizzanti gli
assetti generali della corporate governance delle banche.
I quattro fattori riassunti dall’indice in questione sono:
-
l’adozione o meno del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate;
-
l’adozione di altri codici di autoregolamentazione interna;
-
la previsione di apposite procedure o regolamenti interni disciplinanti le
operazioni con parti correlate;
-
la presenza di un giudizio di rating rilasciato da una delle agenzie
internazionali e reso noto al pubblico dei risparmiatori.
Il Codice di Autodisciplina, elaborato dal Comitato per la Corporate Governance
delle Società Quotate, prevede una serie di regole circa i meccanismi di corporate
governance da adottare in linea con un comune orientamento internazionale.
Inserendo questo componente nell’indice si vuole verificare se l’adozione di questo
codice e, quindi, l’adeguamento alle pratiche di “good governance” di respiro
internazionale producano effetti positivi in termini di performance.
In generale, si ipotizza l’esistenza di una relazione positiva in quanto le regole
previste dal Codice circa i meccanismi di governo societario dovrebbero migliorarne
la qualità. In un quadro sempre più internazionale e istituzionale, la competizione sui
mercati finanziari e la massimizzazione del valore, dipendono anche dall’efficienza e
dall’affidabilità del sistema di corporate governance delle imprese.
83
La redazione di un Codice di Autodisciplina proprio in tema di corporate governance
è quindi da intendersi come un’offerta alle imprese quotate italiane (e perciò anche
alle banche) di uno strumento capace di renderle ancora più competitive.
Il Codice, inoltre, rappresenta un modello di organizzazione societaria adeguato a
gestire il corretto controllo dei rischi di impresa e i potenziali conflitti di interessi,
che sempre possono interferire nei rapporti tra amministratori e azionisti e fra
maggioranze e minoranze. Il Codice di Autodisciplina si pone quindi come
un’occasione di ulteriore sviluppo per le imprese quotate, sia finanziarie che non.
Allo stesso modo, anche l’adozione di altri codici di autoregolamentazione possono
essere considerati come opportunità aggiuntive di miglioramento della corporate
governance e quindi di crescita delle performance aziendali.
La Tabella 4 riporta i dati circa l’adozione o meno del Codice di Autodisciplina e di
altri codici di autoregolamentazione da parte delle banche inserite nello studio per gli
anni di osservazione 2005 e 2009. Si può facilmente notare che nell’orizzonte
temporale di riferimento le banche hanno provveduto a dotarsi di codici di
autoregolamentazione interni, oltre al solo Codice di Autodisciplina.
In generale, i più diffusi sono il “Codice Etico” e il “Codice di comportamento per
l’internal dealing”.
Il primo si presenta come il principale strumento di implementazione dell’etica
all’interno dell’impresa; il secondo, invece, in base a quanto disciplinato anche
dall'art. 114 comma 7 del Testo Unico della Finanza e dagli articoli 152 sexies/152
octies del Regolamento Emittenti, integrato dalla Delibera Consob 15232/2005, si
rivolge alle operazioni a qualsiasi titolo effettuate dai “Soggetti Rilevanti", aventi ad
oggetto strumenti finanziari quotati.
84
Tabella 4 – Banche del campione che adottano il Codice di autodisciplina e altre forme di
autoregolamentazione
2009
BANCHE
2005
CODICE
AUTODISCIPLINA
ALTRI
CODICI
CODICE
AUTODISCIPLINA
BANCA LOMBARDA
√
√
√
BANCO DESIO BRIANZA
√
BANCO POPOLARE
√
ALTRI
CODICI
ANTONVENETA
√
√
BANCO SARDEGNA
BNL
√
CARIGE
√
√
√
CR FIRENZE
√
√
√
CREDITO ARTIGIANO
√
√
√
√
CREDITO BERGAMASCO
√
√
√
√
CREDITO EMILIANO
√
CREDITO VALTELLINESE
√
√
√
FINNAT
√
√
√
INTESA
√
√
√
√
INTESA SAN PAOLO
√
√
IW BANCA
√
√
√
√
MEDIOBANCA
√
√
√
√
MELIORBANCA
√
MPS
√
√
√
√
√
√
√
√
POP. EMILIA ROM.
POP. ETRURIA
√
√
√
√
√
POP. SONDRIO
POP. SPOLETO
√
√
POPOLARE INTRA
√
√
√
POPOLARE ITALIANA
√
√
√
POPOLARE MILANO
√
√
√
√
RETI BANCARIE
SAN PAOLO IMI
√
UBI BANCA
√
UNICREDIT
√
√
√
√
Fonte: nostra elaborazione su dati di bilancio e relazioni di corporate governance (anni 2005 e 2006)
85
Un altro importante elemento di corporate governance, capace di contenere e limitare
i potenziali conflitti di interesse, è rappresentato dai provvedimenti interni relativi
alla disciplina delle operazioni con parti correlate.
Per circa il 34% delle osservazioni, risulta l’adozione di specifici regolamenti o,
comunque, la previsione di particolari procedure interne da seguire nello svolgimento
delle operazioni con parti correlate. Si tratta, anche in questo caso, di uno strumento
di governo societario che, nel contrastare i possibili conflitti di interesse, rende le
operazioni svolte dalla banca più trasparenti: ciò, con molta probabilità, può avere
ripercussioni positive sulla performance aziendale.
L’ultimo componente inserito nell’indice è la presenza di un giudizio di rating.
Anche in questo caso la pubblicazione del rating da parte di una banca rientra negli
strumenti utili ad ottenere una sempre maggiore fiducia del mercato.
Poiché i quattro fattori considerati, a rigor di logica, dovrebbero esercitare un effetto
positivo in termini di qualità della corporate governance, ci si aspetta di ottenere
delle stime che confermino una relazione positiva tra l’indice Gov-firm specific e le
misure di performance scelte.
Il secondo indice di corporate governance costruito è il Gov-board Index: è
caratterizzato da un range di oscillazione compreso tra 0 e 5, riassumendo, infatti, i
seguenti cinque elementi di governance attinenti la composizione, l’organizzazione e
il funzionamento del Consiglio di Amministrazione delle banche considerate:
-
numero di amministratori che compongono il Consiglio di Amministrazione;
-
numero di meeting annui del Consiglio di Amministrazione;
-
numero di amministratori indipendenti presenti nel CdA;
-
presenza di eventuali piani di stock option riconosciuti come ulteriore forma
di remunerazione degli amministratori;
-
presenza di almeno due comitati interni al Consiglio di Amministrazione.
Il Consiglio di Amministrazione 42 è il meccanismo interno di corporate governance
più studiato, analizzato e indagato negli studi riguardanti la relazione tra governo
societario e performance d’impresa.
42
Vedi par. 1.4.1. e 2.2.3.
86
La letteratura in merito è molto ampia, i contributi sono numerosissimi e per la
maggior parte si concentrano su due caratteristiche fondamentale del board: la
dimensione e la presenza di outside directors (Hermalin e Weisbach, 2001; Kaplan e
Minton, 1994).
Per quel che riguarda il numero di componenti del Consiglio di Amministrazione, si
ritiene che tanto più ridotto è il numero dei managers, tanto più sarà possibile
assumere delle decisioni rapide, trasparenti e condivise, tanto migliori quindi saranno
i risultati in termini di performance (Hermalin e Weisbach, 2001). Anche la Banca
d’Italia, d’altronde, nelle sue Istruzioni di Vigilanza ha ribadito l’esigenza di evitare
composizioni pletoriche dei consigli di amministrazione.
Tanto maggiore, inoltre, è l’outsider ratio, vale a dire il rapporto tra amministratori
indipendenti e totale degli amministratori del CdA, tanto più incisivo sarà il controllo
esercitato sull’operato del board e tanto più efficace sarà, di conseguenza, il
contenimento dei conflitti di interessi.
La Tabella 5 riporta l’outsider ratio delle banche inserite nel campione per l’anno
2009.
Tabella 5 – Amministratori indipendenti presenti nel CdA delle banche del campione
BANCHE
OUTSIDER RATIO (%)
BANCO POPOLARE
28,57
BANCO SARDEGNA
60
BNL
40
CR FIRENZE
50
CREDITO ARTIGIANO
CREDITO BERGAMASCO
36,36
80
CREDITO EMILIANO
20
CREDITO VALTELLINESE
40
FINNAT
18,182
IW BANCA
30,769
MEDIOBANCA
21,739
MELIORBANCA
46,667
MPS
16,667
POP. EMILIA ROM.
52,632
POP. SONDRIO
26,667
POP. SPOLETO
78,571
POPOLARE MILANO
UNICREDIT
50
73,913
Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate
governance (anno 2009).
87
Altro importante aspetto di corporate governance legato al funzionamento del
Consiglio di Amministrazione, è rappresentato dal numero di riunioni effettuate
all’anno. Si è ipotizzato, infatti, che un numero elevato di meeting annui dimostri un
buon funzionamento del board e un certo impegno degli amministratori nella vita
d’impresa: ciò non può che avere effetti positivi in termini di performance aziendale.
Nell’indice Gov-board è stato poi inserito anche un altro elemento di corporate
governance molto dibattuto: la concessione di stock option agli amministratori.
Si tratta di un sistema di incentivazione dei managers, ormai particolarmente diffuso,
attraverso il quale allineare gli interessi del management con quelli degli azionisti.
L’effetto di questo elemento sulla performance d’impresa non è certo, anzi in molti
criticano l’adozione delle stock option ritenendo che alimentino ulteriori conflitti di
interesse tra managers e azionisti invece che limitarli. Nel presente studio, invece, le
stock options sono state considerate strumenti di incentivazione del management,
capaci di produrre effetti positivi in termini di corporate governance e, quindi, di
performance complessiva.
Nell’indice, infine, si è presa in considerazione anche la presenza dei comitati interni
al Consiglio di Amministrazione. Si tratta di comitati con diverse funzioni, spesso
costituiti dagli amministratori indipendenti, che hanno il compito di decidere e/o
vigilare su determinate questioni particolarmente sensibili ad eventuali conflitti di
interessi.
Le tipologie di comitato più diffuse sono le seguenti:
-
Comitato per le nomine: è il comitato preposto all’individuazione e alla
nomina dei nuovi consiglieri di amministrazione. Nella maggior parte dei casi
deve essere composto da amministratori esterni o indipendenti per garantire
che il processo di selezione e nomina sia gestito in maniera indipendente dal
top management.
-
Comitato per la remunerazione: ha il delicato compito di stabilire il compenso
per l’alta direzione. La funzione principale del comitato è quella di evitare
che i compensi siano definiti dai diretti interessati e non siano vincolati ad un
reale processo di creazione di valore per gli azionisti.
-
Comitato per il controllo interno (o Audit commitee): nasce con una funzione
di interfaccia verso il revisore esterno; se a quest’ultimo viene attribuito il
88
Nella Tabella di seguito si riportano i comitati presenti nel Consiglio di
Amministrazione di ognuna delle 30 banche del campione di osservazioni.
Tabella 6 – Comitati interni al CdA delle banche del campione
BANCHE
COMITATI PRESENTI
ANTONVENETA
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
BANCA LOMBARDA
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
BANCO DESIO BRIANZA
Comitato per il controllo interno, Comitato D.lgs 231
BANCO POPOLARE
Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione
BANCO SARDEGNA
Nessuno
BNL
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
CARIGE
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
CR FIRENZE
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
CREDITO ARTIGIANO
Comitato per le proposte di nomina, comitato per la remunerazione, comitato per il
controllo interno, comitato di vigilanza e controllo (ex d.lgs 231/01)
CREDITO BERGAMASCO
Comitato per la remunerazione
CREDITO EMILIANO
Comitato auditing
CREDITO VALTELLINESE
Comitato nomine, comitato per la remunerazione e comitato per il controllo interno
FINNAT
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
INTESA
Controllo per il controllo interno e comitato per la remunerazione
INTESA SAN PAOLO
Comitato nomine, comitato per le strategie, comitato per il controllo interno,
comitato per il bilancio, comitato per la remunerazione
IW BANCA
Comitato per il controllo interno, comitato per la remunerazione, comitato credito e
investimenti, comitato sicurezza.
MEDIOBANCA
Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione
MELIORBANCA
Controllo interno e remunerazione
MPS
Comitato per il controllo interno, comitato per la remunerazione, comitato per la
responsabilità sociale d'impresa, comitato per la comunicazione
POP. EMILIA ROM.
