La mia vicenda: sintesi - Ho 39 anni e sono separato da 5 anni

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La mia vicenda: sintesi - Ho 39 anni e sono separato da 5 anni
Diocesi di Concordia-Pordenone
Settimana residenziale per Presbiteri
2-5 aprile 2013
Bibione – S. Stefano
Accompagnare la famiglia ferita
Emanuele Scotti
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INDICE
1. Prologo ........................................................................................................................................... 3
2. La scoperta di una fede diversa ...................................................................................................... 4
3. La scelta di restare fedele ............................................................................................................... 5
4. La Grazia del perdono .................................................................................................................... 6
5. Compagni di viaggio ...................................................................................................................... 7
6. Una vicinanza materna ................................................................................................................... 8
7. Tutti insieme: ricchezza o confusione? .......................................................................................... 9
8. La misericordia di Gesù e la misericordia dei discepoli .............................................................. 11
9. Riconoscere la sofferenza dei figli ............................................................................................... 11
10. Tempi difficili per tutti? ............................................................................................................. 12
11. Una generazione narra all’altra le tue opere .............................................................................. 13
12. E se il mio matrimonio fosse nullo? ........................................................................................... 14
13. Essere nel mondo senza essere del mondo ................................................................................. 14
14. Segni di contraddizione .............................................................................................................. 15
15. La spina nella carne .................................................................................................................... 16
16. Fedele a chi, a che cosa? ............................................................................................................ 16
17. Quali frutti? ................................................................................................................................ 17
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1. Prologo
Prima della nostra crisi matrimoniale non erano mancati momenti difficili, anche se
abbastanza comuni nelle giovani coppie della mia generazione. Avevamo vissuto periodi di
preoccupazioni economiche, ed io avevo poi anche perso il lavoro. Avevamo “tirato la cinghia”
per mesi col solo impiego di insegnante precaria di mia moglie. Erano tutti, però, o almeno così mi
sembravano, problemi esterni a noi e al nostro legame, che sentivo solido e sicuro, e mai più
pensavo potesse essere anche solo sfiorato dagli eventi che, invece, di lì a poco ci avrebbero
travolto.
Di ritorno da un viaggio all’estero, felice per un nuovo incarico lavorativo, vedo mia moglie
che mi viene incontro in stazione col nostro bimbo in braccio, che allora aveva due anni, e trovo
conferma nei suoi occhi di una strana impressione che avevo avuto in alcune precedenti telefonate.
La sento stranamente fredda e distaccata. Quella sera stessa, mi dice: “Dobbiamo separarci”. Resto
allibito, sconvolto, mi sembra un incubo. Non riesco a crederle. Da quel momento inizieranno
giorni, settimane, mesi di discussioni estenuanti, che non avrebbero portato a nulla. Noi due
sempre più distanti, incomprensibili e irriconoscibili l’una all’altro.
La convinco ad incontrare un amico sacerdote a cui avevo esposto la mia situazione, per un
estremo tentativo di riconciliazione. Parlano a lungo, per un tempo che mi sembra interminabile.
Li vedo poi, come fosse ora, scendere dalle scale. Io col cuore pieno di speranza (forse anche di
illusione), trattengo il respiro. L’amico prete mi lancia un’occhiata, che lì per lì non riesco ad
interpretare. Poi, mi prende un po’ in disparte e, a bruciapelo, mi dice: “Guarda, Emanuele, che
non c’è più niente da fare: lei ha deciso!”.
In tanta sofferenza, in tutto quel dolore, in tutte le reciproche asprezze che seguirono, una
delle espressioni che mi fece più male fu quando mia moglie rispose ad una delle mie richieste di
spiegazione, via via divenute sempre più pressanti: “Senti, alla fine, io ho la mia vita!..”. A un
certo punto mi fu chiaro che non c’era più la “nostra” vita, ma da quel momento in poi ci sarebbe
stata di nuovo una “sua” e una “mia” vita. Il mistero grande del matrimonio sembrava divenuto
piuttosto un enigma inestricabile di umanità ferite. Ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni, le
cause profonde che hanno portato alla separazione della nostra famiglia mi restano in parte ignote.
Mi hanno molto colpito queste parole, di un testo teatrale molto noto, anche se non proprio al
grande pubblico, che mi pare centrino il nòcciolo del problema: “La gente si lascia trascinare dall’amore
come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell’assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare
di innestare questo amore nell’Amore che ha una tale misura. (…) sono accecati non tanto dalla forza del sentimento
quanto dalla mancanza di umiltà. È una mancanza di umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella sua
essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario – il pericolo è incombente; l’amore cede
sotto il peso della realtà quotidiana”
(Vi avrete riconosciuto La bottega dell’orefice, Karol Wojityła,
1960.
Dopo alcuni mesi, scoprii che mia moglie aveva un’altra persona. La separazione, ormai
inevitabile, avvenne poco dopo. La convivenza di mia moglie col suo compagno ebbe inizio poco
tempo dopo la separazione. Era per me un pensiero assillante, che occupava di continuo la mia
mente. Soprattutto, l’idea di mio figlio con “l’altro” era un vero tormento. Temevo di perderlo, di
essere sostituito come figura paterna. Il solo pensiero che il nostro bambino fosse costretto a vivere
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questa situazione mi faceva impazzire. Davanti agli occhi della mia mente, scorrevano sempre le
stesse immagini, che mi facevano star male, ma che non riuscivo ad allontanare.
2. La scoperta di una fede diversa
Se c’è un’esperienza di “deserto”, se c’è una “notte oscura” che può conoscere l’animo
dell’uomo, per me sono stati quei momenti. Momenti di buio e di solitudine, dove niente può dare
sollievo, dove ci si sente incompresi da tutti e che nessuno può in effetti capire fino in fondo, e
quando il dolore lascia senza fiato. Sentirsi rifiutati, “buttati via”, ritrovarsi senza un’identità, in
una situazione di profonda destabilizzazione psico-fisica e di estraniamento dal mondo. Non
riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola. Con tutto ciò, quando qualcuno,
credendo di farmi cosa gradita, mi parlava male di lei o mi diceva “poveretto!..”, non sapeva
quanto mi faceva male.
