Aspetti legali nelle decisioni di fine vita in Italia
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Aspetti legali nelle decisioni di fine vita in Italia
Aspetti legali nelle decisioni di fine vita in Italia: la rilevanza penale della limitazione delle cure nei malati terminali ed il problema della causalità omissiva. The legal puzzle of end-of-life care in Italy: Is therapeutic limitation in the terminally ill patient a crime of omission liable to prosecution?* ELISABETTA PALERMO FABRIS, prof. Associato di Diritto penale, Dip. Diritto Pubblico, Internazionale, Comunitario, Università di Padova e MARIASSUNTA PICCINNI, Dottore di ricerca, Dip. Diritto Comparato, Università di Padova. Corresponding author: Mariassunta Piccinni, Dipartimento di Diritto Comparato, Via VIII Febbraio, 2, 35122 Padova, tel.: 0498278919; fax: 049/8273479; email: [email protected] Keywords: MALATI TERMINALI MEDICO-PAZIENTE – LIMITAZIONE DELLE CURE – OBBLIGHI DEL MEDICO – RAPPORTO - RILEVANZA PENALE DELLE CONDOTTE ATTIVE ED OMISSIVE * Intervento al Secondo forum internazionale del Brescia Anesthesia Intensive Care Neuroscience (Br.A.I.N.), svoltosi a Brescia, il 9 maggio 2007 1 Già nel 1978 H. Jonas si poneva il problema della interruzione dei trattamenti di sostegno vitale. Scriveva l’a. in un saggio originariamente apparso nella rivista Hastings Center Report di quell’anno, sotto il titolo di «Right to die»: «È singolare che oggi si debba parlare di un diritto di morire, quando da sempre il discorso sui diritti si è riferito a quello che è il più fondamentale di tutti: il diritto di vivere»i. L’a., superato l’iniziale «stupore», così individuava la portata del «nuovo problema»: «spesso la tecnologia medica moderna, anche quando non può procurare la guarigione o un sollievo o una proroga, per quanto breve, di vita che valga la pena di vivere, è tuttavia in grado di procrastinare la fine oltre il punto in cui la vita ha ancora valore per il paziente stesso, anzi oltre il punto in cui questi è ancora in grado di darle un valore. Di norma ciò caratterizza … uno stadio terapeutico nel quale la linea di demarcazione tra la vita e la morte viene integralmente a coincidere con quella tra continuazione e interruzione del trattamento: qualora cioè il trattamento si limiti a mantenere in funzione l’organismo, senza migliorarne in alcun modo la condizione (per non parlare di guarigione). La morte viene soltanto rimandata attraverso il prolungamento della condizione sussistente di sofferenza o di quella vegetativa. Questo caso… è soltanto l’estremo di uno spettro di possibilità della medicina che – combinate al potere istituzionale degli ospedali e sostenute dalla legge – producono situazioni nelle quali occorre chiedersi se i diritti del paziente (che si trova in una tipica condizione d’impotenza e, per così dire, “prigioniero”), incluso il diritto di morire, vengano tutelati oppure violati»ii. La prospettazione della questione da parte del filosofo è di estrema attualità e pone ancora diversi problemi anche al giurista chiamato ad interrogarsi su quale sia il possibile rilievo giuridico di comportamenti omissivi o di c.d. accanimento terapeutico da parte del medico nel delicato settore degli interventi cd. «ai confini della vita». La domanda di partenza, quando si intende definire la responsabilità penale del medico per eventuali comportamenti omissivi e, prima ancora per stabilire quando effettivamente l’agire medico possa essere considerato omissivo di cure doverose, può essere così formulata: quali sono gli obblighi che incombono sul medico che si trovi a gestire una situazione di fine vita? Non esistendo nel sistema italiano disposizioni normative che affrontino espressamente il problema del rapporto medico- paziente quanto alle questioni di fine vitaiii, il riferimento obbligato è all’art. 40 del codice penale che testualmente recita: «Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». In base a tale norma, il soggetto investito dall’ordinamento giuridico di una posizione di garanzia per la protezione dei beni di soggetti incapaci di provvedere da soli alla loro tutela, assumendo la veste di garante, ha l’obbligo di fare tutto ciò che è in suo potere per impedire che i beni di cui l’incapace è portatore subiscano un 2 danno. La prospettiva da cui analizzare il problema è, in questo senso, quella più generale del rapporto giuridico che lega il medico al paziente. Indubbiamente, il medico è investito di una posizione di garanziaiv dei beni vita e incolumità individuale del paziente, sia che il rapporto terapeutico nasca da un rapporto di cura privatistico, sia che nasca nell’ambito della struttura pubblica. È in ogni caso nel contesto del rapporto di cura che la posizione di garanzia del medico ed i conseguenti obblighi di intervento assumono rilievo giuridico. Tali obblighi trovano, di conseguenza, fondamento ed incontrano specularmente il proprio limite nel rispetto delle esigenze della persona malatav. Ciò significa che, qualora sia parte di un rapporto di cura, il medico ha l’obbligo di fare tutto ciò che è in suo potere per ripristinare lo stato di salute del paziente o comunque per evitare danni ulteriori che potrebbero derivare dalla malattia laddove non adeguatamente curata; quando la cura non sia possibile, è tenuto a fare tutto ciò che è in suo potere per evitare o, comunque, ritardare l’esito finale verso la morte. Il vero problema è proprio individuare i limiti di quest’ultimo profilo dell’obbligo. Soltanto chiarendo – attraverso una corretta interpretazione dell'obbligo