Comitato per il controllo interno, comitato nomine e comitato per la remunerazione
POP. ETRURIA
Comitato per il controllo interno
POP. SONDRIO
Nessuno
POP. SPOLETO
Comitato per il controllo interno
POPOLARE INTRA
Comitato per il controllo interno e comitato per la remunerazione
POPOLARE ITALIANA
Comitato controllo interno, Comitato Indirizzo strategico, Comitato esecutivo crediti
POPOLARE MILANO
Comitato di finanziamento, comitato per la remunerazione, comitato per il controllo
interno, comitato per i rapporti con i soci, comitato di vigilanza ex d.lgs 231/01
RETI BANCARIE
Comitato per il controllo interno
SAN PAOLO IMI
Nessuno
UBI BANCA
Comitato nomine, comitato per la remunerazione, comitato per il controllo interno,
comitato per il bilancio
UNICREDIT
Comitato strategico, comitato per la remunerazione, comitato nomine, comitato
audit
Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate governance (anno 2009).
89
Anche rispetto al Gov-board Index, visto le ipotesi sui fattori che lo compongono, ci
si aspetta che le stime confermino l’esistenza di una relazione positiva rispetto alle
misure di performance considerate.
Il terzo indice di governance costruito è il Gov-shareholders Index: anche questo è
un indice che può variare da zero a quattro e che riassume, al suo interno, quattro
fattori di governance legati alla struttura proprietaria e azionaria delle banche del
campione.
Subito dopo il Consiglio di Amministrazione, le diverse conformazioni di strutture
proprietarie sono i fattori di corporate governance più studiati da chi ricerca una
relazione tra governo societario e performance aziendale.
I quattro fattori che compongono l’indice sono i seguenti:
-
la presenza di almeno un azionista di maggioranza tra la compagine
societaria;
-
la stipulazione di eventuali patti di sindacato;
-
la presenza nel portafoglio azionario delle banche del campione di azioni
proprie;
-
l’esistenza di diverse categorie di azioni.
Per quanto riguarda il primo elemento inserito nell’indice, nel definire l’azionista di
maggioranza si è adottato lo stesso criterio stabilito da Caprio, Laeven e Levine
(2007). Secondo i tre autori, infatti, si può affermare che la struttura proprietaria di
una banca sia caratterizzata dalla presenza di un’azionista di maggioranza quando
almeno un socio possiede, direttamente o indirettamente, una partecipazione nel
capitale sociale, con diritto di voto, pari per lo meno al 10%.
La presenza di un azionista di maggioranza potrebbe essere fonte di conflitti di
interessi tra maggioranza e minoranza; conflitti di interesse che si ipotizza possano
generare effetti negativi sulla performance aziendale.
La Tabella 7 riporta le quote azionarie di maggioranza detenute sul capitale sociale
delle banche inserite nel campione di osservazione per l’anno 2009.
90
Tabella 7 – Azionisti di maggioranza delle banche del campione (anno 2009)
BANCHE
AZIONISTI DI MAGGIORANZA
ANTONVENETA
Banco Santander (69% circa) (dato per l'anno 2007)
BANCA LOMBARDA
Nessuno
BANCO DESIO BRIANZA
Nessuno
BANCO POPOLARE
Nessuno
BANCO SARDEGNA
Banca popolare dell'Emilia Romagna (51,209%), Fondazione Banco di
Sardegna (48,714%)
BNL
BNP Paribas (48%)
CARIGE
Fondazione cassa di risparmio di Genova e Imperia (44,06%) e Caisse
Nationale des Caisses d'Epargne (14,98%)
CR FIRENZE
Intesa San Paolo (89%)
CREDITO ARTIGIANO
Nessuno
CREDITO BERGAMASCO
Nessuno
CREDITO EMILIANO
Credito Emiliano Holding spa (76,87%)
CREDITO VALTELLINESE
Nessuno
FINNAT
Famiglia Nattino
INTESA
Credit agricole (17,84%) (dato per l'anno 2006)
INTESA SAN PAOLO
Nessuno
IW BANCA
UBI Banca (80,469%)
MELIORBANCA
Banca BPER
MPS
Fondazione MPS (55,489%)
POP. EMILIA ROM.
Nessuno
POP. ETRURIA
Nessuno
POP. SONDRIO
Nessuno
POP. SPOLETO
Spoleto Crediti e Servizi Società Cooperativa (51,03%), Banca MPS
(25,93%)
POPOLARE INTRA
Veneto Banca S.c.p.a. (76,305%)
POPOLARE ITALIANA
Nessuno
POPOLARE MILANO
Nessuno
RETI BANCARIE
Nessuno
SAN PAOLO IMI
Compagnia di San Paolo (14,187%) (dato per l'anno 2006)
UBI BANCA
Nessuno
UNICREDIT
Nessuno
Fonte: nostre elaborazioni su dati di bilancio e delle relazioni di corporate governance (anno 2009).
91
Se tra i meccanismi di corporate governance è importante considerare l’eventuale
presenza di un azionista di maggioranza, capace di esercitare una certa influenza in
assemblea, soprattutto sulla nomina degli amministratori, altrettanto importante è
prendere in considerazione l’esistenza di eventuali patti di sindacato.
Gli accordi parasociali, infatti, rappresentano il mezzo attraverso il quale più soci
possono accordarsi su come esercitare i loro voti in assemblea; di conseguenza può
essere considerato uno strumento capace di influenzare alcune fasi fondamentali
della vita d’impresa, alimentando altri conflitti di interessi.
Si ritiene ragionevole ipotizzare che anche la presenza di eventuali patti di sindacato
possa influenzare la performance aziendale.
Nel campione di banche considerate, in circa il 21% delle osservazioni è risultato
essere stato stipulato un patto di sindacato.
Se il modo in cui i soci esercitano il loro diritto di voto è un importante fattore di
corporate governance, non si può non prendere in considerazione anche la presenza
di diverse classi di azioni.
Nel caso delle banche inserite nel campione oggetto d’analisi, è abbastanza diffusa la
presenza di azioni di risparmio 43 . Quest’ultime sono caratterizzate dall’assenza del
diritto di voto: il socio è, insomma, escluso dalle decisioni aziendali.
Allo stesso modo, la presenza in portafoglio di azioni proprie impedisce, per quelle
stesse azioni, l’esercizio dei relativi diritti di voto.
Questi ultimi due elementi, quindi, possono essere considerati degli strumenti di
difesa per gli eventuali azionisti di maggioranza.
Si ritiene, in generale, che i quattro fattori considerati abbiano un effetto negativo
sulla qualità della corporate governance delle banche e, di conseguenza, sui relativi
indici di performance aziendale. Nelle regressioni di stima del modello, quindi, ci si
aspetta che questo indice, a differenza dei due precedenti, presenti segno negativo.
43
Le azioni di risparmio possono essere emesse solo da società quotate. Il titolare dell’azione di
risparmio non ha diritto di voto né nell’assemblea ordinaria né in quella straordinaria. Ha tuttavia
diritto a percepire un dividendo maggiorato rispetto a quello riconosciuto all’azionista ordinario.
92
3.5 METODOLOGIA
Passando a considerare la metodologia empirica impiegata nel lavoro, si precisa che
è stata stimata una regressione lineare con regressori multipli, attraverso il metodo
dei Minimi Quadrati Ordinari (OLS).
Poiché a livello generale, la teoria economica raramente offre ragioni per credere che
gli errori standard siano omoschedastici 44 , nelle stime sono stati utilizzati gli errori
standard robusti all’eteroschedasticità.
La verifica econometria si è basata sul seguente modello:
Yit = β0 + β1Xit + β2Zi + β3St + β4Cit + εit
con i = 1,……,30; t = 1,….,5
dove i sottosimboli i e t denotano rispettivamente la banca i-esima e l’anno t.
La variabile dipendente Y rappresenta un indicatore di performance della singola
banca considerata, nel nostro caso ROE e Z-score.
Tra le variabili indipendenti, invece, X rappresenta l’indice di corporate governance
costruito in base alla caratteristiche di governo societario specifiche della i-esima
banca al tempo t di riferimento. Il vettore Z controlla per i cosiddetti effetti fissi di
stato, si tratta cioè delle dummy relative ad ogni singolo istituto bancario inserito
nello studio. Il regressore S, di contro, misura gli effetti temporali, vale a dire le
dummy corrispondenti ai periodi considerati nella verifica empirica (gli anni dal
2005 al 2006). Sia nel caso degli effetti fissi che degli effetti temporali, nell’inserire
44
Secondo la prima assunzione nei minimi quadrati, la distribuzione condizionata di ui data Xi deve
avere media nulla. Se anche la varianza di questa distribuzione condizionata è nulla (non dipende cioè
da X) si dice che gli errori sono omoschedastici, altrimenti di definiscono eteroschedastici.
Se gli errori standard classici e quelli robusti all’eteroschedasticità sono simili, la stima non verrà
distorta dall’utilizzo di quelli robusti; se invece differiscono bisogna usare quelli che tengono conto
dell’eteroschedasticità perché sono gli unici a fornire stime affidabili e non distorte. Ecco perché nelle
regressioni conviene sempre utilizzare gli errori standard robusti all’eteroschedasticità.
93
le variabili binarie nella regressione, si è tenuto conto degli eventuali problemi di
collinearità perfetta (la cosiddetta “trappola delle dummy”).
Il regressore C rappresenta una serie di variabili di controllo, capaci di spiegare il
modello come la variabile “mutual” che controlla per la forma societaria o i quozienti
derivanti dalla scomposizione del ROE.
In ultimo, il termine ε indica il generico termine di errore che bisogna sempre
considerare nell’ambito di un modello di stima.
Il modello elaborato tramite il software Stata, ha l’obiettivo di verificare l’esistenza
di una relazione statisticamente significativa tra gli indici di corporate governance
costruiti e alcune misure prescelte di performance aziendali.
La performance di una banca può essere misurata in base alla sua capacity to
generate sustainable profitability (ECB, 2010).
La creazione di valore, per una banca, è la principale linea difensiva contro perdite
inattese e dà la possibilità di incrementare il capitale rafforzando la posizione di
mercato.
In effetti, l’espressione “performance aziendale” vuole sintetizzare gli aspetti di
redditività, equilibrio patrimoniale ed efficienza che, congiuntamente, disegnano la
capacità della banca di ottenere determinati risultati, in funzione dei rischi assunti
(Mottura e Paci, 2009).
Le misure di performance adottate nell’ambito di questo studio sono state il ROE e
lo Z-score (De Nicolò, 2001).
La prima è una profitability-accounting-based
measure; la seconda è da ritenersi invece una risk-adjusted performance measure.
Il ROE è la misura di performance/profitability più diffusa. È calcolato come
rapporto tra il reddito netto d’esercizio e il patrimonio netto in essere alla fine dello
stesso esercizio. Il pregio di questo indicatore è l’estrema semplicità di calcolo, vista
anche la facilità di reperimento dei dati necessari. Il suo principale difetto, invece, è
che non tiene conto dei diversi livelli di rischiosità, non è cioè un indicatore risksensitive. Come specificato dall’European Central Bank (2010): “A decomposition of
ROE shows that a risk component represented by leverage can boost ROE in a
substantial manner. Other risk elements, on the other hand, are missing in the ROE
figure (e.g. the proportion of risky assets and the solvency situation). ROE is
94
therefore not a stand-alone performance measure, and decomposition or further
information is necessary to identify the origin of developments and possible
distortions over time. […] The recent crisis has shown how ROE failed to
discriminate the best performing banks from the others in terms of sustainability of
their results. ROE is a short-term indicator and must be interpreted as a snapshot of
the current health of institutions” (ECB, 2010). Il ROE, insomma, non prende in
considerazione gli effetti prodotti dalle strategie di lungo termine o i danni di lungo
termine causati da una crisi.
Nel tentativo di superare i limiti del ROE, è stata scelta anche una seconda misura di
performance da inserire nella regressione: l’indice Z-score. Si tratta di una riskadjusted performance measure; una misura, cioè, in grado di fornire il livello del
rendimento ottenuto rettificato per il grado di rischio assunto.
Così come definito in De Nicolò (2001), il Z-score è determinato dalla seguente
formula:
dove:
µi e σi indicano rispettivamente la media e deviazione standard del return on
assets della i-esima banca; (E/A)i invece rappresenta la media del capital – to – asset
ratio.