Ma è allora che in quel profondo silenzio mi sono sentito come liberato da tante cose, da
tanti pesi inutili, da tanti rumori dentro e fuori di me, e ho sentito quella “voce di silenzio sottile”1,
quella presenza del Signore accanto a me, che, quando tutto andava bene, non potevo, non volevo
sentire. E l’interrogativo della fede, fino ad allora mai del tutto risolto, mi è parso come il bivio
fondamentale: da una parte solo un dolore insensato, un male ricevuto e procurato, la fine di tutto;
dall’altra, attraverso il dolore, una promessa di vita, di salvezza e, sì, perfino di gioia!2 Ero stato
fino allora un cristiano molto “tiepido”, la mia fede si era nel tempo sempre più affievolita. Ero un
cristiano “fai-da-te”, come si dice; mi ero anch’io costruito una ‘fede-bricolage’. Io giudicavo ciò
che era da conservare e ciò che invece, sembrandomi eccessivo, o repressivo della mia libertà, o
non al passo coi tempi, lo mettevo da parte. Mi sentivo un “cristiano adulto”, non capendo quanto
vuota e priva di senso possa essere questa espressione. In realtà, la mia fede si era talmente
annacquata, che era diventata – io dico – una fede ‘omeopatica’: nella mia vita ne era restata una
quantità infinitesima, forse una lontana memoria. Iniziavo allora invece a capire che non avevo
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“Gli disse: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento
impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu una folgore, ma il Signore
non era nella folgore. Dopo la folgore, ci fu una voce di silenzio sottile. Come la udì, Elia si coprì il volto col
mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”. (Primo Libro dei Re, 11-13)
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Assurdo e il mistero. Il mio collega Sartre ha scelto l'assurdo, io il mistero». – «Ma qual è la differenza? Anche il
mistero sembra assurdo!». – «No, l'assurdo è un muro impenetrabile contro cui ci si spiaccica in un suicidio. Il mistero
è una scala: si sale di gradino in gradino verso la luce, sperando». Sono queste le battute di un dialogo avvenuto nel
1983 tra il presidente francese François Mitterrand e il filosofo cattolico Jean Guitton. Certo, in cinque minuti si può
dire poco, ma si è anche stimolati a sfrondare e a cogliere l'essenziale. Una scelta è nel cuore stesso del pensare e
dell'esistere: tra il non senso e il senso, tra l'assurdo e il mistero. L'opzione del filosofo Jean-Paul Sartre è nota ed è già
nei titoli di alcune sue opere come L'essere e il nulla, oppure Il muro o A porte chiuse e, infine, La nausea e La morte
dell'anima. Molte persone che passano e siedono accanto a noi, senza aver mai letto una riga di Sartre, condividono
nella pratica questa decisione. Siamo immersi in un mondo assurdo e ripugnante, in cui le porte delle risposte sono
tutte chiuse e indisponibili e l'orrore è la sigla della nostra esistenza. La libertà ci spinge a infrangere quel muro, ma
siamo destinati a romperci le mani e a sfracellarci contro di esso se lo scaliamo. Ben diversa è la concezione di Guitton
che vede l'essere come una scala aperta ai nostri passi. È un po' come quella di Giacobbe che «poggiava sulla terra,
mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Genesi 28,12). L'ascesa è faticosa, si può inciampare perché i primi gradini
sono nel buio, ma lassù c'è una luce infinita. Con la fiaccola della speranza e con l'anelito della ricerca si può
proseguire di tappa in tappa, di luce in luce… (Il Mattutino, a cura di Gianfranco Ravasi, Avvenire 16/11/2011)
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capito nulla: non si può essere cristiani a pezzi, a rate, o all’occasione, ma finalmente iniziavo a
voler prendere tutto intero il messaggio di Gesù che la Chiesa ci tramanda.
E iniziavo a scoprire una fede semplice. Ricordo che ci fu un periodo in cui la mattina
prima di andare al lavoro, passavo in Chiesa e mi fermavo ai piedi del Crocifisso. Quello stare lì, il
più delle volte senza riuscire a dire e perfino a pensare nulla, ha cambiato il mio cuore. In quel
buio, in quei miei “inferi”, ho sentito per la prima volta la presenza concreta e reale del Signore.
Questo ha cambiato poco a poco la prospettiva interiore della mia vita. La mia situazione
continuava a restare tal quale, tutti i problemi restavano, nulla cambiava fuori di me, la mia
sofferenza restava; ma nella stesso tempo nulla era e sarebbe stato più come prima. (Proprio come
dice Isaia, Is, 30, 20-21) «Anche se il Signore ti darà il pane dell'afflizione e l'acqua della tribolazione, tuttavia
non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola
dietro di te: "Questa è la strada, percorretela"» (Is, 30, 20-21).
Questa esperienza di fede mi ha sostenuto anche nella scoperta di una nuova paternità, più
profonda, più consapevole, più responsabile; che, a sua volta, è stata una spinta vitale molto forte.
Ricordo quando una volta – erano i primi tempi dopo la separazione – io avevo già dovuto trovare
una sistemazione per conto mio, e mio figlio, che allora avrà avuto cinque anni, era con me. Io ero
preso da miei pensieri, mi sentivo piuttosto depresso, e stavo preparando qualcosa da mangiare per
noi due, non rendendomi conto di essere osservato. A un certo punto, mi chiese: “Papi, perché hai
quella faccia triste?”. In quel momento, fu un pugno allo stomaco. Ebbi improvvisamente
coscienza di come la visione del mondo che mio figlio si stava costruendo era inevitabilmente
filtrata dai miei occhi, dalla mia visione del mondo e della realtà. Lui si rifletteva in me. E io,
inconsapevolmente, stavo rischiando di fare la cosa peggiore che potessi fargli: togliergli la fiducia
che la vita è sempre una cosa buona. E da allora ho sentito molto forte la responsabilità di dovermi
risollevare per lui. Con i bambini è impossibile fingere. Non si trattava, quindi, di mostrarsi
sereno, ma di esserlo; non di sembrare rappacificato, ma di vivere realmente in pace; non di
mostrarmi fiducioso, ma di esserlo pienamente.
3. La scelta di restare fedele
E forse in quel momento, mai come prima, ho iniziato a comprendere davvero allora il
significato di quelle parole che avevo pronunciato il giorno del nostro matrimonio: “Io accolgo te,
come mia sposa. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore,
nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Esserti fedele
sempre... nella gioia e nel dolore. Quei giorni, che non avrei mai pensato potessero arrivare, erano
il momento del dolore, della malattia dell’anima – il massimo dolore che si possa provare in
amore, quello delle spalle girate, del “non ti amo più” - eppure... ti amerò e ti onorerò tutti i giorni
della mia vita.
Sentivo di non poter sopravvivere senza amore. Ma poco a poco iniziavo a realizzare che
non lo dovevo andare a cercare altrove (in altre storie, in altre persone…): ciò che in apparenza mi
era stato strappato, l’amore di mia moglie, continuava a vivere nel nostro matrimonio, che proprio
là dove sembrava finire forse stava invece trovando una sua profonda nuova dimensione. Si
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ricomponevano i frammenti dell’amore umano in un’unità più alta, un’unità da “nozze eterne”,
vive e custodite nel cuore stesso di Dio.
La fedeltà e il perdono non mi sono più sembrate allora mète irraggiungibili, troppo
superiori alle mie forze. Ma la conseguenza e l’effetto del sentirmi amato prima da Dio, perdonato
da Dio, che restava fedele e presente nel nostro matrimonio, dando senso e gioia alle mie giornate.
Iniziavo a trovare qualche senso nelle parole del salmo “Il Suo Amore è per sempre” (Sal 135).
Tutto ciò, però, non toglieva ancora tutte le mie paure umane. Non sarei impazzito, mi
chiedevo? Si può, può un uomo vivere così? Mai prima avevo preso in considerazione
un’eventualità anche lontanamente simile. Mi sentivo fatto per la vita coniugale, di coppia, e non
certo per restare solo. Ho detto allora al Signore: “Pensaci tu!”. E la stessa castità mi è parsa, a
quel punto, come ciò che poteva salvarmi dallo scivolare verso il basso, dall’abbruttirmi. Prima, e
per molto tempo, l’ho subita, poi l’ho scelta. Non più una regola morale dura e incomprensibile,
quasi disumana, ma un mezzo per guardare in alto; sì, per darmi fiducia che lo spirito può e deve
guidare il corpo, e non viceversa; per potere guardare mio figlio con quello sguardo sereno di cui
lui aveva e ha bisogno. Ho chiesto al Signore di darmi la Grazia della fedeltà, giorno per giorno.
