janus istituto giano comitato scientifico
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janus istituto giano comitato scientifico
trimestrale, anno VII numero 26 janus comitato scientifico DIRETTORE Sandro Spinsanti Luisella Battaglia Docente di bioetica e filosofia morale, Genova DIRETTORE RESPONSABILE Pietro Greco Giorgio Bert Cardiologo, esperto di counselling medico, Torino DIRETTORE EDITORIALE Eva Benelli Vito Cagli Specialista medicina interna, Roma E RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI REDAZIONE Margherita Martini Paolo Gangemi Gilberto Corbellini Istituto di storia della medicina, Università La Sapienza, Roma COPERTINA E ILLUSTRAZIONI Mitra Divshali Giorgio Cosmacini Storia della medicina e della salute, Università Vita-Salute, Milano PROGETTO GRAFICO E Corinna Guercini IMPAGINAZIONE © ZADIGROMA EDITORE Via Monte Cristallo 6, 00141 Roma Tel. 068175644 [email protected] www.zadigroma.it STAMPA Tipografia Graffiti, Via Catania 8, Pavona (RM) istituto giano DIRETTORE Sandro Spinsanti Gianfranco Domenighetti Dipartimento servizi sociali del Canton Ticino Alessandro Liberati Università degli studi di Modena e Reggio Emilia Paola Luzzatto Arteterapia, Genova Felice Mondella Filosofia della scienza, Università di Milano Alberto Oliverio Istituto di neuroscienze, Cnr di Roma Alberto Piazza Ordinario di genetica umana, Università di Torino SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Stefania Santoro Claudio Rugarli Ordinario di medicina interna, Università Vita-Salute, Milano Via Buonarroti, 7 00185 Roma Tel. 06 7725 0540 [email protected] Roberto Satolli Agenzia di giornalismo scientifico Zadig, Milano Pubblicazione trimestrale Singolo numero 16,00 Euro (arretrati 20,00 Euro) Abbonamento annuale 55,00 Euro c/c postale n. 38909024 intestato a Zadigroma srl Registrazione del Tribunale di Roma n. 81/2001 Spedizione in abbonamento postale – Poste Italiane S.p.A. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 1 Dcb – Roma Finito di stampare nel mese di giugno 2007 Annalisa Silvestro Presidente Federazione Nazionale Collegi IPASVI Giovanna Vicarelli Docente di Sociologia dell’organizzazione, Ancona Paolo Vineis Docente di epidemiologia, Università di Torino Franco Voltaggio Storia della medicina, Roma L’editore Zadigroma, titolare del trattamento ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. 196/2003, dichiara che i dati personali dei clienti non saranno oggetto di comunicazione o diffusione e ricorda che gli interressati possono far valere i propri diritti ai sensi dell’articolo 7 del suddetto decreto. Ai sensi dell’art. 2 comma 2 del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, si rende nota l’esistenza di una banca dati personali di uso redazionale presso la sede di Roma, via Monte Cristallo 6. I dati necessari per l’invio della rivista sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’editore Zadigroma per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. IVA assolta dall’editore ai sensi dell’art. 74 lettera C del DPR 26/10/1972 n. 633 e successive modificazioni e integrazioni, nonché ai sensi del DM 29/12/1989. Non si rilasciano quindi fatture (art. 1. c. 5 DM 29/12/1989). 05 CARO DIRETTORE 07 EDITORIALE IL FUTURO DEL PRESENTE UNIVERSO MH 12 Scene di lotta di classe nella sanità italiana Interventi di: • Francesco Germini e Pio Lattarulo • Giovanna Vicarelli 19 Il comitato etico? Noi lo usiamo così Interventi di: • Americo Sbriccoli • Warren Reich 23 La volontà del paziente ha una data di scadenza? Mauro Angarano 26 Evolution based medicine Gilberto Corbellini 32 Screening: c’è posta per te Valentina Arcovio 57 Un’epidemia di diagnosi sta medicalizzando il mondo Gianfranco Domenighetti 63 Che genere di disturbo? Un disturbo di genere Stefano Pisani 67 Quale rimedio per il male oscuro? Stefania Santoro 71 Il benessere del corpo passa per l’estetica? Valentina Arcovio 75 Predire, prevenire e curare: tre cose diverse Antonio Panti 77 Quando gli unici confini sono i nostri desideri Thomas Murray IL CASO 34 Se il farmaco viene prescritto dal governo Commenti di: • Gabriele Greco • Alessandra De Palma • Sandro Spinsanti L’OBIETTIVO: Quando la medicina cura i sani 41 La medicina che gioca di anticipo Roberto Satolli 44 Cesareo: diamoci un taglio Paolo Gangemi 48 Sport e medicina: non solo doping Francesco Sala 53 Bambini geneticamente modificati Margherita Martini A PIÙ VOCI 80 Il controllo della fertilità di Carlo Flamigni Lettura critica di: • Chiara Lalli • Andrea Borini • Walter Domeniconi 87 Benvenuti al Grand hotel Suicidio Franco Toscani 91 Storie di cancro a fumetti Bruno Antonini IL PROFITTO DELLA MEMORIA Religio medici 96 Direttive anticipate, ieri e oggi Daniel Sulmasy Attualità dei maestri 103 L’Igiene è uguale per tutti Donatella Lippi Il ginnasio filosofico 107 Pensare il Sé per pensare la salute Fernando Rosa e Alessandra Parodi La settima arte 114 Dr House: il cinico medico malato Stefano Pisani La medicina raccontata 118 I racconti dell’isola che… c’è Sirio Malfatti La voce di Melpomene 123 Figli di un dio attore Stefania Santoro Ultim’ora indice 126 Disuguaglianze sanitarie: nessuna nuova, brutte nuove Pietro Greco Ecm e medicina narrativa: assolti… con vendetta to infatti che i crediti sono stati concessi, in numero di quattro. Perché quattro? La giornata, di otto ore formative, prevede momenti di discussione di casi, lavori di gruppo, simulazioni, ed è condotta da alcuni dei professionisti che si sono maggiormente interessati alla medicina narrativa in Italia. Comunque, da anni la prassi consolidata, al di là di qualsiasi verifica di qualità degli eventi, è l’equivalenza 1 ora = 1 credito. Per noi, un’ora equivale a 0,5 crediti. Perché? Cercando di non fare supposizioni paranoiche, chiediamoci perché non riusciamo a liberarci di un sistema incongruo, offensivo, miope, che trasforma l’organizzazione di iniziative formative in una gara a ostacoli assurda, e i crediti formativi in una specie di sorpresa da uovo di Pasqua. Un altro esempio? Abbiamo chiesto l’accreditamento di un corso di due giorni, assoluta fotocopia di un altro, accreditato due anni fa con 18 crediti. Questa volta i crediti sono solo 16. Che la qualità degli eventi abbia una data di scadenza come i surgelati? O forse, semplicemente, non c’è nessuna logica, nessuna ricerca di qualità, nessun tentativo di valutare veramente quale formazione viene offerta ai professionisti? Chi avesse tempo e voglia potrebbe aiutarci a raccogliere esempi di eventi premiati con un alto numero di crediti a fronte di una palese inconsistenza dell’offerta formativa: viaggiando nel sito Ecm non ci vorrà molto a scoprirli, specialmente verificando i luoghi di svolgimento. La caccia è aperta. caro direttore Caro direttore, questo sui crediti Ecm è uno dei casi in cui una vicenda particolare può essere di interesse per tutti. Breve riassunto della puntata precedente: un incauto tentativo dell’Istituto Change di ottenere crediti Ecm per una giornata di formazione sul tema “La medicina basata sulla narrazione”, rivolto ai medici interessati alle medical humanities, veniva prontamente rintuzzato dai censori ministeriali, attenti a scoprire le truffe e gli imbrogli che, come sappiamo tutti, fioriscono intorno al business della formazione. A un’attenta verifica contabile emergeva infatti che la quota di iscrizione di 25 euro da noi richiesta ai partecipanti sarebbe stata integrata, per coprire le spese organizzative, da misteriosi fondi neri provenienti da… noi stessi. Cosa si nasconde dietro questa oscura manovra? Ci vorrebbe il giallista Carlo Lucarelli per scoprirlo; ma, a scanso si equivoci, il ministero sospendeva l’accreditamento in attesa di argomentazioni (il ministero scrive la parola tutta in maiuscole!) in grado di fugare ogni dubbio di illecito: gente che non solo non riesce a farsi finanziare neanche dalla più micragnosa delle industrie farmaceutiche, ma addirittura si paga l’organizzazione di un evento, deve avere per lo meno losche finalità. La diffusione della cultura fra i medici, per esempio. Abbiamo argomentato. Forse (lo ammetto) con un po’ di polemica, anche se mitigata da amici e colleghi che hanno tagliato qualche aggettivo qua e qualche argomentazione là. Siamo stati assolti. Anzi, quasi assolti. Ci è stato comunica- Silvana Quadrino 5 C he cosa c’è, oltre la salute? La risposta scanzonata, che definisce la salute come uno stato di benessere provvisorio, dal quale non c’è da aspettarsi niente di buono, sembra passata di moda. Ora la tendenza è piuttosto quella di enfatizzare la possibilità di aumentare la salute; vale a dire: oltre la salute c’è ancora più salute. Come se la salute fosse equiparabile a un bene a quantità variabile: così come non si può mai dire di essere sufficientemente ricchi (né sufficientemente magri, avrebbe aggiunto perfidamente Coco Chanel), allo stesso modo non si è mai abbastanza sani. Il potenziamento dell’essere umano: ecco il nuovo eldorado, terra di conquista della medicina. “Curare i sani” non è un ossimoro; si tratta piuttosto dell’ultima trasformazione che sta attraversando la medicina. Con una restrizione d’obbligo: stiamo parlando di ciò che avviene alle nostre latitudini; nei Paesi che sono fuori dell’area dello sviluppo economico e del benessere, la medicina è ancora confrontata con il compito primario di contenere le malattie, specie quelle infettive, e di impedire che la morte tronchi vite umane troppo precocemente. Il cambiamento più recente era stato la conquista dei non-pazienti (un-patients, in inglese): persone che non accusano sintomi né malesseri, ma che hanno solo la predisposizione ad ammalarsi. Senza essere attualmente presente, la malattia è almeno potenzialmente all’orizzonte delle storie personali degli un-patients. Con l’ultima mutazione, proponendosi di curare i sani, la medicina compie un ulteriore salto, se non di qualità almeno di quantità: si annette un impero sul quale non tramonterà mai il sole. Quasi pazienti, o potenzialmente pazienti, sono tutti. A qualificare questa nuova medicina troviamo ancora una volta una parola inglese: enhancement. È la medicina che ha come obiettivo, appunto, di potenziare l’essere umano. La trasformazione era già in atto quando, all’inizio degli anni Novanta, lo Hastings Center di New York promuoveva la ricerca sugli scopi della medicina. Per tre anni, esperti di 14 Paesi si sono confrontati per chiarire la natura e gli obiettivi che la pratica medica dovrebbe proporsi. Nel rapporto finale, coordinato da Daniel Callahan (ne esiste anche una versione italiana: “Gli scopi della medicina: nuove priorità”, pubblicata su Notizie di Politeia nel 1997), il «miglioramento umano» è chiaramente individuato come uno dei nuovi obiettivi che sovvertono la medicina così come l’abbiamo conosciuta e praticata per secoli: editoriale Miglioramento umano. La frontiera più grande, aperta e utopistica della medicina è quella del miglioramento umano: si tratta di usare la medicina non solo per fronteggiare le patologie biologiche e per restaurare uno stato di normalità, ma anche per migliorare effettivamente le capacità umane – in una parola, di normalizzare e di ottimizzare. Finora le nostre possibilità di perseguire concretamente questo obiettivo sono state limitate, ed è possibile che tali rimangano. Tuttavia la prospettiva resta seducente. La contraccezione moderna ha determinato una svolta drastica nella visione del ruolo delle donne e della procreazione come componente dell’esistenza. La nuova frontiera degli interventi genetici integra il quadro con una prospettiva di una manipolazione dei caratteri umani fondamentali – tra i sogni avveniristici di cui si parla, ricorderò quello di migliorare l’intelligenza e la memoria e quello di ridurre la violenza. Così la scoperta dell’ormone umano della crescita consente già ora di aumentare la statura di coloro che, 7 non essendo in partenza patologicamente bassi, desiderano però migliorare il loro aspetto per ragioni personali o sociali. Qui, però, è importante notare che le possibilità utopistiche di cambiare la natura umana probabilmente sono molto limitate, mentre i progressi concreti e quotidiani realizzati sul terreno dell’istruzione e su quello farmacologico sono destinati ad esercitare un influsso più ampio e profondo. Il rapporto insinuava il dubbio che tutti i miglioramenti che riscontriamo nelle ultime generazioni rispetto alle precedenti dovessero essere attribuiti alla medicina: se siamo più alti, più sani e più intelligenti, il merito va prioritariamente alla condizione di benessere in cui vive la parte dell’umanità che è privilegiata e al mutato stile di vita. Ma la disponibilità della medicina a raccogliere il testimone e ad ampliare l’agenda dei suoi compiti, aggiungendo il miglioramento della natura umana al curare e al consolare, è totale. Alle esemplificazioni già presenti nel rapporto dello Hastings Center (controllo totale della procreazione, miglioramento delle funzioni intellettuali mediante la genetica, intervento sulle dimensioni del corpo favorendone la crescita in altezza), il nostro dossier aggiunge altri capitoli: migliori prestazioni atletiche (Francesco Sala), modifiche delle modalità della nascita (Paolo Gangemi), ampio uso dell’ingegneria genetica per eliminare nei bambini le caratteristiche ritenute negative e incentivare quelle positive (Margherita Martini), interventi sul genere per persone che non si identificano con quello toccato loro in sorte dalla lotteria genetica (Stefano Pisani), modifiche farmacologiche degli stati emotivi (Stefania Santoro), senza dimenticare gli innumerevoli interventi che, in nome dell’estetica, vengono proposti dalla chirurgia e dalla medicina (Valentina Arcovio). E l’elenco non è certamente esaustivo. Il contributo di Thomas Murray sull’enhancement propone il quadro d’insieme della medicina che cura i sani, ma solleva anche i dubbi e le questioni di fondo che agitano chi questo genere di interventi medici non si limita a consumarli. Le riflessioni che ospitiamo in questo numero di Janus problematizzano il ruolo di maggior potere che in questo modo viene attribuito al medico (Roberto Satolli) e all’industria farmaceutica che tira le fila di questa estensione della medicina (Gianfranco Domenighetti); ci interroghiamo inevitabilmente anche sulle trasformazioni che subisce la medicina, sia pubblica che privata, quando non si limita a curare e prevenire, ma si propone di accrescere la salute (Antonio Panti). La medicina che cura i sani fa emergere questioni ancora più gravi e impegnative. Sappiamo che il confine tra salute e malattia, normale e patologico, è mobile: la cultura (o piuttosto, le culture) lo influenza in modo determinante. Gli argomenti di chi ha voluto restringere l’ambito di legittimità della medicina alla sola cura delle patologie (escludendo, per esempio, gli interventi di fecondazione medicalmente assistita in quanto non finalizzata alla cura) non sono mai risultati convincenti. Ma un conto è ridiscutere e negoziare il confine tra salute e malattia, altra cosa invece è cancellarlo del tutto. L’apparente allargamento del potere della medicina ha basi fragili: l’attività sanitaria rischia infatti di essere assorbita dal mercato. Ancora più intrigante è la questione che riguarda la natura umana. Proporsi di migliorar- 8 Janus 26 • Estate 2007 la è una trasgressione che merita di essere punita (secondo il concetto di hybris elaborato dai poeti tragici greci) o è piuttosto la vera realizzazione dell’umano? La tradizione umanistica ha evidenziato con molta enfasi la peculiarità dell’uomo di poter dare forma alla sua stessa natura (cfr. Simonetta Bassi: “La grandezza dell’uomo è nella libertà di scegliere la sua natura”, in Janus 25, primavera 2007, a commento della celebre Oratio di Giovanni Pico della Mirandola Della dignità dell’uomo). E il miglioramento dell’essere umano è, da sempre, al centro di ogni cultura, oltre che di ogni progetto personale. L’enhancement, quindi, o potenziamento, è piuttosto sotto il segno della continuità rispetto al migliore passato dell’umanità, e non un iniquo portato dei tempi nuovi. La sfida con cui siamo chiamati a confrontarci è piuttosto la ricerca di criteri con i quali orientarci tra le innumerevoli proposte che ci vengono rivolte. A meno che non siamo, pregiudizialmente, orientati a respingerle in blocco o ad accettarle indiscriminatamente, dobbiamo concordare criteri di discernimento: sia sociali (per distinguere le pratiche da incoraggiare, quelle da tollerare e quelle da reprimere) sia etici. In mancanza di criteri assoluti (come quello del rispetto di una natura umana definita una volta per tutte o il criterio della terapeuticità dell’intervento), ci rimangono quelli relativi e indiretti. I valori di riferimento non mancano a un’etica razionale: possiamo domandarci se con questi interventi produciamo discriminazioni e disuguaglianze; se favoriamo un controllo della persona sul proprio destino (empowerment) o se promuoviamo una pericolosa concentrazione di potere in mano a individui o a organizzazioni. Non da ultimo, possiamo ricorrere a una delle eredità più preziose della saggezza distillata da secoli di esperienze e di riflessione: la necessità di porsi dei limiti, come individui e come società. Anche la salute, come la vita stessa, non è meno preziosa per il fatto di essere circoscritta da limiti che possiamo estendere, ma non cancellare del tutto. Sandro Spinsanti editoriale 9 Il futuro del presente 12 Universo MH 34 Il caso 41 L’OBIETTIVO: Quando la medicina cura i sani 80 A più voci Scene di lotta di classe nella sanità italiana Mario Pirani ha recentemente sostenuto su Repubblica la subordinazione gerarchica dell’infermiere al medico, innescando un’aspra polemica. In realtà, da anni la normativa stabilisce che non esistono più professioni sanitarie principali e ausiliarie, e la laurea in infermieristica è solo la conseguenza di una crescita professionale. Il rischio, secondo alcuni, è che alla dominanza medica si aggiunga quella infermieristica. L’uomo che sussurrava ai baroni Francesco Germini, Pio Lattarulo «V engo ai fatti: da che mondo è mondo gli infermieri in corsia dipendono da una (o un) caposala e costei risponde al primario e ai medici di turno»: lo scrive Mario Pirani su Repubblica del 23 aprile 2007, in un pezzo d’altri tempi intitolato “Todos Caballeros negli ospedali italiani”. Pirani riferisce con toni apocalittici di «nuove nefandezze», definisce «aberrante far saltare ogni principio di gerarchia e responsabilità medica», e 12 parla di «ex infermieri in cerca di poltrone», lasciando passare una clamorosa artefazione della realtà quotidiana, e cioè che gli infermieri dipendono dal medico di turno. La vera scala gerarchica La norma ha stabilito ben altro, e non ci dovrebbe essere bisogno di discuterne ancora dopo otto anni: per gli effetti della Legge 42/99 non esistono più professioni sanitarie principali e ausiliarie. La scala Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente gerarchica è “infermiere clinico – infermiere coordinatore – responsabile infermieristico di dipartimento – dirigente del servizio infermieristico”. È chiaro che per le questioni che riguardano la parte clinica interviene, in linea di responsabilità, anche il direttore della struttura di appartenenza, e che esiste sempre una direzione medica a cui, se è il caso, far capo. Sarebbe bene precisare che nelle aziende esiste anche un top management rappresentato dalla direzione generale e dai suoi organi, e in Italia ci sono tra pubblico e privato diversi infermieri che ricoprono il ruolo di direttore generale. Paventare ipotetici rischi legati all’affido di un ruolo di responsabilità agli infermieri significa ingenerare ulteriore incertezza nelle persone assistite e nei loro familiari, in un momento storico non semplice per la sanità italiana. In tutti i sistemi sanitari dei Paesi avanzati gli infermieri ricoprono ruoli di grande responsabilità, senza gli effetti deleteri che Pirani teme. Chi mette il pappagallo rea in medicina sono compresi anche studi di infermieristica? Per quale ragione gli infermieri devono compiere percorsi formativi postbase caratterizzati da studi di management per coordinare anche una singola unità operativa, e direttori di struttura semplice o complessa si diventa soltanto in base a un curriculum scientifico relativo al settore per cui si concorre? Chi ha detto che essere un medico capace è equivalente all’essere un buon manager? L’intervento del sottosegretario Nel terzo articolo, intitolato “Le 22 ‘professioni’ del caos sanitario”, del 7 maggio, Pirani minimizza l’intervento di Gian Paolo Patta, sottosegretario alla Salute, che gli ha fatto presente l’incongruità delle sue affermazioni, oltre all’insito pericolo in termini d’impatto sull’opinione pubblica. Scrive infatti: «Qual è il confine tra i vari “ambiti” e, soprattutto, chi coordina e, alla fine, ha l’ultima parola in quel “modello multiprofessionale” che sancisce la cancellazione del primato medico?». In questo atteggiamento c’è una visione universo MH Nella seconda puntata, datata 30 aprile, il giornalista viene al punto della questione: «Quando tutti gli infermieri saranno laureati e masterizzati, chi distribuirà le medicine ai degenti, chi porterà la padella o il pappagallo, chi metterà e toglierà le flebo, chi dovrà farli mangiare? A che servirà un ospedale pieno di dottori in medicina o in scienze infermieristiche?». Il problema è presto risolto: non c’è necessità di un infermiere per un pappagallo o una padella; o, quantomeno, è previsto che venga fatta una valuta- zione a priori su chi può fare quella prestazione (naturalmente un operatore di supporto, su delega e supervisione dell’infermiere). L’infermiere è più utile per pianificare l’assistenza e prevenire le complicanze di una patologia, e può svolgere un ruolo determinante nella prevenzione del rischio clinico e molte altre attività. È grottesco che mentre negli ospedali accadono centinaia di errori probabilmente evitabili con corretti programmi di Clinical Risk Management, sulle pagine di uno dei principali quotidiani italiani si discuta ancora di padelle e pappagalli. E addolora che il presidente dell’Ordine dei medici di Roma abbia colto la palla al balzo per applaudire la banalizzazione di un sistema complesso e multidisciplinare come il percorso clinico assistenziale, ponendo all’indice «quei professionisti che non solo mal tollerano l’imprescindibile ruolo di sintesi che il medico deve avere […] ma addirittura immaginano di sostituirsi ad esso». Evitando di rispondere ad accuse infondate, si potrebbe porre qualche invece domanda seria: nel settore scientifico disciplinare a cui afferisce la lau- 13 distorta e deleteria del concetto di professionismo: si omette sempre il termine “intellettuale”, che invece ne è parte integrante. Le professioni intellettuali sono tali perché alla base delle attività concrete svolte c’è un processo cognitivo che ha le sue fondamenta nel percorso di formazione che il professionista namento di una padella o di un pappagallo non prevede particolari abilità e competenze, ma tutto ciò che gira intorno a quell’atto sì: le condizioni fisiche del paziente, la sua cultura, il suo senso del pudore, la sua capacità di affrontare quell’evento stressante, così distante dai normali atti quotidiani. Quindi È grottesco che mentre negli ospedali accadono centinaia di errori evitabili con programmi di Clinical Risk Management, sulle pagine di uno dei principali quotidiani italiani si discute ancora di padelle e pappagalli ha seguito, e che gli ha dato le competenze e le abilità necessarie per avere completa padronanza del processo che mette in atto. Un atto qualunque può non avere bisogno di alcun background culturale se lo si considera avulso dal contesto, ma la conoscenza del processo diventa fondamentale se l’atto viene visto come parte di un processo complesso, che coinvolge una persona la quale, come un sistema aperto, viene influenzata dall’atto stesso sia da un punto di vista biologico, sia relazionale e spirituale. Il posizio- 14 anche processi di questo tipo devono essere gestiti da personale laureato e competente, che utilizzerà eventualmente il cosiddetto personale di supporto per eseguire l’atto stesso. L’esempio del Commonwealth La contrarietà a dotare gli infermieri di un titolo di laurea non tiene conto del fatto che il passaggio della formazione infermieristica al livello universitario è stato la logica conseguenza di una crescita della profes- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente sione, che negli altri Paesi (in particolar modo in quelli del Commonwealth britannico) ha raggiunto livelli estremamente elevati, e che l’Italia non poteva continuare a ignorare. La normativa vigente impone un cambiamento che ancora fatica molto a concretizzarsi nelle strutture sanitarie italiane: il lavoro in team multiprofessionale, indispensabile proprio per i processi estremamente complessi della cura di una persona, che rendono di fatto impossibile una gestione strettamente gerarchica. L’approccio olistico alla persona prevede di considerarla non solo in funzione dell’organo malato, ma di tutte le sue problematiche assistenziali, degli aspetti sociali e culturali, dei valori laici e religiosi, nel rispetto della sua unicità: non è pensabile ridurre tutto questo a una mera visione “militare” dell’assistenza, con un generale che comanda e il plotone che esegue ciecamente. Come può un professionista, medico o non medico, credere di essere nelle condizioni di poter gestire in forma esclusiva questa situazione così complessa? Pirani afferma poi di avere già sottolineato in passato la necessità di delegare agli sione infermieristica (sentenza del Tribunale di Matera, riportata sulla Gazzetta di Matera il 6 aprile 2003), mentre un ricorso al Tar di Milano, proposto dall’Associazione nazionale primari ospedalieri e dall’Associazione medici dirigenti contro l’istituzione del Servizio infermieristico, tecnico e riabilitativo aziendale dell’Azienda ospedaliera di Melegnano, è stato respinto con una sentenza dell’11 gennaio 2007. L’altra amara considerazione è che gli unici a rischiare, in questa battaglia inutile per affermare il potere assoluto del medico, sono i pazienti, bersagliati da informazioni contrastanti, e quindi in preda a confusione e incertezza circa il loro futuro. Il manifesto dell’Ipasvi Agli articoli di Pirani la Federazione nazionale dei collegi infermieri (Ipasvi) ha risposto proponendo un’inserzione (rigorosamente a pagamento) su Repubblica, con argomentazioni non frutto di una mera difesa corporativistica, ma pesate e pensate con la mente di chi pone al centro del sistema il cittadino. Il manifesto dell’Ipasvi mostra la volontà di chiarire alcuni punti chiave, tra cui il fatto che da una maggiore qualificazione dell’infermiere non possono che derivare benefici in termini di qualità dei servizi e riduzione della mortalità, com’è dimostrato da numerosi studi di ricerca. L’inserzione non è più apparsa su Repubblica perché è stata prima rifiutata, e poi accettata a condizione di operare alcune correzioni, che la Federazione ha rifiutato. Un passaggio del testo proposto è esemplare: «La realtà dei fatti è che gli Gli autori Francesco Germini è dottorando di ricerca in scienze infermieristiche presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, e insegna discipline infermieristiche in diverse università [email protected] Pio Lattarulo è dottore magistrale in scienze infermieristiche e ostetriche, e insegna discipline infermieristiche all’Università di Bari [email protected] universo MH infermieri la somministrazione «di oppiacei ai pazienti afflitti da dolore acuto». È bene chiarire che gli infermieri, su prescrizione medica, possono già somministrare queste terapie; il problema sta nell’assenza, spesso voluta, di adeguati protocolli che consentano al personale infermieristico (ovviamente adeguatamente formato) di modificare la prescrizione terapeutica in base a indicatori precedentemente definiti dal personale medico responsabile di questo processo. La visione distorta del potere di prescrizione porta troppo spesso gli infermieri ad accettare disposizioni terapeutiche senza un minimo di autotutela, solo per compiacere il medico di turno, esponendosi quindi al rischio di denuncia in caso di problemi o, peggio, di morte del paziente. Il medico non potrà mai essere considerato il “superiore” gerarchico dell’infermiere per un semplice motivo: la laurea in medicina non consente al suo possessore di essere assunto in qualità di infermiere, e quindi di esercitare la professione infermieristica. È già successo che un medico sia stato condannato per abuso di profes- 15 infermieri continuano a formarsi in università, a far funzionare gli ospedali italiani, a garantire l’assistenza a chi ne ha bisogno, con serietà e grande senso di responsabilità, anche in condizioni di difficoltà quali sono quelle che oggi attraversa il nostro sistema sanitario». La risposta della Federazione è comparsa in altra forma ma con la stessa sostanza il 16 maggio sulle pagine del Corriere della Sera, ma Pirani ha ribadito gli stessi concetti il giorno dopo con il suo quarto intervento, stravolgendo i concetti e continuando a esprimere il chiodo fisso di padelle e pappagalli. L’acme lo rag- giunge quando dice che «negli ospedali inglesi, infine, la carriera infermieristica è regolata da precise regole e periodici concorsi. Se si passa l’esame si attacca un altro gallone sulle mostrine»: di nuovo la gerarchia. Da quest’ultimo scritto ha preso le mosse Mario Falconi, che evidentemente appartiene alla schiera di chi non ha mai digerito l’autonomia del professionista infermiere: in una lettera inviata a Repubblica il giorno dopo, e prontamente pubblicata, si dichiara sconcertato per la protesta degli infermieri, ventila nuovi rischi per la salute della popolazione e ribadisce l’importanza degli infermieri per l’utilizzo dei pappagalli. Sconcertati lo siamo anche noi. Lo sdegno viene da una serie di attacchi che a questo punto potrebbero indurre qualcuno a pensare a una regia concordata con qualche autorevole esponente della classe medica. Sarebbe stato interessante, se fosse stato ancora in vita, invitare a una tavola rotonda su questo tema Ivan Illich: avrebbe avuto modo di chiarire alcuni passaggi interessanti e forse non troppo confortanti per chi trae beneficio dai pensieri di Pirani. Francesco Germini, Pio Lattarulo Attenzione alla dominanza infermieristica Giovanna Vicarelli L a polemica sul nuovo ruolo delle professioni sanitarie non mediche si inquadra in un contesto ben preciso: la crisi della dominanza medica. Non sappiamo se questa crisi si risolverà alla fine nel tramonto della dominanza medica o se stiamo solo assistendo a una fase di 16 transizione, ma il dato di fatto è la crisi in atto. La dominanza medica è un fenomeno che nel nostro Paese è sempre stato particolarmente accentuato, per vari motivi. La prima anomalia è già evidente anche solo dai dati quantitativi: in Italia il rapporto fra il numero dei medici e quello Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente degli infermieri è sempre stato molto maggiore L’autrice Giovanna Vicarelli è docente di sociologia presso l’Università politecnica della Marche [email protected] rispetto ad altri Paesi. Perciò molti medici, alla ricerca di sbocchi occupazionali, hanno preso anche spazi che altrove sono appannaggio di personale specializzato, come i tecni- DALLE ci di radiologia o degli esami ecografici, e in questo modo hanno contribuito a relegare gli infermieri ad ambiti più “semplici”. L’altra causa della dominanza medica è stretta- SUORE AGLI INFERMIERI PROFESSIONALI Un nuovo livello gerarchico È in questa situazione che si inseriscono le legittime istanze degli infermieri e delle altre professioni sanitarie non mediche. Proprio universo MH IL PROBLEMA DELLO STATUS PROFESSIONALE dell’assistenza infermieristica ha radici antiche. Fare luce su questi aspetti storici e sociologici è lo scopo del libro Da servente a infermiere. Una storia dell’assistenza infermieristica ospedaliera in Italia, di Valerio Dimonte (Cespi, Torino, 2007), che racconta lo sviluppo della figura dell’infermiere e del suo lavoro in Italia, dal Medioevo fino al periodo fascista, in stretta relazione con quello degli ospedali e della sanità in genere. Il libro è diviso in tre parti: la prima arriva fino all’inizio del Novecento, la seconda si concentra sugli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale, e la terza sulla prima riforma dell’assistenza infermieristica e sulla figura dell’infermiere professionale. L’autore è particolarmente interessato all’aspetto sociale di questa professione, ed esamina alcuni nodi cruciali: in particolare, si sofferma sul legame fra infermieri e religiosi e sulla presenza femminile che ha sempre contraddistinto l’infermiere rispetto alle altre figure sanitarie. Per quanto riguarda la questione religiosa, sono sottolineati gli sforzi di laicizzazione della professione; è gustoso in particolare l’accenno alla rivista L’infermiere laico, nata nel 1907 con l’audace sottotitolo «Organo di propaganda anticlericale». Anche l’aspetto femminile della professione infermieristica viene studiato nel suo divenire storico, e si interseca, nella figura della suora, con il tema religioso. Infine, viene analizzata la graduale professionalizzazione della figura dell’infermiere, inserita nel contesto storico e sociale del primo Novecento italiano e internazionale. p.g. mente sociale: in Italia, tradizionalmente, il medico è una figura proveniente dalla media borghesia, non dalla fascia più alta. È generalmente una famiglia medioborghese, o anche piccoloborghese, che investe negli studi di un figlio, per consentirgli di laurearsi in medicina e fare così “il grande salto”: quella del medico è una posizione ritenuta di alto prestigio professionale, e quindi in nessun modo paragonabile a quella dell’infermiere. La dominanza medica è entrata in crisi recentemente per due motivi: da un lato la presenza di cittadini sempre più informati ed esigenti, che fanno vacillare la posizione di superiorità del medico; dall’altro l’avanzare del management sanitario, cioè il fenomeno conosciuto come aziendalizzazione della sanità, che ha fatto diminuire (in alcuni casi anche troppo) l’autonomia del medico. 