di agire cui si riferisce l’articolo 40 del codice penale – fino a che punto il medico sia tenuto a porre in essere tutto ciò che è tecnicamente possibile per il prolungamento della vita biologica e dove subentra, invece, un obbligo di astensione dal trattamento terapeutico, pur tecnicamente possibile – con conseguente necessità di ricorrere a tutte le cure palliative che si rendano utili a ridurre le sofferenze psicofisiche – si può trovare un punto d’intesa costruttivo evitando intollerabili discrasie fra medicina e diritto. A tal fine viene in considerazione l’esigenza di interpretare la norma penale in chiave teleologica, in vista di un progressivo ed inevitabile adattamento sia ai problemi nuovi, frutto dell’evoluzione sociale, sia alla rinnovata concezione dei valori che ne costituiscono l’oggetto di tutela. Dal punto di vista dell’evoluzione sociale, è necessario tenere nella debita considerazione i problemi legati allo sviluppo della scienza medicavi. Quanto alla rinnovata concezione dei valori, non è possibile ignorare l’influenza esercitata sul sistema delle norme penali dalla Costituzione repubblicana. La Costituzione ha cambiato radicalmente la struttura del rapporto individuo-Stato, ponendovi al centro la persona in una impostazione che, appunto per questo, si caratterizza come «personalistica». Gli articoli 2 e 3 della Carta fondamentale riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo come 3 valori prioritari sui quali si fonda l’intero ordinamento. E fra tali diritti vanno annoverati il diritto alla vita, il diritto alla salute, non meno che il diritto alla libertà morale e personale e cioè, in buona sostanza, alla dignità. Il diritto alla salute ha un suo specifico riconoscimento nell’art. 32 della Costituzione: punto di riferimento obbligato ogniqualvolta si affronta il problema della disponibilità dei beni vita e incolumità individuale nell’ambito dei trattamenti sanitari, in quanto concorre a definire l’ambito entro cui il sanitario assume la posizione di garante dei beni salute e vita dei quali è titolare il paziente. In particolare, il secondo comma di tale articolo prevede che un trattamento sanitario possa essere imposto solo in via eccezionale, con l’obbligo della riserva di legge e con il limite assoluto del rispetto della persona umana; rispetto della persona che deve leggersi, appunto, nel senso di rispetto della sua dignitàvii. La prima fondamentale conseguenza di una corretta interpretazione della menzionata norma costituzionale è l’impostazione personalistica che il legislatore costituzionale ha inteso dare al diritto alla salute ed il chiaro e definitivo riconoscimento della libertà del soggetto di rifiutare le cure, e ciò anche nei casi di maggior gravità nei quali l’astensione dalle terapie può tradursi nella cessazione della vitaviii. Da tale assunto deriva che il trattamento terapeutico, soprattutto nella medicina d’elezione, non deve essere posto in essere senza il consenso del paziente. Il paziente può dunque dissentire e di fronte a tale dissenso il medico non è autorizzato ad usare metodi impositivi o straordinari per costringerlo alla curaix. Il principio di autonomia del paziente, oltre a trovare un indiscusso riconoscimento nella Carta costituzionale è ormai consolidato anche nell’ambito della deontologia e dell’etica. In tal senso, è di particolare interesse l’attività svolta dalle Società mediche che si sono espresse su questo tema dando conto di una buona consapevolezza delle proprie responsabilità professionali e socialix. Ma è soprattutto la riflessione bioetica che ha imposto alla medicina una nuova concezione del rapporto medico-paziente. Questa emerge dalle stesse versioni del codice di deontologia medica degli ultimi decennixi. Colpisce in particolare il tentativo di coniugare la (sempre più accentuata) libertà ed autonomia del medico, ed i tradizionali principi di beneficialità e non maleficienza, con il rispetto della libertà ed autonomia del paziente che viene ulteriormente definita. Anche nella più recente versione del 16 dicembre 2006 diverse sono le disposizioni in cui si precisano e potenziano gli spazi di autonomia della persona-paziente ed è interessante notare come spesso questo avvenga attraverso il riferimento alla dignità della persona. Esemplare è in proposito l’art. 38, C. D. M., ult. vers., che al comma I, con riferimento 4 all’«autonomia del cittadino», recita: «Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che caratterizza la sua professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa». Il principio di autonomia, sempre più consolidato da un punto di vista etico e deontologico, non sempre trova un’altrettanto matura riflessione in ambito giuridico. Esistono, invero, importanti riferimenti normativi – si pensi, da un lato alla fondamentale Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicinaxii, dall’altro alla più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europeaxiii – che riconoscono il «consenso del malato» come «un principio basilare al quale l’attività del medico deve ispirarsi e, comunque, sottomettersi» e purtuttavia non hanno fin qui prodotto concezioni condivise, sia in dottrina che in giurisprudenzaxiv, soprattutto con riferimento alla attuazione del principio stesso ed alla sua effettiva realizzazione nelle declinazioni concrete. Il punto è emerso nella sua tragicitàxv nella recente vicenda che ha coinvolto Pier Giorgio Welby. La prospettazione del medico, convocato di fronte al giudice civile per un provvedimento ex art. 700 cod. proc. civ. era