Giorno per giorno... E ho accettato che “Per ogni cosa c'è il suo momento (…) C'è un tempo per
nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante (…) Un
tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare (…) un
tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci” (Ecclesiaste 3)
4. La Grazia del perdono
La mia scelta di fedeltà è stata a lungo legata alla speranza di un ricongiungimento. Fino a
quando mia moglie non mi ha detto che aspettava un bambino. Non pensavo che avrei potuto
ripiombare nel dolore acuto dei primi momenti della separazione. Non sopportavo la vista del
pancione di mia moglie. Sì, mia moglie. Nella mia scelta di restarle fedele, non avevo mai messo
in dubbio che l’avrei sempre chiamata così, nonostante tutto. Ma ora? Mi sentivo umiliato, di
nuovo profondamente ferito.
Vidi G. che avrà potuto avere una decina di giorni. Ci incontrammo in un afoso pomeriggio
di estate ai giardinetti, tra le aiole secche e le panchine in mezzo all’asfalto. Mia moglie la teneva
stretta a sé in un marsupio porta neonato. Mi sembrava volesse come proteggerla da me,
guardandomi con un po’ di sospetto, studiando le mie reazioni. Non dissi nulla, ma mi venne un
sorriso, allungai il braccio e toccai appena il piedino di G. Vidi il viso di mia moglie illuminarsi.
Oggi, credo si sia sentita liberata da un grande peso: il pensiero che non avrei mai potuto accettare
la nuova situazione, o che avrei potuto provare rancore verso la bambina, o che il rapporto con
nostro figlio potesse cambiare. In un istante, il piedino di G. aveva sciolto tutto il gelo di quel
lungo inverno dell’anima.
Da quel momento, non mi sono più sentito autorizzato a sperare il nostro
ricongiungimento. Ora una nuova vita aveva diritto ad avere una famiglia unita. Quello era il punto
di non-ritorno. Ho realizzato che la mia scelta era chiamata a purificarsi da ogni aspettativa umana,
e a trasformarsi davvero in “sì per sempre”, senza aspettarsi nulla in cambio, in un “sì fino alla
fine”.
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Da allora, una lenta progressiva guarigione, fatta di piccoli gesti portati quasi con
timidezza, o perfino inizialmente con un certo timore. Una ricostruzione a partire dal frammento di
bene che, tra tutte le macerie che ci eravamo lasciati dietro, era rimasto; come sempre,
inevitabilmente, anche nel matrimonio più ferito resta qualcosa da portare in salvo (tra queste,
senz’altro i figli). Ricordo la prima volta che mia moglie mi disse: “Sei un bravo papà!”. Quanto
mi colpì questa frase, così naturale e forse scontata in una famiglia unita, che non potei non
associare ai giudizi ingiusti e crudeli che ci lanciavamo addosso i primi tempi dopo la separazione,
misurando la distanza da quelli, che mi parve immensa, e mi lasciò colmo di stupore e di
gratitudine. Ricordo quando nostro figlio scese dalla casa della mamma con una pentola di
minestrone, dicendo: “La mamma dice che ne ha fatto di più...”. Un tempo non lo avrei mai
accettato, mi sarebbe sembrato umiliante; e poi avevo dovuto imparare subito ad arrangiarmi, a far
tutto da me; non ne avevo in realtà bisogno. Invece, mi parve bello accettarlo e gliene fui grato. Fu
il miglior minestrone da molti anni a quella parte.
Ricordo quando a mia volta riuscii a dirle: “Sei proprio una brava mamma!”. Non erano
parole di circostanza, ma davvero riuscivo dopo tanto tempo a riconoscere che, sì, era ed è davvero
una brava mamma. Prima, vi avrei probabilmente aggiunto, tra me e me: “...nonostante tutto”. Da
quel momento non più: nessuna ombra mi oscurava più la vista e il cuore. Finalmente, riuscivo a
riconoscere il bene che proveniva dall’altra parte. Avevo tenuto chiuso per molto tempo il mio
cuore in un cupo risentimento, che mi faceva giudicare sbagliato e negativo qualsiasi cosa
giungesse da lei, quasi per principio, come “per definizione”. Finalmente, mi sentivo libero di
giudicare i fatti e gli atteggiamenti per quelli che erano e per i loro effetti, non per la loro
provenienza.
A distanza di anni dalla nostra separazione, anche grazie al cammino comune con fratelli e
sorelle che hanno fatto la stessa scelta di fedeltà al matrimonio-sacramento, ho sentito a mia volta
di dover chiedere perdono a mia moglie. Perdono, io che credevo di non avere avuto responsabilità
in ciò che era accaduto, perdono per le colpe che non avevo mai riconosciuto. Lì, al solito bar,
“campo neutro” dove eravamo soliti incontrarci per le usuali “comunicazioni di servizio”, tipiche
dei genitori separati. Non se lo aspettava, non erano i soliti discorsi sulla programmazione dei
weekend alternati o l’andamento scolastico, che in quegli ultimi tempi occupava quasi
completamente i nostri dialoghi. Mi ascoltava in silenzio, gli occhi un po’ lucidi.
Il giorno dopo, mi ha inviato tre lunghi sms consecutivi. Parole che mi porterò sempre nel
cuore, che fanno parte della nostra storia d’amore, che superano gli ostacoli del tempo e di una
situazione che non può più essere cambiata. E che non sono solo scritte nella memoria di silicio
del mio cellulare, ma – ne sono certo - sono già scritte in Cielo.
5. Compagni di viaggio
Nel momento del maggior bisogno, ho incontrato dei compagni di viaggio. Persone che
avevano vissuto come me il grande dolore della separazione, e allora, sia che l’avessero del tutto
superato sia che vi fossero ancora dentro (avrei poi scoperto che, contrariamente a quanto avrei
potuto immaginare, spesso è proprio questo il momento in cui, se hai incontrato Gesù, riesci a dare
di più agli altri), si erano dedicati ad accogliere altri fratelli e sorelle separati.
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Dopo la mia “conversione”, ancora non riuscivo a capire cosa significasse cercare di
camminare con Gesù nella sua Chiesa e, nello stesso tempo, vivere la croce della separazione. Non
ne capivo il nesso. Il dolore della separazione non è proprio come tutti gli altri: ti senti sempre un
po’ in colpa, sempre un po’ giudicato, provi sempre un po’ di vergogna. La separazione era la mia
fonte di dolore e di umiliazione, mentre mi pareva che la mia “nuova” fede mi chiamasse ad altro.