17 per il momento delicato che sta vivendo, la classe medica percepisce queste rivendicazioni come un’ulteriore minaccia, un terzo attacco alla sua posizione. E per giunta quest’attacco viene stavolta dall’interno stesso del mondo sanitario, e quindi a maggior ragione genera inquietudine e complica la possibilità di trovare una soluzione che metta d’accordo tutti. Detto questo, bisogna però sottolineare che anche dal punto di vista degli infermieri non tutto viene condotto nel modo migliore possibile. È legittimo volersi ritagliare un ruolo anche dirigenziale, ed è giustissimo rivendicare per sé un nuovo ruolo e avanzare richieste per 18 Guarda sul sito del ministero della Salute il filmato che pubblicizza il corso di laurea in infermieristica: www.ministerosalute.it/servizio/galleria.jsp?lang=italiano &id=470&dad=s&men=campagne07&label=professioni aumentare il numero degli infermieri, anche per acquistare maggior peso come classe; il problema però è che il modello che hanno preso come esempio è proprio la professione medica. Così, volendo rincorrere e imitare il modello medico, le professioni sanitarie non mediche rischiano di non risolvere il problema della gerarchia, ma anzi di complicarlo: in altre parole, creano un livello gerarchico nuovo, che se da un lato compete con la Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente classe medica, dall’altro si impone alle nuove figure “basse” che vengono inevitabilmente generate. In questo modo non solo non si elimina la dominanza medica, ma anzi si rischia di imporre una sorta di dominanza infermieristica. E tutto ciò va nella direzione opposta a quella, auspicata, di un modello collaborativo, partecipativo, che superi le questioni legate al concetto di dominanza. Giovanna Vicarelli Il comitato etico? Noi lo usiamo così Nel rapporto medico-paziente, alla vecchia reciproca fiducia si è sostituito un nuovo regime di diffidenza. Per ritrovare un clima di armonia possono essere di aiuto i comitati etici: la presenza di outsider disinteressati garantisce l’autorevolezza e il prestigio che il parere del medico ha perso, e il loro punto di vista può far recuperare alla bioetica i valori dell’empatia e dell’umanità trascurati dalla filosofia e dalla teologia. L’outsider nel comitato allargato Americo Sbriccoli I dall’istituzione del sistema mutualistico e poi del Servizio sanitario nazionale, che hanno introdotto la gratuità della prestazione medica. Il venir meno della parcella, anche se naturalmente graditissimo, ha cominciato a insinuare nei pazienti il timore che il medico potesse abbassare il suo livello di attenzione. L’esclusività del rapporto con un solo medico è saltata per ragioni più strettamente tecniche, a seguito della frammentazione specialistica, col risultato che oggi un assistito seriamen- te preoccupato per il suo stato di salute ha grossa difficoltà a trovare un interlocutore unico a cui affidarsi. Questo per lui finisce per costituire un serio motivo di preoccupazione e alla fine di sfiducia nell’intero sistema. Nel rapporto medicopaziente, alla vecchia reciproca fiducia si è sostituito un nuovo regime di reciproca diffidenza, con il paziente disorientato dalla visibile mancanza di prestigio e di autorevolezza nei comportamenti e nelle prescrizioni diagnostico tera- universo MH l vecchio rapporto medicopaziente era sostenuto da due fatti fondamentali: da parte del paziente la stima e la conoscenza delle capacità del medico; da parte del medico il prestigio che dava autorevolezza alle sue prescrizioni. A suggello e garanzia di questo rapporto c’erano due istituti fondamentali: la parcella e l’esclusività del rapporto. Questo rapporto è andato sempre più deteriorandosi. Il primo colpo è venuto 19 peutiche, e il medico molto timoroso per le possibili, anche se spesso immotivate, istanze rivendicative. Fiducia nei comitati etici A questo proposito, d’accordo con quanto già da tempo sta succedendo negli Stati Uniti, un buon aiuto può venire dal coinvolgimento dei comitati etici ospedalieri, per via della pratica che Warren E Reich chiama la «outsider’s perspective». Secondo questo modo di vedere, c’è da credere che di fronte a questioni complicate, difficili e piuttosto sottili il problema sta nel valutare, condividere e quindi accettare risoluzioni, anche sgradevoli, delle quali si riconosca la necessità, sia per il rigore professionale sia per la correttezza etica nel supremo interesse dell’assistito. La proposta dell’equipe medica, VOI, COME LO USATE IL COMITATO ETICO? LA NORMATIVA ITALIANA, pur privilegiando l’attività di valutazione della sperimentazione clinica dei medicinali, lascia aperte ai comitati etici altre possibilità di intervento: per esempio possono avere una funzione consultiva su questioni etiche legate alle attività scientifiche e assistenziali. Per utilizzare al meglio i comitati sarebbe utile conoscere più in dettaglio il loro operato, in particolare le attività che si discostano dall’esame di protocolli di ricerca. Per questo il Comitato etico provinciale di Modena ha inviato agli altri comitati etici italiani un questionario, per indagare la frequenza con la quale sono espletate altre attività, oltre quella “principale” relativa all’esame dei protocolli di ricerca. I risultati e tutto il materiale aggiuntivo ottenuto (brochure, locandine, articoli su giornali o riviste, ecc.) saranno messi a disposizione di chiunque abbia interesse ad accrescere la cultura dei comitati etici in Italia. p.g. 20 Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente che potrebbe essere fonte di dubbiosa perplessità, sarebbe meglio accetta se passasse al vaglio di un comitato etico, il cui parere avrebbe il riconoscimento e il rispetto di autorevolezza che potrebbe mancare all’equipe proponente. Secondo Reich, è percepita come sospetta l’attendibilità di proposte in tema di bioetica formulate da gruppi omogenei di insider, intesi come interni alla struttura e per questo visti come portati a sostenere le loro proposte con basso livello critico, per una sorta di conflitto di interessi. L’attendibilità della proposte diventa di molto superiore, e alla fine autorevole, se sono condivise e sottoscritte da un comitato allargato ad outsider più degni di fede perché disinteressati. È così che nel caso di proposte cliniche sgradevoli, addirittura ritenute insopportabili e quasi indecenti, come per esempio le amputazioni o la grossa chirurgia demolitiva, specie nei minori, la repulsa istintiva che si ingigantisce di fronte alla scarsa autorevolezza del proponente sarebbe sicuramente superata se la proposta ricevesse il vaglio e l’approvazione di un comitato etico aperto a figure esterne di sicuro prestigio. La stessa cosa naturalmente ha grande valore per la giustificazione di interventi ad alto rischio di complica- zioni anche gravi ma assolutamente necessari e urgenti per dare una possibilità, magari anche remota, a chi altrimenti sarebbe inesorabilmente condan- L’autore Americo Sbriccoli è presidente del Comitato etico interaziendale Macerata-Civitanova [email protected] nato. È chiaro che anche in questo caso l’equipe operativa avrebbe una tutela molto superiore di fronte a pur sempre possibili conseguenze giudiziarie. In questo senso si sta orientando il comportamento del Comitato etico interaziendale MacerataCivitanova, pare con aspet tative lusinghiere. Americo Sbriccoli L’importanza dell’empatia in bioetica Warren Reich D un outsider profetico. Nel 1966, infatti, ha pubblicato un articolo in cui chiedeva una nuova seria etica della ricerca, basandosi su 22 casi di ricerca non etica. Sarebbero molti altri gli esempi che dimostrano come alle origini della bioetica ci fossero persone che manifestavano il coraggio da outsider per cambiare il nostro modo di percepire i problemi morali, di rifletterci e di risolverli. Per alcuni aspetti buona parte della bioetica ha sviluppato un suo proprio “complesso dell’insider”, anche a causa della pressione a restringersi a una “razionalità formale”, per usare il linguaggio di Max Weber. Come spiega il sociologo americano John Evans, questo vuol dire che la bioetica si preoccupa di valutare il mezzo migliore per perseguire un obiettivo generalmente condiviso, ma spesso sottinteso. Quest’approccio formale, che spesso usa una razionalità tipica di calcoli in termini di costi-benefici e di analisi di rischi-benefici, è utile per sviluppare strategie per politiche corri- universo MH a quando Colin Wilson ha pubblicato nel maggio 1956 il suo best seller The Outsider, in cui esamina il fenomeno dell’outsider in letteratura e nella cultura, le sue intuizioni hanno suscitato entusiasmo in tutto il mondo. Il concetto dell’outsider ci aiuta a correggere il nostro modo di vedere: un esempio viene da Henry Beecher, professore di anestesiologia alla Harvard University, che, pur rimanendo dal punto di vista medico un insider, è improvvisamente diventato 21 spondenti agli scopi del governo e delle istituzioni sanitarie, ma a scapito di considerazioni più sostanziali. La razionalità sostanziale, d’altra parte, tratta di valori, finalità e modi di vivere essenziali per comprendere il significato e le implicazioni umane più vaste degli argomenti considerati, comprese alcune questioni sostanziali che vengono di norma evitate. insistere sulla domanda sostanziale che è stata ignorata. Inoltre, i valori di base e le fonti delle norme sono spesso immersi in questioni che si trovano ai margini di quello che molti studiosi ritengono i confini all’empatia emozionale o all’umanità (come quella del buon samaritano) per stabilire un’etica pubblica. La considerazione dei problemi “ai confini” può quindi rivelare valori e principi trascurati ma Dal momento che sia la filosofia sia la teologia hanno trascurato il ruolo delle emozioni nell’etica, c’è bisogno degli outsider per evidenziare come la bioetica basata sull’empatia e l’umanità può fornire nuove prospettive Il buon samaritano Almeno negli Stati Uniti, buona parte della bioetica si fa routine (e qualcuno direbbe senz’anima) nella misura in cui diventa un esercizio formale eseguito da tecnici intellettuali che usano una ristretta lista di principi per stabilire la correttezza o la scorrettezza di un numero limitato di azioni legate alle scienze della vita. La bioetica deve enfatizzare la razionalità sostanziale; e a volte è l’outsider a L’autore Warren Reich è professore emerito di bioetica, Georgetown University, Washington 22 della bioetica. Per esempio, un esame attento dei modi in cui ai rifugiati viene fornita o rifiutata l’assistenza dimostra l’importanza di guardare apertamente le loro facce e chiedersi quali possono essere in questi casi i criteri dell’empatia. Analogamente, uno studio di cooperazione medica sulla tortura di militari prigionieri in Iraq e a Guantanamo rivela la necessità di resuscitare l’antica virtù dell’umanità. Argomenti filosofici e religiosi basati sulla persona e sui diritti sono importanti per considerare questi casi. Oggi però un approccio molto più utile e stimolante è chiedersi come, perché e in quali circostanze una società deve fare ricorso Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente applicabili in molte situazioni. Dato che sia la filosofia sia la teologia hanno trascurato il ruolo delle emozioni nell’etica, c’è bisogno degli outsider intellettuali per evidenziare come la bioetica basata sull’empatia e l’umanità può fornire nuove prospettive. Alla bioetica servono persone con la mentalità degli outsider, che abbiano la voglia e la capacità di evidenziare come la nostra visione morale è stata a volte troppo ristretta, e come la nostra ricerca di valori morali può essere arricchita incorporando le intuizioni del passato e del presente che sono state tra scurate. Warren Reich La volontà del paziente ha una data di scadenza? Dopo il caso del testimone di Geova a cui è stata praticata una trasfusione di sangue nonostante il suo esplicito rifiuto e che, di conseguenza, ha chiesto un risarcimento per i danni subiti, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza sicuramente discutibile, rifiutando il suo ricorso. Dunque il medico può decidere di non considerare il dissenso del paziente in situazioni di necessità? Il dibattito rimane aperto. Mauro Angarano M emorragia in atto, prima dell’intervento chirurgico d’urgenza aveva dichiarato di non volere essere sottoposto a trasfusione di sangue, in ossequio alle proprie convinzioni religiose. Nonostante questa esplicita richiesta, nel corso dell’operazione gli è stata egualmente praticata una trasfusione sanguigna. Il paziente ha in seguito deciso di intervenire legalmente in sede civile nei confronti dei medici, che avevano praticato la trasfusione contrariamente alla sua esplicita volontà. Ha chie- sto, dunque, il risarcimento dei danni morali, patrimoniali e biologici subiti dall’illecito. La Cassazione contro l’articolo 32? Nei primi commenti si è sottolineato come la Cassazione, confermando le due precedenti decisioni di merito (quella del Tribunale e quella della Corte d’appello), che avevano respinto la domanda risarcitoria, ha enunciato il principio per cui l’operato- universo MH olteplici sono stati i commenti a una recente sentenza (datata 23 febbraio 2007) della terza sezione civile della Corte suprema di Cassazione. Il tema trattato: trasfusioni di sangue praticate da un medico a un testimone di Geova, nonostante il suo rifiuto. L’uomo, ricoverato in ospedale in seguito a un incidente stradale nel quale aveva riportato numerose fratture e una lesione dell’arteria principale con 23 re sanitario, nonostante fosse a conoscenza della volontà del paziente, non può essere considerato punibile secondo l’articolo 54 del Codice penale che disciplina lo stato di necessità, rappresentato in questo caso dall’urgenza di scongiurare il pericolo di vita del malato. La Cassazione sembra dunque negare rilevanza al domanda risarcitoria. Inoltre, si legge che la volontà precedentemente espressa dal paziente può essere disattesa allorché «non debba più considerarsi operante in un momento successivo», rispetto a quello in cui è stata dichiarata, «davanti a un quadro clinico fortemente mutato con imminente pericolo di vita e Il tema è la possibilità per il medico di non considerare il dissenso del paziente allorché venga meno la piena rispondenza tra la volontà espressa e la situazione patologica in cui la stessa deve poi trovare applicazione consenso (anzi, all’espresso dissenso) del paziente ai fini della liceità del trattamento medico, prevalendo su quanto affermato nell’articolo 32 della Costituzione (nonché sulla convenzione di Oviedo). Alcune precisazioni peraltro si impongono alla luce di una lettura integrale della motivazione. In diversi passaggi la Cassazione precisa di essere stata chiamata unicamente, come giudice di legittimità, a valutare la congruità della motivazione dei giudici di merito che avevano respinto la 24 senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente ormai anestetizzato». Dunque il tema parrebbe essere quello della possibilità per il medico di non considerare il dissenso del paziente allorché venga meno la piena rispondenza tra la volontà espressa e la situazione patologica in cui la stessa deve poi trovare applicazione. Quando la volontà deve essere contestuale Ma in realtà il problema si Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente ripresenta se si considera quanto osservato dalla dottrina (si veda l’intervento di Amedeo Santosuosso davanti alla Commissione del Senato che si occupa dei disegni di legge in materia di dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari) che ha sottolineato che «intendere il requisito dell’attualità della volontà come necessaria stretta contestualità significhi rendere totalmente irrilevante la volontà del paziente in tutti i casi in cui un intervento richieda l’anestesia». La questione rimane problematica: lo dimostrano ulteriori passaggi della sentenza dove la Corte, nella parte finale della motivazione, integra le proprie considerazioni rilevando come il comportamento dei medici sarebbe legittimo anche perché «nei vari disegni di legge sul “testamento biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica». Ma in questa prospettiva, e L’autore Mauro Angarano è avvocato e componente del Comitato di bioetica dell’Azienda ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo [email protected] senza neppure la specificazione del mutato quadro clinico a giustificare l’operato del medico, la direttiva anticipata sarebbe alla fine irrilevante. Anche perché la Corte Suprema, pur avendo considerato il fatto che i medici si sono adoperati per salvare la vita del paziente, dà un’interpretazione che non risolve il problema. Infatti, ipotizzando un caso con gli stessi presupposti, e con un comportamento del medico conforme alla volontà del paziente, il dare rilievo alla mutata situazione clinica porrebbe il medico nella condizione di chi viola la posizione di garanzia dovendo rispondere, nel caso di morte del paziente, di omicidio volontario. Quali considerazioni si possono fare a fronte di una decisione che ripropone una questione ampiamente dibattuta ma, alla fine, non risolta? Appare più che mai necessaria l’approvazione di una legge che affermi in maniera chiara alcuni principi: la validità dell’eventuale rifiuto del paziente anche per il tempo successivo a una sopravvenuta perdita della capacità naturale, la non punibilità del medico che abbia omesso delle cure in ossequio a detta volontà, la documentazione di detta volontà attraverso gli strumenti propri dell’ambito clinico (come la cartella clinica) che consentano di garantire il più possibile l’attualità di detta volontà. Ma questa è un’estrema sintesi di un tema di enorme complessità. Mauro Angarano universo MH 25 Evolution based medicine La medicina di oggi, nonostante i suoi grandi e innegabili progressi, soffre di quella che è stata chiamata «fallacia astorica»: l’incapacità di inquadrare i problemi in un più ampio contesto temporale. Per risolvere quest’impasse non serve un nozionismo storico, che non porterebbe benefici concreti, ma un approccio evoluzionistico, che mostri come la medicina è migliorata e quali idee e metodologie hanno consentito i suoi successi. Gilberto Corbellini O ltre che sulle prove di efficacia, cioè sull’evidence, e sui modelli sperimentali delle malattie, la medicina per avere senso deve fondarsi anche sull’evoluzione. La famosa affermazione di Theodosius Dobzhansky, che «niente ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione», implica che anche i problemi della medicina assumono un senso veramente completo solo se vengono inquadrati nella prospettiva dell’evoluzione biologica. Non 26 solo: attraverso un inquadramento storico pertinente dei problemi medici, l’approccio evoluzionistico può contribuire alla costruzione di un quadro di riferimento teorico unitario in medicina. Può cioè fornire le coordinate tematiche e concettuali per elaborare una teoria della medicina in grado di migliorare la qualità dell’insegnamento e della comunicazione del sapere medico. Negli ultimi decenni è diventato sempre più frequente leggere nelle riflessioni generali sulla natura e Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente gli scopi della medicina che se davvero si vuole che la salute degli uomini e delle donne che abitano e abiteranno il pianeta continui a migliorare, oltre che a procedere nell’espandere le conoscenze e innovare le strategie di intervento bisogna interrompere il processo di frammentazione conoscitiva che sta corrompendo la medicina occidentale. E per ottenere questo serve una teoria della medicina che, in prospettiva, deve anche contribuire a disinnescare, almeno al livello della perce- zione sociale, tanto le false aspettative quanto le assurde paure che oggi alimentano un dibattito culturale troppo spesso fuorviante o non orientato ad affrontare e risolvere i problemi sulla base di analisi obiettive e concrete. Se guardati da una prospettiva storica ed evoluzionistica, alcuni dei problemi con cui la medicina si sta confrontando, in alcuni casi senza riuscire a venirne a capo, acquisiscono un senso meno controverso (o quantomeno che smaschera la natura ideologica di alcune controversie), e possono produrre impostazioni culturali più plausibili e innovative. Uno status conquistato lentamente Il disease mongering Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Infatti, anche se non siamo mai stati meglio, siamo sempre più preoccupati per la salute, al punto che la domanda di salute appare ingovernabile. Un intreccio di perverse dinamiche di mercato e politiche deresponsabilizzanti o utopistiche di promozione della salute incentivano sia il salutismo sia la medicalizzazione. Il processo di medicalizzazione è da alcuni decenni al centro dell’attenzione del lavoro di sociologi ed epidemiologi, che hanno creato anche un nuovo termine per illustrare la fase estrema di questo processo: disease mongering. Si tratta del fenomeno di negoziazione tra potenziali clienti (o pazienti) e fornitori di servizi (medici e imprese farmaceutiche) per trasformare in malattie da trattare clinicamente o farmacologicamente alcune condizioni che non sono necessariamente malattie e che non hanno un impatto significativo dal punto di vista della sanità pubblica. La conseguenza è la creazione di un mercato per nuovi prodotti e prestazioni mediche che vengono pubblicizzati attraverso i media da case farmaceutiche, medici e gruppi di pazienti, presentando condizioni come la calvizie, le disfunzioni erettili, il rischio di osteoporosi e la depressione come più gravi e più diffusi di quanto non siano. Attenzione, non bisogna minimizzare tutte queste condizioni: per esempio, le disfunzioni erettili o la depressione possono rappresentare universo MH Chiunque ragioni con un minimo di onestà intellettuale non può fare a meno di riconoscere che oggi si vive più a lungo e in miglior salute rispetto a ogni altro periodo storico. Per accorgersene basta leggere qualsiasi studio sulla storia demografica e sanitaria della nostra specie. Forse serve un po’ più di onestà, o meglio occorre abbandonare qualche pregiudizio e avere un’adeguata istruzione, per ricono- scere che la salute è migliorata in generale grazie soprattutto ai progressi delle conoscenze e delle tecnologie biomediche, che sono diventate sempre più sicure ed efficaci. È anche innegabile che i medici oggi rispettano molto di più i loro pazienti, ed esiste una tutela dei diritti individuali applicata anche alle persone malate che non ha precedenti nella storia. Il medico rimane inoltre la categoria professionale di cui i cittadini occidentali si fidano di più: uno status conquistato lentamente, grazie al fatto che la pratica clinica è diventata efficace, e che sono costantemente aumentate la capacità e la disponibilità ad alleviare il dolore fisico e la sofferenza psicologica. 27 problemi clinici molto seri, per i quali esistono farmaci dotati di indiscutibile efficacia. Ma alcuni di questi farmaci vengono utilizzati anche al di fuori di malattie clinicamente accertate, per potenziare le normali benessere in ragione del miglioramento degli standard di vita e dei condizionamenti socioculturali. Un fatto che, invece, dovrebbe preoccupare di più è che l’enfasi sulla salute e sul processo di medi- Se guardati da una prospettiva storica ed evoluzionistica, alcuni dei problemi con cui la medicina si sta confrontando, in alcuni casi senza riuscire a venirne a capo, acquisiscono un senso meno controverso mai stata tanto morbosa. Questi problemi non sono circoscrivibili né analizzabili in modo decontestualizzato rispetto alle sfide che la medicina deve oggi affrontare. Infatti, a seconda del tipo di sfida che si prende in considerazione, un problema può risultare più importante di un altro, e si può correre il rischio di sottostimare o sovrastimare il peso di qualche difficoltà o controversia. La «fallacia astorica» capacità o per evitare di apportare modifiche al proprio stile di vita, da persone che potrebbero evitare di ricorrere a principi chimici comunque dotati di effetti collaterali (è il tema dell’obiettivo di questo numero, n.d.r.). Attenzione morbosa per la malasanità Il fenomeno del disease morngering viene criticato soprattutto sulla base di categorie moralistiche, mentre si tratta verosimilmente anche della conseguenza della naturale ricerca di benessere da parte delle persone, a fronte del fatto che si sono innalzate le aspettative individuali di 28 calizzazione di aspetti naturali dell’esistenza non promuove una cultura medico sanitaria che apprezza e valorizza il ruolo della scienza. Nonostante il merito di gran parte del guadagno in salute vada onestamente attribuito ai progressi della medicina scientifica, cresce in modo preoccupante il consumo di medicine alternative. Anche rispetto al rapporto medico-paziente, è singolare che, pur essendo incredibilmente migliorato, sia i pazienti sia i medici risultino più insoddisfatti oggi rispetto al passato. Non sono infatti mai state così numerose le denunce contro i medici, né l’attenzione per i casi di cosiddetta malasanità è Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Provando a elencare le principali sfide pratiche e teoriche che la medicina sta fronteggiando, al primo posto si collocano indubbiamente i cambiamenti che stanno interessando le cause di mortalità e il carico di malattie che colpisce le popolazioni umane a livello globale e locale. Nonostante la passione per la storia che i medici coltivano da sempre, e nonostante la diffusione nelle scuole mediche occidentali di insegnamenti e moduli didattici che introducono elementi di conoscenza storica, la medicina di fatto soffre di quella che è stata chiamata «fallacia astorica». La neuropsichiatra Nancy Andreasen ha defi- Serve una cognizione storica Ciò che verosimilmente serve oggi al medico non è però una formazione stori- ca nozionistica, che costituirebbe solo un ulteriore bagaglio di informazioni e concetti da giustapporre alle altre conoscenze disciplinari, senza che l’acquisizione risulti alla fine di alcuna utilità pratica. Serve invece una cognizione storica in grado di svolgere una funzione costruttiva e critica anche rispetto al confronto teorico e metodologico che sta interessando la medicina a diversi livelli. L’approccio storico può giocare un ruolo importante per comunicare allo studente di medicina le coordinate storico epistemologiche utili per comprendere le potenzialità e i limiti delle diverse strategie di concettualizzazione dei fatti medico sanitari. E può aiutare a cogliere meglio il significato di alcune novità teoriche che sono emerse negli ultimi decenni e che, pur non avendo ancora raggiunto lo status di idee insegnate nei corsi universitari, rappresentano comunque linee di ricerca euristicamente valide e importanti per la conoscenza e la pratica medica. Una storia epistemologica della medicina può fare di più che dare semplicemente l’idea che sono cambiate e stanno cambiando le co- noscenze, le pratiche mediche e le percezioni socioculturali della medicina, incluse le variabili che giocano nella comunicazione tra medico e paziente. Può dare conto anche di come la situazione è migliorata e di quali idee e metodologie hanno consentito i successi della medicina contemporanea. Può aiutare il medico a ritrovare una coerenza, almeno sul piano storico, nella frammentarietà e nell’eterogeneità delle nozioni e delle pratiche che apprende e utilizza. Per esempio, ripercorrere la storia delle tradizioni razionaliste ed empiriste che hanno alimentato il dibattito metodologico sullo statuto epistemologico della medicina può essere di per saperne di più N.C. Andreasen, “Changing concepts of schizophrenia and the ahistorical fallacy”. In: American Journal of Psychiatry 151 (10), 1994. C.J. MacCallum, “Does Medicine without Evolution Make Sense?”. In: Plos Biol 5(4): e112, 2007. doi:10.1371/journal.pbio. 0050112 universo MH nito la fallacia astorica, nel contesto delle difficoltà che la neurologia incontra nella standardizzazione delle entità cliniche e nella comparazione degli esiti dei trattamenti terapeutici, come l’incapacità di inquadrare i problemi conoscitivi e pratici in un più ampio contesto temporale. La fallacia astorica si alimenta di assunzioni che contrastano con lo spirito antidogmatico e antiautoritario della scienza: l’idea che l’esperto debba avere sempre ragione, o che le cose dette più recentemente debbano sempre essere più vere di quelle meno recenti, o che l’aumento di informazioni produca automaticamente un aumento della conoscenza. Secondo Andreasen, una percezione storicamente più allargata contribuisce ad arricchire lo spettro di associazioni che sono fonte di stimoli alla scoperta. E forse anche a superare alcune difficoltà nell’apprendimento dei concetti e delle spiegazioni scientifiche. 