la seguente: «pur non negando di essere “obbligato per legge a rispettare la volontà” del sig. Welby, e dunque di essere obbligato al distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione, rilevato che ciò comporta “pericolo di vita”… quando il paziente fosse sedato, e dunque “non più in grado di decidere”» sarebbe scattato «in relazione al rischio di vita, l’obbligo di “procedere immediatamente” a riattaccare il ventilatore polmonare medesimo al fine di “ristabilire la respirazione”»xvi. Il giudice civile, al quale la richiesta era stata rivolta, rileva correttamente come non esistano nel sistema italiano norme che affrontino espressamente il problema del rapporto medico-paziente quanto alle questioni di fine vita. Partendo da tale constatazione, anziché cercare una risposta possibile sul piano dei principi, il giudice perviene ad una affermazione non condivisibile dal punto di vista giuridico: pur riconoscendo, infatti, il «principio dell’autodeterminazione e del consenso informato» in tutta la sua più ampia portata comprensiva del diritto di rifiutare le curexvii, conclude affermando che: «Siccome un diritto può dirsi effettivo e tutelato solo se l’ordinamento positivamente per esso preveda la possibilità di realizzabilità coattiva della pretesa, in caso di mancato spontaneo adempimento alla richiesta del titolare che intenda esercitarlo, va osservato che, nel caso in esame, il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento. Infatti, non può parlarsi di tutela se poi quanto richiesto al ricorrente deve essere 5 sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie concezioni etiche, religiose, professionali». In sede penale il Pubblico Ministero ha ritenuto di concludere le indagini avviate sulla richiamata vicenda con la richiesta di archiviazione, correttamente motivata sull’assunto che non potesse essere mosso alcun addebito a chi, in presenza di una impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente operato il distacco del ventilatore, in quanto l’azione posta in essere, che si è limitata a dare effettività al diritto del malato di rifiutare un intervento medico vissuto non più come curativo bensì come dannoso per sé, non può essere ritenuta contra legemxviii. Il Giudice per le Indagini Preliminari ha respinto la richiesta di archiviazione ed ha imposto di formulare l’imputazione per il reato di omicidio del consenziente, previsto e punito dall’art. 579 cod. pen. Il problema è sicuramente complesso in quanto richiede il bilanciamento tra valori di particolare rilievo, dalla salute, alla vita stessa, all’autodeterminazione, attraverso il necessario riferimento alla dignità. E tuttavia quel che appare fuori discussione è l’impossibilità di qualificare come omicidiaria – pena un inevitabile conflitto fra norma penale ordinaria e norma costituzionale – la condotta del medico che in coerenza con l’effettivo contenuto del suo obbligo di garante rispetti la volontà del paziente – pur sempre esclusivo dominus dei beni di sua pertinenzaxix – che richieda l’interruzione di interventi terapeutici risentiti non più come “beneficamente” curativi, ma come dannosixx. Nei casi in cui, come nella vicenda riportata, il paziente pienamente cosciente e consapevole esprime il rifiuto di una terapia o il dissenso rispetto al suo prolungamento, il medico si deve fermare senza che vi sia la possibilità di configurare a suo carico una responsabilità omissiva ai sensi dell’articolo 40 cod. pen. «Non impedire un evento equivale a cagionarlo» soltanto fino a quando vi sia l’obbligo giuridico di impedire; se il dissenso fa venir meno l’obbligo non sussiste più una condotta omissiva ed il medico non ha commesso un fatto penalmente rilevante. Un discorso diverso va fatto per la vasta categoria dei soggetti in una situazione di grande debolezza psicofisica, completamente incapaci di prendere delle decisioni o comunque prevalentemente sovrastati dall’angoscia e dalla paura e quindi necessariamente affidati al medico e agli eventuali parentixxi. La soluzione del problema per tali soggetti è ancora tutta da costruire, tenendo conto anche della necessità di rifondare le categorie giuridiche. Non è possibile, su questi temi, così nuovi, così complessi, pensare di utilizzare categorie edificate quando i problemi non avevano l’entità e la drammaticità che hanno assunto oggi, quando la medicina non aveva la possibilità di incidere così 6 ampiamente sulla vita umana. Peraltro, la difficoltà di pervenire a soluzioni soddisfacenti, anche sul piano giuridico, deriva non solo da un certo atteggiamento dell’ambiente medico, ma anche dalla mancanza di un serio dibattito che porti alla formazione di un’opinione pubblicaxxii. Occorre, invece, avviare una riflessione sul principio che deve ispirare le decisioni nelle situazioni cd. «di limite» o «di confine», affrontando l’interrogativo su quale sia il “costo” che è giusto “far pagare” al paziente per il mero prolungamento della vita biologica. La risposta a tale quesito si può rinvenire facendo ricorso ad un corretto bilanciamento fra beneficio che ci si può ragionevolmente attendere e sacrifici che occorre comunque imporre. Tale bilanciamento va effettuato tenendo conto dei criteri di buona pratica clinica e fra questi, se il paziente è capace, è ricompresa l’attenta considerazione della sua volontà; se, invece, si tratta di soggetto incapace i termini di riferimento, allo stato attuale dell’ordinamento, non possono che essere oggettivi. Sulla scorta di tali criteri è possibile affermare che il limite va rinvenuto nella