In queste persone separate che mi accoglievano, e verso le quali provavo l’immensa gratitudine di
sentirmi forse per la prima volta accolto, capìto fino in fondo, anche nei miei silenzi, talvolta
addirittura prevenuto nelle mie necessità, vedevo realizzarsi la ricerca sincera di Dio e, nello stesso
tempo, l’accettazione della propria situazione. Con la guida spirituale di sacerdoti particolarmente
sensibili e attenti, da allora siamo assieme in cammino. C’è un famoso libro scritto da Henri
Nouwen, “Il guaritore ferito”, che nel parlare del ministero del prete utilizza l'icona di Gesù che si
è fatto vicino ai feriti della storia, lasciandosi ferire, guarendoci con le sue stesse ferite. Questo
termine è stato poi largamente riproposto in vari ambiti, ed è stato citato recentemente dalla
Prof.ssa Ina Siviglia3 riferendosi proprio a chi, ferito dalla separazione, non cede alla
rassegnazione e all’autocommiserazione, ma si mette a disposizione dell’altro.
Sono diventato anch’io un operatore, anche se nel nostro caso la divisione dei ruoli tra
utente e operatore, tra chi aiuta e chi si fa aiutare, che in molti casi è un po’ artificiosa, è ancor più
sottile, e qualche volta – posso dire – perfino si inverte. Mi sono fermato a servire nell’“ospedale
da campo” che mi aveva accolto sanguinante qualche tempo prima, in quella “locanda” che mi
aveva dato un piatto caldo e una coperta quando tutti mi avevano lasciato solo.
6. Una vicinanza materna
In questi anni, dopo la mia separazione, ho sperimentato la vicinanza materna e la forte
dolcezza di alcune religiose. E ho capito in modo particolare come certi carismi religiosi sono in
grado di esprimere una singolare vicinanza a tante situazioni di sofferenza, e in particolare di
quella familiare.
Quando mi sono separato non avevo già più mio papà, e mia mamma – come ho accennato
all’inizio – sarebbe mancata poco dopo. Ma avevo ritrovato una mamma, quando lavoravo e
vivevo a Parma, in una suora orsolina di un istituto che accoglieva minori in difficoltà e presso cui
facevo attività di volontariato: suor Assunta Dalla Grana, un’anziana ex madre superiora,
“teoricamente” a riposo in quell’istituto, ma in realtà in piena attività come pittrice, e soprattutto
come donna che pregava, accoglieva, consigliava. E metteva assieme le persone, tirando fuori il
meglio di ciascuno, tessendo tra loro e con loro relazioni positive. Era stata lei a convincermi a
mettere in piedi a Parma, mettendomi in contatto con il parroco della vicina chiesa, e raccogliendo
un primo nucleo di persone separate, un analogo gruppo di preghiera come quello
dell’associazione di separati cristiani che avevo conosciuto e che periodicamente frequentavo a
Milano. Io avevo remore e dubbi, pensavo di non essere in grado, di avere soprattutto ancora io per
primo tanto bisogno di aiuto; e fu invece lei a dirmi: “Ma dai, Manu (così mi chiamava, e così,
specie da allora, mi piace farmi chiamare), dobbiamo farlo anche qui!”. Era lei che mi accoglieva
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Docente di Antropologia teologica presso la Facoltà teologica e Teologia del servizio alla LUMSA – Facoltà di
servizio sociale e membro della Consulta nazionale di Pastorale familiare
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nel suo studio pieno di colori e odore di vernice, e che, alla mia domanda: “Come sta, Suor
Assunta?”, mi rispondeva sempre: “Benissimo! Ma ora che ti vedo, meglio!”. Quanto mi
incoraggiò e mi sostenne nella mia scelta di fedeltà matrimoniale e nell’amore verso mia moglie
(lei non usava mai espressioni dure nei suoi confronti; magari, mi diceva: “Povera figlia!...”).
Quanta teologia passava in modo semplice nei suoi discorsi. Ricordo ancora quanto mi colpì
questa semplice constatazione di fede, ma alla quale non avevo mai pensato con quella chiarezza
ed evidenza: “Pensa, Manu, che bello: che quando nasciamo, non moriamo più!”. E so, quindi, che
ora mi guarda e ci guarda; perché prima che lasciassi quella città per tornare a Genova, mancò
dopo breve malattia, e ciò mi lenisce il rimpianto per non essere riuscito a salutarla.
Ma ricordo anche la madre superiora dell’istituto, che – dopo la mia separazione legale,
quando andai a dirle che mi sentivo in difficoltà e in un certo imbarazzo, e che rimettevo a lei il
giudizio di opportunità sulla prosecuzione del mio servizio di volontariato coi minori – non ebbe
un istante di esitazione, e mi disse: “Ora capirai anche meglio i nostri bambini...”.
E ricordo anche quando, assieme ad un piccolo gruppo di amici e amiche separati, ebbi un
incontro con alcune suore passioniste di clausura. Tutti scambiammo con loro alcune brevi battute,
confidammo qualche peso del momento, affidammo intenzioni di preghiera. Tutto nell’arco di
pochi minuti. Dopo circa un anno, ritornammo a trovarle, e restai letteralmente allibito non solo
nel sentirmi chiamare per nome (io che ho grande difficoltà nel ricordare i nomi), ma anche nel
sentirmi chiedere notizia, col suo nome, della persona che avevo affidato alle loro preghiere.
“Queste fanno sul serio!” – Pensai tra me e me.
7. Tutti insieme: ricchezza o confusione?
Si può qui accennare ad una questione che oggi ricorre abbastanza spesso nella riflessione
pastorale: se sia opportuno realizzare itinerari comuni per separati divorziati risposati o in nuova
unione, o comunque orientati in tal senso, e separati che hanno fatto una scelta di fedeltà, ovvero
occorra tenere nettamente divise le iniziative e i percorsi. La questione è aperta, e possono
riconoscersi pro e contro in entrambe le posizioni. La critica più comune rispetto ad un percorso
indifferenziato è quella che vi intravede un rischio di disorientamento tra i partecipanti circa la
dottrina della Chiesa sul matrimonio, o di suscitare tensioni e contrapposizioni tra le diverse
sensibilità. Viceversa, secondo altri, la distinzione dei percorsi esporrebbe al rischio che ciò possa
apparire come un giudizio soggettivo sulle persone, e, addirittura, una distinzione tra “buoni” e
“cattivi”.
Credo sia difficile, oggi, poter dare una risposta definitiva. Nella chiarezza indispensabile
dei princìpi, saranno soprattutto la sapienza pastorale, la sensibilità umana e un’opportuna dose di
buon senso a suggerire le vie migliori e concretamente percorribili. Dalla mia esperienza
personale, ritengo, tuttavia, che un’iniziativa pastorale di “primo impatto”, almeno nella fase
iniziale, dovrebbe soprattutto privilegiare l'aspetto dell'accoglienza incondizionata, senza operare
distinzioni tra le varie situazioni. Solo in un secondo momento, si potrà, ed anzi si dovrà suggerire
con discrezione la possibilità di un cammino di approfondimento per i separati fedeli con un
percorso dedicato. Questo diventa in modo particolare necessario nei momenti di formazione. Va
detto, comunque, che la presenza nei gruppi misti di persone che hanno fatto una scelta di fedeltà è
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sempre significativa per le persone che hanno iniziato una nuova unione, e particolarmente utile
per coloro che sono alla ricerca di una scelta di vita. Questo è stato peraltro il percorso storico
delle due associazioni in cui opero, Famiglie Separate Cristiane e Separati Fedeli; l’una che
accoglie le persone separate qualunque sia la loro situazione dopo la separazione, nata nel 1998, e
l’altra, sorta nel 2000, rivolta specificamente ai separati che hanno fatto una scelta di fedeltà.
