Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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Nota a sentenza Consiglio di Stato, sez. IV, 16 febbraio 2011, n. 1015
a cura di Francesco Verdemare
Con la decisione del 16 febbraio 2011, n. 1015, il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (sez.
IV), è tornato sul tema, tanto dibattuto quanto intricato, della configurabilità, in capo alla Pubblica
Amministrazione, di un obbligo di motivazione delle «varianti» al Piano regolatore generale.
È opportuno, in via preliminare, rammentare la nozione di «Piano regolatore generale» e le
principali questioni ermeneutiche che si sono agitate intorno ad essa.
Il Piano regolatore generale è l’instrumentum, di natura sia precettiva che programmatica, attraverso
cui l’Ente locale provvede alla organizzazione ed alla disciplina urbanistica del proprio territorio.
Le prescrizioni racchiuse nel Piano regolatore generale sono di due species: alcune riguardano la
suddivisione del territorio comunale in aree omogenee, con la previsione delle zone destinate alla
espansione urbanistica e la determinazione dei vincoli da osservare in ciascuna zona (c.d.
zonizzazione); altre concernono l’individuazione delle aree da destinare all’edilizia pubblica e
privata, nonché ad opere ed impianti di interesse culturale, politico o sociale (c.d. localizzazione).
Il procedimento di formazione del Piano regolatore generale si compone di due fasi: la prima, di
competenza comunale, si conclude con l’adozione del piano; la seconda, di competenza regionale,
si definisce con l’approvazione del piano (approvazione in funzione di controllo). Questo articolato
procedimento di formazione ha dato la stura a vivaci disquisizioni in ordine alla c.d. natura
intrinseca del Piano regolatore generale: secondo un primo orientamento, oggi minoritario, si tratta
di un atto semplice, distinto in due fasi procedimentali di spettanza di due autorità diverse; secondo
altro orientamento, prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, si tratta di un atto complesso, in
quanto alla sua formazione prendono parte due enti distinti. La giurisprudenza è solita affermare
che si tratta di un «atto complesso ineguale», poiché alla sua perfezione concorrono due soggetti
pubblici (il Comune e la Regione) a ciascuno dei quali è riconducibile una volontà tipizzata
(rispettivamente adozione ed approvazione) e produttiva di effetti giuridici, rispettivamente
autonomi e differenziati (Cons. Stato, Ad. Plen., 9 marzo 1983, n. 1).
È sorto un intenso dibattito interpretativo in relazione alla natura giuridica del Piano regolatore
generale. Un primo indirizzo, muovendo dalla funzione di organizzazione e pianificazione del
territorio comunale, caratterizzata da previsioni generali ed astratte che si concretano soltanto al
momento dell’adozione dei piani attuativi, ritiene che il Piano regolatore generale abbia natura
regolamentare e, quindi, normativa. Un altro indirizzo, invece, sostiene che esso ha natura di atto
amministrativo generale in base ad una duplice argomentazione: da un lato, si afferma che il P.R.G.
contiene prescrizioni e vincoli immediatamente efficaci, e potenzialmente lesivi, come i vincoli di
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inedificabilità ed i vincoli preordinati all’esproprio; dall’altro, si nota come, a differenza degli atti
regolamentari, il P.R.G. indica chiaramente i destinatari, giacché le prescrizioni in esso racchiuse
riguardano beni immobili ben determinati o determinabili e, di conseguenza, i titolari di diritti reali
su tali beni. L’orientamento dominante propende, tuttavia, per una tesi intermedia, secondo la quale
il P.R.G. rientra nel genus degli atti c.d. misti, contenenti sia previsioni di carattere programmatico,
aventi natura normativa, sia previsioni di contenuto precettivo, cui, invece, va riconosciuta natura
provvedimentale.
Per quanto concerne, in particolare, il tema oggetto della decisione in epigrafe, occorre ricordare
che l’art. 13, primo comma, della legge n. 241 del 1990 recita testualmente: «Le disposizioni
contenute nel presente capo» (si tratta del capo III, intitolato: “Partecipazione al procedimento
amministrativo”) «non si applicano nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta
alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione».
Or dunque, la pronuncia in commento si pone all’interno di un consolidato filone giurisprudenziale,
secondo il quale le scelte compiute dalla Pubblica Amministrazione in sede di formazione ed
approvazione dello strumento urbanistico generale sono connotate da un’amplissima valutazione
discrezionale e, in quanto tali, insindacabili nel merito, salvo che per errori di fatto, abnormità,
irrazionalità o manifesta irragionevolezza (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 6 febbraio 2002, n.
664; Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2010, n. 4920).
Come rilevato da autorevole dottrina, i delineati caratteri delle scelte urbanistiche effettuate
dall’Amministrazione comunale escludono l’obbligo di una specifica motivazione che tenga conto,
anche solo eventualmente, delle aspirazioni dei cittadini.
La giurisprudenza del Supremo Consesso Amministrativo ha, quindi, precisato che, in occasione
della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’Amministrazione, riguardanti la destinazione di singole aree, non necessitano di specifica motivazione, essendo
sufficiente quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico-discrezionale – seguiti
nella predisposizione del Piano. Inoltre, non è richiesta una particolare motivazione in sede di
esame delle osservazioni dei privati, le quali non si configurano come rimedi giuridici a tutela degli
interessati, ma sono dirette a consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso dal
provvedimento amministrativo venga attentamente considerato.