evidente sproporzione per eccesso della terapia in rapporto al risultato atteso. Nelle decisioni difficili sulla linea di confine tra la vita e la morte l’obiettivo del mantenimento in vita del paziente va contemperato con il controllo della sofferenza e con la garanzia di una morte dignitosa. La difesa della vita, per non scadere a gestione del mero dato biologico, deve essere perseguita in modo ragionevole, evitando di praticare le terapie sproporzionate per eccesso che finiscono per tradursi in un mero prolungamento del processo di morte. Il criterio da utilizzare è dunque quello dell’appropriatezza di un trattamento, tenuto conto della sua effettiva utilità e della sua proporzionalità rispetto ai benefici attesi; ed è evidente che tale appropriatezza risulta inversamente proporzionale agli oneri e direttamente proporzionale all’incremento della qualità e quantità di vita, oltre che alle probabilità di successo. Quando il trattamento terapeutico non risulta giustificato sulla base dell’indicato criterio di appropriatezza clinica, il medico dovrebbe interromperlo o evitare di intraprenderlo, proseguendo l’assistenza doverosa al paziente con tutte le cure palliative a disposizione. La limitazione dei trattamenti in tal caso, lungi dal poter essere considerata causa della morte del paziente, è invece la conseguenza ovvia del riconoscimento della loro inutilità e della incapacità di modificare in maniera effettiva la prognosi di quel paziente; così come dell’esigenza di evitare ogni eccesso di trattamento lesivo della dignità individuale. Se è vero che il bene vita è un valore fondamentale tutelato dall’ordinamento giuridico, è altrettanto vero che è necessario interrogarsi sul contenuto assiologico di tale bene. La risposta a tale interrogativo è che non è possibile scindere la vita quale insieme di 7 funzioni biologiche dall’essere umano nella sua interezza di persona, portatrice di una sua dignitàxxiii. Il diritto non può che tutelare il bene in tale dimensione personalistica e deve pertanto bilanciare il mero prolungamento della vita biologica con la dignità della persona, ponendo un limite alle sofferenze ed alle manipolazioni cui un soggetto può essere sottoposto. D’altronde il Codice Deontologico proibisce di intraprendere o di proseguire un trattamento inappropriato per eccesso, definito quale «accanimento terapeutico» e prospettato proprio come il limite oltre il quale il medico non deve andarexxiv. Individuato il principio generale, resta da stabilire a chi spetti la decisione nel singolo caso, chi deve valutare quando, nel concreto, non si tratta più di terapia, ma di accanimento terapeutico e quindi di un mero prolungamento del processo di morte che comporta un aggravio ingiustificato delle sofferenze del paziente. Certamente la responsabilità di una tale decisione per il paziente incapace e privo di un rappresentante legale spetta al medico. Non può, tuttavia, essere sottovalutato il ruolo che i parenti, riconosciuti come protettori naturali del paziente, possono assumere per facilitare la decisione, tenendo conto della realtà del singolo paziente, così come richiesto dai principi di buona pratica clinica. Si afferma frequentemente, invece, che il parente non ha voce in quanto o è il soggetto portatore del bene capace di autodeterminarsi a porre il limite all’agire del medico, oppure, in caso di incapacità del paziente, è il medico che deve decidere da solo. L’assunto non è condivisibile dal momento che l’ordinamento giuridico investe i parenti di un obbligo di solidarietà e di cura nei confronti del congiunto in situazione di incapacità. Al riguardo è sufficiente riflettere sulla possibilità di ipotizzare una responsabilità per abbandono di persona incapace (art. 591 cod. pen.), anziché per mera omissione di soccorso (art. 593 cod. pen.), in ipotesi di omesso intervento nei confronti di un congiunto che versi in situazione di pericolo. Si tratta di una questione che solitamente presentata come problema giuridico comporta interrogativi che si pongono anche ad altri livelli e precisamente a livello di responsabilità deontologica ed etica. A fronte di situazioni che non hanno (e non possono avere!) soluzioni precostituite, e per le quali è necessario partire dal caso concreto e da questo risalire alla discussione sulla liceità delle scelte operate dal medicoxxv, è infatti indispensabile una visione interdisciplinare, con l’assunzione di un atteggiamento problematico e riflessivo. È soprattutto necessario superare il problema della «preoccupazione delle possibili conseguenze giuridiche» che rischia di «inquinare» le decisioni del medico. Per i soggetti terminali o comunque con una situazione clinica di grave compromissione dell’organismo il medico deve operare una scelta in ordine alla quale è inevitabile il timore per le 8 possibili conseguenze penali, sia in caso di sospensione o rinuncia a trattamenti «straordinari», sia nel caso che insista con gli stessi, al di là di ogni previsione di efficacia. Il dovere di prolungare la vita entro i limiti del «possibile» rischia, se non rettamente inteso, di entrare in conflitto con il dovere di cura, inteso come «dovere di prendersi cura» del paziente, rispettandone la dignità, alleviandone il più possibile le sofferenze, bilanciando i mezzi usati che devono essere i più adeguati alle specifiche esigenze di quel determinato paziente, visto come soggetto unico e irripetibile. Di fronte all’apparente conflitto fra i due doveri di regola convergenti – salvare la vita e prendersi cura del paziente – il medico non