29 utilità allo studente per capire le origini epistemologiche profonde delle divergenze che oggi caratterizzano gli approcci biosperimentali e quelli epidemiologico sanitari. L’impianto del pensiero evoluzionistico La storia della medicina è stata caratterizzata da un malattia, mettendo in secondo piano quelle biologiche e mediche. Inoltre, oggi nella medicina convivono diverse tradizioni di ricerca, che si portano appresso e convogliano idee differenti quando non divergenti sullo statuto metodologico e sui fondamenti concettuali delle conoscenze e delle pratiche di carattere medico. Da un lato, la medicina continua Oggi nella medicina convivono diverse tradizioni di ricerca, che si portano appresso e convogliano idee differenti sullo statuto metodologico e sui fondamenti concettuali delle conoscenze e delle pratiche mediche susseguirsi di idee sulla natura della salute e della malattia che dopo la seconda guerra mondiale si sono sclerotizzate in una sterile contrapposizione tra definizioni naturalistiche e definizioni normative o socioculturali. Le prime insistono sulla possibilità di spiegare la malattia a partire dai processi o dalle strutture biologiche che non consentono all’organismo di funzionare adeguatamente, mentre le seconde pongono l’accento sulle dimensioni culturali e soggettive della salute e della 30 fortunatamente a essere alimentata da una tradizione biologico sperimentale, ispirata dalla fisiologia e dalla microbiologia, che risale alla rivoluzione scientifica della seconda metà dell’Ottocento. Questa tradizione ha prodotto e continua a produrre le basi scientifiche del sapere medico. Dalla seconda metà del Novecento la medicina si è arricchita di una tradizione epidemiologico sanitaria che ha determinato un’efficace ed efficiente standardizzazione della pratica medica, e che si è Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente in qualche modo organizzata “politicamente” attraverso il movimento dell’evidence based medicine. Infine, sopravvive nella medicina una tradizione clinica che ha resistito con diversi argomenti ai tentativi di escludere la dimensione individuale della malattia dall’esperienza conoscitiva del medico, e che comincia a rivalutarsi grazie all’inquadramento genetico evoluzionistico implicato nelle nuove conoscenze genomiche. I modelli esplicativi e le strategie di ragionamento medico promossi da queste tradizioni si sono sviluppati storicamente rispondendo a sfide conoscitive diverse, e sulla base di vincoli teorici piuttosto caratterizzati. In questo senso occorre innanzitutto comprendere i limiti dei diversi approcci concettuali e metodologici, dipendenti dalle rispettive origini e dai diversi percorsi evolutivi. Una volta che questi limiti e vincoli siano stati compresi si può provare a utilizzare l’impianto concettuale ed epistemologico del pensiero evoluzionistico. Superare l’impasse L’esame dei limiti e dei vin- L’autore Gilberto Corbellini, Istituto di storia della medicina, Università “La Sapienza”, Roma [email protected] coli che caratterizzano storicamente le tradizioni epistemologiche della medicina conduce all’ipotesi che ciò che manca alla medicina sul piano teorico è l’assunzione di una prospettiva evoluzionistica adeguatamente articolata. Le nozioni di base del pensiero evoluzionistico prospettano un coerente e plausibile superamento dell’im- passe in cui si dibatte la teoria medica. Naturalmente bisogna intendersi su come applicare in maniera pertinente e articolata l’approccio evoluzionistico rispetto alle varie dimensioni della medicina. Una messa in ordine delle idee utilizzate nell’ambito degli approcci evoluzionistici è necessaria, e anche in questo caso una prospettiva storica può essere di aiuto. Una teoria coerente, basata su un modello evoluzionistico euristicamente utile, deve non solo riorganizzare il sistema delle conoscenze e la categorizzazione dei problemi medici, ma dare conto, attraverso i modelli neurobiologici del funzionamento del cervello fondati su un modo di pensare darwiniano, delle strategie cognitive implicate in queste categorizzazioni, sia sul versante del medico, sia su quello del paziente. Gilberto Corbellini universo MH 31 Screening: c’è posta per te La diagnostica precoce è una pratica sempre più sponsorizzata dalle istituzioni: curare tempestivamente le persone, ma anche ridurre le spese della sanità pubblica. Il ministero della Salute ha pubblicato le raccomandazioni per la pianificazione delle campagne di screening oncologici per il cancro alla mammella, alla cervice uterina e al colon retto. Lo scopo: raggiungere il maggior numero di persone considerate a rischio. Valentina Arcovio I dentificare una malattia prima che si manifesti clinicamente può aiutare a salvare la vita di molte persone. È per questo che nel novembre del 2006 il ministero della Salute ha pubblicato le “Raccomandazioni per la pianificazione e l’esecuzione degli screening di popolazione per la prevenzione del cancro della mammella, del cancro della cervice uterina e del cancro del colon retto”. Questo documento si rivolge sia ai pianificatori delle Regioni e delle aziende sanitarie, sia agli operatori 32 direttamente coinvolti nei programmi di screening. Secondo il ministero, il compito del medico non è soltanto quello di curare le malattie ma anche, e soprattutto, diagnosticarle tempestivamente riuscendo, quindi, a intervenire in maniera rapida e poco invasiva. È fondamentale dunque che gli operatori sanitari comprendano che il loro ruolo va ben oltre la semplice prescrizione di farmaci: per aiutare i propri pazienti a prendersi cura di se stessi, è necessario educarli e informarli Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente sulle possibilità offerte dalla diagnostica precoce. Efficaci nel ridurre la mortalità Per questo il ministero della Salute si è impegnato prima nella preparazione e poi nelle diffusione del primo documento ufficiale a sostegno degli screening oncologici, focalizzando l’attenzione verso i tre tipi di cancro più frequenti e diffusi: il tumore della mammella, della cervice uterina e quello del colon L’autrice Valentina Arcovio Agenzia di giornalismo scientifico Zadigroma [email protected] Una campagna per raggiungere tutti In questo tipo di malattie, la diagnosi precoce consente di salvare la vita o, comunque, di effettuare interventi poco invasivi. Lo screening rappresenta quindi un investimento importante sulla salute: ridurre la mortalità ma anche migliorare la qualità della vita. Lo scopo del documento del ministero è quello di mettere in atto tutti quei processi in grado di migliorare le capacità organizzative dei sistemi sanitari, la tecnologia e le conoscenze, rafforzando le competenze finora acquisite. Quando un medico si trova di fronte a un paziente considerato a rischio per un certo tipo di tumore, è suo dovere indirizzarlo verso il percorso diagnostico terapeutico raccoman- dato per quella malattia. Tuttavia, le persone che si rivolgono al proprio medico per sottoporsi a un test di screening sono in genere quelle più consapevoli dell’importanza della diagnosi precoce nella prevenzione dei tumori: è quindi inevitabile che alcuni gruppi di cittadini non ne traggano beneficio. Grazie ai programmi organizzati di screening, invece, è possibile raggiungere tutte le persone che, per caratteristiche di sesso e di età, rientrano nella fascia a rischio per un certo tipo di tumore. L’azienda sanitaria diventa protagonista nell’invitare direttamente i cittadini, tramite lettera, a fare il test gratuitamente, come anche gli accertamenti diagnostici o trattamenti che si rendano even tualmente necessari. Valentina Arcovio universo MH retto. Gli screening disponibili per questi tre tumori, infatti, si sono dimostrati nel tempo ampiamente efficaci nel ridurre la mortalità. Il tumore della mammella rappresenta la neoplasia più frequente tra le donne: si stimano all’incirca 32 mila casi ogni anno. Vengono, invece, diagnosticati ogni anno circa 3500 casi di tumore alla cervice uterina, mentre i casi di tumore del colon retto, che rappresenta la seconda causa di morte per tumore in Italia, sono circa 34 mila ogni anno. In Italia molte Regioni hanno attivato (o stanno avviando) campagne di screening per la prevenzione secondaria di questi tre tipi di tumore. Gli esami previsti: una mammografia ogni due anni per le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni per lo screening del tumore della mammella; un Pap test ogni tre anni per le donne tra i 25 e i 64 anni per lo screening del tumore del collo dell’utero; la ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni per le donne e gli uomini tra i 50 e i 70 o 74 anni, oppure una rettosigmoidoscopia per le donne e gli uomini tra 58 e 60 anni (da ripetere eventualmente ogni 10 anni) per lo screening del tumore del colon retto. 33 Se il farmaco viene prescritto dal governo IL CASO Il 16 luglio 2006 irrompevano sulla stampa locale di Modena titoli come “Niente cure, condannato a morire”, “Cura impossibile, lui morirà”, ”Sono un malato di serie B. Davvero mi vogliono morto”. Gli articoli si riferivano alla denuncia di un esponente del Codacons regionale che, con termini come “indignazione”, ”incredulità”, ”disumano”, ”inaccettabile”, iniziava una campagna di sostegno a un malato di sclerosi laterale amiotrofica. Nelle sue dichiarazioni, accolte con ampio rilievo dalla cronaca locale e nazionale, l’esponente del Codacons riferiva che un farmaco (l’Igf-1), «fondamentale per contrastare la degenerazione cellulare», era negato dall’Ausl e che i magistrati ai quali era stata presentata un’istanza si erano allineati nel non concederne la fornitura. Gli articoli di stampa, tutti dai titoli drammatici e concordi con la posizione del Codacons e dei familiari, si sono susseguiti numerosi e virulenti nelle settimane successive, seguendo lo svi- Commenti di: Gabriele Greco, Alessandra De Palma, Sandro Spinsanti Ma il paziente non è un consumatore L a sclerosi laterale amiotrofica (in sigla Sla) è una malattia neurodegenerativa, progressiva, caratterizzata dalla degenerazione del primo e secondo neurone di moto, che comporta il coinvolgimento della muscolatura a tutti i livelli, fino a quelli della deglutizione e respirazione. La morte sopraggiunge entro 3 anni nel 50 34 per cento dei casi, ed entro 6 anni nel 90 per cento. La Sla rientra fra le malattie rare, anche se colpisce dai 1.200 ai 1.500 italiani l’anno. Le cause sono sconosciute e non esiste una cura, ma è indicato un trattamento sintomatico in presenza di insufficienza respiratoria, disfagia, scialorrea. L’unico farmaco con indicazione registrata in Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Italia è il riluzolo, che ha mostrato negli studi un incremento di sopravvivenza di 3 mesi. L’Igf-1 è un fattore di crescita naturale per muscoli e nervi, oggetto negli ultimi 10 anni di due studi applicati alla Sla, con risultati contrastanti sulla possibilità di un rallentamento nella progressione della malattia. Due revisioni Cochrane ne hanno criticato la numerosità campionaria, la lunghezza dei follow- up, l’inadeguatezza e la scarsa rilevanza degli end-point. Un terzo studio è in corso, ma per ora non si possono trarre conclusioni attendibili sull’efficacia nel modificare l’andamento della malattia. In proposito sono esemplari per equilibrio, analisi scientifica ed etica le conclusioni dell’Associazione dei malati di Sla: «La somministrazione di farmaci il cui profilo beneficio-rischio non è stato adeguatamen- luppo della vicenda: una drammatica conferenza stampa con la partecipazione del paziente (in condizioni cliniche emotivamente molto coinvolgenti), l’annuncio del nuovo parere sfavorevole del tribunale, le immancabili prese di posizione dei politici locali, le spiegazioni imbarazzate da parte dell’Azienda sanitaria, le clamorose richieste da parte di altri malati nella provincia. Il tutto nella desolante carenza di informazioni tecniche e cliniche da parte degli esperti della malattia, mitigata solo da una posizione molto equilibrata espressa dall’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica. I passaggi successivi sono stati il coinvolgimento del presidente del Consiglio, che ha concesso il permesso all’importazione del farmaco, con costi (140.000 euro annui) coperti attraverso sottoscrizioni popolari, e l’inizio del trattamento. Un elemento che sembrava irrobustire le argomentazioni a favore della concessione del farmaco era il parere favorevole espresso dai tribunali di alcune piccole città. te studiato espone i pazienti a rischi inutili […] Le rilevanti risorse neces- patologie. […] Non vi sono i presupposti per fornire gratuitamente, a carico quesiti più generali sul concetto di “consumatore”, riferito da alcuni a chi Un malato di sclerosi laterale amiotrofica chiede un farmaco non indicato per la sua malattia, comunque incurabile. Il suo caso viene appoggiato dal Codacons, con grande eco sui giornali. La magistratura dà ragione all’Ausl che aveva rifiutato il farmaco, ma interviene il governo. I commenti al caso ne analizzano gli aspetti clinici, giuridici ed etici del Servizio sanitario nazionale, il farmaco Igf-1». In contrasto con questa posizione è il Codacons, che suggerisce rilevanti utilizza servizi sanitari. L’accettazione di questo concetto trascinerebbe pericolose derive verso un modello consumistico materialisti- Gabriele Greco il caso sarie per questa terapia devono intendersi come sottratte ai trattamenti con evidenze scientifiche comprovate per altre co del rapporto medico-paziente. Il deflagrante potere degli organi di informazione, soprattutto in temi di sanità, impone la ricerca di un uso etico del ricorso alle donazioni, da considerare risorse virtuose, preziose, ma non illimitate, a favore di un finanziamento complessivo delle istanze di salute e come tali da indirizzare su canali non solo emotivi. 35 Considerare il contesto e le risorse disponibili I l legale dell’interessato ha citato in giudizio l’Ausl, omettendo la richiesta formale secondo le consuete procedure fissate dalla Regione Emilia Romagna, per ottenere la fornitura gratuita del medicinale Igf-1. Si sarebbe trattato di una somministrazione off label: il farmaco non è registrato con l’indicazione per la quale sarebbe stato utilizzato nel suo caso. Per questo sono stata coinvolta, in qualità di medico legale dell’Ausl: l’avvocato del servizio legale aziendale, pur essendo un valentissimo professionista, necessitava ovviamente di un supporto medico legale e clinico per poter motivare fondatamente la posizione di resistenza da parte dell’Ausl. Il neurologo mi ha fornito prontamente materiale bibliografico e una rela- 36 zione specialistica, dalla quale si evinceva che non ci sono a oggi prove scientifiche inconfutabili che dimostrino una reale efficacia del farmaco nella cura della Sla, neanche rispetto al rallentamento dell’inesorabile evoluzione della malattia. Partendo dal presupposto che è un dovere etico assicurare ai cittadini uguali opportunità di trattamento e che è pertanto inevitabile effettuare delle scelte che contemperino le esigenze del singolo con quelle della collettività, nell’ottica di una corretta allocazione delle risorse (purtroppo assai limitate), si è considerato che non avrebbe avuto alcun fondamento dissipare ingenti somme di denaro pubblico per un trattamento la cui efficacia non era (e non è) stata assolutamente comprovata. Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Anche quando si chiede il parere del medico legale bisogna tenere conto dei criteri che guidano l’esercizio di una medicina basata sulle prove di efficacia, secondo il principio propugnato dal giurista Ferrando Mantovani, che sollecitava in ambito sanitario valutazioni condotte «secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico» in cui ci si trova a operare. Questo ragionamento, giustissimo, richiede tuttavia un’aggiunta e una precisazione: bisogna tenere conto non solo del momento storico, ma anche del contesto operativo in cui si lavora e delle risorse umane e materiali effettivamente disponibili. Un clima rovente Il giudice ha respinto l’istanza dell’interessato e si è scatenata una vera e propria bufera mediatica, con articoli sui giornali, conferenze stampa, videoriprese, manifestazioni in altri nosocomi della provincia da parte di altri pazienti affetti dalla stessa patologia: una pressione non indifferente sul collegio giudicante che avrebbe poi dovuto valutare il ricorso, oltre che un attacco violento all’immagine dell’Ausl. Si è reso pertanto necessario predisporre una nuova memoria difensiva, questa volta ancora più dettagliata e comprovata. Il clima si faceva sempre più rovente, da un lato perché in altre Regioni gli organi giudicanti avevano emesso giudizi in senso opposto, condannando le aziende sanitarie del luogo a rimborsare per intero il costo del trattamento con il farmaco, dall’altro perché l’esito espresso nella nostra realtà locale avrebbe potuto influenzare quello di altre Regioni, in cui il giudizio era ancora in corso. Nel caso specifico l’interessato e i suoi familiari, rivoltisi anche ad associazioni di consumatori, hanno coinvolto le più alte sfere dello Stato ottenendo di poter importare il farmaco: si è quindi posto l’ulteriore problema della responsabilità della sua somministrazione, posto che il medico prescrittore, residente in un’altra provincia, avrebbe richiesto una remunerazione. Data però la volontà dell’interessato di sottoporsi al trattamento, si è ritenuto opportuno osservare alcune precauzioni nell’ambito della collaborazione che l’equipe aziendale di cure continue avrebbe dovuto fornire per la somministrazione del farmaco. Una terapia “sperimentale” In proposito si è ritenuto necessario richiedere al medico prescrittore della terapia di ribadirne l’utilità anche allo stato attuale e di specificarne posologia e modalità di somministrazione nel paziente in questione, evidenzian- Il ricorso alla magistratura è una sconfitta per tutti Q cure si stanno muovendo nella direzione desiderabile. Un tratto dominante è sicuramente lo spostamento del centro di gravità rispetto al potere decisionale: la facoltà unica ed che è stato ricordato all’interessato quali possono essere gli eventuali rischi individuati e gli effetti collaterali, e raccogliendo il consenso informato sottoscritto dal paziente. Si è puntualizzato che l’interessato ha richiesto e accettato la somministrazione del farmaco off label pienamente consapevole della natura “sperimentale” della terapia, esonerando quindi da ogni responsabilità il personale della nostra Azienda. esclusiva del medico di prendere le decisioni sta cedendo il posto a un potere condiviso. Si qualifica questo fenomeno come empowerment del cittadino, in cui la posizione del malato non è più di sottomissione. Anche l’esigenza del con- senso informato per ogni trattamento va in questa direzione, secondo la definizione che ne ha dato il Comitato nazionale per la bioetica: l’esigenza «di una più ampia partecipazione del malato alle decisioni che lo riguardano». Qui sorge la Alessandra De Palma il caso uesta vicenda si può considerare come un test per verificare se i cambiamenti in atto nella nostra società in rapporto ai diritti e doveri relativi alle do l’eventuale presenza di controindicazioni e di rischi di complicanze e gli effetti collaterali del trattamento, di cui avrebbe dovuto informare puntualmente l’interessato. Quindi l’equipe aziendale avrebbe potuto provvedere alla somministrazione del farmaco, una volta pervenuto, dopo avere allegato nella cartella domiciliare tutto il materiale, relativo anche all’autorizzazione (possibilmente scritta) del paziente all’importazione del farmaco da parte del ministero della Salute, registrando altresì 37 Gli autori Gabriele Greco è direttore UO di neurologia, Ospedale Ramazzini di Carpi (MO) [email protected] Alessandra De Palma è responsabile dell’UO di medicina legale, Ausl di Modena [email protected] Sandro Spinsanti è direttore dell’Istituto Giano, Roma prima perplessità: stiamo andando verso un modello di decisione condivisa oppure verso una subalternità del medico alle decisioni del paziente? Nella prima ipotesi la relazione di sottomissione sarebbe superata a beneficio di una decisione consensuale, mentre la seconda ci presenta un cittadino che assume la posizione di dominanza che in passato era propria del medico, e gli chiede di essere semplicemente l’erogatore dei servizi da lui decisi. È questa la concezione che trapela dalle prese di posizione del Codacons: si erge a tutela di un 38 “consumatore”, rivendicando il diritto di accedere a dei servizi che l’organizzazione sanitaria dovrebbe mettergli a disposizione. Questa trasformazione del ruolo del malato però è troppo radicale per non far sorgere qualche perplessità. Indipendentemente dalla questione dei costi di una sanità ridotta a bene di consumo, è a rischio la sicurezza stessa del malatoconsumatore: dietro il suo apparente ruolo forte di decisore, emerge una radicale debolezza, esposto com’è a mille pressioni dalle quali non ha la competenza per difendersi. Non solo Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente quelle esterne del mercato, ma anche quelle interne, riconducibili a trattamenti suggeriti dalla disperazione piuttosto che da una ragionevole speranza. Jerome Groopman in Anatomia della speranza illustra quale competenza comunicativa deve sviluppare il clinico per guidare il paziente nel distinguere tra la vera e la falsa speranza (vedi i commenti al suo libro in Janus 24, inverno 2006). Tutto ciò andrebbe perso se l’alleanza terapeutica fosse destinata a dissolversi in un empowerment che attribuisca tutto il potere decisionale al paziente, senza comunicazione con il medico. Allocare le risorse Un secondo aspetto è quello relativo all’ampliamento dei compiti del medico. Fino a un recente passato, tutto quello che gli era richiesto era di ispirare le sue decisioni al criterio unico del maggior beneficio del paziente. Tutto ciò che, in “scienza e coscienza”, riteneva potesse andare a vantaggio del malato, poteva e doveva fornirlo. Oggi non è più così. La nuova versione del Codice deontologico dei medici italiani (dicembre 2006) ha espressamente introdotto altri due criteri: le preferenze personali del paziente, nelle quali prende corpo la sua autonomia, e l’attenzione a un’equa ripartizione delle risorse, che si traduce nel far entrare nell’orizzonte delle considerazioni anche i potenziali utenti dei servizi, che sarebbero svantaggiati da sprechi e destinazioni di risorse senza una base di appropriatezza. Questo era, appunto, il caso del paziente di Modena che richiedeva un farmaco costosissimo, del quale la scienza medica non possiede ancora prove convincenti di efficacia. È giusto attribuire al medico, in quanto prescrittore singolo, il ruolo di vigile custode delle risorse destinate alla sanità? I medici, in quanto categoria responsabile delle prescrizioni, e quindi di una parte rilevante della spesa sanitaria, non possono più chiamarsi fuori dalle questioni gestionali. Ma il modo di affrontarle non può essere unicamente la responsabilizzazione personale del singolo medico, promosso al ruolo di “allocatore di risorse”. Occorre prendere in considerazione altre modalità più collegiali, di responsabilità condivisa. Il rispetto di linee guida e protocolli è senz’altro una condizione necessaria per una sanità equa. I professionisti inoltre dovranno essere sostenuti da altre funzioni dell’organizzazione sanitaria nel suo insieme. Dovranno essere esplicitati i livelli di assistenza assicurati dal servizio sanitario pubblico, differenziandoli da ciò che può essere catalogato come un optional. Nel caso in questione un ruolo positivo è stato svolto dall’ufficio legale dell’azienda sanitaria e dal servizio di medicina legale. Questa dimensione della qualità gestionale è, in definitiva, per saperne di più Codice deontologico dei medici italiani (dicembre 2006). Comitato nazionale di bioetica, La gestione dei conflitti Un terzo aspetto problematico riguarda la gestione dei conflitti, in un ambito che per lungo tempo ne era stato immune. La modalità di risoluzione dei conflitti che prevede che uno perda e l’altro vinca è devastante in medicina: tutti escono perdenti da scontri come questo. Medici e amministratori sanitari non possono rallegrarsi di aver avuto ragione dalla magistratura: il malanimo che questa vicenda lascia dietro di sé mina alle radici il buon rapporto di cui nessuna pratica medica potrà mai fare a meno. E il ricorso alla magistratura, se è legittimo in una questione di eredità o di confini, risulta inappropriato quando si tratta di decisioni cliniche. Bisognerebbe fare ogni sforzo per gestire il conflitto in modo creativo, in modo che tutti alla fine ne escano vincitori, e quindi evitare il più possibile il percorso giudiziario: un’alternativa potrebbe essere il coinvolgimento del comitato etico. I comitati sono stati creati per la revisione e il controllo delle sperimentazioni, ma è previsto che possano occuparsi anche della promozione dell’etica nella pratica clinica. Un loro intervento consulenziale (non decisionale) in situazioni conflittuali potrebbe contribuire a una risoluzione positiva, purché siano disposti a entrare in questo ambito e siano qualificati per fornire pareri documentati. Sandro Spinsanti il caso Informazione e consenso all’atto medico, 1992. J. Groopman, Anatomia della speranza. Vita e Pensiero, Milano, 2006. più opera collettiva che individuale: la complessità di ruoli e funzioni coinvolti è ciò che differenzia la governance dal governo clinico, inteso come esercizio di potere. 39 La medicina che gioca di anticipo Dall’antico modello ippocratico alla preclinica. Il rapporto medico-paziente è cambiato nel tempo. Non è più il malato a rivolgersi al dottore con una richiesta di aiuto, ma è la scienza che ci dice cosa abbiamo, ancora prima di sentire i sintomi. Il paziente è un consumatore le cui esigenze devono crescere per espandere un mercato di beni e servizi molto complesso. L’unico soggetto in grado di attribuire senso agli atti medici è il paziente. Roberto Satolli D La legittimità degli interventi medici ha avuto per millenni un solido fondamento nel gesto di chi si fa avanti per chiedere aiuto: «Dottore mi curi, perché sto male». In quel modello, il paziente decide di avere bisogno e chiama il medico; con ciò gli chiede di fare quello che, per sua scienza, sa essere la cosa giusta. Il consenso è implicito nella richiesta di aiuto e l’informazione al malato appare superflua, se non addirittura impossibile o controproducente, perché è solo il professionista che deve possederla per agire. È uno schema a cui implicitamente ritengono di potersi attenere ancora oggi sia i medici sia i cittadini, per gran parte dell’attività clinica corrente, nonostante il gran parlare di consenso informato e di autonomia del paziente. In altre parole, se la medicina è “un modo del potere”, secondo l’ipotesi formulata negli anni Settanta da Giulio Maccacaro, quel potere nasce dall’iniziativa del paziente di rivolgersi al curante e di affidargli il suo corpo. O almeno così era l’obiettivo icevano gli antichi: «Medicus non accedat nisi vocatur», il medico non varchi la soglia se non viene chiamato. Alle orecchie contemporanee, abituate al clamore quotidiano delle campagne per sensibilizzare i cittadini su questo o quel malanno trascurato, quel limite suona strano, fuori luogo e fuori tempo. Eppure analizzarne le ragioni, il significato e l’evoluzione può essere utile per capire che cosa sta succedendo alla medicina contemporanea e perché è in difficoltà. 41 sino a poco tempo fa, perché ormai il veto è caduto e questo ha cambiato le carte in tavola, al punto che il modello “ippocratico” non si può più applicare a gran parte di ciò che si fa oggi in medicina. Nasce la preclinica Non è più il soggetto che si dichiara malato, in base ai disturbi e alle limitazioni che avverte. La malattia (o la condizione comunque bisognosa di cure) viene riconosciuta prima e a prescindere dai sintomi, grazie a tecnologie di indagine con sempre maggiore capacità di penetrazione. Se nell’Ottocento è nata la clinica moderna, parafrasando Michel Foucault si potrebbe dire che nel Novecento, con la misurazione della pressione nelle arterie, la scoperta dei raggi X e la messa a punto delle analisi biochimiche del sangue e delle urine, è nata la “preclinica”, che ha continuato a svilupparsi negli ultimi decenni in molteplici direzioni: controlli periodici, check up, screening, diagnosi precoce, test predittivi eccetera. Attenzione: non si tratta solo della cosiddetta prevenzione, attività a cui si dà 42 oggi un significato molto ampio, ma comunque limitato. È tutta la medicina ormai a giocare di anticipo, anche quando si tratta di curare gli esiti di un infarto o di combattere un tumore: sono i dati strumentali, prima che i disturbi del malato, a svelare la presenza di una disfunzione del muscolo cardiaco o di una recidiva neoplastica, ed è sulla base di quelli che si prendono le decisioni. Un segreto ben custodito Purtroppo la particella “pre”, che compone molti dei termini usati per descrivere le iniziative mediche di anticipazione, cela un inganno semantico: supponendo che al “pre” debba seguire sempre un poi, lascia intendere che ogni paziente etichettato in anticipo sarebbe stato destinato a divenire prima o poi un malato nel senso pieno del termine. Ma non è così, e quanto più precocemente si vuole intervenire, tanto più alto è il numero di persone che vengono medicalizzate per “curarne” (in uno qualsiasi dei possibili significati del termine) una sola. Tutto ciò si può esprimere attraverso il numero neces- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente sario da trattare. È una misura che il settimanale americano Time qualche mese fa ha definito come «uno dei segreti meglio custoditi della statistica medica»: pur essendo in uso da una ventina d’anni, i medici non ne parlano mai volentieri, e forse non ne hanno ben acquisito il significato durante i loro studi all’università. Dalla notte dei tempi sino a pochi anni fa il numero necessario da trattare è sempre stato implicitamente uguale a uno: io mi rivolgo a te perché sono malato e tu curi me. Oggi un medico che prescrive diuretici per la pressione o colliri per il glaucoma tratta cento persone per curarne una. Però né lui né i suoi pazienti ne sono consapevoli, ingannati dai dati strumentali che testimoniano l’attività dei trattamenti (la riduzione della pressione del sangue o del tono oculare, per restare ai due esempi), non il loro esito di salute reale (evitare un infarto o conservare la vista). Di fatto il contratto uno a uno si è rotto, i medici trattano implicitamente popolazioni di pazienti, che loro stessi hanno dichiarato bisognosi di cure. Infatti a ben vedere il limite ippocratico altro non era che un divieto teso a impedire che fossero i medici stessi a stabilire cosa è malattia, quali ne sono i confini e quando è appropriato somministrare un intervento medico. Di questo potere si sono ormai saldamente appropriati i medici, attraverso i diversi livelli e gradi di istituzioni scientifiche, senza rendersi conto che il loro ruolo in questo modo è divenuto totalmente autoreferenziale. L’ingannevolezza del consenso informato Forse nascono proprio da qui, assai più che da altri cambiamenti sociali, la crisi di fiducia tra medico e paziente, tra medicina e società, e la percepita necessità di un consenso esplicito per ogni intervento medico, viziata dalla non consapevolezza dell’origine reale di questa esigenza. In quest’ottica, il consenso informato individuale è in Roberto Satolli Agenzia di giornalismo scientifico Zadig [email protected] re, collettivamente definibile come mercato. La pubblicità, la promozione e il marketing sono le modalità dell’informazione verso il consumatore, le cui esigenze devono crescere per A ben vedere il limite ippocratico altro non era che un divieto teso a impedire che fossero i medici stessi a stabilire che cosa è malattia, quali ne sono i confini e quando è appropriato un intervento medico bisognerebbe affiancare a molte decisioni mediche anche un consenso collettivo: per esempio per ogni modifica nella definizione delle malattie, nell’individuazione della soglie di intervento, nella messa in opera di screening, ecc. Tutto ciò è complicato e reso torbido dall’irrompere del punto di vista industriale nel settore della salute, che vede nell’aumento del numero necessario da trattare l’espansione del proprio mercato potenziale, e determina la subordinazione crescente dei medici a questo comando, di pura natura economica. Vi è qui un’altra spinta nascosta sul tema del consenso: per l’industria il paziente è un consumato- espandere le vendite. Il suo consenso è perciò strategico per vincere le resistenze dei sistemi sanitari, che rappresentano chi paga in un mercato di beni e servizi molto complesso. Sta emergendo recentemente (soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in molti Paesi europei, Italia compresa) la parola d’ordine “responsabilità per la salute” (se ti ammali è colpa tua, soprattutto se non accetti di seguire stili di vita salutari o le cure prescritte dal medico) che viene presentata come l’apoteosi del principio di autonomia, mentre ne è la negazione, e confina sempre più spesso con l’obbligo o la coercizione a curarsi. Roberto Satolli l’obiettivo L’autore gran parte un inganno perché, come si è detto, i medici in realtà ormai quasi sempre trattano tacitamente popolazioni, non individui. Per rispondere adeguatamente alla novità, 43 Cesareo: diamoci un taglio Praticato per secoli come un intervento eccezionale (e dando per scontata la morte della madre), il taglio cesareo è diventato negli ultimissimi decenni una pratica abituale in molti Paesi, e soprattutto in Italia. Nonostante le raccomandazioni dell’Oms e molte ricerche che evidenziano maggiori rischi, sempre più spesso i medici ricorrono al cesareo anche quando non è necessario, soprattutto nelle cliniche private e nell’Italia del Sud. Paolo Gangemi M acbeth si sentiva sicuro sul trono di Scozia: le streghe gli avevano garantito che «none of woman born shall harm Macbeth» (nessun nato di donna farà del male a Macbeth). Eppure Macduff riesce a sconfiggerlo e decapitarlo: la profezia non aveva considerato che il suo nemico era stato «from his mother’s womb untimely ripp’d» (strappato prematuramente all’utero materno). L’epilogo della tragedia di Shakespeare dimostra come la nascita con il cesa- 44 reo fosse vista come una cosa a metà fra una nascita vera e propria e una cosa diversa. L’idea che veniva data per scontata era che il cesareo serviva per salvare il nascituro sacrificando la madre, e questo approccio è rimasto fino ai tempi moderni: il primo caso registrato di cesareo in cui la madre è sopravvissuta risale alla Svizzera del 1500. I Romani invece lo eseguivano solo su donne morte, e questo smentisce la tradizione che fa risalire l’etimologia della parola a Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Cesare (la cui madre morì 45 anni dopo averlo messo al mondo); l’attribuzione conferma però l’aura di eccezionalità, nel bene e nel male, che circondava la pratica: un atteggiamento che è rimasto sostanzialmente invariato fino a tempi recenti. Da eccezione ad abitudine È solo negli ultimissimi anni che, dall’eccezionalità, il cesareo è diventato una pratica abituale. Anche troppo abituale, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Infatti in molti Paesi il numero di parti cesarei è in crescita e supera di molto quello raccomandato dall’Oms stessa: è un caso emblematico di trattamento medico (anzi, chirurgico!) operato in assenza di condizioni che lo richiedono. Questo fenomeno fa registrare un picco proprio in Spagna e al 16 per cento in Francia. Una medicalizzazione sempre maggiore «Le cause del fenomeno sono diverse», spiega Angela Spinelli, del reparto Salute della donna e dell’età evolutiva del Centro nazionale di epidemiolo- «Molti ginecologi sostengono che i cesarei non indispensabili vengono eseguiti su richiesta delle donne. Secondo me però questa percentuale è piuttosto bassa, e non basta a giustificare il loro alto numero» gia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità, «ma una, secondo me, è quella principale: la medicalizzazione sempre maggiore della gravidanza, e quindi in particolare anche del parto. Il discorso infatti non vale solo per la percentuale alta di parti cesarei, ma anche per altri indicatori, come per esempio il numero eccessivo di ecografie durante la gravidanza». Secondo la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), infatti, il 30 per cento delle donne in gravidanza subisce più di 7 I rischi del cesareo «Un’altra spiegazione, secondo me convincente, dell’aumento del numero dei cesarei in Italia è quella l’obiettivo Italia. Secondo la terza edizione del rapporto Cedap (Certificato di assistenza al parto), che presenta la fotografia del parto nel nostro Paese aggiornata al 2004, la percentuale dei parti per via chirurgica è passata dall’11 per cento del 1980 al 36,4 per cento, laddove l’Oms ne raccomanda l’uso nel 10-15 per cento dei casi. Le cifre sono sensibilmente più basse in altri Paesi: nel 2000 (quando in Italia la percentuale era già al 33 per cento), arrivava al 21 per cento in Inghilterra e Galles, al 18 per cento in ecografie. Anche il grande aumento dei parti cesarei in Italia non dipende da un incremento di casi urgenti patologici, dove cioè è necessario, ma di quelli cosiddetti elettivi. «Molti ginecologi sostengono che i cesarei non indispensabili vengono eseguiti in seguito alla richiesta da parte delle donne che vogliono risparmiarsi le sofferenze del parto naturale. Secondo me però questa percentuale è piuttosto bassa, e non basta a giustificare il numero dei cesarei elettivi», sostiene Angela Spinelli. La sua ipotesi è suffragata da un’indagine condotta in dodici Regioni italiane pubblicata sulla rivista scientifica Birth, secondo cui le donne italiane preferiscono a larga maggioranza il parto naturale: nove donne su dieci tra quelle che avevano partorito spontaneamente erano soddisfatte della propria scelta, e circa otto su dieci tra quelle sottoposte al taglio cesareo avrebbero preferito il parto naturale. 