Nel naufragio della separazione, in un primo momento si è tutti sbalzati fra le onde, e su
tutti si abbattono le stesse furie distruttrici. È lì che gruppi, associazioni e movimenti possono
essere le scialuppe di salvataggio calate dalle murate della nave e lanciate al largo. Spesso solo
loro sono in grado di afferrare il braccio di chi sta per scomparire tra i flutti. Insieme, si salveranno
ritornando alla nave della Chiesa. C’è però una fase successiva (che potrebbe anche essere
immediatamente successiva ad una prima accoglienza), dove quella stessa carità impone di aiutare
a fare discernimento sulla propria situazione, e la necessità di specifici cammini di
accompagnamento inevitabilmente si impone.
Vi vorrei far notare che c’è un’opinione diffusa che si potrebbe sintetizzare così: “Oggi il
problema sono i divorziati risposati, quelli che non possono fare la comunione... Ma loro, i
separati fedeli, che stanno a posto, che non contestano, che problemi hanno? In fondo, cosa
cercano, cosa vogliono?”. E così che, anche all’interno della stessa comunità ecclesiale, il separato
che ha fatto o che è orientato ad una scelta di fedeltà può talora constatare di essere isolato, e
cogliere un senso di incredulità e di sfiducia in chi gli sta attorno, e perfino una difficoltà a
riconoscere un qualche senso e valore alla sua scelta.
Per me, la risposta sta in un preciso episodio vissuto, quando una signora separata da molti
anni, all’inizio della frequentazione di un nostro gruppo, ci disse: “Sono restata sola tutta la vita
per i miei figli, perché non mi sentivo di rifarmi una vita. Ma, tornassi indietro... non lo rifarei”.
Nella rispettosa comprensione del suo intimo sentire, devo dire che trovai quelle sue parole
tristissime; mi davano il senso ineluttabile di una scelta subìta, anche se sostenuta da nobili
ragioni, non maturata e in definitiva non assunta fino in fondo. Ma proprio queste stesse parole mi
sono state rivelatrici, e mi hanno confermato definitivamente la necessità di un accompagnamento
specifico per me e per tutti quelli che sentono nel cuore di poter fare questa scelta di vita. Perché
davvero dìa frutto, perché davvero sia una scelta “nuziale”, e non solamente un “restar soli”.
Neppure questa condizione è infatti, di per sé, priva di rischi: il rischio che sia o che diventi
solo una condizione umana di ripiego o di chiusura, un espediente di accomodamento, oppure
“sterilità affettiva”, rigido formalismo, sterile presunzione, eroismo fine a se stesso, orgoglio
spirituale; o ancora, uno stato di mera “sopravvivenza”, di rassegnazione nella solitudine. Credo
che la tutta la comunità dovrebbe sentire la responsabilità di “custodire” le persone che hanno fatto
o sentono di poter fare, con la Grazia di Dio, questa scelta. Non tanto per loro, ma per quello che
testimoniano, loro malgrado: un amore più grande, che va oltre la reciprocità, oltre l’unione dei
corpi, oltre ogni separazione, tradimento e rifiuto, che può far vivere tale condizione, di per sé
umanamente inaccettabile, come una tensione verso quell’unione totale con Dio che è la realtà più
profonda e il compimento del sacramento del matrimonio.
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8. La misericordia di Gesù e la misericordia dei discepoli
Mi ha colpito una riflessione che ho letto recentemente che metteva in luce il contrasto tra
la misericordia di Gesù e la misericordia dei discepoli, sullo sfondo del racconto evangelico della
moltiplicazione dei pani. La misericordia dei discepoli è una misericordia umana, se vogliamo,
pratica, immediata; ma anche, talvolta, si potrebbe dire, frettolosa. In molti episodi, chiedono a
Gesù, ad esempio, di mandar via la gente (con buone intenzioni: la gente ha fame e si fa sera...);
oppure gli chiedono di intervenire perché qualcuno li sta assillando. La misericordia di Gesù è
altra cosa. Alcune volte, può perfino sembrare brusca dapprincipio. Ma sempre induce a un
cammino di conversione. Non lascia mai la persona come prima. Guarisce fino in fondo, sazia fino
in fondo.
Vi trovo un’analogia con la situazione di chi oggi, tra i fedeli, ma anche qualche volta tra
alcuni sacerdoti, pensa che “il” problema dei separati risposati sia quello di non poter accedere
all’Eucarestia, e di conseguenza ritengono che il problema dell’allontanamento di molti separati
dalla Chiesa e le critiche di rigidità e anacronismo che giungono alla Chiesa da più parti,
semplicemente possa essere superato concedendo l’Eucarestia ai divorziati risposati. Si potrebbero
approfondire e distinguere varie posizioni e sfumature, ma a me pare che tali posizioni, pur
esprimendo sensibilità, attenzione, sincera empatìa verso i separati che soffrono tale condizione,
siano lontane dalla misericordia di Gesù. È la misericordia dei discepoli, non quella di Gesù. Solo
la misericordia di Gesù, che talvolta sembra dura e persino incomprensibile, fa crescere. Solo la
misericordia di Gesù – io credo, e su di me e la mia famiglia l’ho sperimentato - è vera
misericordia.
9. Riconoscere la sofferenza dei figli
Da tempo, lo sappiamo, è in atto una vasta e profonda azione di persuasione collettiva
tendente a rendere la separazione accettabile sotto ogni punto di vista. Molteplici fattori, che ormai
costituiscono ampio oggetto di letteratura in ambito sociologico, psicologico, giuridico e morale,
anche se con letture molto diverse dello stesso fenomeno, contribuiscono a dare della separazione
un’immagine di “normalità”, lontana dalla realtà che conosce chi l’ha vissuta nella propria carne.
(Sono all’opera potenti forze di persuasione che agiscono sulla collettività e sui singoli con
un’azione di radicale rimozione e deresponsabilizzazione).
C’è invece un primo dato che si impone all’esperienza, tanto evidente quanto negato e
rimosso: non solo i coniugi, ma anche i figli soffrono. A qualunque età, anche se in modo diverso.
Eppure, lo si nega in tanti modi. Spesso sono proprio i genitori a respingere l’idea di essere stati la
prima causa delle sofferenze dei figli, che però spesso riemerge a distanza di tempo sotto forma di
profondi sensi di colpa. In molti casi sono gli altri soggetti educativi, ai quali mancano gli
strumenti culturali e, talora, le risorse umane e i mezzi materiali per gestire tali situazioni, che
tendono a sottovalutare e perfino banalizzare il problema. Capita, ad esempio, che insegnanti ed
educatori risolvano in modo tranciante tentativi di introdurre azioni e attenzioni specifiche, con
frasi del tipo: “Ma oggi ormai, più della metà dei bambini hanno i genitori separati”. Come se ciò
potesse lenire la sofferenza che il bambino ha dentro di sé e sente soggettivamente, al di là di ogni
statistica. A ciò si aggiunge il timore della ghettizzazione e un malinteso senso della privacy, per
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cui la giusta preoccupazione di non bollare e discriminare diventa spesso l’alibi per non
riconoscere la situazione di questi nostri bambini.
