TRUMP E I CAMBIAMENTI CLIMATICI : IL RE E` NUDO
Transcript
TRUMP E I CAMBIAMENTI CLIMATICI : IL RE E` NUDO
TRUMP E I CAMBIAMENTI CLIMATICI : IL RE E’ NUDO Le informazioni più accurate e aggiornate sui cambiamenti climatici sono fornite da Agenzie governative degli USA, NASA e NOAA in particolare con dati e immagini che lasciano pochi margini di dubbio rispetto agli effetti diretti e indiretti dell’aumento della temperatura del pianeta, già ben misurabili nell’Artico e in Groenlandia, piuttosto che nel Plateu del Tibet dal quale hanno origine i fiumi che “dissetano” più di 2 miliardi di persone in Asia. See How Arctic Sea Ice Is Losing Its Bulwark Against Warming Summers NASA, Oct. 28, 2016 Gli USA sono la prima democrazia e la prima economia del pianeta, e non penso che il presidente Trump - indipendentemente dalle discutibili opinioni del candidato Trump sulla natura “politica” del cambiamento climatico - abbia intenzione di mettere in discussione i dati delle agenzie governative del suo paese. Invece dobbiamo aspettarci che il presidente Trump contesti gli effetti sull’economia USA degli accordi internazionali per la riduzione dell’uso dei combustibili fossili. Trump è diventato presidente anche perché ha intercettato la protesta e la domanda dei disoccupati prodotti apparentemente anche dalle recenti politiche ambientali ed energetiche del suo paese. Ma la posizione di Trump è la stessa già espressa dal Senato USA nel 2015, ed è molto simile alle motivazioni che nel 1999 – durante la presidenza Clinton - portarono al voto unanime contro la ratifica del Protocollo di Kyoto. E tutti sanno che se Obama avesse sottoposto l’accordo di Parigi al Senato, gli USA non lo avrebbero ratificato. Insomma Trump è più il bambino della favola di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore” (il re è nudo) che non il genio del male che fa saltare l’impegno globale sul clima. Perché Trump si concentra sugli effetti economici dell’accordo, lasciati ai margini come variabili ininfluenti o comunque di “competenza di altri”. Ricordiamo brevemente che l’attuazione dell’accordo di Parigi richiederebbe la riduzione nei prossimi 25 anni del consumo globale di combustibili fossili dall’86% al 50%. Concretamente il peso del carbone nel portafoglio energetico globale dovrebbe passare dall’attuale 30% al 12%, quello dell’olio combustibile dal 32% al 22%, quello del gas naturale dal 24% al 15%. Mentre nello stesso periodo, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, è previsto un aumento della domanda globale di energia del 35%, soprattutto in India, Cina, Sud est Asiatico, Sud America e Medio Oriente, ovvero in aree che non possono rinunciare all’energia per sostenere la propria crescita (per esempio in India 300 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità). Il puzzle è molto complicato. Trump pone un problema, che è anche dell’Europa : come si fa ad evitare che- nel “pacchetto” globale della riduzione dei combustibili fossili - l’aumento dei consumi energetici nelle economie emergenti e in via di sviluppo non abbia come contrappeso l’impoverimento delle economie più sviluppate ? Basta ricordare il confronto in corso negli USA, ma anche in Germania e in Europa, sul futuro dell’industria mineraria, energetica e di base , oppure analizzare le strategie e i programmi di investimento delle grandi compagnie petrolifere USA ed europee che non sono influenzate dall’accordo di Parigi, per capire che il “velo” dei buoni propositi sul clima copre problematiche economiche e geopolitiche non risolte. A Trump e all’Europa, d’altra parte, la Cina può ricordare che la sua economia con un PIL pro-capite inferiore di 5 volte a quello USA e di 3,5 volte a quello tedesco ha investito nel 2015 il doppio degli USA nelle tecnologie pulite (110 miliardi $ contro 56) ed ha raggiunto un “tasso di decarbonizzazione” del 4%, il doppio dei paesi G7. CHINA : DECOUPLING ENERGY DEMAND AND GDP La Cina può essere nello stesso tempo la locomotiva dell’economia mondiale e quella che paga il prezzo pro-capite più alto per la “decarbonizzazione” ? Senza dimenticare che la forte crescita dell’India, nonostante un ruolo significativo di energie rinnovabili e nucleare, sarà sostenuta nei prossimi 25 anni dal quadruplicamento dell’impiego del carbone. In che modo la crescita dell’India può condizionare – nel “pacchetto” globale della riduzione dei combustibili fossili - le economie di USA, Europa, Giappone ? Per non parlare dei programmi in corso nelle economie emergenti di Africa (da Mozambico a Costa