45 per saperne di più S. Donati et al., “Do Italian Mothers Prefer Cesarean Delivery?”. In: Birth 30 (2), 2003. B. Laubereau et al., “Caesarean section and gastrointestinal symptoms, atopic dermatitis, and sensitisation during the first year of life”. In: Archives of Disease in Childhood 2004; 89. M.F. MacDorman et al., ”Infant and Neonatal Mortality for Primary Cesarean and Vaginal Births to Women with ‘No Indicated Risk,’ United States, 1998-2001 Birth Cohorts”. In: Birth 33 (3), 2006. Ministero della Salute, Certificato di assistenza al parto (Cedap). Analisi dell’evento nascita, Anno 2004. www.ministerosalute.it/ imgs/C_17_pubblicazioni_621_allegato.pdf J. Mollison et al., “Primary mode of delivery and subsequent pregnancy”. In: Bjog: An International Journal of Obstetrics and Gynaecology 112 (8), 2005. W. Shakespeare, Macbeth (Testo inglese a fronte). Giunti, Firenze, 2004. 46 che fa appello ai motivi medico legali: se ci sono complicazioni post parto il medico, tramite la sua assicurazione, deve comunque pagare», prosegue Angela Spinelli. «Il cesareo diventa così un’arma di medicina difensiva, con cui il medico si cautela di fronte a possibili obiezioni del tipo “perché non è stato provato un cesareo?”. Da un lato questo dovrebbe metterli al riparo, dall’altro però diversi studi evidenziano che i rischi di complicanze sono maggiori in caso di parto cesareo». Secondo una ricerca dei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta, infatti, i bambini che nascono a seguito di un cesareo hanno un rischio quasi triplo di morire entro il primo mese di vita rispetto a quelli nati dopo un parto naturale: 1,77 ogni mille bambini rispetto agli 0,62 del parto naturale. Studiosi della LudwigMaximilians Universität di Monaco hanno invece dimostrato che i bambini nati a seguito di parto cesareo hanno un rischio molto più elevato di sviluppare allergie alimentari nel corso dei primi dodici mesi di vita. Ma anche per le madri, a quanto pare, il cesareo ha conseguenze Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente negative: secondo uno studio di un gruppo di ricercatori scozzesi le donne che danno alla luce il loro primo figlio grazie a un parto cesareo hanno molte meno probabilità delle altre di avere un secondo figlio, e comunque avranno maggiori difficoltà nel concepimento. Percentuali più alte al Sud Secondo Angela Spinelli, «una caratteristica specifica che influenza il dato italiano è quella relativa ai parti successivi a quello cesareo: per una donna che abbia partorito una volta con un cesareo è quasi automatico che anche quelli successivi avverranno in questo modo. In Gran Bretagna, invece, nel 60 per cento di questi casi si tenta invece un parto naturale. È vero che spesso poi si rende necessario il cesareo, ma se ne evitano anche di superflui». Insomma, le differenze risentono molto della geografia. E anche all’interno del panorama italiano le realtà locali presentano grandi disparità: sempre secondo il rapporto Cedap, si va dal 59 per cento della Campania al 19,6 per cento della Valle d’Aosta. In generale, le Regioni del Centrosud hanno percentuali mediamente più alte: dopo la Campania seguono Basilicata, Puglia, Sicilia, Abruzzo e Lazio, tutte con percentuali sopra il 40 per cento. «Negli anni Ottanta le percentuali erano più basse, ma è interessante notare che erano le Regioni del Centronord a far registrare quelle più alte. L’aumento nel Sud è legato ancora una volta alla maggiore medicalizzazione che c’è in quelle Regioni, e probabilmente, in parte, al ricorso più frequente alle cliniche private», prosegue ancora Angela Spinelli. Differenze fra pubblico e privato Il caso limite di Inés Ramírez «Il problema è che non sappiamo come fermare questo aumento», conclude preoccupata Angela Spinelli. Anzi, si sperimen- tano anche tecniche nuove, per migliorare l’operazione e ridurre ulteriormente il dolore e i rischi: alcuni specialisti dell’Allgemeines Krankenhaus di Vienna hanno messo a punto una nuova tecnica per realizzare i parti cesarei che dovrebbe essere meno invasiva e dolorosa di quella attualmente praticata in tutto il mondo. Con il nuovo metodo si otterrebbe una minor perdita di sangue da parte della madre, e basteranno circa 20 minuti per realizzare l’intervento, con il quale sono nati oltre 1000 bambini negli ultimi anni. Il caso che si pone all’estremo opposto è quello di Inés Ramírez, una contadina messicana che il 5 marzo 2000 ha partorito nel suo villaggio, dove non c’erano ospedali e in quel momento neanche medici. Così, dopo 12 ore di travaglio, senza avere nessuna cultura specifica, ha deciso di operarsi da sola un taglio cesareo, coronato dal successo pieno: sia lei che il bambino sono sopravvissuti. Lei stessa però dice di non consigliare a nessuno la sua esperienza: avrebbe preferito una corsa in ospe dale, senza dubbio. Paolo Gangemi l’obiettivo Un’altra delle differenze più eclatanti nei dati è quella fra strutture pubbliche e cliniche private: nelle strutture pubbliche la percentuale di parti cesarei è del 34 per cento, nelle case di cura accreditate del 57,8 per cento e in quelle private del 74,2 per cento. «Il fatto che il dato del pubblico si avvicina così tanto a quello totale testimonia che solo una minoranza dei parti avviene in strutture private», spiega Angela Spinelli. «C’è chi insinua che i medici ricorrono al cesareo perché, in quanto intervento chirurgico, rappresenta una fonte di guadagno. Questo potrebbe essere vero in alcuni casi nelle strutture private, che però, come dicevo, rappresentano una piccola quota di tutti i parti. Una spiegazione più convincente riguarda l’organizzazione: ora un medico può programmare un cesareo con mesi di anticipo, fissando il giorno e l’ora. Così si risparmiano le emergenze notturne e le corse in ospedale». In ogni caso, si tratta di un intervento chirurgico che viene operato su pazienti che non ne hanno bisogno: la Sigo sostiene che sarebbe giustificato in generale per le donne sopra i 40 anni, ma denuncia che ricorrono al chirurgo anche un terzo di quelle sotto i 25 anni, per le quali il parto naturale non dovrebbe porre alcun problema. 47 Sport e medicina: non solo doping Lo sport porta con sé patologie specifiche e oggi l’intensificazione dell’attività agonistica causa infortuni più frequenti sia negli atleti sia nei dilettanti. È quindi importante che la medicina sportiva veda riconosciuta la sua specificità. Il problema è stabilire fino a che punto è lecita la farmacologia: spesso, come dimostra il recente caso della Juventus, i trattamenti perdono di vista l’etica, il diritto e la stessa salute degli atleti. Francesco Sala L a medicina sportiva, intesa come ogni atto medico volto a favorire, conseguire e mantenere lo stato di salute psicofisico dell’atleta impegnato in ambito agonistico, ha assunto negli ultimi anni un’importanza sempre crescente. La grande rilevanza sociale dello sport, ormai praticato, sia pure con diversa gradualità di impegno, da milioni di persone, la straordinaria risonanza e popolarità che gli eventi sportivi e i loro attori hanno assunto nella vita comune, gli enormi inte- 48 ressi economici che sempre più spesso li accompagnano, hanno fatto sì che anche la medicina dello sport abbia radicalmente trasformato logiche e metodiche di intervento. Questo appare giustificato e in linea con le mutate esigenze, ma pone sul tappeto una serie di problemi di carattere deontologico ed etico che meritano un’attenta riflessione e ai quali non è sempre facile dare una risposta. Naturalmente è da chiarire subito che tutto ciò non fa riferimento all’attualissimo Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente problema del doping, inteso come l’insieme delle pratiche illecite, farmacologiche e non, volte ad alterare in senso migliorativo la prestazione sportiva: non esiste infatti alcuna incertezza scientifica e non c’è bisogno di alcuna ulteriore riflessione etica per definire e rigettare come eticamente, giuridicamente e scientificamente inaccettabili e dannose per la salute tutte le pratiche volte ad alterare e condizionare illegalmente la prestazione sportiva. Il riferimento è piuttosto ad altri aspetti, che offrono alcuni interessanti motivi di riflessione. Attingere alla cultura dei valori Il primo spunto nasce da un problema che investe la quotidianità della professione del medico sportivo, ed è l’atteggiamento di fondo nei confronti del far- agli atleti che si affidano a lui quest’impostazione di fondo, che attinge pienamente a una cultura dei valori: insegna che per migliorarsi o superare i momenti di crisi è necessario fare leva sulle proprie risorse, sulla propria determinazione, sulla propria capacità di realizzare uno stile di vita adeguato, piuttosto che cercare aiuti al di Occorre sfatare il mito che vede nell’atleta professionista il prototipo della salute. Sono ormai frequenti i casi di atleti che devono abbandonare l’attività agonistica ancora giovani per gravi problemi fisici fuori di sé, nel farmaco o nella sostanza miracolosa più o meno lecita. Il processo alla Juventus Il secondo spunto di riflessione riguarda il rapporto tra farmaco lecito e sport, naturalmente non tanto da un punto di vista farmacologico, quanto piuttosto nei suoi risvolti deontologici ed etici. È questo in sostanza il grande tema che è stato proposto dal processo penale allo staff medico della Juventus: un argo- l’obiettivo maco e del suo utilizzo. Per fare sport a qualsiasi livello e per ottenere i risultati che si propone, l’atleta ha a disposizione sostanzialmente due mezzi, che costituiscono una sorta di cornice di valori entro cui dev’essere concepita ogni pratica sportiva: una metodologia di allenamento ottimale e una corretta igiene di vita che includa l’ottimizzazione dell’alimentazione e del ritmo sonno veglia e il controllo delle abitudini voluttuarie. È importante allora che il medico dello sport sappia impegnarsi per trasmettere mento di grande interesse, ma che non è stato per nulla colto dai mass media e dal grande pubblico, tutti tesi e concentrati a cogliere o meno le prove della somministrazione agli atleti di sostanze dopanti come l’eritropoietina. In realtà il tema è di grandissimo rilievo, perché tocca il movimento sportivo nel suo complesso, dall’atleta professionista al dilettante fino all’atleta amatoriale, ma anche perché pone una serie di quesiti ai quali oggi più che mai è necessario dare una risposta. Innanzitutto occorre sfatare il mito che vede nell’atleta professionista il prototipo della salute, intesa non solo come prestanza ed efficienza fisica, ma anche nell’accezione più classica di assenza di patologie. Il grande seguito di pubblico e di mass media e i grandissimi interessi economici e commerciali hanno determinato un aumento del numero e dell’intensità agonistica degli eventi sportivi e quindi anche degli allenamenti, al punto da portare a livelli preoccupanti le patologie da usura e sovraccarico e la possibilità di gravi incidenti traumatici. Sono ormai frequenti i casi di atleti che 49 devono abbandonare l’attività agonistica ancora giovani per gravi problemi fisici, ed è sempre crescente il numero di coloro che arrivano al termine della carriera sportiva in condizioni fisiche precarie, tali comunque da condizionarne la vita futura. Un prezzo accettabile? Si può discutere se questo sia giusto o meno, se sia un prezzo accettabile da pagare al successo e al conseguimento, a volte, di rilevanti vantaggi economici, ma dev’essere accettato il principio che l’attività sportiva professionistica possa prevedere e accompagnarsi alla patologia, in particolare a quella traumatica e da sovraccarico, e che quindi necessiti di particolari attenzioni e cure anche farmacologiche. A questo proposito è interessante ancora una volta la lettura degli atti del processo di Torino, dai quali emerge chiaramente il netto contrasto tra la posizione squisitamente giuridica della Procura («niente farmaci a persone sane, la patologia si cura col riposo e l’astensione dall’attività fisica») e quella della difesa, supportata dalla cultura 50 e dalla sensibilità medico scientifica, che riconosce invece l’uso del farmaco in presenza di stati patologici legati all’attività sportiva. È assolutamente giusto interrogarsi, più che sulla liceità in astratto di un intervento farmacologico che peraltro è ben presente e accettato nella cultura sanitaria attuale, sui suoi limiti, su fin dove sia lecito spingersi. Il riferimento va in particolare alle dosi, ai tempi e alle modalità di utilizzo dei farmaci che vengono somministrati agli atleti per consentire loro di rendere al meglio in competizione o di sopportare allenamenti sempre più intensi e ripetuti, mediante i quali poter conseguire quel grado di forma fisica che li renda e mantenga competitivi ad alto livello. I farmaci in questione sono soprattutto quelli ad azione antinfiammatoria e analgesica, di cui sono ben noti sia le azioni terapeutiche sia gli effetti collaterali per somministrazioni intense e prolungate. Non va però dimenticata la vasta ed eterogenea categoria dei cosiddetti integratori, dei farmaci psicoattivi, dei farmaci “metabolici”, quasi sempre usati nell’atleta con scopi diversi Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente rispetto alle indicazioni cliniche di registrazione. Falsi bisogni Particolare rilevanza ha assunto negli ultimi anni il problema degli integratori, vale a dire di tutta una serie di sostanze (tra le quali la carnitina, la creatina, gli aminoacidi ramificati e coenzimi vari) normalmente presenti nel nostro organismo e nella nostra alimentazione, ma che vengono proposti e somministrati in dosi e quantità a volte nettamente superiori ai reali fabbisogni fisiologici per influenzare in senso migliorativo la prestazione sportiva o per favorire un più rapido ristoro delle energie. L’importanza del problema è dovuta alla grande diffusione di queste sostanze non solo nell’ambito sportivo professionistico, ma anche al livello della gran massa degli sportivi amatoriali, a loro volta purtroppo sensibili alle suggestioni di una moda certamente sospinta da forti interessi commerciali. Senza addentrarsi nel dibattito sull’efficacia effettiva di queste sostanze, si può affermare con tranquillità che un atleta in sull’assenza di effetti dannosi per l’organismo dalla somministrazione prolungata di alte dosi di queste sostanze, di cui vengono segnalati ormai da più parti i rischi per la salute: basti citare i ripetuti avvertimenti dei possibili effetti tossici della creatina ad alte dosi e la possibile correlazione, evidenziata da alcuni studi recenti peraltro economico in cui si muove lo sport, così gravato di tensioni, pressioni e interessi a volte contrapposti, tende a condizionare e a orientare le valutazioni e le scelte anche in ambito sanitario, e questo rischia di determinare situazioni non sempre pienamente in linea con la deontologia e l’etica medica. Ecco allora che possiamo sforzarci di Il medico dello sport deve saper essere medico della persona e non del problema; il suo lavoro deve fondarsi sulla chiarezza e svilupparsi attraverso il dialogo con lo scopo di raggiungere scelte ragionate e condivise meritevoli di ulteriori approfondimenti, con la sclerosi laterale amiotrofica, che come è noto ha una particolare incidenza tra i calciatori professionisti. Un richiamo all’eticità delle scelte La pratica medica applicata allo sport ha bisogno, oggi più che mai, di riconoscere una cornice di riferimento, un quadro condiviso di valori entro i quali collocare le scelte e le decisioni di tutti i giorni. Il contesto sociale, culturale ed individuare per questo “dover essere” quotidiano del medico dello sport alcuni pilastri fondanti. Il primo è dato dal saper essere una volta di più medici della persona e non limitarsi a essere medici del problema. In un contesto così condizionante come quello dello sport professionistico, occorre calare ogni decisione nella realtà complessiva dell’atleta come persona, tenendo presente e dando il giusto peso a ogni aspetto del problema, da quelli di ambito più strettamente sanitario e della tutela della l’obiettivo buono stato di salute dovrebbe poter trarre da un’alimentazione opportunamente modulata tutto quanto necessario per la sua attività sportiva. Due osservazioni sono particolarmente significative. La prima è di ordine culturale e riguarda la nostra ricca realtà occidentale: la società che, da quando è comparso l’uomo sulla Terra, ha avuto a disposizione la più grande quantità di risorse e di cibo che mai si sia vista e tutte le conoscenze scientifiche per capire cosa è giusto mangiare in ogni situazione. Ciononostante, siamo i primi a cercare in ogni modo di proporre ogni sorta di integrazioni. È giusto chiedersi allora se ce ne sia davvero bisogno, pur in presenza di un’attività fisica intensa e ripetuta, o piuttosto non si tratti di falsi bisogni, indotti da una logica estranea alla tutela della salute. La seconda osservazione è invece di ordine scientifico: non riguarda tanto il problema dell’efficacia, quanto piuttosto quello dell’innocuità, ancora tutta da dimostrare. Un’attenta rivisitazione della letteratura scientifica disponibile non lascia infatti del tutto tranquilli 51 L’autore Francesco Sala è membro del Comitato etico provinciale di Modena come rappresentante della medicina generale [email protected] salute in senso generale e in senso sportivo, a quelli che riguardano la sfera psicologica e motivazionale, fino agli aspetti meno prossimi all’ambito sanitario, cioè quelli sociali ed economici. Il secondo pilastro è dato, sulla linea di questo approccio globale ai problemi della persona, dalla piena rivalutazione della centralità del rapporto medico-paziente nel caso 52 dell’atleta: dimensione sempre importante nella medicina di oggi, ma che assume un’intensità particolare in quanto si realizza in un contesto complessivo fortemente condizionante. E allora è necessario che si fondi in primo luogo sulla chiarezza, si sviluppi attraverso il dialogo e abbia come obiettivo ultimo il raggiungimento di scelte ragionate e condivise. Last but not least, dev’essere sempre presente l’impegno per favorire una cultura sportiva nell’accezione più piena del termine: una cultura che insegni a concepire lo sport come un cammino per trovare e affermare la parte migliore di sé, facendo leva su valori come la disciplina, il sacri- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente ficio, l’autocontrollo, in una parola sulle proprie risorse e qualità, senza prospettare altre soluzioni. In questo senso il ruolo del medico può essere decisivo, nella misura in cui saprà essere presente in maniera positiva, soprattutto nelle sconfitte, nei momenti di crisi, negli infortuni che inevitabilmente accompagnano la vita dell’atleta. Un richiamo allora all’eticità delle scelte e dei comportamenti è oggi più che mai necessario nella realtà di uno sport sempre più spesso esposto alle suggestioni degli interessi economici e della cultura del dover vincere a ogni costo. Francesco Sala Bambini geneticamente modificati Ogni tema che tocca in maniera più o meno pesante i bambini diventa delicato, e in particolare l’enhancement. La morale, l’etica, fanno da sottofondo a pratiche scientifiche utili ma non sempre necessarie. È il caso dell’abuso dell’ormone della crescita o dell’uso indiscriminato dell’ingegneria genetica. In entrambi i casi si tratta di un mercato espansione che però si può dimostrare molto rischioso. Margherita Martini Q giusto e cosa è sbagliato, tra cosa è morale e cosa non lo è, diventa molto sottile e difficile da stabilire. Il dibattito è acceso, la discussione è animata. Un ormone per crescere L’ormone della crescita, il cui nome scientifico è somatotropina, è indispensabile per il normale processo di sviluppo di un bambino. Prodotto dall’ipofisi, ghiandola endocrina alla base dell’encefalo, è un ormone proteico che indu- ce e mantiene la crescita staturale. Possiede numerosi effetti sul metabolismo e sul trofismo della maggior parte dei tessuti e degli organi. Viene prodotto durante tutta la vita: la secrezione aumenta durante la pubertà, diminuisce in età adulta fino a essere quasi del tutto assente in età senile. Il deficit dell’ormone della crescita è quindi una vera e propria condizione clinica, causata dalla carenza patologica di questa proteina e caratterizzata da disturbi della crescita e da altre l’obiettivo uando si ha a che fare con i bambini, ogni argomento va affrontato con delicatezza e responsabilità. E così anche il già tanto discusso enhancement diventa ancora più complesso. Il tema si può analizzare sotto due punti di vista. Uno riguarda l’uso appropriato o meno dell’ormone della crescita (growth hormone), l’altro coinvolge i bambini ancora prima di nascere: la modificazione genetica della linea germinale umana. In entrambi i casi, il confine tra cosa è 53 anomalie metaboliche. È riscontrabile sia nei bambini sia tra gli adulti e, in entrambi i casi, si può trattare con la somministrazione dell’ormone ottenuto per via sintetica. Un mercato in espansione Sono passati vent’anni da quando l’ingegneria genetica ha prodotto per la prima volta l’ormone della crescita con la tecnologia a della somatotropina è di circa due miliardi di dollari e la proteina è approvata per il trattamento di bambini a cui viene diagnosticato un deficit dell’ormone della crescita o altri tipi di problemi che possono portare a una bassa statura. Da qualche anno tuttavia viene usata, non senza controversie, per i bambini la cui altezza rientra nella fascia (1,2 per cento) più bassa dei diagrammi di crescita pediatrici, anche Probabilmente non è una questione di fattibilità ma un problema principalmente etico: chi avrà il potere di decidere a quali bambini attribuire dati caratteri genetici che li rendono più resistenti di altri? secrezione proteica, contribuendo a estendere enormemente l’uso di questa sostanza, prima destinata a pochi. Fino ad allora, l’ormone della crescita si ricavava dai cadaveri disponibili negli obitori. Il cadavergrowth hormone, però, oltre a dimostrarsi pericoloso (molti pazienti curati con questo ormone hanno poi sviluppato il morbo di Creutzfeld-Jakob) non era sufficiente a soddisfare il bisogno globale. A oggi il mercato mondiale 54 se non soffrono di un vero e proprio deficit di questo ormone. L’ormone della crescita è largamente pubblicizzato su internet e la sua diffusione, soprattutto negli Stati Uniti, è diventata un fenomeno di massa. Uso e abuso Dall’uso responsabile all’abuso il passo è breve. Il Journal of the American Medical Association riferi- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente sce che, negli Stati Uniti, un terzo delle prescrizioni mediche di ormone della crescita sono per persone adulte e per usi non approvati legalmente: potenziamento atletico, intensificazione del body building, antinvecchiamento. L’uso della somatotropina fa però sorgere problematiche nuove su ciò che la società considera normale. Perché si dovrebbero mettere sotto trattamento bambini che non soffrono di deficit dell’ormone della crescita ma che sono semplicemente bassi? L’essere stigmatizzati per la bassa statura è uno degli argomenti portati avanti da chi sostiene un uso più ampio di questa sostanza. Figli della genetica Ancora più controverso, sia dal punto di vista etico sia politico, è il tema della modificazione genetica della linea germinale umana. È una tecnica emergente, resa possibile dalla fecondazione in vitro, con la quale si può intervenire sulle caratteristiche genetiche di ovuli o spermatozoi, o anche di embrioni che poi vengono introdotti nell’utero di una donna. Le genetica ha get- LOTTA DI CLASSE GENETICA NON ESISTE UN GENE per lo spirito umano. Lo dimostra la storia di Vincent, il personaggio principale del film Gattaca (1997) di Andrei Niccol. Classificato come “nonvalido”, cioè nato in modo naturale, in una società in cui l’ingegneria genetica è dominante e le persone sono discriminate in base alla purezza del loro Dna, Vincent lotta per raggiungere il suo sogno: lavorare nell’agenzia aerospaziale Gattaca. In un mondo caratterizzato dall’enhancement, dove l’aspettativa di vita e le malattie sono conosciute già prima di nascere, le compagnie sono in grado di selezionare i dipendenti più consoni al posto di lavoro. Esami del sangue, delle urine e qualsiasi test biologico confermano o meno l’appartenenza di una persona alla categoria dominante dei “validi”, individui con un corredo genetico quasi perfetto. Miope e destinato a morire entro i trent’anni, Vincent non ha nessuna possibilità di successo. Non più discriminazioni di sesso, razza o religione, ma discriminazione di geni. L’unica possibilità è assumere l’identità di Jerome, un “valido” rimasto paralizzato in seguito a un incidente, che gli vende campioni biologici. Ma, nonostante ogni aspetto della vita sia programmabile già prima della nascita, in questo mondo domina la tristezza. Vincent è infelice perché discriminato, Jerome perché il destino ha rovinato una vita perfetta. La riuscita sociale dell’uno e il suicidio dell’altro dimostrano che l’individualità vince e il destino sopravvive alla pianificazione. La locandina del film l’obiettivo tato le basi per un nuovo approccio alla diagnosi e al trattamento delle malattie e ha introdotto nuove possibilità di scelte riproduttive. Questo progresso è, però, accompagnato da importanti questioni di ordine etico e sociale. Anche se molti di questi problemi, come la privacy, la stigmatizzazione, il consenso informato, non sono peculiari della genetica, proprio in questo ambito hanno bisogno di maggiore attenzione. Il dibattito su questo tipo di interventi è molto acceso poiché potenzialmente legato a cambiamenti permanenti e trasmissibili per via ereditaria. Uno dei motivi che gli scienziati presentano a supporto di questa tecnica è, per esempio, la possibilità di prevenire una malattia genetica grazie all’eliminazione del singolo gene che la causa. Ma quanto è vicina la scienza alla possibilità di modificare gli embrioni per soddisfare qualsiasi desiderio dei genitori? Probabilmente non è una questione di fattibilità ma un problema principalmente etico: chi avrà il potere di decidere a quali bambini attribuire dati caratteri genetici che li ren- 55 dono più resistenti di altri? Il pericolo è di andare verso disuguaglianze sanitarie sempre maggiori, all’interno di una stessa società ma anche tra i Paesi economicamente sottosviluppati e quelli più ricchi. Che bambino vuoi? Le tecniche genetiche, in una società caratterizzata dal consumismo, dall’estetica e dall’enhancement, rischiano di creare uno strano mercato. Già molte banche del seme reclutano 56 donatori modello: un elevato quoziente d’intelligenza, caratteristiche fisiche vincenti sia dal punto di vista estetico sia della salute. Il bambino diventa dunque un semplice prodotto? La possibilità di conoscere in anticipo la predisposizione verso alcune malattie, e dunque la conseguente differenza tra individui “geneticamente modificati” e persone “normali”, porta con sé problemi verso terzi. Senza un’adeguata normativa sulla privacy, le famiglie, i decisori politici, i ricercatori, i medici e Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente anche le compagnie assicurative verrebbero a conoscenza di particolari troppo personali su coloro che sono nati con le nuove tecniche genetiche. Come si è visto per la fecondazione assistita, il tempo e l’aumento del numero di persone che ricorrono a un determinato intervento aiutano a superare le perplessità inziali. È altrettanto vero che un’attenzione particolare su temi delicati come questi rimane utile e necessaria. Margherita Martini Un’epidemia di diagnosi sta medicalizzando il mondo «Un sano non è altro che un malato che non sa di esserlo»: il paradosso di Knock o il trionfo della medicina di Jules Romains sta diventando la situazione normale della medicina di oggi. La diffusione di screening e check up, e l’abbassamento della soglia del “patologico”, stanno medicalizzando la società, con l’appoggio delle case farmaceutiche. La comunicazione sanitaria dovrebbe tenerne conto. Una speranza viene da internet. Gianfranco Domenighetti I za, dall’asimmetria dell’informazione, dalla qualità poco o non misurabile, dai conflitti di interesse, dall’autoritarismo e dall’opacità delle decisioni; dal lato della domanda, da preferenze individuali e sociali orientate verso un sempre maggior benessere psicofisico, spesso riconducibile ad attese di efficacia dell’impresa medico sanitaria che superano ogni ragionevole prova. Queste ultime sono in larga misura indotte dai media e dagli opuscoli “informativi” prodotti dai servizi. Ne segue che emettere informazioni medico sanitarie verso la società civile, in particolare se sono “buone notizie”, significa acquisire e mantenere “potere”. È pure indispensabile sottolineare che, oltre ai classici attori che operano su questo mercato (pazienti, fornitori di prestazioni e servizi, assicuratori, enti pubblici), ce n’è uno, generalmente “innominato”, rappresentato dai produttori di tecnologia medico sanitaria, cioè dall’industria, in particolare quella farmaceutica. l’obiettivo sistemi sanitari “universali” sono sistemi complessi in cui a dominare è l’offerta: omologa la domanda, che potrà quindi beneficiare di un accesso a prestazioni e a servizi il cui costo sarà poi socializzato. Ogni sistema sanitario è caratterizzato anche da interessi molto spesso contrapposti tra gli attori implicati (pazienti, fornitori di prestazioni, produttori di tecnologia, amministratori, politici). Inoltre, dal lato dell’offerta, l’attività sanitaria è governata dalla complessità, dall’incertez- 57 I suoi obiettivi, espliciti e legittimi, sono essenzialmente l’espansione dei mercati e la crescita dei profitti. La strategia scelta è quella di influenzare i regolatori, i prescrittori, i cittadini e i pazienti con politiche spesso aggressive di marketing e di lobbying, largamente fondate sull’informazione e sulla comunicazione diretta o indiretta, che provocano spesso conflitti di interessi. meno presso il grande pubblico, che l’industria, in particolare quella farmaceutica, condiziona pesantemente la prescrizione medica, la ricerca, le riviste scientifiche, la formazione continua dei medici, i media, le associazioni dei pazienti, gli organi di controllo e, tramite il lobbying, la politica. Meno noto è invece il fatto che le vere inno- unico scopo l’ottenimento o l’estensione dei brevetti che garantiranno prezzi elevati dei farmaci a carico dei servizi sanitari. La loro diffusione sarà garantita, senza rigorose valutazioni di efficacia e di efficienza, tramite le abituali pratiche di marketing presso i medici che, grazie alla prescrizione, giustificheranno l’omologazione della presa a È sorprendente l’entusiasmo popolare per i check up e 58 La medicalizzazione della società gli altri servizi di diagnosi precoce. Il marketing indu- Un famoso incipit sul Bmj del 2002 segnalava che «si possono fare molti soldi se si arriva a convincere i sani che in realtà sono degli ammalati». Già nel 1923 Jules Romains faceva dire al dottor Knock, nell’omonima commedia, «un sano non è altro che un malato che non sa di esserlo». Nel 1976, in un’intervista a Fortune, Henry Gadson, della Merck Sharp and Dohme, osservava che «il mio sogno è fare farmaci per le persone sane». Oggi il suo desiderio si è ampiamente realizzato e Big Pharma ha esteso la propria influenza a tutti i settori della società. È cosa assai nota, anche se sia ormai diventata sinonimo di guarigione assicurata striale ha fatto sì che nel pubblico la diagnosi precoce vazioni terapeutiche, e non solo in campo farmaceutico, sono state, negli ultimi vent’anni, assai scarse. La rivista indipendente Prescrire ha evidenziato che dal 1981 al 2005, sui 3.335 nuovi farmaci immessi sul mercato francese, solo 7 hanno rappresentato un progresso terapeutico “maggiore” e 78 un progresso “importante” (con alcuni limiti), mentre gli altri erano sostanzialmente delle copie o farmaci senza nessun interesse clinico o perfino dannosi. Questa abbondante pseudoinnovazione ha come Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente carico del costo da parte degli assicuratori o dei servizi sanitari nazionali. Ma le strategie che mirano alla medicalizzazione della vita degli individui e della società sono altre. Oggi la costruzione sociale delle malattie sta per essere sostituita dalla loro costruzione industriale. Questa dinamica è sostenuta e promossa da tre fattori. Il ribasso della soglia della patologia Il primo fattore è la sistematica revisione al ribasso di farmaci che avrà fine solo con il decesso dei consumatori. Tra i nove membri della Conferenza di consenso che ha definito (abbassandole) le nuove soglie per il trattamento dell’ipercolesterolemia, facendo così passare da 13 a 36 milioni il numero di cittadini americani eleggibili al trattamento, solo uno non aveva conflitti di interesse con l’industria farmaceutica. Il New York Times del 20 maggio 2006 rivelava che il panel che ha definito le nuove soglie dell’ipertensione aveva ricevuto 700.000 dollari da tre società farmaceutiche produttrici di antipertensivi. Va rilevato che la medicalizzazione dei fattori di rischio comporta un cambio di paradigma dell’agire medico tutt’altro che trascurabile: promuove l’abbandono della misura e della verifica dei risultati dell’intervento medico su un paziente unico e certo, per trasferire l’azione terapeutica verso il trattamento di probabilità anonime, e questo impedirà di verificare se l’intervento o la prescrizione abbiano avuto successo. Abbassare all’infinito il tasso di colesterolo in prevenzione primaria sembra essere diventata l’ossessione culturale dei paesi industrializzati, nonostante fondati dubbi sull’efficacia delle nuove linee guida siano stati avanzati anche da prestigiose riviste di medicina. Riducendo i rischi potenziali dei sani si distoglieranno in futuro mezzi e risorse per la cura di chi è effettivamente malato. Screening a tappeto Il secondo fattore è la generalizzazione della diagnosi precoce (screening, check up, ecc.), pratica oggi percepita dalla popolazione come garanzia di guarigione se non di prevenzione dall’insorgenza di questa o quella morbilità. Un sondaggio del 2006 che abbiamo condotto in Italia ha mostrato come l’80 per cento dei cittadini è dell’opinione che sia sempre utile fare degli esami per sapere in anticipo se si ha oppure no una malattia, contro solo il 17 per cento che correttamente rispondeva «solo in certi casi». È sorprendente constatare l’entusiasmo popolare per i check up e gli altri servizi di diagnosi precoce. Per esempio negli Stati Uniti il 50 per cento delle donne che hanno perso il collo dell’utero a seguito di iste- l’obiettivo delle soglie che definiscono il “patologico” per tutta una serie di fattori di rischio diffusi (ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, ecc.), che tende a trasformare milioni di individui oggi “soggettivamente” sani in persone “oggettivamente” malate. Un recente studio apparso sul Bmj mostrava per esempio che estrapolando sulla popolazione norvegese le raccomandazioni delle linee guida della Società europea di cardiologia sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica, nessun uomo di età superiore ai 40 anni poteva essere considerato a basso rischio (!). Queste e altre linee guida, abbondantemente sponsorizzate dall’industria, mirano a lottare contro i cosiddetti “fattori di rischio” (trasformati così in vere e proprie malattie), e implicano una medicalizzazione farmaceutica di massa il cui denominatore, in rapporto all’anonimo individuo che ne trarrà un eventuale beneficio, tenderà a crescere con l’abbassamento della soglia. Da qui l’ evidente interesse economico per l’industria di medicalizzare in modo epidemico i fattori di rischio, poiché garantiranno un consumo giornaliero 59 per saperne di più P.B. Bach et al., “Computed tomography screening and lung cancer outcomes”. In: Jama 2007; 297. A. Barrat et al., ”Model of outcomes of screening mammography: information to support informed choices”. In: Bmj 2005; 330. L. Cosgrove et al., “Financial ties between DSM-IV panel members and the pharmaceutical industry”. In: Psychoter. Psychosom 2006; 75. G. Domenighetti, R. Grilli, A. Liberati, “Promoting consumer’s demand for evidence-based medicine”. In: Int J Technol Assess Health Care 1998; 14. G. Domenighetti, R. Grilli, J. Maggi, “Does provision of an evidence-based information change public willingness to accept screening tests?”