può decidere con l’esclusivo timore della draconiana regola propria del sistema penale per il quale anticipare la morte che comunque sarebbe sopravvenuta equivale a cagionarla. La decisione del medico deve, invece, essere correttamente ispirata all’esigenza di ottemperare al dovere di cura e risultare adeguata, secondo criteri di buona pratica clinica, a tale scopo; se il medico decide, dunque, di interrompere le terapie atte al mero prolungamento della vita biologica e prosegue con cure palliative, va escluso il nesso causale fra l’omissione del trattamento sanitario e l’anticipazione del decesso, così come, anche per espressa previsione normativa, il nesso va escluso quando l’anticipazione è conseguenza di terapie del dolore adeguate alla gravità della situazione di sofferenza del paziente. Il problema è ancora quello del limite oltre il quale la terapia non trova più giustificazione o, per converso, il prendersi cura (es. terapia del dolore) comporta la consapevole scelta di abbreviare la vita. La soluzione giuridica per tale ipotesi deve necessariamente essere coerente con le regole della buona pratica clinica, talvolta supportata da leggi scritte (terapia del dolore) ma per lo più frutto di un sapere scientifico e deontologico che attualmente si avvale anche di Linee Guida, da intendersi come punto di riferimento e non come regole imperative. Prima di avviarsi alla conclusione, si ritengono utili alcune ultime precisazioni. È necessario, anzitutto, fare chiarezza sulla posizione del medico nelle situazioni di urgenza. In queste ipotesi la dottrina prevalente fonda la liceità dell’intervento del medico sulla scriminante dello stato di necessitàxxvi. Si è sottolineato, peraltro, come «lo stato di necessità, rendendo non doveroso ma meramente facoltativo l’intervento, mal si presta a disciplinare una situazione in cui il medico si trova ad assumere un obbligo di protezione dei beni, sia della salute che della vita, di un paziente temporaneamente incapace di prendere decisioni e quindi di provvedere alla tutela dei propri beni. In tali ipotesi, l’unico garante nei confronti dell’ordinamento è il medico che in questa veste è obbligato ad intervenire»xxvii. È più utile allora, nei casi di «urgenza medicalmente accertata» il ricorso alla scriminante 9 dell’adempimento del dovere ex art. 51 cod. pen.xxviii. Per evitare però che il medico si trovi a dover porre in essere condotte apparentemente “schizofreniche”xxix è necessario ribadire che, nella pur rara ipotesi in cui si sia potuto in precedenza accertare una chiara e consapevole manifestazione di volontà del paziente di non procedere o di interrompere la terapia di sostegno vitale, il dovere per il medico viene a cessarexxx; sorge, anzi, in capo al curante il dovere di non insistere con una terapia che il paziente, immediatamente prima dell’insorgenza dello stato di incapacità, aveva legittimamente rifiutato. Il secondo punto che merita qualche accenno è il caso della sperimentazione. Spesso, in situazioni di fine vita non sono disponibili terapie consolidate e per il medico si può porre il problema di dover scegliere se includere o meno un paziente in un protocollo di ricerca. In proposito, è necessario ricordare che laddove la scienza medica non disponga di certezze è dovere della comunità scientifica promuovere il bene salute della popolazione di pazienti attraverso l’avvio di protocolli sperimentali, e del singolo medico includere il paziente negli studi ove opportuno e sempre nei limiti dell’«accanimento terapeutico»xxxi. Ma come scegliere, laddove esista un protocollo sperimentale, se inserire o meno il paziente nello stesso, soprattutto quando la persona sia incapacexxxiidi esprimere il proprio consenso? Pur non potendosi approfondire in questa sede un tema così delicato, si può ricordare come i principi di riferimento che devono guidare le scelte del medico-sperimentatore sono gli stessi sopra richiamati, con un’attenzione particolare dovuta alla particolare vulnerabilità del soggetto coinvolto nella sperimentazione. La ricerca dovrà, in altre parole, essere sempre inserita in un progetto che si fa carico del paziente e questi non potrà mai essere sacrificato agli interessi della collettivitàxxxiii. In conclusione, l’attività del medico in situazioni terminali deve attenersi a due principi: l’interruzione/astensione da cure inutili e/o sproporzionate e l’assistenza del morente anche attraverso l’uso della medicina palliativaxxxiv. Una decisone argomentata, plausibile sul piano scientifico, che sia trasfusa in una documentazione che consenta di ricostruire la vicenda clinica del paziente – a testimonianza del processo decisionale condiviso anche con i familiari visti quali protettori naturali del paziente ed eventuali testimoni di una volontà che egli non sia in grado direttamente di esprimere – non potrà certo essere oggetto di censura sul piano giuridico, quantomeno nel caso in cui anche la decisione giuridica sia ispirata ad una corretta interpretazione delle norme fondata sui valori che le stesse sono deputate a proteggere. Non si può in tal senso non concordare con le osservazioni cui perveniva H. Jonas nel saggio citato in apertura: «A difesa del diritto di morire si deve pertanto riaffermare l’autentica vocazione 10 della medicina, per liberare sia il medico sia il paziente dalla loro attuale schiavitù. Il fenomeno nuovo, risultante dalla combinazione dell’impotenza del paziente con la potenza delle tecniche che sotto pubblica vigilanza differiscono la morte, esige una tale riaffermazione. A questo