Venendo adesso alla complessa tematica delle «varianti» al Piano regolatore generale, è necessario,
anzitutto, soffermarsi brevemente sulla natura giuridica di tali modificazioni allo strumento
urbanistico.
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Secondo una prima tesi, maggioritaria in dottrina, si tratta di atti amministrativi; secondo altra tesi,
piuttosto risalente, si tratta di atti normativi; infine, un’impostazione più recente ne asserisce la
natura mista.
Il tradizionale insegnamento dottrinale mette in rilievo la distinzione, in ossequio alla diversità di
funzione ed estensione, tra varianti normative, varianti specifiche e varianti generali.
Le varianti normative hanno ad oggetto soltanto le norme di attuazione del Piano regolatore
generale, non anche le planimetrie e, quindi, l’assetto urbanistico del territorio.
La differenza tra varianti specifiche e varianti generali si fonda non già su un criterio funzionale,
bensì su un criterio spaziale di delimitazione del potere di pianificazione urbanistica concretamente
esercitato dall’Amministrazione: invero, le varianti specifiche interessano esclusivamente una parte
del territorio comunale; le varianti generali, invece, si sostanziano in una nuova disciplina generale
dell’assetto del territorio, resasi necessaria in ragione della indeterminata efficacia temporale del
Piano regolatore generale, il quale deve essere sottoposto a revisioni periodiche.
La diversa delimitazione spaziale del potere di pianificazione urbanistica dell’Amministrazione
comunale si riverbera non solo sull’obbligo di motivazione, ma anche sul sindacato di legittimità
spettante al giudice amministrativo.
La giurisprudenza pressoché unanime, e la decisione in esame si colloca in questo solco, afferma,
infatti, che le scelte adottate con riferimento alla destinazione delle aree interessate dalla variante
generale non richiedono una specifica motivazione, se non nel caso che la scelta vada ad incidere
negativamente su posizioni giuridiche differenziate, quali quelle derivanti dagli impegni già assunti
con la stipula di una convenzione di lottizzazione ovvero di accordi di diritto privato intercorsi tra il
Comune ed i proprietari delle singole aree (cfr. ex multis Cons. Stato sez. IV, 13 luglio 1993, n.
711); dal giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia (cfr. Cons. Stato, Ad.
Plen., 8 gennaio 1986, n. 1); dal superamento degli standards minimi di cui al D.M. 2 aprile 1968
(cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24).
È d’obbligo far menzione di una ulteriore ipotesi in cui la motivazione è stata ritenuta necessaria,
ossia quella in cui un vincolo preordinato all’espropriazione o comportante inedificabilità assoluta
sia decaduto per il decorso del termine quinquennale di cui all’art. 9, secondo comma, del D.P.R. 8
giugno 2001, n. 327 (Testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), e l’Amministrazione intenda reiterarlo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 maggio 1990, n. 330; si veda altresì Corte cost.
22 dicembre 1989, n. 575). La predetta motivazione è stata, peraltro, individuata dalla più recente
giurisprudenza nei criteri di carattere tecnico-discrezionale stabiliti per la redazione del Piano, non
già in uno specifico apparato giustificativo (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24).
Non dà luogo, invece, ad una posizione giuridica qualificata del privato la mera aspettativa che la
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Pubblica Amministrazione non riformi in peius precedenti previsioni urbanistiche che consentono
una più proficua utilizzazione dell’area (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 maggio 2003, n. 2386), con la
conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una puntuale motivazione delle nuove
destinazioni urbanistiche.
Pertanto, la «polverizzazione» della motivazione – per usare una felice espressione invalsa in
giurisprudenza – è stata giudicata contrastante con la natura della variante generale, la quale non
esige altra motivazione che quella concernente l’indicazione dei criteri di ordine tecnicodiscrezionale fissati per l’adozione del Piano.
Ne deriva, allora, in linea generale, che la preesistente destinazione urbanistica non impedisce
l’introduzione di previsioni di segno diverso in virtù dell’esercizio di uno jus variandi pacificamente riconosciuto all’Amministrazione, senza che, perciò, possa configurarsi a carico dell’Ente
locale un obbligo di specifica motivazione in ordine alla variazione urbanistica dell’area, ben
potendo soccorrere al riguardo l’esposizione delle ragioni di carattere generale sottese alle scelte di
gestione del territorio comunale (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24).
È degno, infine, di essere segnalato un isolato arresto del Massimo Consesso Amministrativo che,
scostandosi leggermente dal tralaticio orientamento, secondo il quale l’adozione di una variante
generale non richiede un’apposita motivazione, ha affermato che occorre in ogni caso una
indicazione congrua delle diverse esigenze che con la variante si è inteso affrontare (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 3 luglio 2000, n. 3646).
Ove si tratti, al contrario, di varianti specifiche, aventi per oggetto – come già accennato – una
porzione limitata di territorio, la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di fornire all’interessato
una motivazione specifica ed analitica, poiché, in questo caso, ci si trova dinnanzi ad atti che
incidono su situazioni giuridiche differenziate e qualificate.
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