Anche Laeven e Levine (2008) hanno utilizzato lo Z-score come indice della
rischiosità cui una banca si espone. Come spiegato dai due autori: “the Z-score
measures the distance from insolvency (Roy, 1952). Insolvency is defined as a state
in which losses surmount equity (E<-π) (where E is equity and π is profits). The
probability of insolvency, therefore, can be expressed as prob (-ROA<CAR), where
ROA (=π/A) is the return on assets and CAR (= E/A) is the capital assets ratio. If
profits are normally distributed, then the inverse of the probability of insolvency
equals (ROA+CAR)/σ(ROA), where σ(ROA) is the standard deviation of ROA.
Following the literature, we define the inverse of the probability of insolvency as the
95
Z-score” (Laeven e Levine, 2008). Di conseguenza, un valore elevato del Z-score
indica che la banca opera in uno stato di relativa stabilità mentre uno Z-score basso si
riferisce ad un istituto bancario particolarmente esposto al rischio e alla probabilità di
insolvenza 45 .
Nel modello stimato, inoltre, al fine di evitare eventuali distorsioni da variabili
omesse, sono stati inseriti alcuni fattori che si ipotizzano essere in qualche modo
legati alle variabili dipendenti. Si tratta delle cosiddette variabili di controllo.
Le variabili prese in considerazione sono state le seguenti (per una sintesi di tutte le
variabili del modello si rimanda alla Tabella 8):
-
“loans to asset ratio”: è un quoziente che rapporta il totale dei crediti concessi
rispetto al totale degli assets della banca. Indica la percentuale dell’attivo che
è stata “immobilizzata” sotto forma di crediti concessi alla clientela. Tanto
maggiore è il valore di questo indice, tanto minore sarà la liquidità a
disposizione della banca considerata;
-
Ln(assets): si tratta del logaritmo naturale del totale attività dell’istituto
bancario preso in considerazione. L’ammontare totale degli assets, infatti, è
una variabile molto diffusa nelle analisi che hanno ad oggetto il settore
bancario ed è utilizzata per classificare le banche secondo un criterio
45
In molti studi (Caprio, Laeven, Levine, 2003; Gompers, Ishii e Metrick, 2003; Adams e Mehran,
2005) che indagano l’esistenza di una relazione statisticamente significativa tra meccanismi di
corporate governance e performance aziendale, uno degli indicatori di performance più utilizzati è la
Q di Tobin. Per definizione, la Q di Tobin è pari al rapporto tra la somma del valore di mercato
dell’equity e del valore contabile della passività e, il valore contabile degli assets. Una misura elevata
della Q di Tobin indica buone opportunità di investimento e di crescita e, presumibilmente, un buon
sistema di corporate governance.
Un recente studio (Dybvig H. P. e Warachka M., 2010), tuttavia, ha dimostrato che un elevato valore
della Q di Tobin può essere legato ad un problema di “underinvestment”. Si è dimostrato, infatti, che
un miglioramento dell’efficienza operativa e della corporate governance, mitigando proprio il
problema dell’underinvestment, determina un decremento della Q di Tobin e non un suo incremento.
Per questi motivi, si è ritenuto l’indice Z-score una misura più attendibile del rendimento e della
rischiosità cui una banca si espone.
96
dimensionale 46 . Come in quasi tutti gli altri studi, si è deciso di considerare il
logaritmo naturale del valore degli assets totali, per sfruttarne le utili
proprietà. I logaritmi, infatti, convertono le variazioni nelle variabili in
variazioni percentuali, rendendone più facile l’interpretazione e, inoltre, sono
meno sensibili alla presenza di eventuali outlier;
-
“tier 1 ratio”: è un indice di patrimonializzazione dato dal rapporto tra il
patrimonio di base e il valore delle attività ponderate per il rischio;
-
“total capital ratio”: altro indice di patrimonializzazione, è determinato dal
rapporto tra il patrimonio di vigilanza (patrimonio di base + patrimonio
supplementare, meno le deduzioni previste) e il valore delle attività ponderate
per il rischio. A seguito dell’introduzione delle regole di Basilea, tale
rapporto non deve essere inferiore all’8%.
-
“loan loss provision to net interest revenue”: è il rapporto tra
l’accantonamento per rischi sui crediti effettuato prudenzialmente della banca
e il margine di interesse. È una misura della rischiosità potenziale a cui è
esposto l’istituto bancario considerato;
-
“impaired loans to gross loans”: è il rapporto tra i crediti deteriorati e il totale
dei crediti. Anche questa variabile è una misura di rischiosità della banca. In
particolare è un indicatore della qualità del portafoglio prestiti concessi dalla
banca;
-
gli indici ottenuti tramite la scomposizione del ROE.
Si tratta di sei diversi quozienti:

reddito netto su reddito lordo (RN/RL): misura implicitamente il peso
dell’imposizione fiscale sui risultati della banca:
46
A titolo di esempio, la Banca d’Italia classifica le banche sottoposte alla sua vigilanza secondo la
seguente scala dimensionale:
-
banche minori: totale dell’attivo inferiore a 1,3 miliari di euro;
-
banche piccole: totale dell’attivo compreso tra 1,3 e 9 miliardi di euro;
-
banche medie: totale dell’attivo compreso tra 9 e 26 miliardi di euro;
-
banche grandi: totale dell’attivo compreso tra 26 e 60 miliardi di euro;
-
banche maggiori: totale dell’attivo superiore a 60 miliardi di euro.
97

reddito lordo su reddito di gestione (RL/RG): misura il segno e il peso
assunto dalle componenti valutative del conto economico, tra le quali
spiccano le rettifiche di valore su crediti;

reddito di gestione su margine di intermediazione (RG/MIT): misura
l’incidenza dei costi operativi sui risultati economici della banca. È un
indicatore di efficienza operativa;

margine di intermediazione su margine di interesse (MIT/MI): misura
il contributo delle aree di attività finanziaria non prettamente
creditizia alla redditività della banca;

margine di interesse su totale attivo (MI/TA): esprime il contributo
alla redditività complessiva dell’attività di intermediazione creditizia
in senso stretto;

totale attivo su patrimonio netto (TA/PN): è un classico indice di leva
finanziaria.
Questi quozienti non sono stati però inseriti contemporaneamente nelle
regressioni stimate che presentano il ROE come variabile dipendente, per
evitare problemi di distorsioni da causalità simultanea.
Altra variabile di controllo molto importante inserita nelle regressioni stimate è la
dummy “mutual” il cui valore è pari ad 1 se la i-esima banca considerata è una
cooperativa. Viceversa, la variabile binaria assume valore 0 in corrispondenza di
banche costituite sotto forma di società per azioni.
Il sistema bancario italiano è caratterizzato dalle presenza di numerose banche
costituite sotto forma di società cooperative per azioni: le banche popolari e le
banche di credito cooperativo.
Tra i numerosi studi che hanno contribuito ad indagare la relazione esistente tra
corporate governance e performance aziendale, alcuni si sono concentrati
nell’esaminare questa relazione rispetto proprio alle banche cooperative.
De Bonis, Manzone e Trento (1994) sono stati tra i primi a dedicarsi a questo campo
di ricerche valutando le performance di 266 banche popolari in un periodo di tempo
compreso tra il 1986 ed il 1993. I tre autori hanno rilevato che le banche oggetto
della
loro
analisi
avevano
fatto
registrare
indicatori
di
redditività,
98
patrimonializzazione e rischiosità migliori rispetto a quelli medi dell’intero sistema
bancario italiano (Trivieri, 2005).
Altro autore che si è occupato di banche cooperative è Masciandaro (1996, 1997,
1998, 1999). Quest’ultimo sottolinea che l’aspetto più rilevante che caratterizza le
banche popolari è la struttura proprietaria. Composita ed eterogenea, infatti, deve
regolare l’interazione di almeno quattro diversi soggetti: gli amministratori, i
dipendenti, finanziatori e gli utenti. Allora, secondo Masciandaro, la stabilità della
banche popolari “dipende da quanto efficaci sono i soci amministratori nel
massimizzare la probabilità della loro rielezione, tenendo conto delle funzioni
obiettivo delle altre tipologie di soci, che – pur se interessati alla remunerazione del
capitale investito – si differenziano tra loro, in quanto avremo: i soci finanziatori
attenti esclusivamente alla redditività del capitale investito; i soci utenti interessati
anche all’accesso e alla qualità dei servizi bancari; i soci dipendenti attenti anche alle
condizioni e alla remunerazione del capitale umano” (Masciandaro,1999).
Masciandaro regredendo un indicatore di stabilità del controllo su variabili di
redditività, ha potuto rilevare una correlazione positiva e statisticamente
significativa. Ne ha concluso che, se è rispettato il requisito della crescita e della
redditività, le banche popolari rappresentano un modello di impresa potenzialmente
flessibile nel tempo.
Più recentemente Iannotta, Nocera e Sironi (2007) hanno analizzato alcuni indicatori
di rendimento di 181 banche di 15 paesi europei per il periodo 1999-2004, cercando
di trovare una qualche relazione tra le misure di performance e tre diverse tipologie
di banche: banca pubblica, banca privata e banca cooperativa.
I tre autori hanno così rilevato che le banche cooperative riescono a stabilire delle
migliori relazioni con la clientela, attraverso le quali mantenere una più elevata
qualità del portafoglio prestiti e minori costi operativi.
I livelli inferiori di redditività fatti registrare dalle banche cooperative rispetto alle
banche “private” sembrerebbero legati alle minori dimensioni ed al diverso “assets
mix”: le banche costituite sotto forma di cooperative, infatti, concentrano la loro
operatività prevalentemente sull’attività di intermediazione tradizionale.
99
Altri studi si sono concentrati sulle sole banche di credito cooperativo47 . Mettendo in
evidenza le specificità di governance connesse al modello societario delle BCC, con
dati relativi alla fine degli anni Ottanta e alla prima metà degli anni Novanta, si è
dimostrato che le banche di credito cooperativo hanno presentato, rispetto alle altre
banche, migliori performance in termini di redditività e rischiosità, a cui però si sono
accompagnate peggiori risultati in termini di produttività del personale e di offerta di
servizi innovativi.
Al di là della letteratura esistente in merito, è comunque evidente l’importanza che la
tipologia di banca (cooperativa o no) riveste in termini di corporate governance e,
conseguentemente, di performance aziendale. Per tutti questi motivi, si è quindi
ritenuto necessario inserire la variabile “mutual” nel modello.
Nelle tabelle di seguito, si riassumono le variabili indipendenti inserite nel modello e
le principali statistiche descrittive di tutti i regressori considerati.
47
Cesarini F., Ferri G., Giardino M., Credito e sviluppo. Banche locali cooperative e imprese minori,
Il Mulino, 1997. Di Salvo R., Schena C., Assetti societari e di governo delle BCC. Quali effetti sulla
performance?, Cooperazione e credito, 1998. Ferri G., Di Salvo R., Il governo societario nella banche
di credito cooperativo: fondamenti teorici e riscontri empirici, 1999.
100
Tabella 8 – Variabili
Nome Variabile
Descrizione
Effetto atteso
Gov-firm specific
Indice relativo gli assetti generali di corporate governance delle banche
+
Codice_autodisciplina
Dummy pari a 1 quando la banca adotta il Codice di Autodisciplina per
le Società Quotate
+
Altri_codici
Dummy pari a 1 quando la banca adotta codici di autoregolamentazione
diversi da quello di autodisciplina
+
Parti_correlate
Dummy pari a 1 quando la banca prevede una specifica disciplina
interna sulle operazioni con parti correlate
+
Rating
Dummy pari a 1 quando la banca presenta un giudizio di rating
Gov-board
Indice di corporate governance
funzionamento del CdA
e
+
N. amministratori
Dummy pari a 1 se il numero dei componenti del CdA di una banca è
inferiore alla media calcolata rispetto a tutte le banche quotate italiane
+
N. meeting
Dummy pari a 1 se il numero delle riunioni annue del CdA di una
banca è superiore al numero medio per le banche quotate italiane
+
Outsider_ratio
Dummy pari a 1 se la percentuale di amministratori indipendenti del
CdA di una banca è superiore alla media calcolata rispetto a tutte le
banche quotate italiane
+
Stock option
Variabile binaria che assume valore pari a 1 se la banca prevede piani
di stock option a favore degli amministratori
+
Almeno2comitati
Variabile binaria pari a 1 se nel CdA della banca sono presenti almeno
due comitati interni
+
Gov-shareholders
Indice di corporate governance relativo alla struttura proprietaria
-
Az_maggioranza
Dummy pari a 1 se è presente almeno un azionista che detiene più del
10% del capitale sociale
-
Patti_parasociali
Dummy pari a 1 se sono in corso patti di sindacato
-
Classi_azioni
Variabile binaria che è pari ad 1 se sono presenti diverse tipologie di
azioni (ordinarie, di risparmio, etc.)