Non ho mai tenuto un diario personale, ma dal momento della separazione ho iniziato ad
annotare tante frasi pronunciate, eventi ed episodi vissuti da nostro figlio, dai primissimi tempi
della separazione, quando aveva appena tre anni, sino ad oggi che è adolescente. Considero questa,
a suo modo, una “storia sacra”. Talora la rileggo e vi ritrovo un’infinita gamma di sentimenti. Le
sue rivolte, nei momenti in cui avevamo perso ai suoi occhi di bambino ogni autorevolezza, la sua
rabbia e frustrazione nel non poter decidere con chi stare secondo la sua volontà, il conflitto di
lealtà ora verso l’uno ora verso l’altra, l’irritazione per le nostre incomprensioni delle sue difficoltà
quotidiane. Ma anche la gioia, talvolta espressa dalla mia stessa grafìa del momento, per le sue
tenerezze e generosità; l’allegria per la simpatia delle sue battute, che ha sempre amato tanto fare
sin da piccolo.
E tante domande. A molte ho risposto. A tante altre non ho saputo rispondere. Non solo e
non tanto perché spesso prevenivano eventi e situazioni, e sopravanzavano la mie capacità di
risposta, ma spesso perché la risposta non c’era. Non potevo che abbracciarlo e stringerlo a me.
10. Tempi difficili per tutti?
Indubbiamente, molti dei problemi che vivono le famiglie separate sono presenti in tante,
forse la maggior parte delle famiglie. Diverse questioni hanno infatti un’origine che precede e una
dimensione che travalica i problemi specifici legati alla rottura dell’unità familiare. Inoltre,
purtroppo, ci sono casi in cui la conflittualità tra i coniugi è molto alta anche in famiglie
apparentemente senza problemi, al punto da creare vere e proprie separazioni in casa. Oggi, poi,
credo che tutti i genitori debbano combattere la tentazione di abbattersi davanti a tante e così
potenti pressioni di condizionamento psicologico e morale sui figli. Quando si avverte poi che i
figli stanno entrando in quella “zona d’ombra”, in quella “valle oscura”, sconosciuta, che non è più
il mondo infantile e non è ancora quello adulto, minacciati da enormi pressioni ambientali (la
dittatura dell’immagine, l’incitamento alla trasgressione, la disumanizzazione della sessualità, un
nuovo devastante nichilismo, veicolato proprio da adulti-non adulti che hanno perso ogni
credibilità e autorevolezza) talora può temere che la corrente di queste forze più grandi di noi li
trascini via.
Di fronte a queste nuove e vecchie fragilità, a queste trasformazioni epocali che hanno
portato i vescovi a riconoscervi una sfida culturale e un segno dei tempi (cfr. Educare alla vita
buona del Vangelo - Orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per il decennio 2010-2020), in
cosa consistono le particolari problematiche delle famiglie separate?
Nelle famiglie separate, quegli stessi problemi che si verificano in ogni famiglia si verificano
generalmente prima, hanno più ampie e più profonde ripercussioni negative, e, soprattutto,
vengono affrontati con risorse e possibilità di successo assai minori che nella famiglia unita. Il
delicato gioco di fermezza e dolcezza, prudenza e fiducia, che è necessario i genitori adottino con i
figli spesso diviene un impresa impossibile per i genitori separati, se questi non riescono ad uscire
dalla palude dei rapporti conflittuali. Ciò che ogni genitore è destinato a dover compiere, prima o
poi, il genitore separato è spesso costretto a farlo in modo anticipato e in alcuni casi drammatico:
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distaccarsi fisicamente dai figli e accettare di vederli percorrere strade che non possiamo conoscere
e vivere situazioni che non possiamo controllare.
11. Una generazione narra all’altra le tue opere
E iniziavo così a capire che il dono più grande, l’unica vera eredità che potremo lasciare ai
nostri figli è la fede, e a desiderare per mio figlio più di ogni altra cosa che possa ricevere il dono
della fede. Molto spesso, purtroppo, le ferite dei figli dei separati si riflettono anche nel loro
rapporto con la spiritualità e la fede. Questo perché punti di vista che erano prima della
separazione così naturalmente convergenti tra i coniugi, in modo particolare quanto alla vita e
all’educazione dei figli, diventano improvvisamente divergenti. È così che spesso anche la
trasmissione della fede, anziché quel “raccontare di Dio” attraverso la vita quotidiana della
famiglia, può diventare un altro oggetto di contesa e controversia tra i genitori, col risultato che
tutto ciò diviene un ulteriore motivi di disagio psicologico per i figli. I figli si trovano di fronte
all'insolubile dilemma di voler bene ad un padre e ad una madre che non si amano più o che si
odiano profondamente, in una situazione in cui spesso la dimostrazione di affetto verso un
genitore è considerato un tradimento dall'altro; essi sono perseguitati da un conflitto di lealtà che
gli impedisce di vivere il proprio ruolo di figli (Emery4 1982). Molto frequentemente, anche se non
sempre per fortuna, ne consegue che le modalità ordinarie, tradizionali, della trasmissione della
fede non possono essere applicate per i figli dei separati.
Ma come fa un bambino, infatti, spesso mi sono chiesto, a credere alle parole di un genitore,
che certo le esprime in buona fede e con le migliori intenzioni, quando ciò che in modo del tutto
naturale e istintivo credeva in modo assoluto, e cioè che mamma e papà si vorranno sempre bene, è
stato radicalmente negato? Capite quanto è grande la loro ferita! E allora, l’unica cosa che rimane
è pregare in ginocchio ai piedi di Maria e dirle “È tuo figlio, pensaci tu!..”. La nostra speranza è
che la nostra fedeltà a Dio, il nostro silenzioso patire, le nostre lacrime nascoste arrivino anche a
loro, e compiano ciò che è umanamente impossibile. Credo che sarà soprattutto la testimonianza
sofferta e silenziosa a portare, quando sarà il momento, i frutti che al momento sembrano
impossibili, anche ricercando strade diverse, facendosi ispirare dallo Spirito Santo la “fantasia del
bene”.
E credo che sia urgentemente necessario individuare percorsi di condivisione per i figli,
sensibilizzare la comunità ecclesiale, le parrocchie, le scuole, gli istituti. Fare arrivare in più
ambienti la loro problematica e il loro bisogno d’ascolto. Speriamo che anche la pastorale
catechistica sappia interrogarsi con umiltà, e trovare linguaggi, atteggiamenti e sensibilità adeguate
per affrontare queste nuove realtà.
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Professore di Psicologia e direttore del "Center for Children, Families and the Law" presso la University of Virginia.
È autore di diversi volumi e di numerosi articoli apparsi su Time, The Washington Post Magazine, Child e The New
York Times.
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12. E se il mio matrimonio fosse nullo?