. In: Health Expect 2000; 3. G. Domenighetti et al., “Women’s perception of the benefits of mammography screening: population-based survey in four countries”. In: Int J Epidemiol 2003; 32. G. Domenighetti, “Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar cercasse”. In: Occhio Clinico 2005; 11. L. Getz et al., “Estimating the high risk group for cardiovascular disease in the Norwegian Hunt 2 population according to the 2003 European guidelines: modelling study”. In: Bmj 2005; 331(7516). P.C. Götzsche, M. Nielsen, “Screening for breast cancer with mammography”. In: Cochrane Database of Systematic Reviews 2006, 4. S.M. Grundy et al., “Implications of recent clinical trials for the National Cholesterol Education Program adult treatment panel III guidelines”. In: Circulation 2004; 110. R. Moynihan et al., “Selling sickness: the pharmaceutical industry and disease mongering”. In: Bmj 2002; 324. Les Palmarès Prescrire 2005. Prescrire 2006, 26 (269). J. Romains, Knock o il trionfo della medicina. Millennium, Bologna, 2005. R. Smith, “In search of ‘non-disease’”.In: Bmj 2002; 324. Transparency International. Global corruption report 2006: corruption in health systems. London: Pluto Press, 2005. 60 Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente rectomia totale continuano a sottoporsi al test per la diagnosi precoce del tumore al collo dell’utero, e in alcuni Paesi europei la situazione non è diversa. È stato dimostrato come il 60 per cento della popolazione sia perfino disposta a sottoporsi al test per la ricerca precoce del tumore (praticamente incurabile) al pancreas, e che l’80 per cento delle donne italiane credono che sottoporsi regolarmente alla mammografia eviti o riduca il rischio di ammalarsi in futuro di cancro al seno. Probabilmente il marketing industriale e mediatico ha fatto sì che nel pubblico la diagnosi precoce sia ormai diventata sinonimo di guarigione assicurata. I check up, gli screening e i test diagnostici di massa hanno molto spesso la capacità di sovrastimare l’incidenza di morbilità inconsistenti, oppure di anticipare una diagnosi senza che poi vi sia un reale beneficio in termini di sopravvivenza. Recentemente lo studio sull’efficacia della Tac spirale nella prevenzione della mortalità per tumore al polmone ha mostrato che, nonostante l’indagine precoce abbia anticipato oltre il 90 per cento delle diagnosi, la mortalità è risulta- ta identica a quella del gruppo di controllo che non era stato sottoposto allo screening. Anche per lo screening mammografico l’anticipo della diagnosi positivo potrò dirmi che ho fatto bene a farlo, perché avrò così la possibilità di iniziare la cura in anticipo e questa sarà più efficace; se il risultato sarà negativo gneria genetica darà a ognuno la possibilità di essere trasformato subito dopo la nascita in un “malato”. Quello che ci fa ammalare, titolava il New York Times del 2 gennaio 2007, è soprattutto un’epidemia di diagnosi. In futuro internet e l’e-health saranno un potentissimo strumento di empowerment del cittadino, ma anche uno strumento che necessiterà della verifica tramite la L’aumento delle non-malattie comunicazione con un professionista della sanità senza benefici di sopravvivenza a 10 anni concerne il 93-94 per cento delle donne ultracinquantenni a cui è stato diagnosticato un tumore al seno, mentre quelle che beneficeranno della diagnosi precoce saranno, a seconda delle fonti, da 0,5 a 2 donne su 1000 (in 10 anni). Una gabbia logica l’obiettivo È interessante notare che in assenza di un’informazione esplicita, esaustiva e comprensibile sui benefici, gli eventi avversi e le incertezze della diagnosi precoce, quest’ultima costituisce una “gabbia” logica che conduce a ragionamenti di questo tipo: «È sempre meglio fare l’esame: se farò l’esame e il risultato sarà (o falso positivo), avrò ancora fatto bene a fare l’esame perché sarò rassicurato; se invece non dovessi fare l’esame e poi mi ammalerò, avrò fatto male a non farlo. Quindi in ogni caso la scelta di sottoporsi alla diagnosi precoce sarà da preferire. Anche se dovessi decidere di chiedere un parere al medico, quest’ultimo, per cautelarsi verso l’incertezza, darà con grande probabilità un avviso positivo». Eppure, contrariamente all’opinione comune e dominante, una delle scelte più difficili è proprio quella di decidere se sottoporsi a una diagnosi precoce e per quali tipologie di morbilità. In un futuro prossimo la generalizzazione della diagnosi precoce che sarà resa possibile grazie all’inge- Il terzo fattore è l’attribuzione dello statuto di “malattia” a condizioni che fanno parte del normale processo biologico della vita. Non a caso il Bmj ha pubblicato una “Classificazione internazionale delle nonmalattie” che contabilizza oltre 200 condizioni reputate a torto come malattie, fra cui la menopausa, l’osteoporosi, la fobia sociale, il colon spastico, la sindrome di fatica cronica, ecc. L’influenza dell’industria e i conflitti di interesse sono presenti anche quando si tratta di definire se una situazione o condizione di vita debba essere elevata alla dignità di “malattia”. Questo consentirà poi l’assunzione da parte dei sistemi nazionali di salute o di quelli assicurativi dei costi delle prescrizioni e dei trattamenti. Un recente studio dell’Università del 61 L’autore Gianfranco Domenighetti è economista e direttore della Sezione sanitaria del Dipartimento della sanità e della socialità del Cantone Ticino. È consulente dell’Oms. [email protected] Massachusetts ha denunciato la sponsorizzazione da parte dell’industria farmaceutica del panel di psichiatri incaricato di aggiornare l’elenco delle condizioni psichiche che meritavano di essere omologate come vere e proprie malattie. Paradossalmente, mentre i servizi sanitari spendono miliardi per lottare contro la malattia, in realtà stanno creando milioni di ammalati supplementari e facendo a poco a poco scomparire le persone in buona salute. «Secondo Google sto benissimo» Oggi, quindi, la comunicazione sanitaria diretta verso la società civile dovrebbe anche, se non soprattutto, orientarsi verso una lettura critica della medicalizzazione della vita indotta direttamente o indirettamente dall’industria della tecnologia della salute. Non a 62 caso il rapporto 2006 di Transparency International è tutto dedicato alla «corruzione nel settore sanitario». Infatti asimmetria informativa, complessità e incertezza danno ai produttori, ai fornitori e ai prescrittori di beni e servizi sanitari una rendita di posizione sconosciuta agli altri settori economici di largo consumo, in grado di manipolare le preferenze dei cittadini che, nella loro quasi totalità, preferiscono ovviamente vivere piuttosto che morire. L’uso dell’e-health e di internet può o potrà aiutare il cittadino a distinguere il grano dal loglio? Probabilmente già ora i giovani (più abili in informatica), nella misura in cui conoscono la lingua inglese e sono minimamente “letterati” al gergo medico sanitario, possono accedere a siti di qualità, come per esempio quelli prodotti dal National Health Service britannico o da altre agenzie pubbliche. Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente In Italia, alcuni esempi sono EpiCentro, portale del Centro nazionale di Epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità (www.epicentro.iss.it) o anche il sito promosso dall’Istituto Mario Negri (www.partecipasalute.it). Sicuramente in un prossimo futuro internet e l’ehealth saranno un potentissimo strumento di empowerment del cittadino consumatore, ma anche uno strumento che necessiterà, in particolare per il paziente, della verifica tramite la comunicazione interpersonale con un professionista della sanità. Tuttavia il confronto dialettico ne sarà probabilmente arricchito per tutte quelle situazioni dove l’urgenza non imporrà decisioni immediate. «Secondo Google sto benissimo» è una frase che si sente sem pre più spesso. Gianfranco Domenighetti Che genere di disturbo? Un disturbo di genere La trattazione scientifica del transessualismo è iniziata solo negli anni Sessanta, con gli studi di Harry Benjamin. Dal 1982 in Italia c’è una legge che tutela il diritto a cambiare sesso, ma rimangono molti vuoti normativi sulle procedure. Chi vuole cambiare sesso deve sottoporsi a test psicologici e terapie ormonali, e solo dopo una sentenza del tribunale può sottoporsi all’intervento, che viene rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. Stefano Pisani P malato. Un transessuale soffre precisamente di “disturbo dell’identità di genere”, considerato una patologia in base alla quarta edizione del Manuale di classificazione dei disturbi mentali redatto dall’Associazione americana degli psichiatri. Anche secondo la decima edizione della Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità, adottata nel 1994, il transessuale è un malato. In questo caso, la sua patologia va sotto il nome di “disforia di genere”. Uno dei paradossi dell’inquadramento del transessualismo è che si tratta dell’unica patologia classificata come psichiatrica a non essere curata psichiatricamente. Lo psichiatra infatti non guarisce la persona transessuale facendola nuovamente sentire a proprio agio con il suo sesso di origine, ma avvia la persona a cui è diagnosticato il disturbo alle terapie endocrinologiche e chirurgiche per iniziare il percorso di transizione verso il cambio di sesso. l’obiettivo er la società, transessuale è colui o colei che ha un comportamento sessuale caratterizzato dalla non accettazione del proprio sesso e dall’identificazione nel sesso opposto. È una persona che sente di appartenere al genere sessuale opposto a quello in cui è nato, che vive il suo corpo come una contraddizione con cui si sveglia ogni giorno, e che ha bisogno di adeguare questa realtà esterna alla sua verità interna. Per la scienza medica moderna, invece, è un 63 Per molti decenni, fra la fine dell’Ottocento e i primi venti anni del Novecento, la persona transessuale veniva sottoposta a tentativi di “guarigione”, cioè di scomparsa del “disturbo”, sia attraverso la psicoterapia, sia attraverso la somministrazione di ormoni del proprio sesso genetico. I tentativi sono stati però fallimentari e molto tempo: l’intervento chirurgico ha avuto infatti complicazioni fatali. Il primo transessuale noto sopravvissuto in modo duraturo all’intervento è stato invece l’americano George Jorgensen, diventato Christine Jorgensen nel 1953. Christine è stata travolta ben presto da un ciclone pubblicitario, a dispetto dei suoi tentativi Lo psichiatra non guarisce la persona transessuale facendola nuovamente sentire a proprio agio con il suo sesso di origine, ma la avvia alle terapie per iniziare il percorso di transizione verso il cambio di sesso hanno determinato un numero elevatissimo di suicidi. Soltanto intorno al 1960 si è iniziato a pensare che l’unica “guarigione” della persona transessuale si potesse ottenere adeguando il corpo alla psiche e non viceversa. Gli studi di Benjamin Il primo intervento medico di riassegnazione sessuale è stato tentato in Germania nel 1930, quando Einar Wegener venne operato e, successivamente, visse come Lili Elbe. Ma non per 64 di mantenere il riserbo: la donna è diventata la prima “transessuale mediatica” o, come l’hanno definita altre transessuali, una “trans martire”, e ha vissuto sia i benefici sia la maledizione della fama. Come risultato, infatti, è apparsa in alcuni film di Hollywood ed è diventata abbastanza celebre da rendere il transessualismo visibile alla società postindustriale. Nei decenni successivi solo singoli medici (rari) hanno trattato i transessuali, mentre la maggioranza della comunità medica ha considerato la transessualità un Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente mero disordine mentale senza basi biologiche. Il primo professionista che davvero ha provato ad aiutare i transessuali con compassione e studi scientifici è stato il sessuologo tedesco Harry Benjamin, che ha studiato e curato con attenzione il transessualismo, dedicandogli la maggior parte della sua carriera. I risultati dei suoi studi attenti e documentati sono stati pubblicati nel libro Il fenomeno transessuale, che ha portato direttamente a quei benefici di cui possono godere i transessuali di oggi e ha aperto le porte a seri studi sulla condizione. Attualmente la Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association continua il suo lavoro e aiuta a fissare gli standard di cura per il trattamento dei transessuali da parte dell’establishment medico. Un iter laborioso In Italia la mobilitazione del Movimento italiano transessuali e dei Radicali, che hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sulla questione, ha portato alla legge 164 del 14 aprile 1982. La legge riconosce alle persone transessuali la del tribunale ci si può rivolgere poi alle strutture ospedaliere per richiedere gli interventi chirurgici: penectomia, orchiectomia ed eventualmente vaginoplastica per chi vuole passare da maschio a femmina; mastectomia, isterectomia ed eventualmente falloplastica o clitoridoplastica per il percorso inverso. Dopo essersi sottoposti agli interventi di rimozione bisogna nuovamente rivolgersi al tribunale per il cambiamento di stato anagrafico, attraverso il quale i documenti di identità vengono modificati per sesso e per nome, con l’eccezione del casellario giudiziario e dell’estratto integrale di nascita. Le persone che hanno concluso, da un punto di vista legale, la transizione da un sesso all’altro, possono anche sposarsi e adottare figli. È interessante osservare che rimane difficile eliminare ogni traccia che riguardi il nome e il sesso originari, nonostante questa intenzione sia alla base della legge: i curricula scolastici e accademici e alcuni attestati e certificazioni non sono riscrivibili. In altri Paesi europei, invece, la sentenza per l’adeguamento dei dati anagrafici può essere emessa anche prima dell’atto chirurgico, consentendo una vita socialmente più vicina ai desideri del transessuale. Interventi sempre più frequenti Gli interventi autorizzati relativi ai caratteri sessuali per saperne di più American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm-IV), 1994. H. Benjamin, Il fenomeno transessuale. Astrolabio, Roma, 1968. D. Di Ceglie, Straniero nel mio corpo. FrancoAngeli, Milano, 2003. Organizzazione mondiale della sanità, Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati. www.who.int/ classifications/apps/icd/ icd10online La versione italiana si può scaricare al sito www.istat.it/strumenti/ definizioni/malattie.pdf D. Tucker, Transamerica (2005). l’obiettivo loro condizione e le autorizza a compiere il percorso atto a conformare il corpo al sesso d’elezione e quindi al cambio anagrafico dopo gli interventi chirurgici per rimuovere gli organi riproduttivi. La legge non prevede però un regolamento di applicazione e quindi la procedura giudiziaria, a oggi, è frutto di un’interpretazione tendenzialmente condivisa, che lascia comunque ampi vuoti. L’iter è piuttosto laborioso: chi decide di iniziare il percorso per la riattribuzione del sesso, in base alle Linee guida dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere, deve rimanere in osservazione per 6 mesi (facoltativi in altri Paesi), sottoponendosi a colloqui psicologici e indagini ormonali. A questo periodo segue un anno di “test di vita reale”, durante il quale vengono somministrati gli ormoni (estrogeni e antiandrogeni o androgeni), non rimborsabili. In seguito, in assenza di turbe psichiatriche o di grave malattie, vengono rilasciate le relazioni mediche e psicologiche da presentare al tribunale di residenza che, nel caso lo ritenga necessario, nomina un consulente tecnico d’ufficio. Con la sentenza positiva 65 L’autore Stefano Pisani è giornalista scientifico free lance [email protected] primari vengono rimborsati dal Sistema sanitario nazionale. I trattamenti gratuiti, dopo sentenza del tribunale, sono la vaginoplastica, la falloplastica, la clitoridoplastica, l’isterectomia, la mastectomia, la riduzione del diametro dell’areola e il volume del capezzolo. Sono a pagamento invece operazioni come la riduzione del pomo d’Adamo (il costo è di circa 2000 euro), la mastoplastica additiva 66 (fino a 7 mila euro) e la liposuzione (3-4000 euro). La chirurgia è molto più dolorosa quando è una donna che diventa uomo. All’asportazione del seno segue infatti quella del muscolo dell’avambraccio, che viene trapiantato nel pube come materiale per la falloplastica. L’operazione era una volta molto rischiosa, ed è per questo che, anche oggi, molte donne si fermano alla prima fase. Il cambiamento di sesso prevede infine che venga seguita per tutta la vita una terapia ormonale. I costi medi mensili vanno dagli 8 ai 15 euro per il testosterone e dai 30 agli 80 euro per estrogeni e farmaci antiandrogeni. Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente La percezione del disturbo di identità avviene soprattutto in età adolescenziale. Attualmente si ritiene che a soffrire di disturbi di identità di genere negli adulti sia un uomo su 40.000 e una donna su 150.000, ma non tutti arrivano all’intervento. In Italia, dall’approvazione della legge, il numero di soggetti operati è stato sempre in crescita, anche se di poco. Attualmente si calcola che ogni anno, solo nelle strutture pubbliche, vengano effettuati circa 80 interventi, con una netta prevalenza per l’intervento da uomo a donna rispetto al viceversa. Stefano Pisani Quale rimedio per il male oscuro? Considerata la malattia del terzo millennio, la depressione colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Un malessere per cui non è facile definire il confine tra semplice disagio psichico e vera e propria patologia e per cui si registra un abuso nella prescrizione di farmaci. Sia per gli adulti sia per i bambini, il ricorrere agli antidepressivi è pratica comune e troppo frequente. Non sempre la serenità si riconquista ingoiando una pillola. Stefania Santoro «C entra nel campo della patologia. Il malumore diventa malattia quando toglie l’appetito, il sonno, l’interesse per le proprie attività preferite, la stima nelle proprie capacità, la fiducia nel futuro e in ultimo la volontà. In realtà clinicamente non esiste un’unica forma della malattia, ma diversi disturbi con caratteristiche comuni. Fondamentalmente si distinguono una depressione “maggiore” caratterizzata dal pensiero ricorrente del suicidio e varie forme “minori” caratterizzate da demotivazione nel lavoro e nelle relazioni sociali. Nel mondo sono afflitte da questi sintomi circa 100 milioni di persone. In Italia le diagnosi di depressione sono circa 5 milioni, di cui un milione per la forma “maggiore”. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il fenomeno è in forte diffusione. Sempre più persone fanno ricorso a farmaci antidepressivi e, dato allarmante, sono soprattutto bambini. Secondo uno studio dell’Istituto Mario Negri, in Italia sono più di l’obiettivo ercava un posto la tristezza, veramente desolato e solitario. Vide deserto il mio cuore e si annidò in quel vuoto». Con queste parole Johann Wolfgang Goethe descriveva come il “male oscuro” si impadronì della sua anima. Una sensazione di nullità della vita così forte da non lasciare alternativa al suicidio. Capita a tutti di essere un po’ giù d’umore, ma quando l’intensità e la durata sono tali da non poterlo più considerare uno stato d’animo passeggero si 67 35 mila i giovani, al di sotto dei 18 anni, in cura con questo tipo di medicinali. Malgrado sia un fenomeno sempre più diffuso, la vecchia etichetta di “male oscuro” resta tuttora attuale perché, in realtà, non sono ancora note le cause della depressione. Né sono stati individuati i criteri per riconoscerla e per differenziarla in maniera univoca dai malesseri esistenziali che caratterizzano i percorsi della vita di ogni uomo. L’aggettivo “oscuro” denota bene il tratto più caratteristico di questo male: il manifestarsi anche in assenza di cause evidenti o comunque in misura sproporzionata rispetto ai fattori scatenanti. C’è differenza tra il dolore legato all’elaborazione di un evento drammatico e una condizione psichica patologica. Il mal di vivere viene considerato, infatti, “disagio psichico” quando è tale da impedire il regolare svolgimento delle attività quotidiane. La malattia del terzo millennio Avvilimento, sconforto, pessimismo, demotivazione, perdita di autostima e perdita di volontà: sono stati d’animo che ciascuno 68 prova nel corso della propria vita e che, presto o tardi, riesce a superare. Ma perché talvolta questo disagio assume dimensioni patologiche? Malgrado i progressi delle neuroscienze, è ancora difficile trovare una risposta biologica a questa domanda. Il dato più allarmante è che il fenomeno si sta diffondendo così tanto da poter considerare la depressione come la malattia del terzo millennio. È sintomatica, infatti, del modo di essere della società contemporanea. La psiche non è insensibile alla storia. Secondo Freud alla base della nevrosi c’è il conflitto tra i propri desideri e le norme imposte della civiltà. Allo stesso modo, come ben illustrato dal sociologo Alain Ehrenberg, la depressione è il dramma dell’uomo della società dove tutto è possibile. L’assenza di limiti causa nell’uomo un senso di inadeguatezza che lo paralizza in uno stato di non-decisione, non-azione, nonvolontà. Una condizione che la società odierna, fondata sul paradigma dell’efficienza, penalizza pesantemente. Una condizione che, poiché impedisce il regolare svolgimento delle attività quotidiane, è da Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente considerare patologica e quindi da medicalizzare. Un rimedio abusato La tendenza attuale sembra però quella di un’eccessiva facilità a emettere diagnosi di depressione. Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista The Archives of General Psychiatry, un quarto delle persone classificate come depresse in realtà soffre semplicemente il dispiacere di un avvenimento doloroso: un lutto, un divorzio, un licenziamento. La fiducia nel potere terapeutico degli antidepressivi sembra aver influenzato i criteri diagnostici. Nel 2002 lo psicologo americano Irving Kirsch, ha riesaminato i risultati dei test clinici per la valutazione dell’efficacia dei principali antidepressivi di nuova generazione, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors), ai quali appartiene il Prozac ®. È emerso che la loro efficacia è di poco superiore, se non uguale, a quella di un placebo. Come si spiega allora lo strepitoso successo di questi farmaci? Pare che più della metà degli studi finanziati dalle case farmaceutiche per dimostrare l’efficacia di questi farmaci siano stati fallimentari. La maggior parte di questi, però, non sono mai stati pubblicati, per un fenomeno noto come publication bias, cioè la distorsione della verità scientifica, derivante da una tendenza dalla pubblicazione dei soli dati favorevoli. I risultati di Kirsch non sono stati smentiti, anzi diversi psichiatri interpellati hanno rivelato di essere a conoscenza dell’omissione di dati. Un’inchiesta del 2006 ha rivelato che metà degli psichiatri che hanno redatto l’ultima versione del Manuale di classificazione dei disturbi mentali, dell’Associazione psichiatrica americana, ha legami economici non dichiarati con le case farmaceutiche, in qualità di ricercatori, consulenti o relatori. Più trasparenza, ma non basta Una pillola per l’Io biologico Nonostante i tentativi di controllo, il consumo degli antidepressivi rimane elevato, grazie soprattutto alle massicce campagne di marketing delle case farmaceutiche, che presentano questi farmaci come vere e proprie “pillole della felicità”. Nella società contemporanea l’ansia, l’insonnia, la perdita di iniziativa, sono solo ostacoli a cui rimediare. Non ci si può fermare a riflettere se siano sintomi di un disagio esistenziale. Riconoscerlo significherebbe ammettere le proprie debolezze ed esporsi al rischio dello stigma sociale. Non resta che attribuire al proprio male un’origine fisica e pensare di curarlo con una pillola, che dovrebbe restituirci la carica necessaria. Sarà curato così l’Io biologico, che però le stesse neuroscienze ci dimostrano essere inscin- per saperne di più A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società. Einaudi, Torino, 1999. I. Kirsch, et al., “The emperor’s new drugs; an analysis of antidepressant medication data submitted to the US Food and Drug Administration”. In: Prevention & Treatment, 2002. l’obiettivo Anche in seguito alle rivelazione della ricerca di Kirsch, l’Oms ha preso dei provvedimenti per potenziare la trasparenza degli studi clinici. Ulteriori ricerche hanno poi evidenziato che all’assunzione di antidepressivi è associato un rischio maggiore di suicidio, in particolare nei bambini. In risposta a questa denuncia, negli Stati Uniti la Food and Drug Administration ha imposto alle ditte farmaceutiche di dichiarare espressamente questo rischio nel foglietto illustrativo. Malgrado questi provvedimenti, il numero di prescrizioni degli antidepressivi è in crescita, grazie soprattutto all’assunzione offlabel (cioè da scopi diversi da quelli per cui sono autorizzati). Gli antidepressivi vengono prescritti anche per la terapia di attacchi di panico, disturbi ossessivo compulsivi, bulimia. La realtà che desta più preoccupazione è, però, quella dei minori: alcuni antidepressivi controindicati all’uso pediatrico vengono comunque prescritti dai medici (autorizzati dal punto di vista penale) per curare i disturbi comportamentali infantili. 