-
Az_proprie
Variabile binaria pari a 1 se la banca detiene azioni proprie
Mutual
Variabile binaria che assume valore pari a 1 per le banche cooperative
+/-
Rem_on_assets
Rapporto tra la remunerazione riconosciuta agli amministratori e il
totale assets della banca
+/-
Rn/rl
Rapporto tra il reddito netto e il reddito lordo
+/-
Rl/rg
Rapporto tra il reddito lordo e il reddito di gestione
+/-
Rg/mit
Rapporto tra il reddito di gestione e il margine di intermediazione
+/-
Mit/mi
Rapporto tra il margine di intermediazione e il margine di interesse
+/-
Mi/ta
Rapporto tra il margine di interesse e il totale attivo
+/-
Ta/pn
Rapporto tra il totale attivo e il patrimonio netto
+/-
Loans_to_assets
Rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo
+/-
Ln_asset
Logaritmo naturale del totale attivo
+/-
Loan_loss
Rapporto tra l’accantonamento per rischi su crediti e margine di
interesse
Impaired_loans
Rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti
Tier 1 ratio
Rapporto tra il patrimonio di base e il valore delle attività ponderate per
il rischio
+/-
Total capital ratio
Rapporto tra patrimonio di vigilanza e valore delle attività ponderate
per il rischio
+/-
Y05
Dummy pari ad 1 per l’anno 2005
+
Y06
Dummy pari ad 1 per l’anno 2006
+
Y07
Dummy pari ad 1 per l’anno 2007
-
Y08
Dummy pari ad 1 per l’anno 2008
-
Y09
Dummy pari ad 1 per l’anno 2009
-
riferito
a
composizione
+
-
-
101
Tabella 9 – Principali statistiche descrittive
Osservazioni
Media
Deviazione
standard
Minimo
Massimo
ROE (%)
119
8,529
5,683
-2,965
27,591
Z-score
108
28,3944
22,120
2,442
103,055
Gov-firm specific
126
2,595
1,174
0
4
Codice_autodisciplina
124
0,814
0,39
0
1
Variabile
Altri_codici
124
0,508
0,502
0
1
Parti_correlate
126
0,643
0,481
0
1
Rating
92
0,891
0,313
0
1
Gov-board
126
1,952
1,123
0
5
N. amministratori
125
0,416
0,494
0
1
N. meeting
83
0,385
0,489
0
1
Outsider_ratio
84
0,498
0,249
0
1
Stock option
126
0,373
0,485
0
1
Almeno2comitati
126
0,619
0,488
0
1
Gov-shareholders
126
1,555
1,099
0
4
Az_maggioranza
126
0,476
0,501
0
1
Patti_parasociali
126
0,230
0,422
0
1
Classi_azioni
126
0,341
0,476
0
1
Az_proprie
126
0,508
0,502
0
1
Mutual
126
0,278
0,450
0
1
Rem_on_assets
125
0,930
1,976
0,00126
10,981
Rn/rl
126
0,567
1,093
-10,099
5,175
Rl/rg
115
0,033
1,658
-17,427
0,998
Rg/mit
115
5,019
7,450
-42,684
57,273
Mit/mi
115
0,823
1,427
-0,044
12,273
Mi/ta
115
0,022
0,0049
0,007
0,0324
Ta/pn
126
13,774
5,815
2,115
46,138
Loans_to_assets
126
64,262
16,981
3,660
86,624
Ln_assets
126
16,934
1,742
12,827
20,768
Loans_loss
115
23,025
25,811
-4,39
228,82
Impaired_loans
100
5,823
4,035
0,17
22,74
Tier 1 ratio
123
9,768
7,660
4,8
54,9
Total capital ratio
112
11,651
5,067
8,2
38,8
Y05
126
0,214
0,412
0
1
Y06
126
0,206
0,406
0
1
Y07
126
0,198
0,4
0
1
Y08
126
0,190
0,394
0
1
Y09
126
0,190
0,394
0
1
102
3.6 RISULTATI
L’analisi condotta ha permesso di ottenere diversi risultati.
La Tabella 10 riporta alcune stime della relazione tra i tre indici di corporate
governance e il ROE, ottenute combinando diversamente le variabili di controllo.
Tabella 10 – Risultati: indici di corporate governance e ROE
Gov- firm specific
Gov-board
Gov-shareholders
Modello (1)
0,003
(0,910)
-0,026
(0,208)
-0,023
(0,424)
Modello (2)
0,086
(0,044)
0,009
(0,751)
-0,13
(0,049)
0,01
(0,684)
0,04
(0,162)
-0,029
(0,372)
-0,001
(0,970)
-0,003
(0,951)
0,026
(0,744)
0,17
(0,123)
0,16
(0,137)
-0,067
(0,000)
-0,007
(0,085)
0,07
(0,097)
26,94
(0,022)
0,003
(0,720)
-0,014
(0,021)
-0,09
(0,734)
-0,019
(0,098)
1,89
(0,676)
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
Rl/rg
Rg/mit
Mit/mi
Mi/ta
Ta/pn
Loans to assets
Ln_assets
Tier 1 ratio
Intercetta
0,21
(0,003)
Modello (3)
0,09
(0,028)
0,007
(0,797)
-0,14
(0,035)
0,08
(0,180)
-0,013
(0,805)
0,015
(0,856)
0,16
(0,155)
0,15
(0,164)
-0,066
(0,000)
-0,007
(0,092)
0,073
(0,109)
27,21
(0,022)
Modello (4)
0,0996
(0,017)
-0,022
(0,561)
-0,18
(0,010)
0,108
(0,027)
-0,092
(0,134)
-0,024
(0,682)
0,063
(0,375)
0,0897
(0,225)
-0,041
(0,014)
-0,042
(0,877)
-0,019
(0,088)
1,16
(0,801)
-0,013
(0,035)
23,54
(0,024)
0,46
(0,270)
Numero osservazioni
126
113
113
115
R-squared
0,4671
0,7468
0,75
0,5335
Adj. R-squared
0,2515
0,5950
0,6
0,3094
F-test
2,47
10,70
10,58
1,69
Note: la tabella riporta quattro diverse stime del modello elaborato per verificare l’esistenza di una relazione tra i
tre indici di corporate governance e il Roe. Le quattro stime variano in base ai diversi regressori inclusi. Gov-firm
specific, Gov-board e Gov-shareholders sono gli indici di corporate governace costruiti; “mutual” è una variabile
dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le variabili
binarie che controllano per gli effetti temporali degli anni 2006-2009; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e
reddito di gestione; Rg/mit è pari al reddito di gestione su margine di intermediazione; Mit/mi equivale al
margine di intermediazione sul margine di interesse; Mi/ta rapporta il margine d’interesse al totale assets; Ta/pn è
pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale
attivo; “ln_assets” è il logaritmo del totale attivo “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle
attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
103
Delle quattro stime riportate nella Tabella 10, la prima è riferita ad una regressione
effettuata senza inserire variabili di controllo. Nessun regressore presenta però
significatività statistica e anche il valore dell’R-squared pari a 0,4671 dimostra che la
regressione spiega poco la variazione della variabile dipendente.
Nella seconda regressione, sono state inserite otto variabili di controllo: il “Gov-firm
specific index” e il “Gov-shareholders Index” raggiungono entrambi una
significatività statistica del 5%.
A partire dalla terza regressione, invece, è stata aggiunta anche la variabile dummy
“mutual” per controllare l’effetto prodotto dalla forma societaria delle banche
osservate (cooperative o s.p.a.).
L’ultima regressione, infine, escluse le variabili di controllo che in quella precedente
erano non statisticamente significative, presenta i minori valori di p-value per i due
indici di corporate governance “Gov-firm specific” e “Gov-shareholders”.
L’indice “Gov-firm specific”, infatti, con un valore del p-value di 0.017, presenta
una significatività statistica del 5% e una correlazione positiva con il ROE:
l’aumento di un punto dell’indice determina un aumento del Roe di circa 0,1 punti
percentuali.
Il “Gov-shareholders Index” è statisticamente significativo all’1%, e presenta, come
ipotizzato, segno negativo: l’aumento di un punto dell’indice causa una diminuzione
del ROE di 0,18 punti percentuali.
Diversamente da quanto ipotizzato in teoria, invece, la relazione tra il ROE e l’indice
“Gov-board” risulta negativa e comunque non statisticamente significativa.
Nella quarta regressione, poi, la dummy “mutual” sembra avere un effetto positivo
sulla redditività delle banche e statisticamente significativo al 5% in linea con alcune
delle ricerche precedentemente ricordate (De Bonis et al., 1994; Masciandaro, 1999).
Il presente studio, d’altronde, è stato condotto in riferimento ad un arco temporale
caratterizzato dagli effetti della recente crisi finanziaria. Da questo punto di vista, le
banche costituite sotto forma di cooperative, destinando la loro operatività
prevalentemente alle attività di intermediazione tradizionale, sono state meno esposte
alle perdite finanziarie causate dalla crisi e hanno potuto meglio limitare gli effetti
negativi in termini di redditività. Viceversa, le banche costituite sotto forma di
società per azioni, solitamente caratterizzate da un’operatività più ampia,
104
differenziata e maggiormente esposta a rischi, durante la crisi, hanno subito riduzioni
maggiori nei livelli di redditività.
Le altre variabili di controllo con una buona significatività statistica sono il rapporto
tra margine di interesse e totale attività, che presenta segno positivo, e il “loan to
assets ratio” che, invece, ha segno negativo. Si tratta, in effetti, di due grandezze che
si riferiscono rispettivamente alla redditività generata dall’attività d’intermediazione
tradizionale e all’equilibrio finanziario della banca.
Se alla variabile dipendente ROE, si sostituisce lo Z-score, le stime relative ai tre gli
indici di corporate governance considerati congiuntamente risultano essere,
purtroppo, non statisticamente significative, indipendentemente dal set di variabili di
controllo inserite nel modello.
In realtà, è possibile che le stime soffrano di una qualche forma di distorsione causata
dalla probabile correlazione esistente proprio tra gli indici di corporate governance.
Nel tentativo di limitare questa fonte di distorsione, di seguito si procederà ad
effettuare delle altre stime attraverso le quali analizzare le relazioni esistenti tra le
misure di performance scelte e i tre indici di corporate governance considerati però
singolarmente.
Iniziamo con l’esaminare la relazione esistente tra le misure di performance scelte e
il “Gov-firm specific Index”.
La Tabella 11 mostra quattro regressioni dell’indice sul ROE, caratterizzate dalla
diversa composizione delle variabili di controllo.
Per evitare distorsioni da variabili omesse, nelle regressioni, sono stati inseriti anche
alcuni dei fattori compresi negli indici “Gov-board” e “Gov-shareholders”, così da
controllare per ogni meccanismo di corporate governance.