proposito si può, credo, convenire, che la tutela della medicina ha a che fare con l’integrità della vita, o almeno con la situazione nella quale essa sia ancora desiderabile. Mantenere la sua fiamma viva, non le sua cenere ardente, è il suo vero compito, per quanto essa debba custodire anche lo spegnersi; non lo è affatto l’imposizione di sofferenze e l’umiliazione che servono soltanto all’indesiderato prolungamento dell’estinzione. In che modo una simile dichiarazione di principio si lasci tradurre in prassi giuridicamente operante è di per sé un capitolo certamente difficile; per quanto bene svolgeremo il nostro compito, resteranno pur sempre, per la sua stessa natura, zone d’ombra, dove nel caso singolo si dovranno prendere tormentose decisioni. Ma una volta affermato il principio, s’accresce la speranza che il medico torni ad essere al servizio dell’uomo e non un tirannico e a sua volta tirannizzato padrone del paziente»xxxv. i Così H. JONAS, The Right to Die, in Hastings Center Report, 1978, n. 4; ora in ID., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einuadi, 1997, 185. Continuava l’a.: «In effetti, ogni altro diritto che sia mai stato preso in considerazione, rivendicato, concesso o negato, può essere inteso come un’estensione di questo diritto primario, dal momento che ogni diritto particolare concerne l’attivazione di una qualche facoltà, l’accesso a qualche bisogno, la soddisfazione di una qualche aspirazione di vita». ii iii Ibidem, 187. In tal senso, v. da ult. Trib. ROMA, ord. 16/12/2006, in Guida al diritto, n. 1, 2007, 32 ss. ove si rinviene come non esista alcuna «disciplina specifica sull’orientamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell’attuazione pratica del principio di autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l’interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente». Il punto sarà ripreso oltre nel testo. iv Cfr., per una ricognizione del problema della responsabilità omissiva, G. FIANDACA, voce «Omissione (Diritto penale)», nel Digesto IV ed., Disc. pen., VIII, Utet, 1994, 556 s.; G. GRASSO, Il reato omissivo improprio: la struttura obiettiva della fattispecie, Giuffrè, 1983, 233; F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Giuffrè, 2000, 498 ss. Con riferimento specifico al rapporto tra il medico ed il paziente, cfr. E. PALERMO FABRIS, Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale. Profili problematici del diritto all’autodeterminazione, Cedam, 2000, 173 ss., e spec. 178 ss., cui si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici. v Sottolinea l’importanza di riconoscere non soli i limiti, ma lo stesso fondamento del diritto di essere curati e del corrispondente dovere di cura nell’ampliamento delle possibilità di esplicazione, nel senso di svolgimento ed espansione, della propria personalità, tra gli altri P. ZATTI, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in Pol. del dir., 1986, n. 3, 430 ss. vi V. ancora le considerazioni di JONAS, cit. in apertura. 11 Per un’analisi più approfondita v. PALERMO FABRIS, op. cit., 2000, spec. 1-45, cui si rimanda anche pur ulteriori vii indicazioni bibliografiche. Più di recente, per alcune riflessioni sugli artt. 2 e 3 della Costituzione italiana e sul concetto di dignità sotteso al nostro sistema di valori costituzionali, cfr. S. RODOTÀ, La vita e le regole, Feltrinelli, 2006, 16 ss. viii Sembra orientato in tal senso anche l’attuale C.D.M. di cui si vedano, ad es., gli artt. 13, 16, 35, 36, 38, 39, 51, 53. ix Così l’art. 35 C.D.M. ult. vers., sotto la rubrica «Acquisizione del consenso» stabilisce: «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. […] In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità delle persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente.». In c.vo le parti aggiunte o modificate rispetto alla precedente versione. V. in tal senso le considerazioni contenute in CASS., Sez. IV pen., 10.10.2001, imp. CICARELLI, in Cass. pen., 2002, II, 1346 ss. x Si veda a titolo esemplificativo in ambito europeo il documento della E.A.P.C., Task force sull’etica, Eutanasia e suicidio assistito dal medico, tr. it. in Rivista italiana di Cure Palliative, 1 (2004), 42-46. Nel contesto italiano di particolare pregio è l’attività della S.I.A.A.R.T.I., di cui si vedano, in particolare, due documenti a cura della Commissione di bioetica: Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla terapia intensiva e per la limitazione dei trattamenti in terapia intensiva, in Minerva Anestesiol., 2003, vol. 69, 111-118 e Le cure di fine vita e l’Anestesista- Rianimatore: quale approccio al malato morente?, in Minerva Anestesiol., 2006, vol. 72, 1-23. xi Può essere utile notare come da quando nel 1989, il Consiglio nazionale della Federazione nazionale deliberò la trasformazione della Commissione di studio – istituita per la revisione del precedente C.D.M. del 1978 – in Commissione permanente, si è assistito ad un costante aggiornamento del Codice Deontologico. In effetti, già nel 1995, il Consiglio nazionale approvava un nuovo codice, subito sorpassato da quello del 3 ottobre 1998, fino all’ultima versione del 16 dicembre 2006. xii Si tratta della «Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina», firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, e ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145, ratifica, peraltro, non ancora depositata, con grave ritardo, presso il Consiglio d’Europa. In particolare, il cap. II si occupa del problema del consenso (artt. 5-9) a partire dall’affermazione contenuta all’art. 5 della regola generale per cui si può procedere ad un intervento medico solo dopo che la persona interessata abbia espresso il suo libero ed informato consenso. xiii Ci si riferisce al documento firmato a Nizza il 7 dicembre 2000 e trasfuso nel Preambolo della futura Costituzione europea, del quale si veda il capo I concernente «La dignità». 