La scelta di fedeltà al matrimonio-sacramento si fonda necessariamente sul presupposto
della validità del sacramento ricevuto. È di conseguenza opportuno che chi avesse fondati dubbi
circa la validità del proprio matrimonio proceda ad una sua verifica, almeno preliminare e
sostanziale, nei luoghi e con i soggetti competenti messi a disposizione da ogni diocesi, prima di
intraprendere questo cammino. In ogni caso, la verifica della validità del matrimonio sacramentale
celebrato andrebbe vissuta come un momento di chiarificazione e verità su se stessi e il proprio
matrimonio.
Su questo argomento, invece, si addensano disinformazione, superficialità e pregiudizi. A
parte i più noti luoghi comuni, ancora difficili da superare, vi è poi la posizione, spesso
sinceramente sofferta, di chi subisce la sentenza di nullità come un’ulteriore ingiustizia,
contrastante con la propria personale convinzione e adesione alla verità del matrimonio. Lo stesso
termine “annullamento”, col quale in modo erroneo e fuorviante si indica nel linguaggio comune il
processo di nullità, conduce molti a sentirsi a loro volta “annullati” nella loro storia personale, nei
loro affetti, perfino nei loro stessi figli. Le conseguenze psicologiche su questi ultimi, poi, sono
davvero assai poco considerate e valutate.
È evidente che la questione tocchi tanti e così profondi e gravi aspetti, che non giova la
carità frettolosa – così la chiamo io - con la quale a volte gli stessi sacerdoti la prospettano e
propongono alla persona separata. È esperienza comune, per noi persone separate, che quando non
ci si confessi presso il proprio confessore abituale, il suggerimento di intentare il processo di
nullità è tra le prime parole che ci vengono rivolte dopo aver dichiarato la nostra situazione di
separati. Talvolta, precedute da un laconico “Convivi?..”. Ci aspetteremmo che ci venisse chiesto:
“Vedi i tuoi figli? Stai soffrendo molto? Odi tua moglie... tuo marito?”.
13. Essere nel mondo senza essere del mondo
Siamo nel mondo, inevitabilmente. A volte, il separato fedele potrebbe pensare o desiderare
una vita monastica, o una qualche speciale consacrazione. Alcuni aspetti, infatti, avvicinano
indubbiamente la vita del separato fedele a quella del consacrato, e tra le due vi è certamente una
qualche analogia. Così come se ne potrebbero lì per lì trovare anche tra la persona separata e la
persona vedova. Ma non spingerei troppo oltre le analogie, fino a quasi equiparare queste diverse
condizioni.
Ritengo poi che sia qui la nostra vita, nel mondo. Lo richiedono i nostri doveri e obblighi di
genitori, lo richiede il nostro lavoro, lo esige la nostra particolare “indole secolare”, che ci porta a
“cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (cfr.
Christifideles Laici). Qui sta il nostro specifico. Testimoniare ovunque, in ogni ambiente e
circostanza, con la vita più che con le parole, e con l’umiltà che deve venire dalla forza nella
debolezza (cfr. 2Cor 12,9), la grandezza del matrimonio cristiano. Con la gioia, pur nella fatica. E
il cartellino dell’ufficio e la sirena della fabbrica sono per noi la campanella che “chiama la sposa
di Dio alla preghiera” (cfr. C. Lubich).
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In qualche momento di stanchezza, dopo giornate in cui avverti il peso della gestione di
tutte le piccole, banali ma, sommate, estenuanti incombenze quotidiane (fare la coda alla posta già
prima di entrare in ufficio, poi correre a fare la spesa; al rientro, riassettare la casa, attaccare un
bottone, compito, quest’ultimo, già gravosissimo per noi maschietti...), mi è capitato di
condividere con qualche amico sacerdote un pensiero – lo confesso - forse ingeneroso nei loro
confronti: “Vi rendete conto di quanto la vostra vita sia meno complicata? Avete una comunità, o
comunque qualcuno pensa alle vostre esigenze quotidiane... Noi, invece, abbiamo tutto sulle nostre
spalle!”. E avverti che ti manca il tempo per la riflessione e per la preghiera personale.
Cresce, quindi, la consapevolezza di quanto ci sia necessario nutrirci di ogni occasione di
incontro nella fede, di ascolto della Parola, e sempre più immergerci nel mistero insondabile di
Gesù Eucarestia. È nell’Eucarestia, infatti, che ritroviamo il nostro coniuge, la nostra famiglia
unita. È lì che viviamo una particolare unità con i fratelli separati che non vi si possono accostare,
e che trovano, anche proprio in questa loro sofferta rinuncia, la loro particolare vicinanza alla
Croce.
14. Segni di contraddizione
C’è un limite oggettivo alla comprensione di una scelta di fedeltà nella separazione nella
mentalità comune. Ed è il concetto stesso di amore, come oggi viene raccontato, teorizzato,
vissuto. Se non sento più nulla, se questa unione non mi dà più gioia ed emozione, non è forse
giusto avere il coraggio di spezzare questo legame? Se può esserci ancora qualche dubbio, questi
sono generalmente superati quando uno dei due decide di rompere il patto. A questo punto, fine
dei giochi, e ognuno per la sua strada.
Non è raro che chi invece sceglie di restare fedele a quel “sì” sia sospettato di fanatismo o
esaltazione religiosa, (da chi vede in questa condizione di vita più una latente psicopatologia che
una pur sofferta scelta, e può arrivare in piena buona fede a consigliare di rifarsi una vita, con
l’idea inespressa, e talora pure espressa, che sarà pur meglio un nuovo sano rapporto di coppia,
piuttosto che soffocare la propria umanità, immolandola sull’altare di un dio spietato). Il Signore
non vuole forse la nostra felicità? E poi, dietro una scelta del genere, non è più probabile si
nascondano piuttosto blocchi o rinunce, paure e remore? Insomma, l’anticamera di mali ben
peggiori? In fondo, nessuno che non abbia fatto una scelta di vita consacrata può vivere così!
Questi sono grossomodo gli atteggiamenti mentali più comuni alla base del pregiudizio che
talora perfino cattolici praticanti esprimono verso chi è orientato ad un scelta di fedeltà al
matrimonio-sacramento. (Ancora più doloroso, e particolarmente disorientante per la persona
separata, è quando giudizi e consigli di tal genere sono espressi da sacerdoti o religiosi.)
Io non ho risposte convincenti in grado di fugare tutti questi dubbi e queste ombre. Sono
qua, con tutti i miei limiti, con la mia umanità ferita, talvolta con i miei scoraggiamenti, che
qualche volta mi hanno portato a dire: “Cosa sto facendo?.. È tutto inutile”. Ma vorrei poter dire
come Paolo: “Non conosco che Cristo e Cristo Crocifisso”! (1 Cor 2, 2).
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15. La spina nella carne
Tempo fa, alla festa per il battesimo di una nipotina, mia sorella mi ha fatto leggere alcune
pagine di un diario di mia madre, mancata da molti anni, di cui non ero a conoscenza. Era allora
vedova da qualche tempo, e poco prima che la stessa malattia di mio padre portasse via anche lei.
Erano parole che esprimevano sentimenti di profondo e tenero amore, che da figlio non avevo mai
riconosciuto. La bellezza di una famiglia “normale”, che spesso la quotidianità rivestiva di un
apparente grigiore, riemergeva da quelle parole in tutta la sua forza.