105
Tabella 11 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e ROE
Gov-firm specific
Modello (1)
-1,33
(0,080)
Modello (2)
0,32
(0,414)
Modello (3)
2,91
(0,073)
1,37
(0,214)
1,08
(0,434)
1,21
(0,555)
3,24
(0,182)
1,02
(0,460)
1,05
(0,424)
-1,68
(0,313)
2,32
(0,126)
2,94
(0,219)
0,53
(0,755)
-1,27
(0,611)
-0,06
(0,986)
3,27
(0,349)
-0,37
(0,885)
4,38
(0,134)
9,57
(0,005)
30,52
(0,002)
0,07
(0,959)
1,64
(0,015)
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
N. amministratori
N. meeting
Outsider ratio
Stock option
Az_maggioranza
Az_proprie
Rem_on_assets
Rn/rl
Rl/rg
17,13
(0,068)
Rg/mit
Mit/mi
4,59
(0,131)
Ta/pn
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan_loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
0,07
(0,529)
-2,61
(0,541)
2,11
(0,002)
-0,16
(0,000)
-1,11
(0,014)
-2,21
(0,000)
62,42
(0,400)
-0,08
(0,695)
0,40
(0,015)
-0,09
(0,161)
2,32
(0,091)
0,29
(0,038)
0,09
(0,192)
0,95
(0,004)
0,64
(0,112)
-0,27
(0,000)
-0,75
(0,000)
-1,49
(0,002)
-4,26
(0,721)
Modello (4)
3,46
(0,021)
4,17
(0,029)
3,10
(0,145)
0,78
(0,631)
-1,85
(0,451)
-0,38
(0,917)
4,56
(0,143)
-1,08
(0,668)
5,89
(0,032)
10,16
(0,002)
36,51
(0,000)
1,77
(0,005)
15,14
(0,030)
13,49
(0,021)
-0,61
(0,249)
0,13
(0,517)
3,03
(0,595)
1,01
(0,281)
-0,06
(0,116)
-1,31
(0,049)
-1,45
(0,111)
-60,66
(0,565)
-0,59
(0,170)
0,07
(0,731)
5,31
(0,349)
1,53
(0,109)
-0,05
(0,131)
-1,37
(0,027)
-1,97
(0,036)
-99,29
(0,330)
Numero osservazioni
98
98
53
53
R-squared
0,9601
0,8695
0,9881
0,9904
Adj. R-squared
0,9320
0,8467
0,9614
0,9689
F-test
65,48
37,67
153,61
239,14
Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-firm specific” e il
Roe. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è una cooperativa;
Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “N. amministratori” è un dummy pari a 1 se il numero degli
amministratori del CdA è inferiore al numero medio di settore; “N. meeting” è una dummy pari a 1 se il numero di riunioni
annue del CdA è superiore alla media di settore; “outsider_ratio” è una dummy pari a 1 se l’outsider ratio è superiore alla media
di settore; “stock option” è una variabile binaria pari a 1 se la banca adotta stock option; “Az_maggioranza” è una dummy
uguale a 1 se è presente un socio di maggioranza; “rem_on_assets” indica il rapporto tra remunerazione degli amministratori e
totale attivo; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il
reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine di interesse;
Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo;
“ln_assets” è il logaritmo del totale attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per
il rischio; “loan_loss” indica il rapporto tra l’accantonamento per rischi su crediti e il margine d’interesse; “impaired loans” è la
frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate
per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
106
Delle quattro regressioni presentate in Tabella 11, le prime due stimano l’effetto
dell’indice “Gov-firm specific” sul Roe attraverso l’inserimento di alcune variabili di
controllo. I risultati in termini di significatività statistica sono però insoddisfacenti.
Nella terza regressione sono state inserite anche le variabili che controllano per i
meccanismi di corporate governance considerati negli altri indici costruiti.
La differenza sostanziale tra la terza e la quarta regressione consiste nell’aggiunta
della variabile “mutual” tra quelle indipendenti. Proprio nella quarta regressione,
però, si ottengono i risultati migliori in termini di significatività statistica.
L’indice “Gov-firm specific”, infatti, risulta statisticamente significativo al 5%.
L’aumento di un punto dell’indice determina un incremento di quasi 3,5 punti
percentuali del ROE.
La variabile binaria “mutual” risulta statisticamente significativa e si stima abbia un
effetto importante sulla redditività: secondo la regressione, le banche cooperative
presentano un ROE più alto di circa 4 punti percentuali rispetto alle banche non
cooperative.
Tra le variabili che controllano per i diversi meccanismi di corporate governance,
quelli che presentano la maggiore significatività statistica sono: la presenza di
almeno un azionista di maggioranza nella compagine sociale della banca che,
diversamente da quanto ipotizzato, presenta segno positivo; l’esistenza di piani di
stock option; l’outsider ratio e il rapporto tra remunerazione riconosciuta agli
amministratori della banca e il totale degli assets. Gli ultimi tre fattori risultano
esercitare un’influenza positiva sulla redditività bancaria confermando quanto
ipotizzato in teoria.
Se si stima la relazione esistente tra il “Gov-firm specific Index” e la misura di
performance Z-score, dalle stime ottenute, non si rilevano relazioni statisticamente
significative.
Per completezza, nella Tabella12, si riportano quattro delle regressioni stimate.
107
Tabella 12 – Risultati: indice “Gov-firm specific” e Z-score
Gov-firm specific
Modello (1)
-6,72
(0,269)
Modello (2)
2,72
(0,230)
Modello (3)
1,77
(0,196)
-13,25
(0,242)
-7,03
(0,330)
-10,00
(0,277)
-14,22
(0,205)
0,37
(0,880)
-0,03
(0,995)
0,38
(0,944)
-0,82
(0,900)
-4,02
(0,270)
1,84
(0,437)
-3,67
(0,272)
-1,58
(0,712)
-7,57
(0,392)
-1,24
(0,791)
0,55
(0,710)
0,36
(0,886)
1,50
(0,597)
0,999
(0,783)
-5,82
(0,023)
3,47
(0,142)
-2,64
(0,394)
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
N. amministratori
N. meeting
Outsider ratio
Stock option
Az_maggioranza
Rl/rg
Mit/mi
11,55
(0,467)
-1,00
(0,862)
Ta/pn
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan_loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
0,26
(0,305)
4,66
(0,702)
2,07
(0,351)
0,07
(0,390)
1,61
(0,237)
-0,47
(0,808)
111,24
(0,611)
-2,17
(0,006)
0,22
(0,491)
-4,64
(0,668)
1,65
(0,066)
-0,008
(0,849)
0,033
(0,932)
-1,33
(0,158)
122,19
(0,502)
Modello (4)
2,87
(0,153)
-2,08
(0,347)
0,79
(0,646)
0,69
(0,668)
1,61
(0,491)
0,52
(0,812)
-5,10
(0,103)
2,83
(0,309)
-4,68
(0,205)
-7,86
(0,265)
-10,78
(0,135)
-2,37
(0,000)
0,03
(0,866)
0,66
(0,923)
0,18
(0,162)
-0,026
(0,261)
-0,21
(0,415)
49,29
(0,689)
-2,28
(0,000)
1,03
(0,214)
-0,014
(0,564)
0,079
(0,790)
-0,85
(0,331)
59,19
(0,001)
Numero osservazioni
98
53
61
53
R-squared
0,9998
0,9957
0,9949
0,9955
Adj. R-squared
0,9997
0,9875
0,9892
F-test
0,80
5,22
6,35
4,05
Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-firm
specific” e lo Z-score. Le stime variano in base ai diversi regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy
uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le dummy
temporali per gli anni 2006-2009; “N. amministratori” è un dummy uguale a 1 se il numero degli amministratori
del CdA è inferiore al numero medio di settore; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero di
riunioni annue del CdA è superiore al numero medio di settore; “outsider_ratio” è un dummy pari a 1 se
l’outsider ratio è superiore alla media; “stock option” è una variabile binaria pari a 1 in presenza di piani di stock
option; “Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio che detiene almeno il 10% del capitale
sociale; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul
margine di interesse; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti
verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo delle attività; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra
patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” indica il rapporto tra
l’accantonamento per rischi su crediti e il margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati
sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio.
Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
108
Anche per indagare la relazione esistente tra il ROE e il “Gov-board Index”, sono
state elaborate diverse stime.
Come si può osservare dalla Tabella 13, la prima regressione è stata effettuata
considerando le diverse variabili di controllo.
Nella seconda regressione, invece, sono state aggiunte anche le variabili che
controllano per i meccanismi di corporate governance diversi da quelli prettamente
legati al funzionamento e alla composizione del Consiglio di Amministrazione.
Nella terza regressione sono state eliminate alcune delle variabili si controllo che
presentavano i maggiori valori di p-value (e quindi le minori significatività
statistiche).
Nella quarta stima, invece, è stata semplicemente aggiunta la variabile binaria
“mutual”. Nonostante quest’ultima variabile non risulti statisticamente significativa,
nemmeno al 10%, proprio la quarta regressione presenta la maggiore significatività
statistica dell’indice di corporate governance considerato.
L’indice “Gov-board”, infatti, risulta essere positivamente correlato al ROE con una
significatività statistica del 5%. L’aumento di un punto dell’indice genera un
incremento nel ROE di circa 1,3 punti percentuali.
Relativamente alle variabili inserite per controllare gli altri elementi di corporate
governance, anche questa volta la presenza di azionisti di maggioranza risulta essere
correlata positivamente con la redditività della banca e statisticamente significativa
all’1%.
Le altre variabili di controllo significative sono i tre quozienti reddito netto su reddito
lordo, reddito lordo su reddito di gestione e margine di interesse su totale attivo con
un effetto ovviamente positivo sulla redditività e l’indice di patrimonializzazione
“total capital ratio”. Quest’ultimo esercita però un effetto negativo sul ROE:
un’elevata patrimonializzazione può garantire una maggiore stabilità finanziaria per
la banca (con effetti potenzialmente positivi sul Z-score) ma, contemporaneamente,
può avere effetti negativi in termini di redditività e, quindi, di ROE.
109
Tabella 13 – Risultati: indice “Gov-board” e ROE
Gov-board
Rem_on_assets
Modello (1)
-0,093
(0,877)
0,214
(0,381)
Modello (2)
1,06
(0,177)
-0,11
(0,533)
Modello (3)
1,17
(0,088)
-0,11
(0,475)
0,75
(0,413)
-0,10
(0,930)
-0,39
(0,837)
4,18
(0,050)
0,62
(0,686)
-2,22
(0,297)
-4,43
(0,140)
-2,15
(0,489)
-3,48
(0,124)
1,40
(0,357)
18,37
(0,001)
-3,74
(0,127)
0,48
(0,726)
1,71
(0,202)
36,30
(0,003)
0,04
(0,503)
1,38
(0,729)
498,82
(0,086)
0,57
(0,705)
-2,37
(0,253)
-4,75
(0,094)
-2,73
(0,392)
-2,68
(0,221)
2,05
(0,135)
21,4
(0,000)
-3,02
(0,155)
0,43
(0,734)
1,79
(0,167)
36,94
(0,000)
Modello (4)
1,29
(0,050)
-0,46
(0,188)
-4,89
(0,192)
0,77
(0,568)
-2,12
(0,269)
-4,34
(0,096)
-2,71
(0,375)
-3,008
(0,156)
2,16
(0,075)
21,23
(0,000)
-3,34
(0,089)
0,96
(0,557)
2,67
(0,035)
41,35
(0,000)
469,18
(0,031)
494,93
(0,015)
11,71
(0,114)
0,85
(0,225)
-0,05
(0,161)
-0,305
(0,556)
12,08
(0,101)
10,89
(0,092)
-0,029
(0,187)
0,002
(0,996)
-0,53
(0,014)
-188,52
(0,094)
73
0,9870
0,9688
1048,15
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
Parti_correlate
Rating
Az_maggioranza
Altri codici
Az_proprie
Rn/rl
Rl/rg
Rg/mit
Mit/mi
Mi/ta
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan_loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
Numero osservazioni
R-squared
Adj. R-squared
F-test
-0,24
(0,079)
13,85
(0,112)
-0,04
(0,199)
6,86
(0,028)
562,73
(0,010)
0,015
(0,892)
3,76
(0,444)
1,48
(0,023)
-0,19
(0,000)
-1,61
(0,000)
-1,69
(0,003)
-56,68
(0,509)
-199,23
(0,125)
-0,04
(0,096)
-0,189
(0,706)
-0,58
(0,009)
-207,72
(0,103)
97
0,9655
0,9363
125,01
73
0,9865
0,9652
339,80
73
0,9856
0,9666
493,57
Note: la tabella riporta quattro stime della relazione tra indice “Gov-board” e ROE. Le stime variano in base ai
regressori inclusi. “Mutual” è una dummy pari a 1 se la banca è costituita sotto forma di cooperativa; Y06-Y09
sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “rem_on_assets” misura il rapporto tra la remunerazione dei
managers e il totale attivo; “Altri codici” è una dummy pari a 1 quando la banca adotta codici di
autoregolamentazione; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca prevede speciali procedure
interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un dummy uguale a 1 se la banca ha un giudizio di rating;
“Az_maggioranza” è una dummy uguale a 1 se è presente un socio di maggioranza; “Az_proprie” è una variabile
binaria pari ad 1 se la banca detiene azioni proprie; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il
rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi
equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su
totale attivo; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il
logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle attività ponderate per il
rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse; “impaired loans”
è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e
attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
110
Bisogna poi rilevare che la variabile “rem_on_assets” presenta segno negativo. La
mancanza comunque di una significatività statisticamente rilevante non permette di
trarre conclusioni particolarmente indicative. Il risultato ottenuto, tuttavia, lascerebbe
intuire che un’elevata remunerazione accordata agli amministratori riduce la
redditività: da strumento di incentivo per i managers, la remunerazione può diventare
un’ulteriore fonte di conflitti di interesse.
