Lezione 13 - LA MACROANGIOPATIA DIABETICA
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Lezione 13 - LA MACROANGIOPATIA DIABETICA
Lezione 13 - LA MACROANGIOPATIA DIABETICA Dia 1 E’ necessario sottolineare la profonda differenza nella patogenesi delle complicanze microvascolari, quali la retinopatia, la nefropatia e la neuropatia, e quelle macrovascolari, quali la cardiopatia ischemica, la vasculopatia cerebrale e l’arteriopatia periferica, soprattutto a livello degli arti inferiori. A parte le dimensioni del calibro arterioso, sono soprattutto i fattori di rischio che differenziano queste 2 forme di complicanze. Infatti mentre la microangiopatia riconosce l’iperglicemia come quasi esclusivo fattore di rischio, per la macroangiopatia l’iperglicemia è solo uno dei fattori, essendo gli altri rappresentati prevalentemente dal fumo, dall’ipertensione arteriosa e dalle dislipidemie, e da altri meno documentati, oltre che da una predisposizione genetica. Il riflesso clinico di questo aspetto è che, mentre nel diabetico di tipo 1 è solo il livello glicemico l’unica preoccupazione del medico, almeno nei soggetti giovani e nei primi anni, nel diabetico di tipo 2 le preoccupazioni sono molto più numerose e vanno dalla lotta all’eccesso ponderale, alla ipertensione arteriosa, alla dislipidemia ed al fumo. Per tali motivi il trattamento del diabetico di tipo 2, a prima vista semplice e scarsamente impegnativo, è in realtà un vero problema per ottenere la compliance del paziente. Dia 2 L’altro aspetto che è necessario sottolineare è che il diabete mellito semplicemente aumenta la prevalenza e l’evoluzione aterosclerotica, la quale, a differenza delle complicanze microvascolari, spesso è già presente al momento della diagnosi di diabete. Gli studi epidemiologici attualmente a disposizione ci permettono di identificare la responsabilità del diabete come un fattore che aumenta la prevalenza delle lesioni macroangiopatiche di circa 3 volte. In altre parole un soggetto diabetico presenta un rischio circa triplicato di sviluppare lesioni arteriosclerotiche rispetto al soggetto non diabetico. Un aspetto clinico di enorme portata pratica è quello di considerare la malattia aterosclerotica una unica malattia e le diverse manifestazioni, a volte monodistrettuali, soltanto uno stadio evolutivo. La diagnosi clinica di una di esse, quindi, impone la ricerca di alterazioni nelle altre sedi con esami specifici. Dia 3 Per anni si è cercato di comprendere se con la macroangiopatia vi è la stessa relazione con il controllo glicemico esistente con la microangiopatia. In altre parole, se un buon controllo metabolico del diabete riesce ad ottenere una riduzione della progressione delle lesioni arteriosclerotiche. Studi di intervento degli anni ’80, (UGPD - University Group Diabetes Program) che miravano ad ottenere un buon controllo con diversi regimi terapeutici, non avevano fornito risultati confortanti. Studi retrospettivi, eseguiti successivamente riuscirono a dimostrare il beneficio del buon controllo metabolico sullo sviluppo delle complicanze macrovascolari. Dia 4 Si riporta nella figura l’esperienza di Kuusisto e coll., pubblicata nel 1994, sull’incidenza della cardiopatia ischemica, ottenuta su 1.298 finlandesi, di cui 229 erano diabetici di tipo 2. Come si può notare, la durata del diabete ha una certa importanza, ma non grande: infatti gli istogrammi rossi identificano i diabetici la cui durata del diabete è minore (a sinistra) o maggiore (a destra) di 6 anni dal momento della diagnosi. I due istogrammi rossi ci indicano, quindi, che la maggior durata di malattia aumenta la incidenza di cardiopatia ischemica. Ma non è tanto la durata del diabete quanto il controllo glicemico che influenza l’incidenza della cardiopatia ischemica: infatti gli istogrammi verdi che identificano i diabetici con glicoemoglobina >7%, indicano entrambe una incidenza nettamente superiore agli istogrammi rossi che identificano i diabetici con glicoemoglobina <7%, e questo indipendentemente dalla durata del diabete E’ evidente, quindi, che non è tanto la durata del diabete, che certamente ha il suo effetto, quanto il controllo del diabete a condizionare l’incidenza della cardiopatia ischemica. Si ricorda, a questo proposito, la grande difficoltà di ottenere un buon controllo glicemico nei diabetici di tipo 2, che presentano, nel 90% dei casi, sovrappeso o obesità, generale e associata spesso a obesità viscerale, per i quali l’unico trattamento fisiopatologicamente corretto è rappresentato dalla riduzione ponderale, e per le cui problematiche si rimanda al capitolo apposito. Dia 5 Un altro studio, pubblicato nel 1998, che dimostra molto efficacemente l’impatto del diabete sulla macroangiopatia, è rappresentato dalla misura del rischio di mortalità per cardiopatia ischemica in soggetti diabetici e non diabetici. Per comprendere bene lo studio è necessario ricordare che se un soggetto ha avuto un infarto il suo rischio di morire per un successivo infarto è molto maggiore di quello che avrebbe avuto se non avesse avuto l’infarto. Si dimostra con uno studio di follow-up di 7 anni su una popolazione finlandese composta da oltre 2000 soggetti (1.373 non diabetici e 1.059 diabetici), che la mortalità coronarica in soggetti con diabete di tipo 2, ma senza cardiopatia ischemica (20,2%) è non significativamente diversa di quella di soggetti non diabetici con cardiopatia ischemica (18,8%). In altre parole, il solo fatto di essere diabetici, anche se non si è avuto un infarto, aumenta il rischio di mortalità coronarica allo stesso livello dei soggetti non diabetici, ma che hanno già avuto un infarto. Questi risultati indicano che il diabetico presenta un rischio di mortalità per cardiopatia ischemica molto più elevato del soggetto non diabetico e che il trattamento dei fattori di rischio nei soggetti diabetici, con o senza cardiopatia ischemica, deve essere aggressivo alla stessa stregua del trattamento riservato ai cardiopatici ischemici non diabetici. Dia 6 Sempre nel 1998 furono pubblicati i risultati di un colossale studio di intervento, eseguito nel Regno Unito su 5.102 diabetici di tipo 2 all’esordio, iniziato nel 1977 e terminato dopo 20 anni, denominato UKPDS (United Kingdom Prospective Diabetes Study). Fu lo studio che definì in modo decisivo che anche nel diabete di tipo 2 il valore di glicoemoglobina giudicato accettabile è del 7%. Questo studio mise definitivamente in evidenza che il controllo glicemico, espresso dai valori di glicoemoglobina, è fondamentale per ridurre gli eventi cardio-vascolari. In questa prima diapositiva si vede chiaramente la netta relazione, altissimamente significativa, con un p di 1:10.000 (cioè una probabilità di sbagliare su 9.999 di essere nel giusto). Tale relazione ci indica che l’infarto è tanto più frequente quanto maggiore è stato il livello di glicoemoglobia durante gli oltre 10 anni di studio sui pazienti. Più dettagliatamente, per ogni 1% di riduzione della glicoemoglobina, si otteneva una riduzione del rischio di infarto del 14%. Dia 7 Analogamente, sempre nello stesso studio, anche il rischio dell’ictus cerebrale era in relazione ai livelli di glicoemoglobina, con una significatività statistica del 3,5% (3,5 di sbagliare e 97,5 di essere nel giusto). In dettaglio, per ogni 1% di riduzione della glicoemoglobina, si otteneva una riduzione del rischio di ictus cerebrale del 12% ed infine: Dia 8 Per quanto riguarda l’arteriopatia periferica, anche per il rischio di amputazioni per gangrene diabetiche era presente una significativa relazione fra livelli di glicoemoglobina e amputazioni. Anche qui era presente una elevatissima significatività statistica all’1: 10.000, come per l’infarto cardiaco, cioè una probabilità di sbagliare e 9.999 di essere nel giusto. In particolare, per ogni 1% di riduzione della glicoemoglobina, si otteneva una riduzione del rischio di amputazione del ben 43%! Dia 9 Un braccio dell’UKPDS, mostrato in questa figura, fu particolarmente interessante, perché si riferisce a soggetti, tutti con sovrappeso o obesità, trattati con metformina. I risultati furono molto favorevoli se paragonati agli altri trattamenti (sulfoniluree e insulina): infatti, la riduzione del rischio di complicanze (in particolare dell’infarto miocardio) fu molto maggiore sia per quanto riguarda tutti gli end-point in rapporto al diabete (1° rigo: rischio relativo=0,68, quindi riduzione del 32%, p=0,0023, contro un 12% dello studio globale), sia per il rischio di infarto (4° rigo: rischio relativo=0,61, quindi riduzione del 39% p=0,01, contro 16%, con significatività statistica appena presente - p=0,052 - dello studio globale). Risultarono inoltre significativi 2 altri parametri che, nello studio globale, non apparivano tali: al 2° rigo la riduzione del 42% (p=0,017) della mortalità per problemi connessi al diabete e al 3° rigo, la mortalità per tutte le cause del 36% (p=0,011). Dia 10 Questi risultati assolutamente inattesi, oltre a dare un grande impatto sull’uso della metformina nel diabetico di tipo 2 con obesità, hanno fatto ritenere possibili 2 ipotesi: 1) la metformina potrebbe avere effetti benefici diretti che vanno al di là dell’azione ipoglicemizzante, 2) il trattamento ipoglicemizzante con sulfoniluree (glibenclamide e clorpropamide) e insulina non svela appieno la sua efficacia perché contrastato da fattori, che potrebbero essere identificati nella iperinsulinizzazione, che agiscono in senso contrastante. Dia 11 In questa immagine viene raffigurato l’andamento del peso corporeo. Si noti come l’incremento ponderale riscontrato nei soggetti trattati con sulfoniluree e con insulina, quasi non esiste nel sottogruppo trattato con metformina. La figura fa ben vedere come il peso corporeo dei pazienti trattati con metformina (in viola) sia sovrapponibile a quello dei pazienti del braccio con trattamento non intensivo (in bianco), i quali, essendo soggetti metabolicamente non compensati e glicosurici, non potevano aumentare di peso, sia perché scompensati sia perché perdevano grandi quantità di glucosio. I soggetti trattati con metformina avevano un controllo glicemico migliore di quelli con trattamento non intensivo ed uguale a quelli trattati con sulfoniluree e insulina, per cui la mancanza di guadagno di peso è da mettere in relazione alla metformina, di cui è conosciuta l’azione modestamente anoressante, oltre che migliorativa nel ridurre la resistenza insulinica. E’ facilmente intuibile come, da quel che si è esposto, questo sottogruppo di obesi, trattati con metformina, abbia conseguito i migliori risultati. Ed è molto probabile che questi risultati siano da attribuirsi all’azione migliorativa sulla resistenza insulinica indotta dalla metformina, sia in modo diretto sia mutuato dalla mancanza di aumento ponderale.
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