69 dibile da un Io psicologico. Quello farmacologico, quindi, non deve essere il rimedio più diffuso, solo perché più facilmente praticabile. Occorre provare a nutrire le molecole che fanno da substrato alla L’autrice Stefania Santoro, master in Comunicazione e divulgazione scientifica, Università Federico II, Napoli [email protected] nostra vita interiore e emozionale, prima di tentare di rianimarle con pillole di dubbia efficacia. Pillole che vale la pena di conoscere e migliorare per quei pazienti che nulla possono più contro quel “male oscuro” che non vuole abbandona re il loro vuoto. Stefania Santoro 70 Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Il benessere del corpo passa per l’estetica? Se si considera la salute non come semplice assenza di malattie, ma secondo la definizione dell’Oms come «completo benessere psicofisico e sociale», allora la chirurgia estetica assume un ruolo importante in medicina: soddisfa bisogni che da molti sono sentiti come rilevanti. Oltre alle ormai tipiche liposuzione e mastoplastica, sono sempre più frequenti gli interventi al naso, alle palpebre e perfino alle orecchie e alle mani. Valentina Arcovio C’ ha in questa moda ormai ampiamente diffusa? Cura soltanto i malati oppure può contribuire al benessere generale di una persona sana, compreso quindi anche l’aspetto fisico? Non esiste una risposta univoca, come non esiste una definizione assoluta della parola “salute”. Questo concetto è sicuramente associato alla mancanza di malattie o di deformazioni che non permettono a un individuo di vivere pienamente la propria vita. L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la sa- lute come «il completo benessere psicofisico e sociale»: non è difficile intuire che l’idea della salute come semplice assenza di malattie non è del tutto esatta, anzi è parziale. L’individuo ha il diritto di soddisfare tutti i suoi bisogni, sia fisici, sia psichici, sia sociali. E se la chirurgia estetica rappresenta una via per il “completo benessere” di un essere umano, perché farne a meno? Quest’idea apre però la porta anche ad alcune obiezioni: è possibile raggiungere un completo benessere? La pienezza l’obiettivo è chi lo fa per correggere un semplice difetto fisico, chi perché non è soddisfatto del proprio corpo, chi perché non accetta di invecchiare e chi per adeguarsi ai canoni di bellezza della propria epoca. Qualunche sia il motivo reale, un dato certo è che sono davvero in tanti a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica. E non solo: a volte per migliorare la propria estetica si fa ricorso ai rimedi più stravaganti, non di rado anche pericolosi per la propria salute. Ma la medicina che ruolo 71 Mastoplastica ed errori medici no degli interventi classici di chirurgia estetica è la mastoplastica, che prevede l’aumento o l’ingrandimento del volume del seno attraverso l’inserimento di protesi, spesso di silicone (mastoplastica additiva), oppure la riduzione di un seno (mastoplastica riduttiva). In tutta Europa si assiste da anni a una maggiore richiesta di interventi di mastoplastica additiva, ma in Italia questo aumento è decisamente superiore alla media, con un incremento pari al 10 per cento l’anno: secondo la Società italiana di chirurgia plastica, ogni anno in Italia vengono mediamente effettuati circa 40.000 interventi di mastoplastica additiva. Molte ragazze cominciano a pensare ad aumentare il volume del seno quando sono ancora adolescenti e l’età media delle donne che si sottopongono all’intervento è di circa 30 anni. Il costo varia dai 4.500 agli 8.000 euro. Secondo il rapporto Pit Salute del Tribunale dei diritti del malato, quello della mastoplastica è uno degli ambiti in cui si segnala il più alto numero di presunti errori medici, pari quasi al 30 per cento. U Gli uomini insoddisfatti del naso aspetto estetico del naso si può migliorare attraverso la riduzione, il rimodellamento della punta o la modifica delle narici. La rinoplastica è un intervento sempre più diffuso e il suo costo varia dai 3.000 ai 6.000 euro. Anche se in Italia mancano dati certi, il trend sembra essere simile a quello americano: l’aumento rispetto al 2000 si aggira intorno al 150 per cento. Nel 2005, la rinoplastica era al secondo posto per frequenza degli interventi chirurgici in America, il più frequente per gli uomini e il terzo per le donne. Ma anche per questo tipo di operazione, secondo il Tribunale dei diritti del malato, si stima un alto numero di errori medici, pari a circa il 12 per cento. Inoltre, non sono pochi i pazienti che al risveglio dall’anestesia si sono ritrovati con un naso non armonioso e hanno avuto in seguito anche seri problemi di respirazione. L’ 72 Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente della soddisfazione è inarrivabile: se la salute coincide con il completo benessere psicofisico e sociale, si tratta dunque di un diritto impossibile. Qual è il confine che separa il concetto di bisogno con quello più effimero di desiderio? Secondo Fabrizio Malan, primario del reparto di chirurgia plastica e ricostruttiva del Centro traumatologico ortopedico di Torino, non esiste un parametro oggettivo. «Una valutazione di questo genere richiede un’analisi scrupolosa e attenta caso per caso. Non bisogna sempre assecondare le richieste dei pazienti, ma bisogna valutare quali sono le vere motivazioni del loro disagio. Spetta alla deontologia professionale dei medici capire il paziente e, qualora fosse necessario, instradarlo verso il recupero di sé». Il medico può sempre manifestare la propria indisponibilità all’intervento o per mancanza di evidenti necessità o per impraticabilità tecnica. «Non siamo semplici prestatori d’opera. Il nostro ruolo va ben oltre quello di esecutori materiali dei desideri dei pazienti, né tantomeno possiamo lavarci la coscienza semplicemente rifiutandoci di intervenire rabili psichicamente, rendono indispensabile una valutazione preventiva da parte del medico sulla natura della richiesta del paziente. Merita un discorso a parte la chirurgia ricostruttiva che ha come finalità principale quella di correggere malformazioni congenite o le conseguenze di traumi, incidenti o malattie. Spiega ancora Malan: «Nella chirurgia ricostrutti- va rientrano due categorie di interventi: quelli di ricostruzione funzionale e quelli di ricostruzione morfologica. Fanno parte dei primi tutte quelle operazioni che vanno a intervenire su parti del corpo funzionali per il paziente, come ad esempio gli arti. Invece, gli interventi di ricostruzione morfologica non sono funzionalmente necessari, ma sono molto utili per curare la mente. Liposuzione: per molti ma non per tutti no dei “peccati” estetici più gravi è naturalmente il grasso: per questo c’è la liposuzione, cioè l’aspirazione di accumuli adiposi localizzati e il rimodellamento del profilo corporeo. Possono sottoporsi a questo tipo di intervento soltanto quelle persone che presentano depositi di grasso isolati in certe aree del corpo, a causa di fattori genetici o costituzionali. Quindi la liposuzione non è adatta a chi vuole semplicemente dimagrire tanto e subito: per loro occorre una dieta alimentare sana e tanto esercizio fisico. L’operazione consiste nel praticare piccole incisioni nelle aree in cui è localizzato il grasso per poi introdurre cannule meccaniche collegate a un potente aspiratore, attraverso le quali il grasso viene eliminato. Il costo per questo tipo di intervento varia dai 4.500 ai 6.000 euro. Secondo i dati della Società italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica, ogni anno ci sono circa 60.000 interventi di liposuzione. In Italia si sottopongono annualmente a interventi di addominoplastica (cioè di liposuzione della parte bassa e centrale dell’addome) circa 20.000 persone, il 68 per cento donne e il 32 per cento uomini. Sono invece il doppio e quasi tutte donne (92 per cento) quelle che fanno ricorso alla liposuzione per rimodellare fianchi, addome, cosce e glutei. U l’obiettivo su un paziente. Dobbiamo comunicare con lui e indirizzarlo verso specialisti più idonei ad aiutarlo. Mi ricordo il caso di un paziente che mi ha chiesto di operarlo alle orecchie perchè desiderava averle appuntite, proprio come i personaggi del noto film Star Treck. Naturalmente ho rifiutato di eseguire un intervento così bizzarro. Desiderare di cambiare qualcosa del proprio corpo non è paragonabile alla scelta di un pantalone o di una maglietta. Una semplice richiesta da parte del paziente non giustifica automaticamente l’effettuazione dell’intervento » ha spiegato Malan. E allora fino a che punto è lecito ricorrere al bisturi per migliorare l’aspetto estetico? Esistono limiti o confini oltre i quali spingersi è moralmente sbagliato? Sicuramente la chirurgia estetica è legittimata e giustificata dalla dilatazione del concetto di salute e quindi dalla liceità di intervenire sul proprio corpo per acquistare maggiore fiducia in sé e nei rapporti con gli altri. Tuttavia, gli insistenti messaggi dei media e le forti pressioni sociali, soprattutto quelli rivolti ai soggetti più vulne- 73 Mi riferisco, ad esempio a tutte quelle donne che, a causa di un tumore al seno, sentono di aver perso qualcosa della propria femminilità: un intervento di chirurgia ricostruttiva potrebbe aiutarle ad allontanare lo spettro del tumore». Modelli dettati dalla televisione In ogni epoca l’uomo ha cercato di migliorare la propria fisicità, ma mai come in questo momento storico la bellezza e un aspetto giovanile sono stati considerati i valori primari e gli obiettivi da raggiungere per affrontare una piena e “sana” vita relazionale. Negli ultimi trentacinque anni questa branca della medicina ha visto un successo crescente, trainata L’autrice Valentina Arcovio Agenzia di giornalismo scientifico Zadigroma [email protected] 74 dalla straordinaria impennata della domanda di bellezza e di immagine in tutti gli ambiti della società, dallo spettacolo alla vita relazionale di tutti i giorni. Un tempo rimedio esclusivo dei capricci delle dive o dei personaggi pubblici, la chirurgia estetica è diventata progressivamente un servizio per tutti: donne e uomini, adulti e adolescenti. Il boom è scoppiato in America intorno al 1990: milioni di persone hanno affollato le cliniche per inseguire la bellezza e la perfezione. Se prima l’intervento chirurgico era considerato come ultima spiaggia nella risoluzione di difetti fisici, adesso rappresenta la via più semplice per mantenersi in forma e sconfiggere i segni dell’età. E dagli Stati Uniti questa visione delle cose è migrata anche in Europa, Italia compresa. Se, infatti, i nutrizionisti consigliano stili di vita sani ed equilibrati, gli italiani sembrano preferire le scorciatoie: non un’alimentazione corretta e tanta attività fisica, ma un semplice tocco di bisturi. Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente Gli interventi più richiesti riguardano la correzione di alcuni piccoli difetti estetici, ma in generale sono i mezzi di comunicazione, in primis la televisione, a dettare i modelli a cui uniformarsi: dalla taglia del seno allo spessore delle labbra, fino ad arrivare al ringiovanimento generale del corpo. «Il culto della bellezza in una società di consumi costringe a passi obbligati. Su questa premessa si gioca il valore della libertà personale, e l’uomo è solo libero di scegliere quello che gli altri hanno già scelto per il suo destino». È con queste parole che Renato Malta, professsore di Bioetica all’università di Palermo, nel suo libro Etica e chirurgia estetica. Bioetica e cultura, sottolinea la tendenza della società moderna a costringere gli individui a un corpo sempre più vicino alla perfezione, inseguendo il miraggio di un’accettazione sociale acritica e spersonalizzante. Valentina Arcovio Predire, prevenire e curare: tre cose diverse La “medicina di iniziativa” è di nuovo al centro del dibattito medico. Principale protagonista di questo approccio è il medico di medicina generale che, proprio per il suo rapporto continuo con il paziente, può promuovere una prevenzione attiva. Ma quando si parla di prevenzione non bisogna scivolare in situazioni in cui si inventano malattie e si trasformano condizioni di vita in patologie curabili con farmaci. Antonio Panti D cea: è incontestabile che prevenire è meglio che curare, e i maggiori successi della medicina si devono ai vaccini e alla sanità pubblica, cioè al miglioramento delle condizioni igieniche e ambientali. Il medico senza tecnica, chimica e politica igienista consolerebbe, accompagnerebbe alla morte e nulla più. Ma i benefici degli screening non sono così rilevanti e poche sono le azioni preventive largamente efficaci. Oggi si parla nuovamente con enfasi di “medicina di iniziativa” sia come orien- tamento di sistema sia accentuando il ruolo del medico generale, unico professionista capace, per la continuità del suo rapporto col paziente, di intraprendere forme attive di prevenzione. Un fragile confine Ai nostri giorni però la sanità è al centro di interessi colossali e lo spostamento dei limiti della medicina deve indurre qualche riflessione, in particolare sui rapporti tra l’obiettivo a secoli il medico ha svolto il duplice ruolo di “guaritore” e di custode della salute, individuando le influenze dell’ambiente sulle malattie. Già Ippocrate, nel De morbo sacro, sostiene che la salute si perde per cause naturali e con rimedi naturali si cura la malattia e che il medico deve conoscere la «natura dei luoghi e delle acque». Ippocrate già conosce i determinanti di salute. Negli anni ruggenti del dibattito sulla riforma sanitaria la prevenzione venne alla ribalta quasi come una pana- 75 prevenzione e predizione. Oggi il concetto di cura si amplia da strumento per recuperare una perduta salute a mezzo per mantenere il precario equilibrio della cronicità, frutto delle moderne terapie che sempre curano e spesso non guariscono. Alla medicina, inoltre, si chiede non soltanto il mantenimento della salute ma delle performance giovanili. Infine, l’abbassamento della soglia diagnostica e l’anticipazione della diagnosi, insieme alla medicina predittiva e alle scoperte della genetica applicata alla farmacologia, fanno sì che oggetto della cura diventi non la “probabilità” ma la “possibilità” di ammalarsi. Si rischia allora che il numero di persone da trattare per ottenere un risultato positivo si ampli a quasi tutta la popolazione. Sempre più labili diventano i confini tra bisogni e desideri. Il disease mongering, cioè la pressione commerciale condotta fino a L’autore Antonio Panti è presidente dell’Ordine dei medici di Firenze [email protected] 76 inventare malattie o trasformare condizioni di vita in patologie curabili con farmaci, diventa una realtà. Su The Scientist si racconta di un sito frequentato da medici e pazienti in cui si vantano le doti di un farmaco inesistente per una malattia fantasiosa ma descritta in modo coinvolgente. Uno scherzo per mostrare i metodi delle multinazionali del farmaco, ma anche un paradigma di una deriva della medicina moderna. Medicina di iniziativa La medicina di iniziativa è prerogativa per lo più del medico di famiglia e consente miglioramenti nello stato di salute della cittadinanza attraverso i vantaggi, tra l’altro, della diagnosi precoce. Implica anche interventi complessi, sociali, urbanistici, industriali, tutti affidati a una ragionevole interpretazione del concetto di precauzione. Tuttavia, se manca un accordo sull’uso delle parole, si corre il rischio di scambiare predizione con prevenzione o di indurre malattie inesistenti a uso delle aziende farmacologiche. La vera medicina di iniziativa intercetta i bisogni della Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente per saperne di più J. Romains, Knock o il trionfo della medicina. Millennium, Bologna, 2005. popolazione, discerne le vere novità dalle seduzioni commerciali, identifica le criticità nei determinanti di salute. Il sistema sanitario potrà vincere le sfide della sostenibilità dei costi, della frammentazione riduzionistica, della transizione demografica, dello strapotere della tecnologia, solo se il sistema salute saprà uscire dalle incertezze sui limiti e sugli scopi della medicina per definire, in un nuovo patto sociale, quali bisogni e quali novità debbono essere assunti dalla prassi. Altrimenti, esaltando la medicina predittiva e enfatizzando la genetica, si finirebbe per considerare la vita stessa (seguendo le teorie del dottor Knock nella commedia di Romains) come malattia. L’aveva già detto Francois Xavier de Bichat: l’unica malattia che ha il cento per cento di mortalità è la vita. Non verremmo che questo diventasse il “numero necessario da trattare” del futuro. Antonio Panti Quando gli unici confini sono i nostri desideri La ricerca medica e le moderne tecnologie offrono possibilità sempre nuove per gli esseri umani: curarsi, migliorarsi, per vivere meglio e più felici. Ma quando si parla di enhancement, o potenziamento delle funzioni del corpo umano, i confini morali diventano confusi e il dibattito si accende. È la società intera che si deve interrogare: sia il progresso scientifico sia i valori etici appartengono alla natura umana. Thomas Murray D chiara: è inopportuno assumere medicinali quando non c’è una malattia in corso. Tanti possono essere gli effetti collaterali, tante le controindicazioni, sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico. Enhancement sì, enhancement no Come regolare, dunque, questo tipo di farmaci? Nel caso degli steroidi, per esempio, le associazioni sportive ne proibiscono l’uso durante le competi- zioni: in ballo ci sono non solo i rischi per la salute ma anche il pericolo di gare agonistiche falsate. In alcune circostanze, però, un determinato trattamento può portare benefici non solo a chi è considerato clinicamente malato ma anche a chi è sano. Un betabloccante, per esempio, può aiutare a superare la paura del palcoscenico poiché blocca alcuni recettori del sistema nervoso che provocano sudorazione e accelerazione del battito cardiaco. Un medico, però, così come può deci- l’obiettivo efinire cos’è l’enhancement non è cosa facile. In ballo ci sono il giudizio dei singoli individui e la morale personale. Quello che può sembrare lecito e legittimo per uno, può risultare sbagliato per un altro. Il confine che intercorre tra l’utilizzare un medicinale o una nuova tecnologia per il trattamento terapeutico di un paziente e l’adoperarlo al solo scopo di migliorare le performance o l’aspetto fisico di qualcuno non è sempre netto. Per alcuni la differenza è 77 dere di somministrarlo a un paziente che soffre di problemi cardiovascolari, può anche rifiutarsi di prescriverlo a un artista che ne sente il bisogno. È il singolo specialista a decidere se c’è o meno la necessità o possibilità dell’enhancement. Alcuni bioeticisti pensano che dividere il mondo in coloro che sono malati e coloro che non lo sono (cioè i normali) è assolutamente riduttivo: alcune malattie possono essere considerate come la fine estrema di un continuo che comincia con la normalità. L’Alzheimer, per esempio, è una degenerazione terminale del naturale processo di invecchiamento che spesso comincia con i vuoti della memoria a breve termine che si verificano con l’avanzare degli anni. Un po’ di scetticismo Le nuove tecnologie mediche e le nuove scoperte scientifiche hanno portato ulteriori possibilità ma anche nuovi problemi. Dunque, sfide sempre maggiori per la nostra società, per le nostre intelligenze, per le nostre leggi. E la questione si complica quando si considerano le 78 problematiche che il progredire della scienza porta con sé. Le novità rendono gli uomini critici e scettici; solo il passare del tempo aiuta a normalizzare una pratica inizialmente criticata. I vaccini, che la maggior parte delle persone considera pratiche mediche necessarie e di routine, a pensarci bene, possono essere visti come una mina ciò che c’è di più ammirevole nella pratica sociale o la supporta. I dubbi che rimangono Le tecnologie biomediche non rispettano l’umana distinzione fra terapia ed enhancement, tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. La domanda sorge spontanea: ci dovrebbero essere Le tecnologie biomediche non rispettano l’umana distinzione tra terapia ed enhancement, tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Ci dovrebbero essere limiti, morali e legali, su quanto avanti ci si possa spingere? forma di enhancement, in quanto non curano una malattia ma stimolano il sistema immunitario di una persona. Un altro esempio è rappresentato dalla procreazione assistita che, anche se sempre sotto i riflettori del dibattito collettivo, è ormai generalmente riconosciuta come una pratica di uso comune. È difficile stabilire la moralità di una tecnica considerando solo se è adatta a trattare una malattia. Probabilmente dipende dal contesto e, quindi, ci si può chiedere se l’enhancement Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente limiti, morali e legali, su quanto avanti ci si possa spingere? Nella pratica terapeutica abbiamo dei confini definiti dal concetto di salute; con l’enhancement non esistono confini se non i nostri desideri. Gli argomenti si evolvono ma i dubbi rimangono. Molte questioni non si possono più risolvere solamente all’interno del dibattito fra liberali e conservatori o fra laici e religiosi. È l’intera collettività (intesa come l’insieme della comunità scientifica, della stampa, dei governi, del mondo sportivo, ecc.) a portare avanti il dialogo su questi argomenti. Gli ottimisti percepiscono le nuove opportunità come parte dei vantaggi che derivano dal progresso scientifico. I pessimisti si preoccupano sulle conseguenze che la promozione di uno stile di vita basato sull’enhancement avrà sui sin- L’autore Thomas Murray è presidente dell’Hastings Center di Garrison, NY (Usa) e fondatore della rivista Medical Humanities Review goli individui, sui bambini, sulle famiglie, sulle società. Affinché possa esistere un dibattito produttivo è necessario distaccarsi dalle convenzioni sociali per provare a scoprire le questioni morali e filosofiche che ne sono alla base. Nonostante il carattere fortemente polarizzato della discussione, molte persone condividono i valori dell’etica e delle scienze mediche, poiché entrambi gli aspetti sono parte della natura dell’essere umano. L’enhancement porta con sé anche una questione più profonda, che estende i problemi del singolo individuo alla collettività inte- ra: l’acutizzazione di problemi sociali e delle disuguaglianze. Lo scenario potrebbe essere una società in cui solo una minoranza, i più ricchi, possono permettersi interventi di enhancement, sia di leggero impatto (assunzione di qualche medicinale), sia di tipo radicale (interventi genetici). La disuguaglianza sarebbe una possibilità reale e un difficile problema morale da affrontare nel momento in cui l’accesso alle tecnologie mediche fosse appannaggio solo di alcuni. Thomas Murray l’obiettivo 79 Il romanzo della procreazione LETTURA CRITICA I temi legati al controllo della fertilità sono al centro di un dibattito fra i più accesi, in particolare in Italia. Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione assistita, descrive la situazione e racconta come ci si è arrivati: partendo dal mito, le risposte alla questione della riproduzione si sono sviluppate in modo diverso nelle varie società, più o meno permissive con aborto, contraccezione e infanticidio, fino ad arrivare alle recenti polemiche sull’embrione. Dal mito al controllo della procreazione Chiara Lalli C arlo Flamigni ci trasporta in un mondo affascinante, raccontandolo nei minimi dettagli, con rigore storico e scientifico e con l’andamento di un romanzo avventuroso: il mondo della procreazione umana, quel mistero rispetto al quale ogni uomo si è interrogato e confrontato, se non come genitore, come figlio. E che lungo un percorso complesso e tortuoso si è in gran parte sve- 80 lato, offrendo alle persone prima la possibilità di controllare la procreazione (attraverso la contraccezione) e poi quella di ribellarsi alla sterilità (attraverso la procreazione artificiale). Il “rapporto impossibile” della Chiesa La prima parte è una minuziosa ricostruzione della storia della contracce- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente zione e di come le credenze sui meccanismi riproduttivi siano passate dai tentativi di spiegazione con una forte connotazione magica a una conoscenza sempre più razionale. Il ricorso a miti e a spiegazioni fantasiose ha lentamente ma Il controllo della fertilità Carlo Flamigni Utet, Torino, 2006 pp. 988, euro 42,00 Così come è illuminante, per fare un altro esempio, il percorso della dottrina cattolica nei confronti dell’aborto e dell’inizio della vita personale. Forse in pochi ricordano che la posizione attuale del magistero cattolico è un prodotto storico e determinato da decisioni di strategia politica: nessuna verità monolitica e imperitura, dunque, e soprattutto meno compattezza dottrinale di quanto generalmente si crede. Il nodo dell’embrione Uno dei problemi più ardui affrontati da Flamigni è indubbiamente la discussione sull’inizio della vita personale: «Quand’è che l’embrione (o comunque qualsiasi struttura biologica che si formi dopo la fertilizzazione dell’uovo) può essere considerato una persona?». La questione è spinosa e di massima rilevanza. Spinosa perché è una domanda morale e non fattuale, e pertanto non rimanda a una soluzione che coincide con la scoperta della verità (che magari è difficile da scovare, ma prima o poi verrà stanata), ma a una soluzione saldamente argomentata. Di massima rilevanza perché la risposta che viene data a questa domanda influenzerà inevitabilmente il giudizio morale su diverse questioni, dall’aborto alle tecniche di procreazione artificiale, dalla sperimentazione embrionale ad alcune pratiche contraccettive. Per rispondere a questa domanda è necessario partire da una definizione di persona che sia il più rigorosa e chiara possibile. Anche su questo punto si concentrano gli scontri che investono la validità dei criteri adottati. Se tra le premesse della vita personale viene accolta la condizione della presenza di una minima attività cerebrale, allora nelle prime fasi di sviluppo l’embrione non potrebbe essere considerato come una persona. Di conseguenza molti dei divieti o delle condanne morali verrebbero meno. Lo scontro fra chi attribuisce lo statuto di persona a un embrione di pochi giorni e chi glielo nega è inconciliabile. Gli strumenti che abbiamo a disposizione sono quelli del giudizio e dell’analisi razionale degli argomenti che vengono addotti a sostegno di una ipotesi o dell’altra. Non sempre però queste “regole del gioco” vengono accet- a più voci inesorabilmente lasciato il posto alla comprensione, fino al vero e proprio controllo della fertilità. Lungo il percorso di ricostruzione storica ci sono alcuni passaggi decisivi anche per la valutazione dell’atteggiamento odierno verso la procreazione e il suo controllo, e verso la scienza e le biotecnologie in generale. Un caso esemplare è il “rapporto impossibile” tra la Chiesa cattolica e la contraccezione, una vera e propria guerra che arriva a investire le stesse leggi civili e la considerazione delle donne (dovrebbe suonare familiare e attuale). Nonostante i vari processi per immoralità subiti da chi non demonizzava la contraccezione (o praticandola o interrogandosi sui mezzi per farlo), e nonostante la stagnazione tra il XVI e il XVIII secolo dell’anelito conoscitivo, la conoscenza e la diffusione dei metodi contraccettivi non subiranno mai un arresto. E giungeranno infine a consegnare nelle mani degli uomini anche il controllo di un dominio tanto sacro e fino ad allora inviolabile (o forse soltanto inviolato) come quello della procreazione umana. Il dibattito attuale ne è una prova. 81 tate, ed è frequente imbattersi in affermazioni che si reggono su argomenti fallaci o incoerenti. I difensori della vita che uccidono La parte dedicata all’interruzione di gravidanza e alla legge 194 evidenzia un dato drammatico: la piaga degli aborti clandestini e le terribili conseguenze sulla salute delle donne. Per quanto salute, e al limite anche la morte. Flamigni sottolinea come la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza sia sempre stata gravata da una guerra brutale e inesauribile (fino agli estremi delle uccisioni dei medici che praticano gli aborti da parte di fanatici difensori della “vita”): è impossibile «trovare un altro argomento che nella storia della medicina abbia causato anche solo un decimo delle Pochi ricordano che la posizione attuale del magistero cattolico è un prodotto storico determinato da decisioni politiche: nessuna verità monolitica e imperitura, e meno compattezza dottrinale di quanto si crede sia estremamente difficile avere una stima precisa del numero di aborti effettuati nel mondo, la gravità del fenomeno non ne è diminuita. Sembra che al mondo ci siano 55 milioni di aborti ogni anno, cioè 70 per 1000 donne in età riproduttiva e 300 per 1000 gravidanze. Questo significa che circa 150.000 donne ogni giorno abortiscono in condizioni sanitarie e igieniche a dir poco insoddisfacenti, rischiando gravi conseguenze per la propria 82 polemiche che si sono scatenate e continuano a scatenarsi sul tema dell’aborto volontario». Basti pensare alle reazioni causate in Italia dal tentativo di introdurre la RU486, la “pillola dell’aborto fai da te”, come con disprezzo è stata ribattezzata (o anche kill pill o aborto facile: tutte espressioni poco felici e tutte emergenti da una condanna verso la possibilità di interrompere una gravidanza, indipendentemente dal mezzo scelto). Il mife- Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente pristone, il principio farmacologico della RU486, interrompe il proseguimento di una gravidanza in uno stadio molto precoce, ma è pur sempre una forma di aborto volontario. La libertà sessuale è un diritto D’altra parte, perché stupirsi di queste reazioni se addirittura la contraccezione d’emergenza si attira feroci condanne morali? La cosiddetta pillola del giorno dopo è infatti bersaglio di attacchi feroci ed è considerata come un abortivo da molti suoi nemici. È inoltre oggetto della possibilità di obiezione di coscienza da parte dei medici, con il risultato che è spesso molto difficile ottenerne una prescrizione in un tempo ragionevolmente utile, in barba alla sua natura di contraccettivo d’emergenza. Snobbando la sterminata letteratura scientifica, ricorda Flamigni con amarezza, nel 2004 il Comitato nazionale per la bioetica ha attribuito al progestinico in questione un potere che non ha: un’azione antiprogestazionale e la modifica dell’endometrio. Questo è un esempio triste di come spesso la malafede o i pregiudizi travolgano la ragionevolezza e le prove scientifiche, fino ad arrivare ad affermazioni degne di un cabaret dell’assurdo: «un ginecologo cattolico ha insinuato l’esistenza di un effetto negativo del progestinico sugli spermatozoi, come se la pillola del giorno dopo la prendessero entrambi». La parte finale è dedicata ai contraccettivi moderni, cioè a «quel lungo e difficile viaggio che ha condotto l’uomo dall’orribile scelta di sacrificare i propri figli alla messa a punto di metodi anticoncezionali sicuri». Questi metodi, secondo Flamigni ancora perfettibili ma indubbiamente rappresentanti di una storia di progresso e civiltà, sono un mezzo per esercitare una scelta pro- creativa davvero libera e responsabile, senza sacrificare un diritto altrettanto fondamentale: quello di esercitare la propria libertà sessuale. Libertà che è tale e completa se è possibile fare ricorso ai contraccettivi che hanno separato quanto prima era indissolubilmente unito: sesso e riproduzione. Chiara Lalli Una legge anacronistica Andrea Borini I Per moltissimi anni, soprattutto per le poche conoscenze biologiche, il rimedio alle gravidanze indesiderate è stato l’infanticidio. In numerose civiltà, infatti, la responsabilità di questa specie di “regolamentazione” veniva lasciata interamente al padre, che decideva la sopravvivenza di un nuovo nato senza discussioni, senza alternative, senza pietà. Con il passare del tempo, le legislazioni hanno iniziato a interessarsi di questo fenomeno e, com’era facilmente ipotizzabile, l’infanticidio è stato poi considerato un crimine. Venivano tuttavia colpevolizzate e punite sempre e solo le donne, mai gli uomini. Per vedere ridotto il numero di infanticidi abbiamo dovuto attendere l’introduzione di norme giuridiche che li hanno considerati un crimine: è successo in Francia nel 1556, e in Inghilterra qualche decennio più tardi. a più voci nevitabilmente quando si parla di regolamentazioni delle decisioni procreative bisogna fare i conti con i comportamenti da tenere nei riguardi delle gravidanze indesiderate e della contraccezione. Le opportunità e i rischi di una regolamentazione sociale sono al centro di una delle parti più importanti del libro di Flamigni, un libro piacevole, affascinante e utile per chi conosce bene queste realtà dal punto di vista professionale ma non altrettanto da quello storico e filosofico. 83 Ma il problema rimane attuale: in alcuni Paesi del mondo, in particolare Cina, India e Pakistan, dove i figli maschi sono preferiti alle femmine, è ancora diffuso nascite. L’aborto aveva quindi sostituito l’infanticidio come metodo di controllo delle nascite. Nel 1861 è stata approvata in Inghilterra una legge che «L’analisi sociologica dimostra che l’uso dell’aborto è tutto sommato razionale, corrisponde alle logiche dell’emergenza e non ha il significato di un’ulteriore metodologia anticoncezionale» l’infanticido, tanto che l’Onu ogni anno denuncia la mancanza di un milione di bambine all’appello demografico. Tra il 1220 e il 1230 il giurista inglese Henry de Bracton ha scritto una sorta di summa delle leggi vigenti in quell’epoca in Inghilterra: era punito come omicida chiunque colpisse una donna per procurarle un aborto se il feto era formato e animato e altrettanto era previsto per chi le somministrava pozioni che avevano lo stesso effetto. La legge ignorava invece le interruzioni della gravidanza in fase iniziale, che, come ricorda Flamigni, continuavano a far parte delle scelte che rappresentano un diritto delle famiglie per quanto riguarda il controllo delle 84 condanna la donna che si procuri volontariamente l’aborto. In Francia è del 1791 una legge che considerava l’aborto un crimine. L’aborto non è un mezzo contraccettivo In Italia, prima dell’approvazione della Legge 194 del 22 maggio 1978, c’era un elevato ricorso all’aborto clandestino. L’intento del legislatore è scritto nei primi due commi dell’articolo 1: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio», e «L’interruzione volontaria della gravidanza [...] non è mezzo per il controllo delle nascite». Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente In effetti c’era il timore che l’aborto diventasse un metodo contraccettivo legalizzato. Invece, in una decina di anni, il numero di aborti si è quasi dimezzato: dai 233.976 del 1983 ai 130.512 del 2001. Per ciò che riguarda invece gli aborti clandestini, un rapporto dell’Istituto superiore di sanità del 1983 ha evidenziato che gli aborti eseguiti illegalmente sono stati circa 100.000. Negli anni successivi sono poi diminuiti progressivamente, fino ai 21.000 del 2000. Il legislatore è riuscito quindi a salvaguardare la salute delle donne facendo diminuire il ricorso all’aborto clandestino ed evitando nello stesso tempo che l’aborto diventasse una pratica contraccettiva. Flamigni commenta dicendo che «l’analisi sociologica delle interruzioni di gravidanza dimostra che, tranne ovvie eccezioni, l’uso dell’aborto è tutto sommato razionale, corrisponde alle logiche dell’emergenza e non ha il significato di un’ulteriore metodologia anticoncezionale». Il dato sicuramente più importante è che, nel tempo, si sia cercato di salvaguardare la vita umana e che la contraccezione sia diventata “il” metodo per controllare le nascite. In tutto questo ci sono fattori sociali, culturali e religiosi che hanno influito e influiscono tuttora. Le leggi sull’aborto hanno cercato di evitare il più possibile l’infanticidio; con l’avvento della contraccezione moderna abbiamo assistito a una riduzione significativa degli interventi di interruzione volontaria della gravidanza. Poca considerazione per la donna DELL’ACCESSO Il libro di Flamigni conferma il suo impegno e l’attualità del suo insegnamento, presentati qui da un testimone diretto. NELLA STORIA DEL CONTROLLO DELLA FERTILITÀ FLAMIGNI è stato uno dei principali protagonisti, con un ruolo in cui lo scienziato, il clinico e l’intellettuale si sono fusi per sostenere questo «grande cambiamento della vita». Nonostante i grandi progressi, sono ancora sensibili i problemi: quando nel 1996 ha accettato di assumere, oltre agli altri impegni, la direzione del primo Centro di fisiopatologia della riproduzione in un’azienda sanitaria periferica, le resistenze, poi superate, sono venute da alcuni colleghi e dagli ambienti cattolici di quella città, anche quelli più “sensibili”. Attuali sono anche, in Italia, i problemi «dell’equità dell’accesso», delle garanzie del solidarismo che sta alla base del nostro sistema sanitario e della situazione che si è creata con lo sviluppo di una sanità caratterizzata da un “federalismo regionale” diffuso. Un’operatrice in una Ausl di una grande città del Sud parla dell’«impossibilità di liberarsi del gap psicologico che una diagnosi di infertilità determina, soprattutto in una donna del Sud»; dell’«iniquità che è prima di tutto culturale»; degli «svantaggi, per quelli del Sud, derivanti dal fatto che i migliori centri sono collocati al Nord». Un esempio è la storia vera di una donna di oggi, una colta professionista: un primo “aborto” nello “studio del Professore”, a pagamento naturalmente: c’era già la legge 194 ma era più «sicuro e tranquillo» così, al Sud. Una seconda “interruzione volontaria di gravidanza”, questa volta con il “coraggio” di farla in clinica, come prevede la legge, come al Nord. Dopo alcuni anni una serie di tentativi di procreazione medicalmente assistita, in un centro del Nord; poi la rinuncia a fronte di ripetuti fallimenti. A quasi 50 anni i numerosi viaggi della speranza all’estero, la gravidanza tanto attesa e la nascita nei mesi scorsi di un figlio. C’è ancora molto da fare per assicurare una procreazione libera e responsabile. Walter Domeniconi a più voci La lettura del capitolo sul controllo delle nascite fa pensare a quanto sia diversamente impostata la Legge 40/2004 sulla fecondazione assistita. In questo caso il legislatore ha tenuto poco in considerazione la donna: la costringe infatti a sottoporsi a un maggior numero di trattamenti, a subire più sconfitte, a provare più delusioni e quindi, in definitiva, a patire psicologicamente l’incapacità propria o del partner a procreare. Di contro, il legislatore ha riservato al concepito gli stessi diritti dell’uomo e della donna. Come tutti ricordano, c’è stata un’acerrima discussione politica, influenzata L’EQUITÀ 85 pesantemente dal credo religioso e ideologico. La Chiesa è sempre stata contraria alle tecniche di fecondazione assistita, e in questo caso si è schierata in maniera molto decisa dalla parte di chi questa legge l’ha voluta. Forse si era pensato che concedere per legge dei diritti a un embrione di due cellule avrebbe portato come logica conseguenza anche a Gli autori Chiara Lalli è docente di logica e filosofia della scienza presso la facoltà di Medicina e chirurgia, Università di Roma “La Sapienza” [email protected] Andrea Borini è responsabile clinico e scientifico del centro di fecondazione assistita Tecnobios Procreazione di Bologna e presidente di Cecos Italia [email protected] Walter Domeniconi è direttore dell’unità operativa complessa dell’ospedale di Bentivoglio (BO) del dipartimento igienico organizzativo [email protected] 86 una revisione della legge sull’aborto, che era e rimane il chiaro intendimento della Chiesa. Con la legge sulla fecondazione assistita non si doveva sanare una situazione di clandestinità dei trattamenti, né di illegalità di particolari tecniche di procreazione medicalmente assistita: la fecondazione assistita veniva eseguita nella maggior parte dei centri italiani come nel resto del mondo. Era necessaria solo una precisa regolamentazione da dare a tutti i centri; erano necessarie verifiche sulle strutture, e non certamente una regolamentazione delle modalità con le quali si effettua un trattamento di fecondazione assistita. I risultati che questa legge ha portato sono una diminuzione delle gravidanze nelle donne sopra i 40 anni e in quelle con partner con problemi seminali e un aumento delle gravidanze plurigemellari nelle donne giovani. Mentre nel Nordeuropa si consiglia ai centri di fare selezione sugli embrioni per cercare di trasferirne uno solo con alte probabilità di impianto ed evitare così le gravidanze plurime, in Italia si è obbligati a trasferire tutti Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente gli embrioni ottenuti (massimo 3) senza fare distinzione di età della donna. Ancora: non è più possibile ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto per evitare che coppie portatrici di mutazioni genetiche per malattie come la talassemia e la fibrosi cistica debbano ricorrere all’aborto in caso di feto malato. In conclusione, questa legge appare quantomeno anacronistica, considerando il fatto che già in passato si era cercato di legiferare su argomenti come la maternità, la contraccezione e l’aborto, tenendo presente come condizione necessaria e fine ultimo la salvaguardia della salute della donna, e lasciando alla coscienza di ogni individuo la decisione di privilegiare eventualmente la condizione del nascituro. Andrea Borini Benvenuti al Grand hotel Suicidio DA LEGGERE Un mondo in cui i morti si possono rianimare ma vivono separati dal resto dell’umanità, e un futuro improbabile in cui si vive fino a 150 anni ma viene incoraggiato il suicidio assistito. Sono gli scenari descritti nei due racconti che compongono il libro L’amore al tempo dei morti di Robert Silverberg: fantascienza in fondo poco provocatoria, ma con un messaggio laico oggi particolarmente necessario, soprattutto in Italia. Franco Toscani I come l’arte, la natura, il lusso, la buona cucina, probabilmente anche il sesso. Dei cosiddetti “piaceri della vita”, insomma. Persone che hanno sperimentato e capito qualcosa di importantissimo e segreto, con la faccia un po’ così come quelli che hanno visto Genova, qualcosa che «intender non lo può chi non lo pruova». Incomprensibili, almeno per noi vivi, noi con la nostra logica fatta di continuità, di sentimenti e passioni, di paure, di speranze, di attese e pretese. In poche parole, noi che viviamo come se esistesse qualcosa – noi, l’universo fisico, il tempo – di eterno. In questo futuro (in effetti già passato, visto che l’autore, scrivendo nei primi anni Settanta, lo colloca negli anni Novanta dello scorso secolo) un tale cerca disperatamente la moglie amaL’amore al tempo dei morti Robert Silverberg Fazi, Roma, 2006 pp. 206, euro 14,50 a più voci mmaginate un mondo dove la rianimazione non è efficace soltanto prima del decesso, ma, se sufficientemente tempestiva, anche dopo le esequie, creando così una comunità di “diversi”, assolutamente simili in tutto agli altri, ma con in comune, ovviamente solo tra loro, l’aver sperimentato la propria morte. Una comunità unita, ricca, esclusiva e riservatissima, che vive in città vietate ai vivi, di uno squallore totale perché a nessuno di loro importa più nulla di cose 87 tissima, morta e rianimata, facendo di tutto per incontrarla, parlarle, ricostruire il loro rapporto; quantomeno per avere spiegazioni, per cavarne un senso che gli permetta di accettare la situazione. La rincorre nelle città dei morti e dei vivi, ma lei ha perso ogni interesse per lui, così come per ogni altra cosa. I morti si capiscono solo tra loro, e si difendono, forse aspet- un’America improbabile, dove si vive almeno fino a 150 anni grazie alla medicina e ai trapianti, dove i vecchi sono arzilli almeno fino al secolo di età (e anche dopo se la cavano benino). Sono tutti ricchi, come vuole l’american dream, ma finiscono per stufarsi di vivere, un po’ perché nonostante i trapianti e i viagra, in effetti, un po’ mummie lo diventano; e un po’ per Se oggi negli Stati Uniti decine di milioni di poveri cristi senza assicurazione hanno un’assistenza sanitaria da Romania di Ceausescu, il sistema futuribile offre gratis un soggiorno illimitato in complessi da dieci stelle tandosi che prima o poi i vivi li riammazzino tutti. Ma il tizio insiste tanto che alla fine i morti gli fanno la pelle e lo rianimano. Allora lo accolgono affettuosamente come, appunto, uno di loro. Anche la moglie. E allora anche lui si accorge che di tutto, compresa la moglie, non gliene potrebbe più importare di meno. Fine. Ricchi ma stufi Secondo scenario. Un futuro un po’ più lontano, 88 patriottismo, senso civico, o quello che si vuole; per far posto ai giovani, che si intuisce essere ammucchiati, nello sfondo, in un’interminabile fila per accedere a eredità, carriere, Lebensraum, in un mondo un po’ sovraffollato. E allora, ecco la soluzione. Un sistema di facilitazione dell’uscita di scena, mediante suicidio assistito, che ricorda più il contesto kitsch di un predicatore cristiano mediatico che l’austerità e la classe dell’autoctonia stoica. Se oggi negli Stati Uniti Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente alcune decine di milioni di poveri cristi senza assicurazione hanno un’assistenza sanitaria da Romania di Ceausescu, il sistema futuribile offre gratis a tutti un soggiorno illimitato in complessi da dieci stelle, trattati come all’hotel Danieli di Venezia, con viaggi per e da ovunque, estesi a famigliari e amici, piscine, relax, nursing da James Bond, sesso non si sa ma probabilmente anche quello, musica, libri, cibo, sport (quel che si può a centocinquant’anni), assistenza medica, legale e notarile, religioni varie, e un rompiscatole di assistente personale che cerca in tutti i modi di farti cambiar parere («Ma sei sicuro?». «Sì». «Ma sei proprio sicuro?». «Ma sì!!». «Ma sei proprio proprio sicuro?». L’ultimo piacere, quello di rinunciare Ed ecco quindi un altro tizio, musicista sublime, pieno di figli, successi e dollari, che a poco più di centotrent’anni si stufa di esistere e, voilà!, decide di andarsene. Ed entra nel processo di cui sopra, e saluta i figli, e saluta gli amici, e ascolta la sua musica, e comincia a com- porne altra, e non si decide mai ad andarsene, come il coro dell’Ernani. E tutti che gli dicono: «Ma dai, torna indietro, campa ancora un po’», ecc. Un lettore filoeutanasico a questo punto si aspetta la solita tirata cattolicista: sembra tutto bello ed elegante, ma in effetti è solo un mezzo per sopprimere i vecchi, nella più bieca e trita logica delle buone intenzioni che lastricano la strada per l’inferno. La morale, ci si aspetta, sarà che qualsiasi servizio viaggi per l’aldilà si risolve necessariamente in soluzione finale. Slippery Slope e Argumentum ad Hitlerum. E invece no. Alla fine, colpo di scena: è tutto vero e onesto. Ma il tizio decide nelle ultime righe di morire malgrado al mondo ci stia tutto sommato ancora benissimo. Ed ecco la trovata originale: il suicidio «come un ultimo piacere: quello di rinunciare all’unica cosa rimastami che valga la pena tenere». Appunto, la vita. Questi due racconti di Robert Silverberg, uno dei grandi della fantascienza, il grand hotel all included e completamente gratis per morire è veramente ingenuo. Presuppone l’illimitatezza delle risorse economiche, cosa ancor meno probabile della vita dopo la morte. Ma, si sa, gli scrittori di fantascienza sono dei visionari, e spesso riescono a prevedere più dei politologi, degli scienziati e degli economisti. Bisogna comunque riconoscere la limpidezza del messaggio implicito: la vita è dell’individuo e sta a lui decidere quando e come lasciarla. Un grande messaggio laico al quale, qui in Italia, non siamo più abituati. Si intuisce il cuore dell’America liberale e individualista pulsare nel petto di Silverberg, non turbato da prudenze e cautele, dal timore di irritare Santamadrechiesa e di ricevere critiche indignate o stizzite. Un buon giorno per morire È invece veramente strascicata la suggestione dell’ammazzarsi perché tale è il nostro piacere: in genere si cerca di darsi la morte quando si vive male. Il suicidio del musicista a più voci Il cuore dell’America liberale sono raccolti in un volumetto dal titolo marqueziano L’amore al tempo dei morti. Silverberg, classe ’35, laurea alla Columbia University, scrittore trash da giovane e di culto poi, saggista così così, è uno dei più prolifici autori di fantascienza. Alcuni suoi romanzi sono decisamente eccellenti, come Le ali della notte, diventato ormai un classico. Questi racconti, invece, non sono all’altezza, anche se il primo, che dà il titolo al volume, ha vinto nel 1969 il premio Nebula. Non perché non siano godibili o scritti male, ma perché le provocazioni che contengono sono implausibili, e tutto sommato, poco interessanti. L’idea di una Weltanshauung dei defunti è senz’altro poetica, ma assolutamente ossimorica. Un po’ come il «Cosa mangia chi non mangia?» di Odifreddi. Come si fa a cambiare modo di pensare se non si è? A meno che, sotto sotto, non si pensi che la vita continui dopo la morte, e che addirittura permanga la persona, ecc. Ma allora sono molto più fantascientificamente e poeticamente suggestive le religioni. Un’ipotesi già sentita. Nel secondo racconto, poi, 89 L’autore Franco Toscani è direttore scientifico della Fondazione L. Maestroni [email protected] potrebbe al più stimolare qualche interesse per un esteta decadente, un tipo con i capelli impomatati e la riga in mezzo, il frac e le ghette, champagne e cocaina. De gustibus. Oppure per un neosciamano new age. Come il vecchio capo indiano di Piccolo grande uomo. Anche lui diceva: «Questo è un buon giorno per morire!». Si avvolgeva nella coperta e si stendeva sul letto nel cimitero indiano sulla collina. Chiudeva gli occhi e aspettava un po’. Poi si stufava di aspettare, si rialzava e tornava a valle. La morte, però, l’aspettava, non se la dava. Ma entrambi, dandy e Sioux, sono personaggi letterari. I poveri cristi che cercano la morte la vorrebbero facile e dolce proprio come è offerta al musicista di Silverberg, ma loro, che invece sono veri e reali, non la trovano, perché uccidersi è peccato, e aiutarli reato. Però loro sì che se la danno: gettandosi nella 90 tromba delle scale, sotto il treno, inghiottendo acidi e alcali, tagliandosi vene e arterie, sparpagliando sul pavimento il proprio cervello con un colpo di pistola o le interiora con una coltellata. Perché la loro vita è un inferno, perché soffrono orribilmente, perché la depressione li ha estenuati, o il cancro distrutti, o perché «all’odio e all’ignoranza preferirono la morte». Perché non sopportano di farsela sotto e di mangiare da un sondino; perché non vogliono finire ebeti e sbavanti in un ospizio. E lo fanno di nascosto, come dei ladri, e scusandosi per aver sporcato. Di loro ci si vergognerà, ci si sentirà imbarazzati a parlarne, verranno condannati dalla pubblica opinione, si negherà loro il funerale in chiesa, oppure, al meglio, verranno giustificati come fuori di testa, con un escamotage ipocrita e insultante. Darsi la morte è sì un’uscita di sicurezza, ma è sempre anche una tragedia. È un diritto, è libertà: ma a quale prezzo! Un suicidio “di piacere” appare come una mancanza di rispetto per tutti costoro, povera farina macinata dal mulino di Amlódi, lo Stritolatore, «la Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente macina di scogli crudele alle schiere» che le Nove Fanciulle rimestano con veemenza, archetipo cantato da Snorri Sturluson e dagli sconosciuti bardi del Kalevala; che dona ricchezza e morte, metafora della ruota del Cielo che genera e scandisce il tempo e l’ineluttabilità del godere e del soffrire. Sofferenza, così come il piacere, senza connotazioni etiche: né giusta né sbagliata, né pia né peccaminosa. Necessaria. Numinosa. Maestosa. Che non riscatta l’umanità come quella di Cristo, ed è pertanto ancor più solenne e terribile nella sua insen satezza. Franco Toscani Storie di cancro a fumetti DA LEGGERE L’americana Miriam Engelberg, dopo la diagnosi di cancro, ha trovato un modo originale di raccontare la sua malattia: un libro a fumetti, a volte angoscioso ma, a sorpresa, anche faceto e divertente. Un ragazzo di 28 anni che è passato per la stessa esperienza racconta come, leggendolo, si sia immedesimato nelle vicende e, soprattutto, nel modo ironico di affrontare una situazione drammatica. È solo alla fine che i due percorsi si separano. Bruno Antonini C vede come sfortunati, diversi. Quando, dopo l’annuncio, ci si ritrova in mezzo agli altri ci si chiede «perché proprio a me?»; si prova una sorta di indignazione nel vedere le persone spensierate, così nei piccoli gesti della vita quotidiana. Si divide così il mondo in “persone col cancro” e “persone senza cancro”, e fa un certo effetto far parte improvvisamente del primo gruppo quando lo si è sempre guardato da fuori. La prima mossa, dopo un certo sconforto emotivo, è andare alla ricerca di testimonianze di persone che hanno avuto esperienze simili, per raccogliere le loro sensazioni, i loro consigli ma soprattutto capire come hanno combattuto la malattia. La ricerca di informazioni sulla propria patologia diventa una sorta di “hobby”: si trascorre Il cancro mi ha reso più frivola Miriam Engelberg Tea, Milano, 2007 pp. 144, euro 9,00 a più voci ancro: una parola che solo a pronunciarla fa venire i brividi, perché si associa ad atroci sofferenze, al momento peggiore della vita di una persona e soprattutto è spesso sinonimo di morte. Questa malattia è considerata così tabù da non essere chiamata per nome: la parola viene aggirata utilizzando metafore, perifrasi e soprattutto non detti. Nel momento in cui viene diagnosticata, stravolge la vita di se stessi e di tutte le persone care perché ci si 91 tutto il tempo libero su internet alla ricerca di sintomi, cause, terapia, statistiche, testimonianze. Questi sono alcuni dei tanti lati di un’esperienza di malata oncologica che emergono dal libro di Miriam Engelberg Il cancro mi ha reso più frivola, un libro a fumetti che la protagonista ha scritto alla fine delle terapie come valvola di sfogo per gli effetti collaterali della chemioterapia. Il doppio volto dell’umorismo Agli occhi di una persona che non ha vissuto personalmente (o tramite le persone care) un’esperienza del genere, il libro potrebbe creare un certo disagio a causa della capacità della protagonista di ironizzare la malattia a fumetti L’Alzheimer è il protagoni- sta del fumetto di Paco Roca Rides (Delcourt, Parigi, 2007). Ancora cancro in Le cancer de Maman, di Brian Fies (Çà et Là, Bussy-Saint-Georges, 2007). 92 sulle paure associate al male e alle cure. Come aveva capito Pirandello, però, l’umorismo della protagonista è una sorta di maschera bifronte, con un lato che ride per nascondere (e combattere) l’altro lato (reale) che invece piange. La malattia tabù viene così affrontata con ironia per renderla meno pesante: una buona soluzione per non abbattersi e combattere con maggiore forza. Nei vari giorni di degenza per le cure ho potuto constatare in prima persona che questo atteggiamento di “scherzo” è uno dei tanti con cui ci si pone verso la malattia, ma inaspettatamente è il più diffuso, soprattutto fra le persone giovani. L’anziano invece si appoggia alla trascendenza e spera di giungere a obiettivi vicini, come per esempio vedere nascere il nipote, vedere sposare un figlio, ecc. Fondamentale per far fronte alle cure è l’atteggiamento del personale sanitario del reparto. Dottori e infermieri disponibili, rassicuranti, comprensivi, affabili, gentili e sorridenti (oltre che competenti, ovviamente) sono il mix per non far pesare la crudezza delle terapie. Sono Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente rimasto colpito dalla loro disponibilità; una raccomandazione in particolare: «Qualunque sintomo strano tu senta durante la terapia, chiamaci senza esitare». Credevo intendessero sintomi gravi, poi ho scoperto che anche lievi effetti possono nascondere gravi insidie. Somiglianze inaspettate Durante la lettura sono emerse anche altre somiglianze fra la mia esperienza personale e quella della protagonista, a partire dall’emetofobia. Si va alla ricerca di testimonianze di persone che hanno già affrontato le chemioterapie per sapere quante volte si è rigurgitato, e si rimane stupiti quando si sentono affermazioni del tipo: «Ho vomitato solo tre volte». Miriam avrebbe esclamato: «Tre volte è spaventoso, orribile! Se succedesse a me, morirei!». Fortunatamente chi si ammala oggi vive in un periodo in cui la ricerca ha fatto grossi passi, soprattutto nell’attenuazione degli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici, in primis gli antiemetici e i fattori di crescita. Quando mi è stato annun- ciato che mi sarei dovuto sottoporre a tre o quattro cicli di terapia e mi è stata comunicata la lista dei possibili effetti collaterali, il dottore è stato molto rassicurante, e ha dichiarato: «La terapia causerà caduta dei capelli, un leggero gonfiore, mentre nausea e vomito saranno tenuti sotto controllo con i farmaci antiemetici». Io ho risposto: «Sopporto ogni tipo di effetto, basta che non mi fate vomitare!», e il dottore mi ha rassicurato: «Tranquillo, con gli antiemetici non vomiterai». Effettivamente nei quattro cicli è andata come avrei voluto: ho avuto delle strane sensazioni che solo l’ultimo giorno dell’ultimo ciclo ho riconosciuto come nausea, ma una nausea diversa da quella che si ha per esempio quando si viaggia in automobile o in barca. In compenso si sono verificati altri effetti collaterali: tachicardia, eccesso di appetito, ansia, bruciori di stomaco, singhiozzo, Bruno Antonini Agenzia di giornalismo scientifico Zadigroma [email protected] Cruciverba e altre stravaganze Un’altra somiglianza con Miriam è la pianificazione del tempo in cui si affronteranno i cicli. Si preparano libri, studi, film e poi, durante le terapie, ci si ritrova con una grande voglia di non fare nulla: unico passatempo cruciverba e sudoku. Ci si prepara anche con il look, si va dal parrucchiere di fiducia che come sempre chiederà: «Che taglio facciamo oggi?». L’inaspettata risposta sarà: «Sto per fare la chemioterapia e perderò i capelli, perciò vorrei un taglio più corto possibile». Segue il silenzio imbarazzato del povero acconciatore, e poi la ricerca di una parrucca trendy (nel caso di Miriam) o di un cappello all’ultima moda (come nel mio caso): viste le future sofferenze ci si concede qualche effimera stravaganza e qualche vizio! Una somiglianza inaspettata è stata invece l’incontro con l’infermiera cattolica. Quella di Miriam è una “radioterapista allegra” che allieta i pazienti con la sua “bambolina tiramisù” e tenta di rassicurarli dando per scontato che tutti al mondo siano religiosi. Se si risponde: «Rispetto la sua fede, ma vorrei che la smettesse di impormela», l’infermiera reagisce: «Su, su, via quel broncio, in nome di Dio!». Nel mio caso personale mi sono imbattuto con delle religiose volontarie che passavano per il reparto ad annunciare la buona novella, e con cui, durante i primi cicli, abbiamo avuto confronti di pareri sulla figura di San Paolo. Il libro verso la fine cambia clima, nel momento in cui alla protagonista vengono riscontrate metastasi cerebrali. Diventa triste e malinconico, non ci sarà più spazio per l’umorismo. Nel mio caso invece sembra che per il momento abbia vinto io, e l’esperienza del cancro mi ha reso più ironico. Bruno Antonini a più voci L’autore acne, una forte allergia cutanea e atroci dolori alle ossa provocati dai fattori di crescita (effetti collaterali di medicinali che combattono effetti collaterali dei medicinali chemioterapici, a loro volta attenuati con altri farmaci per ridurre il dolore: una spirale di effetti collaterali). Le mie aspettative si erano così avverate: tutto tranne vomitare. 93 Il profitto della memoria 96 Religio medici 103 Attualità dei maestri 107 Il ginnasio filosofico 114 La settima arte 118 La medicina raccontata 123 La voce di Melpomene 126 Ultim’ora Direttive anticipate, ieri e oggi Le direttive anticipate non sono una novità rivoluzionaria, ma il proseguimento della tradizione di rinuncia ai mezzi straordinari, intesi come interventi non obbligatori e quindi definiti in funzione dei singoli casi. Due esempi toccanti dimostrano la necessità di approvare una legge sulle direttive anticipate, che per essere condivisa da tutti deve rimanere distinta dalle problematiche legate all’eutanasia. Daniel Sulmasy Religio medici Da missione a professione: la trasformazione del contesto che dà senso al lavoro del medico, dell’infermiere e di chi è implicato in un rapporto di cura, sembra irreversibile. Così come l’evoluzione dal contesto sacro a quello profano, dalla guarigione di pertinenza della religione (salvezza) a quella in termini laici (salute). Ma l’eredità di un passato religioso dell’attività di cura non è solo un peso inutile. La rubrica esplora quanto il sacro e la spiritualità possano aiutare chi è impegnato nel lavoro di assistenza. 96 L a discussione sulle direttive anticipate ruota intorno a tre punti centrali. Primo, le direttive anticipate di trattamento non sono un’idea rivoluzionaria, ma piuttosto il proseguimento di una tradizione centenaria che prevede la rinuncia all’utilizzo di mezzi di cura straordinari. Secondo, è vitale separare il dibattito sulle direttive anticipate da quello sul tema dell’eutanasia: non si può permettere che delle divisioni rispetto alla questione dell’eutanasia precludano il raggiungimento del con- Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria senso legislativo in materia di direttive anticipate. Terzo, benché non siano una panacea, le direttive anticipate possono essere molto utili in campo sanitario nei processi decisionali riguardanti lo stato di malattia terminale. Mangiare pernici è un mezzo straordinario? Quali interventi possono essere considerati straordinari? Non ci si lasci confondere dall’uso comune dei termini “ordinario” e Direttive anticipate: convegno a Roma aniel Sulmasy, francescano e medico del St. Vincent’s Hospital-Manhattan and New York Medical College, è intervenuto al convegno “Testamento biologico: le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari”, che si è tenuto a Roma il 29 e 30 marzo scorsi. Il suo contributo integrale si può leggere on line sul sito di Janus (www.mhjanus.it). Dal convegno, organizzato da Ignazio Marino, presidente della Commissione igiene e sanità del Senato, con la partecipazione del ministro della salute Livia Turco, è emersa la volontà di trovare rapidamente larghe intese per una legge sulle direttive anticipate. Infatti sono stati presentati in Parlamento otto disegni di legge sul tema ma, a differenza di altri Paesi, manca ancora una legge, e l’argomento è affrontato solo nel nuovo Codice deontologico dei medici (vedi a questo proposito l’articolo “Otto anni per cambiare. Ecco il Codice rinnovato”, su Janus 25). Nella seconda giornata del convegno, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si sono alternati esponenti di varie confessioni religiose: il cardinale Javier Barragán, il professore Hassan Hanafi Hassanien per l’Islam, l’ex presidente delle comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto e il lama buddhista Thamthog Rinpoche. D p.g. sibilità di vivere la vita da invalido, potrebbe moralmente rifiutarla in quanto mezzo straordinario. Il suo abate non avrebbe il potere di obbligarlo ad accettare l’amputazione. Dignità, finitezza e diversità Le direttive anticipate dovrebbero essere percepi- te come strumenti utili nel progetto più vasto di aiutare pazienti, famiglie e medici a finalizzare la scelta migliore per il malato terminale, e rientrano perfettamente all’interno della tradizione di rinuncia dell’utilizzo di mezzi straordinari, che si fonda su quattro principi. Il primo principio è la dignità della persona. Ogni essere umano, in virtù del religio medici “straordinario”: il termine “straordinario” è utilizzato qui come termine tecnico con il significato di “non obbligatorio”. In questo senso qualunque trattamento di sostegno vitale, in determinate circostanze, può essere considerato straordinario. La lista non si limita solo agli interventi tradizionalmente medici. Secoli fa, quando la medicina poteva fare molto poco, ad alcuni esperti di morale fu chiesto se un paziente fosse obbligato a seguire il consiglio medico di mangiare pernici o di abbandonare la Sicilia alla volta delle Alpi. I saggi risposero che questi interventi potrebbero considerarsi straordinari. Se il paziente non poteva permettersi le pernici, poteva mangiare il pollo. Se il trasferimento sulle Alpi avesse isolato il paziente e lasciato sul lastrico la famiglia, poteva restare a casa e accettare di morire. Questi interventi sono da considerarsi straordinari o moralmente opzionali. Perfino il timore della condizione in cui uno si troverebbe dopo il trattamento lo potrebbe rendere straordinario. Quindi un monaco che non fosse preoccupato tanto dal dolore dell’amputazione quanto invece dalla pos- 97 semplice fatto di essere umano, ha un valore intrinseco che chiamiamo dignità. Questo è il principio fondamentale di tutta la moralità interpersonale. La medicina si prende cura dei malati innanzitutto perché ognuno di loro ha una dignità intrinseca che deve sempre essere rispettata. Il secondo principio è il dovere di preservare la vita. Questo principio ha diverse origini, la più ovvia delle quali è l’interesse personale. Poi c’è anche un dovere di gratitudine per il dono della vita, almeno verso i nostri genitori e antenati se non verso Dio. Infine, il nostro dovere di preservare la vita deve tenere conto del nostro ruolo e della nostra responsabilità verso altri. Il terzo principio è il limite. Come esseri umani siamo limitati, dal punto di vista morale, intellettuale e fisico. Ci ammaliamo e moriamo. Anche la medicina è un’arte imperfetta, e prima o poi tutti i pazienti muoiono. Anche le nostre risorse, sia individuali sia collettive, sono limitate, da un punto di vista fisico, psicologico, sociale, economico e morale. La nostra finitezza costituisce il limite del dovere di preservare la vita. 98 Il quarto principio è la diversità degli esseri umani. Ciascuno di noi è unico. Per esempio, possiamo reagire diversamente alla somministrazione della stessa medicina. Siamo diversi anche da un punto di vista psicologico, sociale, economico e morale. Ogni medico sa che Aristotele aveva ragione quando diceva che i medici non curano memoria. Il signor Q non riesce a ricordare all’ora di pranzo quello che ha mangiato a colazione, però ricorda perfettamente episodi della sua vita prima dell’incidente ed è cosciente della natura delle lesioni subite e della sua conseguente disabilità. A causa del danno cerebrale, non ha potuto mantenere il suo incarico come professore «La mamma lo sapeva che sarebbe stata dura per te. Mi ha detto che non voleva nessun tubo. Guarda, ha firmato tempo fa questo foglio con le direttive anticipate e mi ha incaricato di prendere le decisioni per conto suo» l’umanità in generale ma curano Socrate o Callio, o altri singoli individui affetti da malattia. Ciascun caso è unico nel suo genere: un paio di esempi aiutano a chiarire. Il caso del signor Q Il signor Q è un uomo di 60 anni, che 25 anni fa è stato aggredito per furto. Nel corso degli anni le sue lesioni cerebrali si sono risolte, il paziente ha ripreso a parlare e a muoversi, tuttavia lamenta un profondo danno della Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria di storia all’Università del Montana. Non si è mai sposato; nel corso degli anni i suoi genitori, che si sono sempre presi cura di lui, sono morti. Vagando qua e là, tristemente, è arrivato dal Montana fino a New York, dove è diventato un vagabondo: vaga per le strade, mangia alla mensa pubblica e dorme tra i cartoni sulle grate vicino ai grattacieli. Quattro anni fa un’associazione affiliata alla Chiesa per l’aiuto dei senzadimora ha iniziato a prendersi cura di lui. Poco per volta lui ha cominciato a fidarsi di quest’associa- zione, e così ha accettato di essere ospitato in un dormitorio. Per le prime sei settimane si è trovato bene. Era certamente un animo solitario e non parlava che raramente solo per qualche minuto, probabilmente imbarazzato dal suo problema di memoria. Era gentile e riusciva a volte ad avere brevi conversazioni, ma non più di tanto. La sua gioia più grande era riuscire a leggere tutto il New York Times ogni giorno. Andava d’accordo con l’assistente sociale che stava cercando di procurargli una qualche forma di assistenza governativa per le spese mediche. Nessuno può decidere per lui ma la prognosi è pessima, tanto che, se il paziente sopravvive, vivrà in uno stato che molti potrebbero giudicare profondamente oneroso». Il primario di cardiologia era cosciente che non avrebbe potuto decidere da solo della natura straordinaria delle cure prestate, perché la decisione avrebbe dovuto coinvolgere il paziente. Ma chi può decidere per il paziente? La famiglia non esiste. L’associazione aveva perfino contattando la polizia, nel tentativo di trovare dei familiari, ma senza risultato. Il signor Q non aveva nessuno che