Se si passa a considerare la misura di performance “Z-score”, anche in questo caso,
le regressioni ottenute e riportate nella Tabella 14, non forniscono risultati
statisticamente significativi per l’indice “Gov-board”.
Le variabili che presentano i minori valori di p-value sono il rapporto totale attivo su
patrimonio netto, il logaritmo delle attività totali e il “total capital ratio”.
Il primo ha segno negativo a dimostrazione che all’aumentare del livello di leverage
aumentano anche i rischi cui la banca si espone.
Il secondo presenta segno positivo: una banca di maggiori dimensioni, dovrebbe
essere anche più stabile e quindi meno rischiosa.
Il terzo, ha pure segno positivo: la maggiore patrimonializzazione, infatti, implica
una minore rischiosità.
Nell’ultima delle regressioni riportate in Tabella, però, si nota un risultato
contraddittorio, relativo alla variabile “rl/rg” che misura il rapporto tra il reddito
lordo e il reddito di gestione.
Si tratta di un indicatore sulla qualità del portafoglio della banca: tanto maggiore è il
suo valore, tanto minore è il peso delle rettifiche negative di valore su crediti. Non ci
si spiega come sia possibile, quindi, che un aumento nel valore di questo rapporto,
implichi una riduzione dello Z-score interpretabile come un aumento della
rischiosità.
Visto questa contraddizione, è molto probabile che la stima sia affetta da una qualche
distorsione.
111
Tabella 14 – Risultati: indice “Gov-board” e Z-score
Gov-board
Rem_on_assets
Modello (1)
1,34
(0,548)
1,71
(0,347)
Modello (2)
1,17
(0,304)
0,31
(0,402)
Modello (3)
1,14
(0,297)
0,30
(0,339)
-12,97
(0,271)
-5,48
(0,355)
-5,61
(0,412)
-3,90
(0,548)
-2,62
(0,136)
-5,86
(0,008)
-10,46
(0,020)
-10,996
(0,018)
-0,46
(0,889)
1,78
(0,430)
-0,49
(0,941)
-2,71
(0,065)
-5,86
(0,002)
-10,47
(0,008)
-11,74
(0,007)
Modello (4)
0,94
(0,166)
-0,07
(0,765)
-1,69
(0,607)
-2,22
(0,066)
-5,81
(0,000)
-9,15
(0,003)
-11,04
(0,002)
2,04
(0,363)
2,20
(0,407)
-1,10
(0,615)
2,95
(0,107)
0,06
(0,205)
-0,16
(0,030)
0,04
(0,364)
-2,20
(0,000)
0,34
(0,166)
27,57
(0,003)
-2,59
(0,000)
0,28
(0,094)
26,28
(0,000)
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
Parti_correlate
Rating
Az_maggioranza
Rn/rl
Rl/rg
Rg/mit
Mit/mi
Mi/ta
-0,10
(0,717)
2,18
(0,784)
0,019
(0,866)
-7,83
(0,409)
-431,28
(0,590)
-2,97
(0,621)
0,06
(0,239)
24,899
(0,904)
Ta/pn
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan_loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
Numero osservazioni
R-squared
Adj. R-squared
F-test
-0,17
(0,595)
-13,25
(0,556)
1,93
(0,288)
0,05
(0,439)
-1,08
(0,348)
-1,77
(0,347)
511,34
(0,241)
0,34
(0,197)
27,11
(0,010)
0,62
(0,416)
-0,02
(0,515)
-0,47
(0,389)
0,48
(0,550)
-316,87
(0,080)
-0,24
(0,496)
1,10
(0,032)
-329,60
(0,041)
0,75
(0,046)
-306,46
(0,012)
97
0,9998
0,9997
1,67
73
1,0000
1,0000
11,42
73
1,0000
1,0000
16,86
85
1,0000
1,0000
10,99
Note: la tabella riporta quattro stime del modello che verifica l’esistenza di una relazione tra l’indice “Gov-board”
e lo Z-score. Le stime variano in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la
banca è costituita sotto forma di cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009;
“rem_on_assets” misura il rapporto tra la remunerazione dei managers e il totale attivo; “Parti_correlate” è una
variabile binaria pari a 1 se la banca prevede speciali procedure interne per le operazioni con parti correlate;
“rating” è un dummy uguale a 1 se la banca presenta un giudizio di rating; “Az_maggioranza” è una dummy
uguale a 1 se è presente un socio che detiene almeno il 10% del capitale sociale; “Az_proprie” è una variabile
binaria pari ad 1 se la banca detiene azioni proprie; Rn/rl è pari a reddito netto su reddito lordo; Rl/rg indica il
rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi
equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su
totale attivo; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la
clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell totale attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di
base e valore delle attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su
crediti e margine d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital
ratio” è il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i
corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
112
Tabella 15 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e ROE
Gov-shareholders
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
Regressione (1)
0,87
(0,445)
-0,07
(0,954)
0,88
(0,384)
0,26
(0,839)
0,28
(0,897)
4,16
(0,095)
Rating
Parti correlate
N. amministratori
Outsider ratio
N. meeting
Regressione (2)
-0,16
(0,957)
-8,38
(0,251)
1,40
(0,755)
0,84
(0,910)
4,39
(0,676)
4,82
(0,530)
1,60
(0,698)
-14,30
(0,113)
0,19
(0,979)
3,62
(0,662)
-0,29
(0,946)
Rn/rl
Rl/rg
Rg/mit
Mit/mi
Mi/ta
Ta/pn
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
14,22
(0,112)
-0,03
(0,225)
6,86
(0,023)
510,93
(0,027)
-0,06
(0,844)
0,01
(0,927)
1,45
(0,793)
1,6
(0,024)
-0,18
(0,000)
-1,40
(0,002)
-1,88
(0,007)
-16,80
(0,866)
25,27
(0,241)
12,11
(0,146)
482,96
(0,571)
-5,37
(0,822)
0,93
(0,681)
-0,099
(0,360)
-0,64
(0,463)
-1,40
(0,541)
95,66
(0,820)
Regressione (3)
-2,48
(0,037)
-16,2
(0,000)
2,33
(0,133)
0,28
(0,922)
2,67
(0,551)
2,22
(0,637)
3,62
(0,296)
-23,29
(0,001)
Regressione (4)
-2,59
(0,012)
-16,2
(0,000)
2,52
(0,110)
0,83
(0,757)
3,81
(0,357)
2,75
(0,517)
2,95
(0,340)
-22,84
(0,001)
5,66
(0,364)
2,19
(0,172)
2,88
(0,039)
52,56
(0,000)
0,29
(0,027)
6,25
(0,047)
161,09
(0,396)
3,63
(0,499)
1,81
(0,208)
2,68
(0,059)
51,23
(0,000)
0,27
(0,024)
6,23
(0,046)
-1,59
(0,881)
-4,79
(0,622)
0,29
(0,314)
-0,63
(0,025)
37,64
(0,838)
0,316
(0,352)
-0,57
(0,020)
96,2
(0,566)
Numero osservazioni
98
37
37
37
R-squared
0,9639
0,9980
0,9994
0,9993
Adj. R-squared
0,9339
0,9821
0,9955
0,9957
F-test
125,11
549,81
8797,85
1421,41
Note: la tabella riporta quattro stime della relazione tra “Gov-shareholders Index” e ROE. Le stime variano in base ai regressori
inclusi. “Mutual” è una dummy pari a 1 se la banca è una cooperativa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 20062009; “Parti_correlate” è una variabile binaria pari a 1 se la banca adotta procedure interne per le operazioni con parti correlate;
“rating” è un dummy uguale a 1 se la banca ha un rating; “N. amministratori” è una dummy uguale a 1 se il numero degli
amministratori del CdA è inferiore alla media di settore; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero di riunioni
annue del CdA è superiore alla media di settore; “outsider_ratio” è un dummy pari a 1 se l’outsider ratio è superiore alla media
di settore; “rem_on_assets” misura il rapporto tra remunerazione dei managers e totale attivo; Rn/rl è pari a reddito netto su
reddito lordo; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di
intermediazione; Mit/mi equivale al margine di intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine
d’interesse su totale attivo; Ta/pn è pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la
clientela e il totale attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle
attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine d’interesse;
“impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto tra patrimonio di
vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono riportati in parentesi.
113
Con la Tabella 15 si è analizzata la relazione tra performance e il “Gov-shareholders
Index”.
Dalla quarta regressione si evince l’esistenza di una relazione negativa
statisticamente significativa all’1%. Si conferma, quindi, quanto precedentemente
ipotizzato riguardo la composizione della struttura proprietaria di una banca: tanto
più questa risulta concentrata, con limitazioni all’esercizio dei diritti di voto
soprattutto rispetto alle minoranze, tanto maggiore sarà l’effetto negativo prodotto
sulla qualità della corporate governance e, di conseguenza, rispetto alla redditività
dell’istituto bancario.
La variabile binaria “mutual”, sia nella terza che nella quarta stima, risulta esercitare
un forte impatto negativo sul ROE con un’elevata significatività statistica.
In entrambe le regressioni, si conferma anche l’effetto negativo prodotto dal “total
capital ratio” sulla redditività delle banche.
Appare anomalo rispetto a quanto precedentemente teorizzato che, la variabile circa
l’esistenza di apposite procedure interne di disciplina delle operazioni con parti
correlate, abbia un impatto negativo sul ROE, con un livello di significatività
statistica dell’1%.
Se si ripete la stima, considerando lo Z-score in sostituzione del ROE, dalla diversa
composizione delle variabili di controllo, si ottengono i risultati riportati nella
Tabella 16.