12 xiv È sufficiente qui menzionare la divergenza interpretativa sottesa a due pronunce esemplari succedutesi nell’arco di circa dieci anni. In CORTE D’ASSISE FIRENZE, 18.10.1990, imp. MASSIMO, in Dir. fam. e pers., 1991, 978 ss., nel condannare il medico per omicidio preterintenzionale si afferma: «nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere di lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione del rapporto medico-paziente che bene la difesa di parte civile ha individuato nella figura del paziente come portatore di propri diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomovalore e non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentalizzazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati di false coperture di progresso scientifico o di utilità collettiva». In alcune più recenti sentenze, pur riconoscendo la validità di affermazioni analoghe, si segnala l’esigenza di ridimensionare la portata del principio del consenso. (V. ad es., CASS., sez. IV pen., 12 luglio 2001, imp. BARESE, in Cass. pen., 2002, 517 ss., con nota di IADECOLA e in Riv. it. med. leg., 2002, 865 ss., con nota di FIORI, LA MONACA, ALBERTACCI e CASS., Sez. I pen., 11.07-2002, imp. VOLTERRANI, in Cass. pen., 2003, 1945 ss.). Nel caso Volterrani, la Corte di Cassazione, nell’assolvere il medico con formula piena, afferma: «la volontà del soggetto interessato in ambito giuridico e penalistico in particolare svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia eventualmente espressa in forma negativa». Quanto al dissenso esplicito, si rileva come i casi in cui il medico ha il dovere di astenersi – anche a fronte di dissenso esplicito da parte del malato – sono in ogni caso «eccezionali». Si legge ancora: «In realtà, la pratica sanitaria e specialmente quella chirurgica, salvo ipotesi dalle quali esula l’intento di tutela della salute propriamente intesa, è sempre obbligata, per non dire forzata […] Sembra lecito, allora, prospettare l’esistenza di uno stato di necessità generale e, per così dire, “istituzionalizzato”, intrinseco, cioè, ontologicamente, all’attività terapeutica». xv Si utilizza in senso estensivo l’espressione di G. CALABRESI e P. BOBBIT, Scelte tragiche, tr. it., Giuffrè, 1986 per riferirsi a quelle ipotesi in cui la soluzione del caso richiede il sacrificio di uno dei valori (pur essenziali) in gioco inerenti al medesimo titolare. xvi Così Trib. ROMA, ord. 16/12/2006, cit., c.vo. agg. Afferma il Trib. di Roma, ord. 16.12.2006, cit.: «La giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte xvii Costituzionale ha fatto emergere l’ampiezza di tale principio, nel senso che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto l’“inviolabilità fisica” costituisce il “nucleo” essenziale della stessa libertà personale; mentre, l’imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificato solo se previsto da una legge che lo prescrive in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela della salute individuale e se è comunque garantito il rispetto della “dignità” della persona (art. 32 Cost.)». xviii Così nella richiesta di archiviazione del P.M., respinta dal giudice, di cui si dà conto nell’art. di E. Vinci su La Repubblica, del 7 marzo 2007. Precisa il P.M.: «Nel caso di specie, può affermarsi che sussistesse il diritto del paziente a non sottoporsi a trattamenti medici indesiderati», non potendosi sostenere che «un siffatto diritto costituzionalmente tutelato troverebbe limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana che nel nostro ordinamento costituisce un diritto inviolabile». xix PALERMO FABRIS, Diritto alla salute, cit., 180 ss. V. ivi anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 13 xx Né vale nella vicenda in esame invocare una pretesa diversità fra la condotta del sanitario che si limiti a non somministrare terapie rifiutate dal paziente e quella del sanitario che si attivi per interrompere una terapia già intrapresa. Il problema è stato affrontato da una parte della dottrina proprio con riferimento alla deconnessione del respiratore artificiale e – pur con l’auspicio di un intervento meditato sul tema da parte del legislatore penale – risolto nel senso che «il distacco del respiratore artificiale – prescindendo da una percezione naturalistica dell’operato del medico – dà vita ad un’omissione di terapia imposta dal rifiuto dell’interessato, mentre la protrazione del sostentamento vitale darebbe vita ad un illegittimo trattamento coatto». Così espressamente S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir e proc. pen., 1995, 695; v. anche F. STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1984, 1012; G. U. NANNINI, Il consenso al trattamento medico: presupposti teorici e applicazioni giurisprudenziali in Francia Germania e Italia, Giuffrè, 1989, 504 ss. xxi Sono di particolare interesse in proposito i primi risultati di un recente studio condotto dal Giviti su 3648 pazienti deceduti in 84 unità di t. i. italiane che nel 2005 hanno ammesso 21428 pazienti. I primi dati quantitativi indicano come oltre l’80 % dei pazienti presi in considerazione non siano stati considerati in grado di esprimere un valido consenso