In quel momento, mi è passato per la mente un pensiero: io non avrò tutto questo. Non avrò
qualcuno che mi terrà la mano in quei momenti. Dopo aver combattuto tante battaglie, superato
tanti ostacoli, resta il desiderio di un affetto esclusivo, di qualcosa “solo per me”...
Tutto questo fa parte delle mie fatiche quotidiane. Credo che sia necessario che io affronti
ogni giorno la mia umanità, con le sue domande ed i suoi dubbi. C’è anche in me un’aspirazione
alla felicità umana, che alle volte cerca una risposta che sembra sfuggire, ma che ho scoperto di
non potere semplicemente eludere.
Dopo una giornata lavorativa un po’ pesante, la fatidica domanda, “Perché io no?”, la
domanda che racchiude tutte le speranze dell’amore umano, di un’unione felice, che credevo per
me definitivamente superata, mi riecheggiava. Perché anch’io non posso avere una nuova unione
felice, come sembra accadere per tante coppie risposate? E mi sono sentito debole e pieno di
dubbi. Quella sera, prima di rientrare a casa all’uscita dell’ufficio, sono andato a passeggiare al
porto antico di Genova, la mia città, e guardavo il mare scuro della sera invernale sentendomi
profondamente triste. A un certo punto, ho avuto la netta sensazione di una risposta precisa, chiara:
se non continui a crescere nell’amore, questa condizione di vita non è pensabile, semplicemente
non è possibile. Se la ferita non diventa davvero una “feritoia d’amore”, resta solo una ferita, che
poco a poco inevitabilmente dissangua. Devo convertirmi ancora, camminare, non posso fermarmi.
Forse per me, il cammino da Gerusalemme ad Emmaus sarà più lungo di quegli 11
chilometri del racconto evangelico, ma so di non essere solo.
16. Fedele a chi, a che cosa?
Forse non mi sono mai fatto questa domanda. O forse è un interrogativo così presente e
costante nella mia vita che non l’ho mai percepito veramente come tale. Ma dovendo ripercorrere
il cammino fatto finora, e tentare una risposta, sento di poter dire che mi sono sempre sentito
semplicemente sposato con mia moglie. Certo, tutto è cambiato. Eppure, nulla è cambiato. E poco
a poco, scopro che ciò che è inesorabilmente perso, e che pensavo contenesse tutta la gioia e la
bellezza del matrimonio, è sempre meno importante rispetto a quel che è restato e che scopro
giorno per giorno.
Una fedeltà a un’immagine sbiadita, a un fiore pietrificato, a una proiezione deformata di
una realtà che non c’è più? Ai propri ricordi? Una fedeltà a Dio, che esclude dal proprio orizzonte
interiore il coniuge? Come se ci si potesse presentare davanti al Padre e, alla sua domanda: “Dov’è
tua moglie?”, si potesse rispondere: “Non lo so; sono io forse il custode di mia moglie?” (cfr. Gn
4,9).
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Io credo che la nostra fedeltà di separati sia semplicemente la fedeltà che ci siamo promessi
davanti al Signore il giorno del nostro matrimonio, e di cui Lui resta garante per sempre,
nonostante le nostre debolezze umane.
La riflessione della Chiesa sul matrimonio, che ho iniziato a scoprire essere una fonte non
solo di conoscenza, ma di gioia anche per noi separati, indica nel matrimonio una realtà in
movimento verso le nozze definitive e compiute con Cristo. Anche la stessa fedeltà degli sposi è
immagine, segno, ma anche esercizio – si potrebbe dire - per una fedeltà più grande. In questo
senso, la condizione del separato fedele inevitabilmente accresce la tensione escatologica. Che lo
si voglia o no, siamo spinti ad essere già oltre, già di là. Il nostro cammino viene accelerato, la
Grazia del sacramento ci sostiene.
Tanti amici separati fedeli, fratelli e sorelle “compagni di viaggio” come li ho chiamati,
oggi ringraziano idealmente il coniuge e rendono realmente lode al Signore per quanto è accaduto
nella loro vita e nel loro matrimonio. (Non credo di essere già a questo punto, ma loro) mi sono
costantemente di esempio e di sostegno.
Un’amica, una signora di una certa età, da anni separata fedele, che aveva perso da pochi
mesi il coniuge, separato da molti anni, mi diceva “Sto soffrendo tutto il dolore della vedova!”. Lei
che fino all’ultimo era stata umiliata; lei che non aveva mai ricevuto un sostegno economico
dall’ex marito, anche se questi era molto abbiente, vivendo invece nelle ristrettezze; che non aveva
mai ricevuto un augurio di Natale o di compleanno; lei che le avevano pure allontanato i figli...
Ebbene, lei si struggeva per non essere potuta essere lì, vicino a lui, nel momento del trapasso, e
soffriva enormemente perché il marito era morto solo in un letto d’ospedale (la compagna non
c’era). Lei mi diceva: “Quante cose avremmo ancora avuto da dirci... E ora, soffro tutto il dolore
della vedova”.
Un’altra persona mi raccontava di un suo amico in fase di separazione ma ancora
convivente con la moglie, alla quale chiedeva, quando questa la sera usciva e lui restava a casa coi
figli piccoli, di dirle se era con l’altro, in modo da sapere, almeno, con chi fosse.
17. Quali frutti?
Nell’angoscia ho gridato al Signore, mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo
(Samo 117). Oggi mi sento un “salvato”. Tutti noi – è vero – siamo già stati salvati dal Signore,
ma è anche vero che tutta la vita è una riscoperta di questa verità di fede (che tante volte ci
sfugge). Io ho toccato con mano la salvezza del Signore, quando, affidandomi a lui, mi ha liberato
dall’odio, dalla sete di vendetta, dal tanto male che avrei potuto fare (in certi momenti, può passare
di tutto per la testa...), e mi ha fatto sentire, forse per la prima volta nella mia vita, veramente
libero (umanamente, resto uno sconfitto; ma in Lui, nel suo Amore, siamo vincitori).
In ogni caso, per paradossale che possa sembrare, oggi mi sento più uomo di prima; e credo
perfino di essere un padre migliore per mio figlio, di quello che avrei potuto essere attraverso
scelte diverse.
La separazione per me non è stato un “incidente di percorso”. Un qualcosa di doloroso che può
accadere, come si dice, “di questi tempi”. È qualcosa che mi ha toccato indelebilmente nel
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profondo, e che mi ha fatto conoscere un Dio diverso. Questa sofferenza ha fatto virare
completamente la mia vita in un’altra direzione.
Sento che la scelta di fedeltà non può rimanere fine a sé stessa, ma ci chiama a qualcosa di
molto più grande, che non comprendo fino in fondo, e che percorro a volte nel buio della
sofferenza e della prova. Sento in maniera molto netta di essere in cammino, e ogni giorno affronto
i miei limiti...
Non so quanta strada ho percorso dai primi tempi: noto solo che prima non riuscivo a guardare
una coppia abbracciata o in atteggiamento di tenerezza, senza provare sofferenza e forse invidia.
Ora, invece, mi viene naturale una breve preghiera: Signore fa’ che siano una bella famiglia, che si
amino sempre, che non si lascino mai!
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