d’Avorio, da Angola a Sudan) e del Sud Est Asiatico ( Malaysia e Indonesia), in Brasile e nei paesi in uscita da guerre e embargo (Iraq e Iran), per il pieno sfruttamento dei nuovi giacimenti di olio e gas. Come si collocano questi programmi nel “pacchetto” globale della riduzione dei combustibili fossili, ovvero quali possono essere gli effetti attesi sugli sviluppi delle attività estrattive al largo delle coste USA e messicane dell’Atlantico e del Pacifico, piuttosto che nel Mare del Nord o nel Mediterraneo ? A queste domande dovrebbero dare risposte gli impegni depositati dai singoli paesi che hanno ratificato l’accordo di Parigi (Intended Nationally Determined Contributions - INDCs). L’analisi di questi documenti mette in evidenza che i risultati attesi dalla attuazione degli INDCs prevedono nel 2040 un peso dei combustibili fossili pari al 70% dei consumi energetici globali, ben lontani dal 50% (Enerdata); gli investimenti in infrastrutture e tecnologie previsti dagli INDCs sono stimati attorno a 15.000 miliardi $, che salgono ad almeno 45.000 per raggiungere l’obiettivo del 50% (Agenzia Internazionale dell’Energia) Ovvero, nei prossimi 25 anni dovrebbero essere reindirizzati verso la “decarbonizzazione” investimenti compresi tra il 20% e il 60% di quelli previsti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia nei tradizionali settori di Oil&Gas (68.000 miliardi $) Avendo presente che, accanto agli investimenti per modificare la matrice energetica del pianeta emergono i costi per riparare e prevenire i danni dei cambiamenti climatici: la Banca Mondiale ha stimato che, sulla base dei dati già disponibili e delle previsioni possibili saranno necessari tra il 2020 e il 2050 da 70 a 100 miliardi all’anno nel caso migliore, ovvero qualora venisse raggiunto l’obiettivo dell’accordo di Parigi di contenere l’aumento della temperatura entro 2° entro la fine del secolo. Il Green Climate Fund, meccanismo tradizionale di assistenza allo sviluppo, non ha né la struttura né tantomeno la dotazione finanziaria per dare una risposta adeguata alle modalità e dimensioni degli investimenti necessari Quali dovrebbero essere le regole e i meccanismi finanziari globali in grado di garantire nello stesso tempo l’accesso agli investimenti necessari da parte dei paesi e delle imprese, e la concorrenza leale nel mercato mondiale dell’energia ? A questa domanda bisogna rispondere, non perché Trump è presidente ma perché altrimenti non sarà possibile dare attuazione all’accordo di Parigi. Forse è utile che i negoziatori che discutono l’attuazione dell’accordo di Parigi prendano atto che è urgente l’accordo per un’agenda sull’economia e la geopolitica dei cambiamenti climatici che va gestita al più alto livello dei governi, delle istituzioni finanziarie internazionali e delle grandi imprese multinazionali dell’energia e dell’industria. Questo è l’unico modo per affrontare l’intricato puzzle del cambiamento climatico, incluse le difficili e magari spiacevoli domande che emergono dagli USA Forse il primo punto all’ordine del giorno potrebbe essere l’introduzione di una carbon tax globale insieme all’eliminazione dei sussidi per I combustibili fossili. Queste misure sono sostenute pubblicamente dalle maggiori compagni petrolifere mondiali (Exxon Mobil in USA, BP, Shell, Total, ENI, STATOIL,BG, and lately ARAMCO), per evitare la concorrenza sleale nel mercato globale dell’energia e per “stimolare gli investimenti nelle “giuste” tecnologie a basso contenuto di carbonio”. Nelle ultime settimane ExxonMobil era impegnata in un’azione di lobby per convincere il congresso USA ad adottare la carbon tax. Negli USA una tassa di 50$/ton porterebbe entrate aggiuntive per almeno 300 miliardi$/anno impiegabili per sostenere investimenti e occupazione aggiuntive. Da parte sua la Cina sta introducendo una tassazione sul carbonio nelle produzioni di energia e in quelle industriali. Questo potrebbe essere il momento giusto per introdurre nel mercato globale dell’energia un chiaro e condiviso “prezzo del carbonio” : il primo passo per evitare distorsioni e assicurare una equa distribuzione dei benefici della decarbonizzazione dell’economia. Il dialogo è possibile Evitiamo di fare lo stesso errore quando il Presidente Bush nel 2001 e il Presidente Obama nel 2009 furono accusati del fallimento del Protocollo di Kyoto. Ma il Protocollo di Kyoto è fallito perché non vi fu spazio per il dialogo tra le diverse “visioni”, a cominciare da quelle espresse dal Senato USA fin dal 1999. Corrado Clini 15 novembre 2016