al piano di cure al momento dell’ammissione in t.i. (tra le ragioni individuate: «alterazioni della coscienza, condizioni di estremo stress, anestesia»). Solo in pochissimi casi (l’8 %) era disponibile «una testimonianza formale ed anticipata delle proprie volontà». Così nel Comunicato stampa del 19/10/2006 rinvenibile nel sito http://www.giviti.marionegri.it/FineVita.asp. xxii Per avere un’idea della complessità del problema si veda ad es. la vicenda che riguarda Eluana Englaro. La questione, che si protrae ormai da diversi anni, concerne la richiesta da parte del padre, nominato tutore, di sospendere le cure sulla propria figlia maggiorenne che si trova in stato vegetativo persistente dal 1992. La vicenda ha visto il succedersi di numerosi provvedimenti giudiziari (l’ultimo pronunciamento è, allo stato, quello della Corte d’Appello di Milano, decr. 16.12.2006, in Guida al dir., 2007, n. 1, 39 ss.), il lavoro di una commissione ministeriale istituita con D.M. del 20/10/2000 dall’allora Ministro della sanità Veronesi (il Gruppo di lavoro sui trattamenti di nutrizione-idratazione artificiali delle persone in stato di perdita irreversibile della coscienza, la cui Relazione del 1/6/2001 può rinvenirsi in www.globius.org/documenti/nutrizione.htm), un discusso parere del C.N.B. del 30 settembre 2005, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente. Nonostante siano passati ormai 15 anni, sembra ancora lontana una soluzione. Le difficoltà di decidere in questi casi emergono proprio dal parere del C.N.B. cit. Al di là del contenuto, colpisce il metodo – insolito per l’autorevole organo – con cui si è giunti ad un documento che non ha trovato una larga maggioranza. Quella che viene definita «Nota integrativa» contiene la firma di ben 13 componenti contrari al testo finale. xxiii Di particolare significato sono in tal senso gli artt. 1, 2 e 3 contenuti nel Capo I, Carta dell’Unione europea, 2000, cit. riguardanti non a caso la «dignità umana». Solo dopo la proclamazione della inviolabilità della dignità umana (art. 1), si afferma il diritto alla vita (art. 2) ed il diritto alla integrità fisica e psichica, nel cui ambito si specifica il dovere di rispettare il «consenso libero ed informato» del paziente (art. 3). xxiv Cfr. gli artt. 16 e 39, C.D.M., ult. vers. xxv Per alcune recentissime riflessioni sul rapporto tra regolarità del diritto ed irregolarità della vita si rimanda ancora a RODOTÀ, op. cit., passim. 14 Cfr. in proposito G. IADECOLA, Potestà di curare e consenso del paziente, Cedam, 1998, 99; R. RIZ, Il consenso xxvi dell’avente diritto, Cedam, 1979, 348 ss. xxvii Così PALERMO FABRIS, op. cit., 222 s. xxviii Per un discorso più approfondito si rimanda a ibidem, 201 ss. e 222 ss. V. ancora la vicenda di Welby in sede civile e la prospettazione del problema da parte del medico curante, sopra xxix richiamata. xxx Così F. GIUNTA, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 380 ss.;, PALERMO FABRIS, op. cit., 201 ss.; VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri, cit., 10 ss. Ma v. anche P. VENEZIANI, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, nel Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da G. Marinucci e E. Dolcini, I delitti colposi, t. II, Cedam, 2003, 319, che pur si pone in una posizione intermedia quanto alla rilevanza penale del «consenso informato». Anche nell’ipotesi in cui si ritenesse operante la scriminante dello stato di necessità, la facoltà per il medico di scegliere tra beni in gioco relativi al medesimo titolare cesserebbe quando il titolare stesso abbia indicato quali beni devono prevalere. Oltre agli aa. citt., v. anche ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995, 78 ss. xxxi La sperimentazione diviene allora concretizzazione dell’art. 32 Cost. Cfr. per un’impostazione in tal senso, G. TOGNONI, La sperimentazione clinica: le condizioni minime di eticità, in Bioetica, 1996, 13 ss. e più di recente G. MARSICO, La sperimentazione umana: diritti violati/diritti condivisi, Franco Angeli, 2007, spec. 77 ss., ove si afferma: «La partecipazione alla ricerca/sperimentazione è quindi un diritto nella misura in cui è espressione di un’assistenza sanitaria che si traduce in progetti di salute, laddove non ci sono risposte adeguate ai bisogni ed il diritto alla salute rischia di restare disatteso» (p. 79). xxxii Come risulta codificato nella stessa Dichiarazione di Helsinki la comunità scientifica internazionale ha risolto affermativamente il problema se si possa, nonostante la mancanza di una volontà consapevole ed attuale del paziente, procedere alla sperimentazione sullo stesso. Sul problema della ricerca sui soggetti vulnerabili, v. da ult. MARSICO, op. cit., spec. 157 ss, cui si rinvia anche per gli opportuni riferimenti bibliografici. xxxiii In tal senso devono essere interpretati non solo i principi ricavabili fin dalla Introduzione alla Dichiarazione di Helsinki – cfr. punti 4, 5, 6, 8 – ma la stessa direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione della buona pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico, attuata nel nostro ordinamento con il d. legisl. 24 giugno 2003, n. 211. xxxiv L’art. 39 C.D.M. ult. vers. sottolinea il collegamento tra l’appropriatezza dei trattamenti e «la tutela, per quanto possibile, della qualità della vita e della dignità della persona umana»; contiene inoltre l’invito esplicito – nel caso di paziente il cui stato di coscienza sia compromesso – ad evitare «ogni forma di accanimento terapeutico». xxxv JONAS, op. cit., 205, c.vo agg. 15