114
Tabella 16 – Risultati: indice “Gov-shareholders” e Z-score
Gov-shareholders
Mutual
Y06
Y07
Y08
Y09
Modello (1)
7,72
(0,411)
-42,71
(0,211)
-10,08
(0,202)
-0,86
(0,814)
-1,75
(0,796)
-5,97
(0,463)
Parti correlate
Rating
N. meeting
Outsider ratio
Rem_on_assets
Rl/rg
Rg/mit
Mit/mi
Mi/ta
Ta/pn
Loans to asset
Ln_assets
Tier 1 ratio
Loan_loss
Impaired loans
Total capital ratio
Intercetta
Numero osservazioni
R-squared
Adj. R-squared
F-test
Modello (2)
-1,72
(0,332)
-15,04
(0,002)
-6,53
(0,071)
-8,30
(0,026)
-8,15
(0,025)
-3,70
(0,410)
12,03
(0,358)
5,40
(0,442)
10,49
(0,005)
0,30
(0,986)
1,29
(0,096)
Modello (3)
-4,77
(0,173)
-18,19
(0,079)
-6,79
(0,226)
-4,30
(0,282)
0,48
(0,940)
11,92
(0,513)
20,79
(0,510)
10,736
(0,103)
13,54
(0,084)
9,00
(0,440)
2,41
(0,117)
-4,01
(0,855)
-0,22
(0,511)
Modello (4)
-3,55
(0,090)
-18,40
(0,002)
-5,13
(0,106)
-4,89
(0,129)
-2,17
(0,598)
2,94
(0,554)
7,02
(0,112)
10,30
(0,065)
10,65
(0,010)
10,79
(0,226)
1,83
(0,054)
9,92
(0,565)
0,006
(0,947)
4,01
(0,582)
-168,99
(0,793)
-1,81
(0,109)
0,23
(0,559)
-13,57
(0,535)
-1,77
(0,555)
0,09
(0,290)
0,05
(0,960)
3,58
(0,324)
422,23
(0,250)
-2,89
(0,016)
-0,65
(0,167)
13,06
(0,142)
-3,66
(0,001)
-1,63
(0,284)
-3,74
(0,000)
-0,86
(0,077)
-0,07
(0,145)
-1,31
(0,049)
0,94
(0,305)
-120,50
(0,419)
-0,13
(0,460)
-2,99
(0,265)
-0,058
(0,120)
-1,79
(0,060)
172,40
(0,060)
134,93
(0,002)
98
0,9999
0,9998
0,79
37
0,9990
0,9942
146,90
37
0,9986
0,9897
22,66
37
0,9985
0,9921
58,00
-0,079
(0,386)
Note: la tabella riporta quattro diverse stime della relazione tra il “Gov-shareholders” e il ROE. Le stime variano
in base ai regressori inclusi. “Mutual” è una variabile dummy uguale ad 1 se la banca è costituita sotto forma di
cooperativa e 0 se è una spa; Y06-Y09 sono le dummy temporali per gli anni 2006-2009; “Parti_correlate” è una
variabile binaria pari a 1 se la banca prevede procedure interne per le operazioni con parti correlate; “rating” è un
dummy uguale a 1 se la banca ha un giudizio di rating; “N. meeting” è una variabile binaria pari a 1 se il numero
di riunioni annue del CdA è superiore al numero medio di settore; “outsider_ratio” è un dummy uguale ad 1 se
l’outsider ratio della singola banca è superiore alla media di settore; Rl/rg indica il rapporto tra reddito lordo e di
gestione; Rg/mit è il reddito di gestione sul margine di intermediazione; Mit/mi equivale al margine di
intermediazione sul margine d’interesse; Mi/ta misura il rapporto margine d’interesse su totale attivo; Ta/pn è
pari al totale attivo sul patrimonio netto; “loans to assets” è il rapporto tra i crediti verso la clientela e il totale
attivo; “ln_assets” è il logaritmo dell’attivo; “Tier 1 ratio” è il rapporto tra patrimonio di base e valore delle
attività ponderate per il rischio; “loan_loss” è il rapporto tra accantonamento per rischi su crediti e margine
d’interesse; “impaired loans” è la frazione di crediti deteriorati sul totale crediti; “Total capital ratio” è il rapporto
tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate per il rischio. Per tutte le regressioni i corrispondenti p-value sono
riportati in parentesi.
115
Nella prima regressione, non sono state inserite le variabili che controllano per gli
altri meccanismi di corporate governance: l’indice “Gov-shareholders” presenta
segno positivo ma è comunque non statisticamente significativo.
Le successive stime, invece, sono caratterizzate propria dalla presenza dei regressori
che controllano per gli altri aspetti di governo societario: già nella seconda l’indice
riacquista il segno negativo e nella quarta stima raggiunge una significatività
statistica del 10%.
Per quanto riguarda la variabile binaria “mutual” si riconferma, anche questa volta,
l’esistenza di una relazione negativa rispetto al livello di rischiosità con un’elevata
significatività statistica, soprattutto nelle seconda e nella quarta stima.
Con riferimento all’ultima stima presentata in Tabella 16, tra le variabili che
controllano per gli altri elementi di corporate governance, risultano avere un effetto
positivo e statisticamente significativo in termini di riduzione della rischiosità
bancaria: la presenza di un giudizio di rating, il numero di riunioni annue del
Consiglio di Amministrazione e il rapporto tra la remunerazione riconosciuta agli
amministratori e il totale delle attività.
Viceversa, con una buona significatività statistica, esercitano un impatto negativo
sulla misura Z-score, incrementando quindi il livello di rischio cui la banca si
espone: la misura di leverage “ta/pn”, il rapporto “loans to assets” e quello “impaired
loans to gross loans”. Non stupisce certo che un aumento nell’indebitamento, nel
livello di immobilizzazione dell’attivo e di rischiosità dei prestiti concessi sia legato
ad un aumento della rischiosità complessiva di una banca.
In generale, comunque, le stime effettuate sembrano risentire, almeno in parte, di una
qualche forma di distorsione.
Già la letteratura in materia, ha spesso evidenziato diverse fonti di endogeneità tra le
variabili considerate nei modelli analizzati.
È poi da sottolineare anche l’ambiguità dell’effetto prodotto da alcuni fattori di
corporate governance utilizzati nella costruzione degli indici qui elaborati.
Circa, ad esempio, il numero di amministratori del CdA, nel presente modello, si è
ipotizzato che tanto più piccolo è il Consiglio di Amministrazione, tanto maggiore è
116
la qualità della corporate governance con un conseguente effetto positivo in termini
di performance.
In effetti, però, esistono diversi studi48 nei quali si sostiene che Consigli di
Amministrazione numerosi possono offrire il vantaggio di mettere a disposizione
dell’impresa considerata un “pool” di esperti e, più in generale, un insieme di risorse
umane più ricco e completo, tale da influire positivamente sulle scelte aziendali e,
quindi, sui risultati di performance complessivi.
La presenza di almeno un azionista di maggioranza è ritenuto un elemento
peggiorativo della qualità della corporate governance in quanto fonte di ulteriori
conflitti di interessi tra la maggioranza e la minoranza (La Porta et al., 1998). Si è
perciò ipotizzato che eserciti un effetto negativo in termini di performance
complessiva. In alcune delle stime effettuate, però, la presenza di almeno un socio
che detenga una partecipazione superiore al 10%, pare influenzare positivamente il
ROE. I risultati ottenuti possono essere spiegati alla luce di uno studio condotto da
Laevin e Levine (2009). I due autori, infatti, hanno dimostrato che la presenza di
azionisti di maggioranza incrementa l’esposizione al rischio delle banche. Se i
managers, nel tentativo di tutelare la loro posizione, sono spesso restii all’assunzione
di rischi elevati, gli azionisti, con una maggiore capacità di diversificazione degli
investimenti, preferiscono intraprendere progetti più rischiosi e più remunerativi. In
presenza di azionisti di maggioranza, in grado di influenzare le decisioni di nomina e
revoca degli amministratori, i managers devono assecondarne le esigenze: la banca
finisce, così, con l’essere caratterizzata da una maggiore esposizione al rischio.
Proprio la maggiore esposizione al rischio, però, può spiegare la più alta redditività.
Per quanto riguarda, ancora, l’impatto dell’outsider ratio, Adams e Mehran (2005)
non hanno trovato una relazione significativa con la performance aziendale (la
misura utilizzata dai due autori, però, è stata la Q di Tobin).
Al di là dell’eventuale endogeneità, la distorsione delle stime può anche essere legata
ad un problema di causalità in quanto la relazione tra performance e corporate
governance potrebbe essere bidirezionale invece che unidirezionale (Lehn et al.
48
Si legga al riguardo: Dalton D., Daily C., Johnson J., Ellstrand A., Number of directors and
financial performance: a meta-analysis, Academy of management Journal, 1999.
117
2006). In alcune circostanze, infatti, potrebbe essere la performance aziendale a
determinare alcune scelte di governance e non viceversa.
D’altronde, i recenti scandali societari dell’ultimo decennio hanno mostrato che
meccanismi di governance inefficaci comportano una distruzione di valore per
azionisti e tutti gli stakeholders, mentre non è sufficiente che si abbia una buona
governance per garantire risultati significativamente positivi sul lungo termine.
Uno dei casi ipotizzati a dimostrazione della relazione bidirezionale tra performance
e corporate governance riguarda la presenza degli amministratori indipendenti nel
CdA. Le imprese, infatti, sembrerebbero più propense ad aumentare il numero degli
outside directors successivamente a delle performance aziendali insoddisfacenti
(Denis, 2001). Ciò, quindi, potrebbe erroneamente condurre a pensare che esista una
relazione negativa tra la performance aziendale e la presenza di amministratori
indipendenti.
Anche il numero di riunioni annue effettuate dal Consiglio di Amministrazione è una
variabile di corporate governance abbastanza discussa: esistono studi 49 in cui si è
dimostrata una correlazione negativa tra il numero di meeting del board e le misure
di performance.
Altre ricerche, come quella di Demsetz e Lehn (1985), individuano un problema di
endogeneità tra le variabili relative alla struttura proprietaria e quelle indicative della
performance aziendale.
L’adozione dei codici di autoregolamentazione è un elemento che, a rigor di logica,
dovrebbe produrre effetti positivi in termini di miglioramento della qualità
complessiva della corporate governance e, quindi, della performance. Tuttavia, per le
banche italiane, l’adozione dei codici di autoregolamentazione è una scelta
relativamente recente. È ragionevole pensare che gli eventuali effetti positivi
collegati alle forme di autoregolamentazione si producano in un arco di tempo
medio-lungo. Da questo punto di vista, potrebbe essere utile anche ampliare il
periodo di osservazione per la raccolta dei dati.
49
Vedi Vafeas N., Board meeting frequency and firm performance, Journal of Financial Economics,
1999
118
In fine, la variabile “mutual” in alcune stime esercita un effetto positivo sulle misure
di performance, in altre presenta segno negativo.
Valutati complessivamente i risultati ottenuti dall’indagine econometria realizzata in
questo lavoro, nonostante gli evidenti problemi di distorsione delle stime, portano
comunque a concludere che esiste una relazione positiva tra corporate governance e
performance aziendale.
In base ai risultati ottenuti nelle diverse stime effettuate, possiamo affermare che
l’indice di corporate governance che esercita una maggiore influenza su entrambe le
misure di performance considerate è il “Gov-shareholders Index”.
Sembrerebbe, quindi, che i fattori di governo societario che incidono maggiormente
sulla performance complessiva delle banche sono quelli relativi alla struttura
proprietaria e all’esercizio dei diritti di voto.
119
3.7 CONSIDERAZIONI SU CORPORATE GOVERNANCE E CRISI
“The correct system of corporate governance can be graphically compared with the
relationship of a patient with his doctor”, said a leading German finance director in
1994. “As long as there are no acute pains there is no reason to see the doctor. At
best one might think about talking over preventative measures 50 .”
La grave crisi finanziaria iniziata sul finire del 2007 e che, dagli Stati Uniti, si è
presto estesa a livello internazionale, ha rappresentato il “malore” che, recentemente,
ha ulteriormente spinto diversi studiosi a focalizzare la propria attenzione sul tema
della corporate governance.
La corporate governance, infatti, viene considerata, da alcuni, la vera causa della
crisi, da altri, una delle possibile cure.
Molti hanno sostenuto che la recente crisi finanziaria abbia fatto emergere la fragilità
dei sistemi bancari a livello mondiale proprio rispetto agli assetti di governo
societario (Brogi, 2009).
Il Governatore della Banca d’Italia, nel pieno della crisi, è velocemente passato
dall’auspicare un sistema con regole diverse e più efficaci (Draghi, 2008/1), a un
sistema con più regole (Draghi, 2008/2).
Il sistema bancario è già di per sé caratterizzato da una forte regolamentazione.
Certamente l’efficacia del sistema di regole deve essere misurata non solo in termini
di capacità di determinare una condotta uniforme delle banche a livello
internazionale, ma anche in base alla capacità di disciplinare una serie di elementi
suscettibili di creare importanti benefici nel medio - lungo periodo: una chiara
distinzione nelle competenze da attribuire ai diversi organi societari, la centralità
dell’assemblea degli azionisti, la corretta gestione dei sistemi di remunerazione dei
managers, il ruolo delle informazioni, la presenza di amministratori indipendenti ne
sono solo alcuni esempi.
Si tratta evidentemente di meccanismi di corporate governance fondamentali per il
corretto andamento della vita aziendale.
50
Price Waterhouse in Europe, Converging Cultures Trends in European Corporate Governance
(1997), p. 9.
120
La crisi finanziaria globale pare, allora, essere stata connotata proprio
dall’inadeguatezza del governo societario: per un completo superamento della crisi è
evidente l’esigenza di adottare nuovi modelli che garantiscano la sostenibilità dei
risultati economici nel lungo termine e non dei profitti di breve termine con elevati
rischi.
Anche Masera (2009) si è recentemente chiesto se, alla luce degli accadimenti del
2007-2008, i modelli di governance delle banche si siano rivelati inefficaci. La
risposta che fornisce si articola su due fronti. Con riferimento alle grandi banche (e
alla banche di investimento) internazionali e ai modelli monistici anglosassoni, la
conclusioni derivante dalla crisi finanziaria è inequivocabilmente negativa. Con
riguardo all’Italia, invece, Masera (2009) sostiene che la forza intrinseca del modello
tradizionale, fondato su un’opportuna separatezza tra la funzione di gestione e quella
di controllo, la presenza di banche ancorate al territorio, la stabilità dell’azionariato,
la qualità e l’esperienza della sorveglianza affidata alla Vigilanza della Banca
d’Italia, per quanto possibile, hanno concorso a porre al riparo il nostro sistema
finanziario dalla crisi globale.
L’analisi della crisi, delle sue cause e del suo legame con i meccanismi di governo
societario, tuttavia, non è univoca.
Esistono recenti studi che hanno indagato la relazione esistente tra corporate
governance e performance proprio negli anni della crisi finanziaria.
Erkens et al. (2010), analizzando i dati di 296 società finanziarie di 30 diversi Paesi
colpiti dalla crisi, hanno dimostrato che le imprese con una migliore qualità della
corporate governance, durante la crisi finanziaria, hanno presentato peggiori risultati
in termini di stock returns.
Anche Beltratti e Stulz (2010) hanno cercato di indagare l’effetto che la struttura
proprietaria ha avuto in termini di stock return durante la crisi.
Se è vero che una good corporate governance influenza positivamente la
performance, i risultati ottenuti avrebbero dovuto dimostrare che le banche con un
migliore governo societario avevano meglio affrontato gli anni della crisi, limitando
le perdite.
In realtà, dal loro studio, non emerge una tale evidenza: le banche che prima della
crisi avevano una corporate governance di migliore qualità, proprio durante gli anni
121
della crisi, non hanno performato meglio delle banche con condizioni di governo
societario pre-crisi peggiori.
Con riguardo al presente lavoro, può essere interessante indagare l’esistenza di un
eventuale cambiamento dell’incidenza degli indici di corporate governance sulle
misure di performance dal periodo pre-crisi a quello in cui la crisi ha raggiunto il suo
picco massimo.
Una tale indagine necessita una segmentazione del campione dei dati in due gruppi:
il primo composto dalle osservazioni relative al periodo dal 2005 al 2007, il secondo
relativo agli anni 2008 e 2009.
Le stime così ottenute, tuttavia, indipendentemente dalle variabili di controllo
inserite nel modello, non hanno condotto a risultati statisticamente significativi.
Si ritiene che il risultato insoddisfacente sia prevalentemente dovuto all’esigua
numerosità campionaria. A seguito della segmentazione, infatti, si finisce con lo
stimare delle regressioni utilizzando campioni composti da un numero di
osservazioni sensibilmente inferiori a 100. Affinché possano valere la legge dei
grandi numeri e il teorema del limite centrale 51 , invece, è necessario disporre di un
numero di osservazioni campionarie almeno pari a cento.
Indipendentemente dalle diverse conclusioni a cui i vari ricercatori in materia sono
giunti, emerge un elemento abbastanza chiaro: la gestione operativa e il controllo dei
rischi, soprattutto nelle banche di maggiori dimensioni, nel corso della crisi e negli
anni immediatamente precedenti, hanno costituito il punto debole del sistema
bancario.
Le banche e le autorità che avevano contribuito a sviluppare nuovi e sofisticati
modelli di analisi, gestione e controllo dei rischi complessivi, paradossalmente,
hanno mostrato debolezze e carenze proprio nell’assunzione dei rischi.
51
La legge dei grandi numeri stabilisce che la media campionaria approssima con probabilità molto
alta la media della popolazione quando il numero n delle osservazioni campionarie è grande. Questa
proprietà è detta di convergenza in probabilità o, più concisamente, consistenza.
Il teorema del limite centrale, invece, afferma che la distribuzione campionaria è ben approssimata da
una distribuzione normale quando il numero n di osservazioni campionarie è grande.
122
I meccanismi di corporate governance, con la loro intrinseca capacità di limitare i
conflitti di interesse, rivestono necessariamente un ruolo fondamentale nella vita
aziendale e, conseguentemente, nella gestione dei rischi stessi.
Politiche
macroeconomiche
poco
attente
ai
rischi
dei
prodotti
derivati,
l’insostenibilità dei mutui cartolarizzati, l’inadeguatezza nell’analisi dei rischi e della
valutazione di ABS e CDO, la prociclicità degli standard dei capitali sono cause che
insieme alla parziale inadeguatezza della corporate governance hanno generato la
recente crisi finanziaria (Masera, 2009).
È perciò lecito pensare che una sempre maggiore attenzione per un buon governo
societario possa aiutare a curare gli effetti della crisi e a prevenirne altre.
123
CONCLUSIONI
Oggetto di studio nell’ambito di questa tesi è stata la corporate governance nel
settore bancario. L’obiettivo dell’analisi empirica condotta è stato quello di verificare
l’esistenza di una relazione tra la corporate governance e la performance delle
banche quotate italiane.
Con l’espressione corporate governance si vuole indicare l’insieme di strumenti,
metodi, regole e assetti organizzativi sulla base dei quali l’impresa monitora e
governa il complesso delle relazioni che si instaurano tra i diversi stakeholders al fine
di superare i potenziali problemi associati alla separazione della proprietà dal
controllo (Masera, 2006).
Nonostante la letteratura in merito sia particolarmente ampia, è stato possibile
ricondurre la governance societaria ai tre meccanismi fondamentali individuati da
Jensen (1993): quelli legali, interni ed esterni. Per meccanismi legali si intende
l’impianto legislativo vigente in un determinato Paese con il relativo sistema di leggi
e regole che presidiano al governo societario. I meccanismi interni sono
prevalentemente individuati dagli elementi attinenti la composizione ed il
funzionamento del Consiglio di Amministrazione (o comunque dell’organo preposto
alla gestione dell’impresa), i piani di remunerazione dei managers, la struttura
proprietaria e la compagine societaria, il livello di indebitamento. I meccanismi
esterni, infine, fanno riferimento all’effetto disciplinante del mercato e in particolare
agli strumenti di difesa dai takeovers ostili.
Un primo filone di studi sulla corporate governance si è prevalentemente concentrato
sui meccanismi di controllo interni ed esterni (Kaplan e Minton, 1994; Hermalin e
Weisbach, 2003; Jensen, 1988; franks e Mayer, 1996). Altre ricerche, invece, hanno
riconosciuto anche l’importanza degli aspetti legali e regolamentari nonché della
tendenza ad una sempre più forte convergenza dei modelli societari internazionali
(La Porta et al., 2002; Zingales, 1994).
La considerazione di fondo dalla quale non si può assolutamente prescindere è che,
comunque, non tutte le imprese hanno o necessitano di un medesimo assetto
istituzionale o di uno stesso modello di governo societario. Le caratteristiche
intrinseche di ciascuna impresa, assieme ai condizionamenti esterni, rappresentano
124
elementi fondamentali in base ai quali definire l’assetto di governo ottimale per
ciascuna entità.
È impensabile poter definire delle regole e delle procedure che identifichino in modo
univoco la good corporate governance. Quelli che infatti possono considerasi
meccanismi di governo societario di buona qualità per una determinata tipologia di
impresa, non necessariamente devono valere per imprese differenti in settore o
contesto di operatività.
Le banche possono essere considerate una tipologia d’impresa diversa dalle altre,
non solo per l’attività svolta ma anche e soprattutto per la capacità di influenzare
notevolmente il sistema economico. Se la good governance, allora, è importante per
le imprese non finanziarie, tanto più lo sarà, evidentemente, per le banche.
Con riguardo alla corporate governance delle banche, gli studi di Caprio e Levine
(2002) hanno permesso di individuare alcune specificità proprie di questi
intermediari finanziari. Le banche sono più opache di altre imprese, sono soggette ad
una stringente regolamentazione, riescono ad influenzare, anche significativamente,
il governo societario delle imprese clienti. Tutte queste peculiarità richiedono,
quindi,
un’attenzione
particolare
nella gestione
dei
conflitti
aziendali
e
nell’implementazione di idonei meccanismi di corporate governance.
Con specifico riferimento all’Italia, il legislatore nazionale, negli ultimi anni, si è
dedicato a rinnovare la disciplina bancaria: la foresta pietrificata del sistema
bancario italiano, a partire dagli anni Novanta, si è gradualmente trasformata in un
nuovo sistema più competitivo e moderno. Successivamente alla riforma del diritto
societario del 2003, anche per le banche è stato possibile scegliere tra diversi modelli
societari e, quindi, tra differenti assetti di corporate governance. La Banca d’Italia,
con le sue Disposizioni di Vigilanza, è sempre attenta ad elaborare e stabilire regole
che garantiscano la qualità dei governi societari.
Sotto l’effetto di tutti questi fattori, insomma, il sistema bancario italiano ha
conosciuto un’intensa evoluzione che certamente proseguirà nel tempo: è perciò
quanto mai importante identificare quegli elementi di corporate governance che più
di altri influenzano la vita d’impresa.
L’analisi empirica condotta ha avuto come obiettivo ricercare l’esistenza di una
relazione positiva tra la qualità della corporate governance e alcune misure di
125
performance delle banche quotate italiane osservate in un periodo di tempo compreso
tra il 2005 e il 2009.
La qualità della corporate governance è stata misurata tramite la costruzione di tre
indici originali di governo societario: il Gov-firm specific Index che comprende
alcuni elementi caratterizzanti gli assetti generali della corporate governance delle
banche, come l’adozione di codici di autoregolamentazione o la presenza di un
giudizio di rating; il Gov-board Index che riassume cinque elementi di governance
attinenti la composizione, l’organizzazione e il funzionamento del Consiglio di
Amministrazione e il Gov-shareholders Index che si riferisce alla struttura
proprietaria e azionaria delle banche inserite nel campione.
Le misure di performance, invece, scelte come variabili dipendenti sono state: il
ROE, indicatore immediato di redditività/profittabilità, e lo Z-score come misura del
grado di rischiosità cui le banche considerate si sono esposte.
Selezionate le opportune variabili di controllo, sono state quindi effettuate le apposite
regressioni con il metodo dei minimi quadrati ordinari (OLS).
I risultati ottenuti hanno attestato una buona significatività statistica rispetto ad
entrambe le misure di performance per il “Gov-shareholders Index”: pare trovare
conferma la teoria di La Porta et al. (1998) che identificano nella struttura
proprietaria e nell’esercizio del diritto di voto i meccanismi di corporate governance
più importanti.
Di contro, il “Gov-board Index” e il “Gov-firm specific Index” sono risultati
statisticamente significativi (rispettivamente al 5% e al 2,1%) solo se regrediti
rispetto al ROE.
In generale, si ritiene che le stime effettuate abbiano risentito di alcune forme di
distorsione, peraltro presenti in molti altri studi in materia e nei confronti delle quali
non è stata ancora trovata una soluzione definitiva.
Pare evidente, insomma, che non si possa negare l’esistenza di una relazione tra i
meccanismi di corporate governance e i risultati dell’impresa sia in termini di
performance complessiva che di produzione di valore per il mercato.
La composizione, le strutture, gli obiettivi e i meccanismi di governo societario
possono essere mutevoli e devono sempre essere considerati in chiave dinamica, sia
126
per effetto delle modifiche nel contesto competitivo, sia per effetto delle evoluzioni
dell’impresa stessa.
Se è possibile riconoscere che alcuni meccanismi di corporate governance sono in
grado di assicurare una migliore qualità del governo societario rispetto ad altri, non è
però possibile stabilire aprioristicamente degli assetti di corporate governance che
siano sempre validi, né per le banche né per qualsiasi altra tipologia di impresa.
D’altronde la recente crisi finanziaria ha dimostrato che, nonostante il tema della
corporate governance rivesta da tempo un ruolo centrale nel dibattito economico,
restano numerosi i casi in cui ci si trova dinanzi al fallimento della governance delle
imprese, pur di fronte ad una proliferazione di codici e di “best practices”
internazionali condivisi e largamente applicati.
Il presente lavoro, insomma, ha cercato di dimostrare l’esistenza di una relazione tra
corporate governance e performance nel sistema bancario italiano per identificare
quei meccanismi che, meglio di altri, possono garantire un buon livello di governo
societario per le banche del nostro Paese.
Restano però tanti interrogativi e problemi aperti: come superare i problemi di
endogeneità, verificare l’esistenza di una relazione che può essere bidirezionale e
non unidirezionale, valutare la relazione con riferimento anche alle banche di minori
dimensioni.
127
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