potesse parlare per lui. Ricorrere al giudice A questo punto è stato organizzato un consulto etico. Secondo la legge dello stato di New York, per staccare dal respiratore un paziente che ha perduto la capacità decisionale è necessario avere le prove «chiare e convincenti» delle sue volontà. Ma il signor Q era arrivato da poco al dormitorio pubblico e non aveva mai parlato con nessuno delle sue volontà nell’eventualità di una situazione del genere. Il personale del dormitorio era in religio medici Poco tempo fa, durante la colazione con altri ospiti del dormitorio, ha avuto un collasso. Il personale ha chiamato un’ambulanza ed è cominciata la rianimazione cardiorespiratoria. Il personale dell’ambulanza non è riuscito a ristabilire il polso e ha continuato la rianimazione durante la corsa all’ospedale. All’arrivo al pronto soccorso la cardioversione ha ristabilito polso e pressione, ma il paziente è rimasto in uno stato profondamente comatoso. All’inizio non erano riscontrabili neppure i riflessi vegetativi, come la costrizione delle pupille, l’ammiccamento o la respirazione autonoma. Era dipendente dal respiratore. Il giorno dopo è diventato febbrile, probabilmente per una polmonite. Dopo qualche giorno la febbre è diminuita, ma il signor Q è rimasto completamente comatoso e incapace di respirare senza il supporto del respiratore. Il suo cervello non era morto, ma gravemente danneggiato. È restato in coma; nel corso del tempo ha riguadagnato parzialmente la funzione delle pupille, delle palpebre, ma non la respirazione autonoma. A questo punto la prognosi del signor Q era sopravvivenza del 50 per cento, con la prospettiva di finire, al meglio, in uno stato vegetativo persistente. Naturalmente per accertare questa diagnosi sarebbero stati necessari almeno sei mesi di terapia intensiva. I cardiologi si chiedevano se continuare le cure intensive fosse realmente nell’interesse del paziente. Si dicevano: «Il trattamento non può essere considerato futile perché la possibilità di sopravvivenza è reale, 99 per saperne di più D.A. Cronin, “Conserving Human Life”. In: Russell Smith (a cura di), Conserving Human Life. The Pope John Center, Braintree, 1989. D.P. Sulmasy, “Double effect reasoning and care at the end of life: some clarifications and distinctions”. In: Vera Lex 2005;6. D.P. Sulmasy, “End of life care revisited”. In: Health Progress 2006;87(4). D.P. Sulmasy et al., “Prospective trial of a new policy eliminating signed consent for Do Not Resuscitate orders”. In: Jgim 2006;21. P. Verspieren, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti. Paoline, Cinisello Balsamo, 1985 K. Faber-Langendoen, “A multi-institutional study of care given to patients dying in hospitals. Ethical and practice implications”. In: Archives of Internal Medicine 1996;156. T.R. Fried, M.R. Gillick, “Medical decision-making in the last six months of life: choices about limitation of care”. In: Jags 1994;42. possesso delle direttive anticipate di circa l’80 per cento dei clienti, ma non aveva ancora affrontato il discorso con lui. Se c’era la possibilità di venire in possesso di un documento di direttive anticipate del signor Q con una sua dichiarazione di non venire rianimato in circostanze simili alle attuali, o con cui nominava un procuratore per decisioni mediche, e se il procuratore avesse espresso il rifiuto dell’uso del respiratore in vece sua, il respiratore avrebbe potuto essere staccato verso la metà di febbraio. Ma l’associazione ha presentato una petizione al tribunale per essere nominata come suo procuratore. E intanto il signor Q langue in terapia intensiva, con duplici danni cerebrali, una prima volta per colpa dei ladri e la seconda per colpa della medicina, incapace di dargli la liberazione che tutti sospettano sia il suo desiderio. E questo perché non ha espresso le direttive anticipate. La signora Z e famiglia La signora Z, una donna di 79 anni, è affetta da Alzheimer avanzato. La signora ha un marito total- 100 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria mente devoto a lei, ancora in buona salute nonostante i suoi 82 anni suonati, e cinque figli profondamente legati a lei. Tutta la famiglia ha contribuito alle sue cure a casa con affetto, tempo e denaro. Circa dieci anni prima la donna aveva preparato le sue direttive anticipate indicando il figlio maggiore come fiduciario per le decisioni sanitarie. «Conosco tuo padre», gli aveva detto, «non riuscirebbe a lasciarmi andare. Per questo motivo scelgo te. Se divento inferma al punto da non potermi più esprimere e non c’è nessuna speranza di guarire, non voglio cure che prolunghino la vita. Non voglio il respiratore. Non voglio l’ospedale. Non voglio tubi. Chiama il prete e lasciami morire in pace. Se non posso più dire il rosario, che vita sarebbe? Se non posso più riconoscere tuo padre, che vita sarebbe? Sarebbe doloroso per lui vedermi in quello stato. Lui penserebbe che è suo dovere tenermi in vita, ma non dovrebbe pensare così. Nessuno di voialtri dovrebbe rovinarsi la vita solo per tenermi viva: per cosa? Qualche mese in più? No, non se ne parla neanche. Se arriviamo a una situazione del genere, lasciami andare a casa da Gesù». La donna aveva ripetuto una conversazione simile col figlio maggiore cinque anni dopo, quando le era stato diagnosticato l’Alzheimer. Ha firmato la dichiarazione, indicando che quelle erano le sue volontà. Lentamente è passata dal perdere la memoria fino a non riuscire più ad alzarsi. È stata ospedalizzata per un’infezione delle vie urinarie e successivamente per polmonite. È diventata incapace di riconoscere i suoi familiari e ha cominciato ad avere piaghe da decubito. Negli ultimi mesi è stata nutrita cucchiaino per cucchiaino dai familiari, ma anche questo è diventato un problema, perché ha perso il controllo della deglutizione e tende a soffocare anche per deglutire piccoli sorsi d’acqua. «Portiamola a casa» chiesto allora: «Ma mia moglie morirà di fame senza un tubo gastrico?» «No, non succede così. Prima diventerà disidratata. È un processo naturale, è il modo con cui la maggior parte degli esseri umani è morta a seguito di malattie croniche. Voi potete continuare a nutrirla un pochino, che prenda quello che può. Se la nutrite in questo modo, lei lo apprezzerà e potrà ancora gustare il cibo in bocca. Potete anche bagnare le labbra con pezzettini di ghiaccio e idratare le labbra con della vaselina. Questi sono momenti molto umani e intimi. Lei non può comprendere molto a questo punto, ma questi piccoli gesti comunicheranno il vostro amore per lei. Infatti nutrirla con un’infusione continua attraverso il tubo gastrico non ha nessun significato interpersonale. Non le darà neppure la sensazione di sazietà, perché lo stomaco non si distende, in quanto il cibo è infuso goccia a goccia e non avrà il piacere del gusto in bocca. Oltre a questo il suo corpo sta perdendo colpi. Tanto per cominciare, sta perdendo l’appetito. È stato dimostrato che pazienti affetti da Alzheimer che hanno un tubo gastrico non sopravvi- religio medici A questo punto la signora è stata ricoverata ancora una volta per polmonite. Il dottore ha suggerito di inserire un tubo gastrico, vista la sua impossibilità a deglutire, e ha chiesto il consenso al marito. Il marito ha acconsentito dicendo: «Faccia tutto il possibile per aiutarla». Lo stesso giorno il figlio maggiore si è recato all’ospedale, è venuto a sapere della decisione e subito si è ricordato della conversazione avuta con la madre anni prima riguardo a decisioni del genere. Prima ancora che avesse il tempo di parlare col padre, il gastroenterologo, cioè lo specialista che inserirà il tubo gastrico, è entrato nella stanza e ha spiegato che è stato chiamato per esaminare la signora prima di inserire il tubo gastrico. Il marito gli ha detto: «Benissimo, il medico curante mi ha spiegato che questo tubo dovrebbe prevenire la polmonite e così lei può essere mantenuta in vita». Il gastroenterologo ha invitato marito e figlio a sedersi, spiegando che le cose non stavano esattamente così: «Questo intervento permette al cibo di raggiungere lo stomaco, però può capitare che parte del cibo sia rigurgitata dall’esofago alla trachea, provocando la polmonite. L’unico modo per evitare completamente la possibilità della polmonite sarebbe quello di chiudere le corde vocali e far respirare la signora tramite un tubo inserito nel collo, cioè la tracheotomia. Ma non credo che dovremmo farlo». Il marito ha 101 L’autore Daniel Sulmasy è medico e francescano, St. Vincent’s HospitalManhattan and New York Medical College vono più a lungo di pazienti che non lo hanno. Il mio consiglio è che la portiate a casa». Il figlio maggiore ha preso allora la parola: «Sai papà, la mamma lo sapeva che sarebbe stata molto dura per te. Mi ha detto che non voleva nessun tubo. Guarda, ha firmato tempo fa questo foglio con le direttive anticipate e mi ha incaricato di prendere le decisioni per conto suo. Lei sapeva che tu le vuoi troppo bene per riuscire a lasciarla andare. Il tubo gastrico è un mezzo straordinario. Mi ha detto che non voleva tubi di alcun genere. Non servirebbe né a lei, né a te, né a noi. Dai, portiamola a casa». «Tua madre, lo sai, è così: così bella, così amabile. Siamo stati così tanti anni insieme. D’accordo, capisco, hai ragione. Niente tubi. Merita il suo riposo. 102 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria La portiamo a casa». Questo è il modo tradizionale di prendere decisioni, facilitato nel ventunesimo secolo dall’uso delle direttive anticipate. Nel sedicesimo secolo non era necessario avere un documento così per rinunciare al consiglio medico di trasferirsi sulle Alpi. Tuttavia per continuare quella tradizione nel ventunesimo secolo, il popolo italiano può beneficiare di una legislazione che autorizzi l’uso delle direttive anticipate. Daniel Sulmasy L’Igiene è uguale per tutti Statistica sanitaria, ostetricia e igiene sono le tre discipline verso cui si concentra Francesco Boncinelli che, a fine Ottocento, si impegna per promuovere un’importante politica sanitaria rivolta a quella che lui stesso definisce «l’umanità sofferente». Lo scopo principale: migliorare la salubrità delle abitazioni, poiché ogni singolo aspetto della vita sociale può esercitare conseguenze importanti dal punto di vista medico e sanitario. Donatella Lippi «L La scienza non si costruisce più sulla parola dei maestri. La nostra vita morale, invece, continua ad aver bisogno di maestri e di modelli. Compresa la vita di coloro che hanno fatto del curare e del prendersi cura la loro professione. Rievocare i maestri è dolce, come per Dante risuscitare la cara e buona imagine paterna di Brunetto Latini. E istruttivo. interiorizzato. Cinquemila volumi e opuscoli donati al Comune di Firenze, e oggi conservati nella biblioteca comunale centrale, che testimoniano la sua formazione umanistica, a cui rimarrà legato, lungo tutta la sua carriera professionale, anche dopo la scelta di seguire gli studi medici. Un’educazione life long learning ricostruita attraverso un patrimonio librario rimasto compatto e indiviso, che consente di ripercorrere la storia istituzionale e scientifica della disciplina igienista. attualità dei maestri Attualità dei maestri a mia povera libreria che mi è costata sessant’anni di cure, di affetti, di spese, e dalla quale ho retratto quel po’ più di sapere che ho acquistato (essendo stati i libri i miei più cari e più fedeli amici) non so adattarmi a che ella possa andare dispersa con grave e oltraggiosa jattura». Un saluto quasi accorato, quello che Francesco Boncinelli rivolge, nel suo testamento, ai volumi della sua biblioteca, compagni di viaggio di un percorso umano e professionale profondo e sinceramente 103 Francesco Boncinelli, nato a Firenze nel 1837, dopo aver militato nelle guerre di Indipendenza, si dedica attivamente alla professione medica e ottiene interinati in varie zone della Toscana. Successivamente diventa capo dell’ufficio di Igiene di Firenze e poi ufficiale sanitario. Dimostra in questo ruolo una grande capacità organizzativa, che gli vale l’encomio della giunta comunale per aver fronteg- per saperne di più F. Boncinelli, Relazione sullo stato igienico del comune di Firenze 1893, Firenze 1894. F. Boncinelli, Le condizioni igienico sanitarie del Comune di Firenze nell’anno 1898, Firenze 1899. F. Boncinelli, L’Igiene e la salute pubblica in Firenze, Firenze 1897. F. Boncinelli, Decalogo delle madri, Firenze 1898. D. Lippi, “Il colera si cura quando non c’è. Igiene e medicina preventiva nell’opera di Francesco Boncinelli”. In: F. Giorni, M. Pinzani, a cura di, Il lascito Boncinelli. Assessorato alla Cultura, Firenze, 2005. giato in modo veramente efficace un’epidemia di tifo particolarmente virulenta. Intanto Boncinelli continua a pubblicare in tema di igiene e letteratura, dedicandosi in modo assiduo a numerose iniziative di beneficenza: «L’umanità sofferente» è un leitmotiv della sua riflessione. Malattie e condizioni di vita Le patologie più diffuse in Toscana, tra Ottocento e Novecento, erano la malaria, la tubercolosi e il tifo. Nei primi anni in cui vennero elaborati dati completi, alla fine del XIX secolo, le malattie gastroenteriche erano in media la causa di più del 15% di tutte le morti (comprese quelle accidentali e violente), mentre le diverse forme di tubercolosi contribuivano per circa il 6%, ma, soprattutto, avevano un’incidenza demografica ben superiore a quella della tubercolosi. Le malattie dell’apparato digerente decimavano la popolazione infantile, contribuendo più di ogni altra patologia all’abbassamento della vita media. L’analisi di queste malattie ha un’importanza che va molto al di là del dato 104 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria puramente quantitativo dell’incidenza statistica che avevano sulla mortalità. Apre, infatti, uno spaccato drammatico sulla situazione generale delle condizioni di vita, oltre che delle pratiche igieniche nelle infrastrutture sanitarie. In un’ottica più strettamente sociale, le caratteristiche eziologiche e diffusive di queste malattie facevano sì che fossero appannaggio delle classi più povere, costrette a vivere in condizioni particolarmente difficili e scarsamente igieniche, nei quartieri più affollati e miseri delle città. Contro questa situazione si muove Francesco Boncinelli che indirizza la sua denuncia su punti chiari e ben definiti: promuovere un’azione educativa nei confronti della popolazione, inaugurare una politica sanitaria con investimenti importanti, monitorare la situazione sanitaria dei centri urbani, impostare una politica urbana destinata a migliorare la salubrità delle abitazioni. Controllo sanitario collettivo Statistica sanitaria, ostetricia e igiene: questi sono i tre filoni su cui si indirizza innestano la rivoluzione pasteuriana e gli studi di Robert Koch. Le necessarie cure materne Il campo d’azione dell’igienista è vastissimo in quanto, come scrive Boncinelli, «l’igiene, nel ricercare e investigare le cause che sa, dogmatica, aforistica» avrebbe dovuto fornire alcuni principi di fondo per la cura dei figli. Attenzione, cura, affetto materno, devono essere integrati dal rispetto di determinate norme igieniche: allattamento al seno, bagno, igiene del capezzolo, abbandono delle fasciature, uso di latte bollito, svezzamento progressivo, vaccinazione. «L’igiene, nel ricercare le cause che possono ledere l’integrità della privata e pubblica salute, non può omettere di considerare alcuno dei fatti che si svolgono nelle mille manifestazioni della vita individuale e collettiva» possono in maggiore o minor grado ledere l’integrità della privata e pubblica salute, non può omettere di considerare alcuno dei fatti che si svolgono nelle mille manifestazioni della vita individuale e collettiva». Ogni aspetto della vita sociale deve essere attentamente valutato, in quanto esercita conseguenze importanti, anche dal punto di vista medico e sanitario. Non a caso, Boncinelli insiste sull’importanza dell’educazione delle donne, elaborando il Decalogo delle madri che «in forma conci- Obiettivo dell’intervento di Boncinelli è, quindi, la difesa dei bambini dalla mortalità per «cause comuni, per malattie acute degli organi di petto e per quelle del tubo digerente». L’igiene prima di tutto Igiene come strategia preventiva e come mezzo di redenzione sociale, ma anche come strumento di crescita morale. «Il filosofo Descartes ha detto già da molto tempo: “La medicina e l’igiene sono il principale mezzo attualità dei maestri maggiormente l’attenzione di Boncinelli e la sua produzione scientifica, sulla scia dell’insegnamento inaugurato a Pavia nel XVIII secolo da Johann Peter Frank, fondatore della Medizinische Polizei. Attraverso il controllo delle condizioni di vita dei suoi concittadini, Frank sosteneva la necessità di una sorta di controllo sanitario collettivo, che doveva essere realizzato dal medico, visto come vero interlocutore dello Stato. È, infatti, il medico-politico la figura vincente nel corso del XIX secolo, attore protagonista di una politica sanitaria, che culmina nella prima legge di Sanità pubblica, del 1888, formulata dal grande igienista Luigi Pagliani. Inchieste, sondaggi, ricognizioni, verifiche: soltanto dopo aver rilevato le necessità e le emergenze, sarebbe stato possibile intervenire con strategie mirate. Questa impostazione, che risente anche dell’insegnamento di Jean Pierre Alexandre Louis, fondatore della méthode numerique in medicina, nella Parigi della prima metà dell’Ottocento, dà una svolta radicale ai problemi sanitari e alla pianificazione degli interventi, su cui si 105 L’autrice Donatella Lippi è docente di storia della medicina e bioetica all’Università di Firenze [email protected] per rendere gli uomini comunemente virtuosi” ed il mio illustre e glorioso maestro Francesco Puccinotti vaticinava che la medicina sarebbe divenuta un giorno non altro che un ben ordinato e completo sistema di Igiene. La libertà e l’eguaglianza, consacrate dai progressi della civiltà in tutte le manifestazioni della vita, negli ordini civile, politico, religioso ed economico, hanno guadagnato un nuovo campo di azione, per cui si può dire con pari verità che della Legge: “L’Igiene è uguale per tutti”. Lasciamo che i sani precetti di quest’arte divina, volgarizzati e posti in atto ogni giorno dai suoi convinti e zelanti apostoli, che la Legge ha disseminato negli ottomila Comuni del Regno, si siano fatti strada fra il volgo ricco e plebeo, e a poco a poco intrinsecati e assorbiti nella coscienza pubblica; e sarà dato allora di osservare una quasi meravigliosa trasformazione del fisico materiale benessere non solo, ma un salutare e potente risveglio della pubblica e privata moralità […]», scrive Francesco Boncinelli. Igiene urbana e igiene della casa sono i due elementi principali del programma di risanamento della città, nel progetto dell’igienista: «La salubrità della casa forma l’agglomerato capitale e l’oggetto della maggior importanza di pubblica igiene, perché una città che non è altro che un aggregato e una riunione più o meno grande di case, non può essere salubre se non sono salubri le parti che la compongono […]». Mediatori culturali per diffondere l’igiene Il problema della salubrità della casa, considerato da Boncinelli come «questione di primissima importanza nell’interesse della privata e pubblica igiene», sarà questione centrale del programma della Giunta del 1907, guidata da Francesco Sangiorgi, che segnerà per Firenze la strada della modernizzazione. Guido Banti, assessore all’Igiene nel 1907, porterà avanti le osservazioni di Boncinelli, denunciando le 106 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria difficoltà di funzionamento dell’ufficio di Igiene, sia per i problemi di ordine logistico, sia per la mancanza di personale. «La cura della salute pubblica è il primo dovere di un uomo di Stato»: riportando le parole di Benjamin Disraeli, Boncinelli richiede un maggiore impegno delle autorità nei confronti di queste istanze e individua negli insegnanti, nei parroci, nei medici condotti i mediatori culturali più importanti per veicolare le norme igieniche basilari all’interno delle famiglie. Non a caso, Boncinelli parla di “apostolato”, nella professione e nella vita: ancora lontani dalla medicina sociale degli anni successivi, Boncinelli «si pone sul piano dell’apostolato fra le classi popolari, come forma di mediazione culturale, di ricerca sul campo e di azione concreta a sostegno delle rivendicazioni delle classi più umili, nel solco della più nobile tradizione scientifica toscana». Oggi, di fronte alle emergenze rappresentate dalle nuove povertà, il messaggio scientifico e il messaggio umano di Francesco Boncinelli suonano parti colarmente attuali. Donatella Lippi Pensare il Sé per pensare la salute Il concetto di salute non è di facile definizione ed è stato interpretato diversamente a seconda dei contesti storici e culturali. Il suo significato comunque dipende essenzialmente dall’idea del Sé, e quindi del rapporto fra corpo e anima (o mente): da Pitagora a Nietzsche, passando per Platone e Cartesio, i filosofi hanno formulato diverse concezioni del Sé. Di conseguenza sono cambiati anche i modi di intendere la salute e di curarla. Fernando Rosa, Alessandra Parodi I Quod optimus medicus sit quoque philosophus: «È chiaro che il miglior medico è sempre anche filosofo». L’opinione di Galeno si scontra con la costruzione dei saperi che è propria del nostro tempo: medicina e filosofia hanno preso due strade diverse. Eppure i punti di raccordo esistono. In questa rubrica andiamo a cercarli, per valorizzare l’apporto del pensiero filosofico alle medical humanities. di ammalarci? Perché e a che proposito curare i sani? Per iniziare a porci questi problemi si deve partire dalla percezione di sé rispetto al mondo, da cui poi individuare dei modelli di sé. Curare i sani significa anche occuparsi di tratti rilevanti per certe concezioni di salute, proprio per evitare un possibile danno. L’esperimento di Cartesio È possibile innanzitutto individuare tre semplici ma fondamentali esperienze il ginnasio filosofico Il ginnasio filosofico l concetto di salute è tutt’altro che chiaro: dipende dalle aspettative degli individui e della società, ed è quindi pensato rispetto al senso complessivo che viene dato all’esistenza umana. È sufficiente parlare di una salute fisica (l’assenza di dolore, il senso di benessere fisico)? Oppure: è in salute chi ha un problema nascosto, per esempio una malattia che non si è ancora manifestata? Quali provvedimenti dobbiamo adottare, e fino a che punto, per tutelare la salute, per ridurre il rischio 107 del sé. Tutti noi possiamo fare esperienza di ognuna in vari momenti della vita, ma certamente alcune prevalgono, in base alla nostra cultura, intelligenza, sensibilità e ai nostri valori. Verosimilmente è sempre stato possibile per l’uomo avere esperienza di sé attraverso queste tre modalità, anche se il prevalere di ognuna è stata dipendente in modo decisivo dal periodo storico. Una prima possibilità è quella di percepirsi come un corpo. Le sensazioni (fame, sete, rabbia, dolore) vengono riferite al corpo e sono percepite spesso come un fatto esclusivamente fisico. Un tipico esempio può essere l’uomo come viene descritto da Omero, che non viene quasi concepito come un individuo unitario, ma suddiviso nei suoi organi. La vita mentale è intesa come qualcosa di organico: per esempio il cuore è l’organo dei sentimenti e degli affetti, il diaframma (traduzione in realtà impropria di phrén, i praecordia latini) è sia una parte anatomica sia un aspetto della mente. L’uomo omerico non conosce una mente interna, ma colloca nel corpo le forze che lo condizionano. Una seconda possibilità è quella di concepirsi come una mente, staccata dal corpo. Anche questa è un’esperienza di tutti: per esempio quando vogliamo fare un movimento, un’azione e il nostro corpo non risponde, come se ci fosse una dissociazione fra i due aspetti; oppure quando ci stiamo rilassando, o stiamo per addormentarci e ci sembra quasi di non percepire più il nostro corpo, e che il nostro sé sia racchiuso tutto nella mente. Il tipico esempio di questo è il celebre esperimento mentale di Cartesio, all’inizio della prima Meditazione metafisica: pensa se stesso come completamente distaccato dal corpo. Vi è infine una terza possibilità: il percepirsi come una totalità mente-corpo. Anche questa è comune: ci basti pensare a momenti di contemporaneo benessere fisico e mentale o, viceversa, di dolore associato ad angoscia. Un’origine sciamanica? A partire da queste semplicissime esperienze si può facilmente comprendere come il concetto di corpo e il suo rapporto con la mente (o l’anima) risulti decisivo nel prendere in 108 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria considerazione i motivi per cui trattare la persona sana, che cosa trattare e come trattarla. Si possono infatti individuare alcuni modelli che si sono presentati nel corso della storia: in base alla loro accettazione gli approcci alla conservazione della salute sono stati diversi. L’importanza di questi modelli non è solo storica ma anche attuale, perché molti di essi sopravvivono anche nella nostra epoca. I modelli, anche se la loro separazione non è così netta, possono essere individuati in: • essere in un corpo • essere un tutto (mente-corpo) • avere un corpo • essere un corpo. Il primo modello individua come unica parte veramente importante del sé l’anima, struttura spirituale, spesso preesistente al corpo e che nel corpo viene contenuta. Nella cultura occidentale quest’interpretazione deriva dalla tradizione orfico pitagorica, sviluppatasi soprattutto nel corso del VI secolo a.C. in Grecia e a sua volta, verosimilmente, di origine sciamanica. Gli sciamani si caratterizzano proprio per la capacità di distaccare l’anima (o le anime) dal corpo e di viaggiare in altri luoghi o nell’aldilà. L’anima così concepita, che può trasmigrare da un corpo all’altro alla morte dell’individuo, non è ancora paragonabile a quella che noi chiamiamo mente, anche perché spesso è inconscia. Questa tradizione, proprio per l’importanza che annette all’anima, concepisce la sua cura sforzi verso le scienze e gli studi e stabilire, per i suoi discepoli, prove svariatissime e castighi e premi per l’intemperanza e la cupidigia innate in tutti gli uomini. [...] Inoltre insegnava ai discepoli l’astinenza da tutti gli animali e da alcuni cibi che erano di ostacolo alla vigilanza e alla purezza del pensiero». Compare qui un primo aspetto importante anche per i modelli Sono significativi i casi di molte ascete nel tardo medioevo: si trattava soprattutto di donne che si privavano del cibo in maniera quasi totale, al punto che molte di loro si nutrivano soltanto dell’ostia consacrata successivi: l’alimentazione è una delle principali cure della persona sana, ma il suo scopo era favorire il benessere dell’anima, più che quello del corpo. Il corpo, prigione dell’anima La tradizione orfico pitagorica viene integrata nella filosofia socratica e successivamente platonica: si deve a Platone la celebre immagine del corpo come prigione dell’anima o tomba dell’anima, giocata il ginnasio filosofico come l’attività principale dell’uomo: la stessa cura del corpo ha lo scopo di influire sull’anima, che è l’elemento fondamentale. Scrive Giamblico nel IV secolo d.C. nella Vita pitagorica: «Così egli [Pitagora] per mezzo della musica attendeva alla formazione spirituale delle anime. Un’altra forma di purificazione del pensiero e, insieme, di tutta quanta l’anima, era attuata da lui attraverso esercizi di vario genere in questo modo. Specificamente egli credeva necessario indirizzare gli sull’assonanza fra soma (corpo) e sema (tomba). La svalutazione del corpo appare centrale anche in molte pratiche ascetiche cristiane, antiche e medioevali. L’inclusione del cristianesimo nel primo modello dev’essere tuttavia precisata. Il cristianesimo risente certamente dell’influsso platonico, ma esistono fondamentali differenze: innanzitutto il cristiano non crede nella metempsicosi, bensì nella resurrezione della carne, e non nella semplice immortalità dell’anima. Cristo stesso poi è vero Dio e vero uomo, con un corpo uguale a quello umano. Il corpo, quindi, non sembrerebbe così dover essere svalutato. In realtà molte tradizioni ascetiche si sono rifatte alla concezione del corpo come carcere dell’anima, ma certamente non tutto il cristianesimo. Volendo ottenere la perfezione spirituale, i loro aderenti hanno sottoposto i propri corpi a grandi prove: non essendo questa la vita vera, ci si “curava” per l’aldilà. La cura dei sani anche in questo caso si otteneva con astinenza e digiuno; ma mentre nei pitagorici le pratiche avevano lo scopo di favorire l’anima, qui prevale il tentativo di sotto- 109 mettere completamente il corpo all’anima. Certamente anche la Chiesa imponeva astinenza e digiuno nei periodi prescritti, ma con minore durezza, mentre molti asceti passavano la vita in un digiuno quasi assoluto, con il risultato che molti erano così deperiti da sembrare simili a fantasmi. Sono significativi i casi di molte ascete nel tardo medioevo: si trattava soprattutto di donne che si privavano del cibo in maniera quasi totale, al punto che molte di loro si nutrivano soltanto dell’ostia consacrata. Questi comportamenti sono stati paragonati alla moderna anoressia nervosa, una sorta di “santa anoressia”. Vivere in stato di purezza rituale Il secondo modello possiamo definirlo “essere un tutto”, cioè un insieme armonico di mente (o anima) e corpo. È necessario osservare come per certi versi sia in continuità con il primo, ed è fondamentale nel mondo classico. Innanzitutto dipende dalla possibilità di percepirsi come una totalità costituita da due elementi distinti anche se strettamente uniti, ai quali viene data uguale importanza. Platone stesso, se per certi versi è certamente il responsabile del passaggio nella tradizione cristiana della concezione del corpo come tomba, in altri testi, come la Repubblica, è prodigo di consigli per il benessere corporeo. In secondo luogo, l’individuo non solo è un tutto, ma è “in un tutto”, cioè in un ambiente che lo ospita e con il quale si deve armonizzare, in continuità con la tradizione medica greca. Come chiarisce Pedro Gil Sotres, per la medicina greca le pratiche igieniche e dietetiche (i “regimi”) sono una serie di precetti volti al mantenimento della salute così come la intendiamo ancora oggi, ma derivano anche dal binomio pitagorico composto da purezza e impurità: non si tratta soltanto di vivere senza malattie, ma anche in stato di purezza rituale. Basti pensare al ruolo dell’acqua, nel quale gli aspetti della pulizia esteriore e della purificazione morale sono intrinsecamente correlati. Accanto all’aspetto della purezza rituale si colloca quello dell’armonia. I trattati ippocratici Sul regime e 110 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria Sull’antica medicina (del V secolo a.C.) sottolineano l’importanza della dieta e dello stile di vita, così come delle modalità di abitazione, allo scopo di evitare la pletora (lo squilibrio tra alimentazione e consumo) e di mantenere o ristabilire l’equilibrio all’interno del corpo e tra corpo e ambiente. Perciò la dieta deve variare con le stagioni e con il clima, oltre che con l’età. Anche il regime di vita descritto nelle opere di Galeno (principalmente nel De custodia sanitatis, II secolo d.C.) si fonda sulla coppia armonia-disarmonia e su quel gruppo di fattori che entreranno nella storia del pensiero medico igienico come le «sex res non naturales». Le «sei cose non naturali» si contrappongono alla costituzione individuale, per definizione non modificabile, e rappresentano il raggio d’azione che l’uomo può esercitare sulla sua salute in vista dell’armonia psicofisica e con l’ambiente. Sono l’aria (intesa come luogo di abitazione e clima), l’alternanza di esercizio e riposo, l’alimentazione, il ritmo sonno-veglia, il bilanciamento tra replezione ed evacuazione e gli «accidenti dell’anima». Sia nel Corpus Hippocraticum sia in Galeno, così come nella successiva medicina araba e medievale, la salute è in grande misura direttamente derivante dalla conduzione consapevole di tutti gli aspetti dell’esistenza. È sano chi è padrone si se stesso alcuni aspetti: la stretta interdipendenza e la corrispondenza fra le parti dell’organismo e la curabilità dei sintomi delle parti per mezzo di trattamenti che mirano a ristabilire l’armonia generale. Non si può non notare, inoltre, l’analogia dell’idroterapia con forme di purificazione rituale finalizzate all’eliminazione dei miásmata nocivi. Le medicine olisti- Il cyborg, presente in molti film di fantascienza, è una commistione fra uomo e macchina: un essere umano che ha subito innesti tecnologici in grado di potenziarlo e fargli superare i confini imposti dal corpo naturale cine olistiche. L’aggettivo rimanda immediatamente all’interezza dell’organismo e alla sua integrazione con la sfera psichica e con l’ambiente. Le forme di medicina nate in altre culture, come quella cinese e indiana, e le idee terapeutiche sviluppate in ambito europeo come reazione a una medicina accademica vista come parcellizzante e meccanicistica (gli esempi più noti sono l’idroterapia alla Kneipp e la medicina omeopatica), sono accomunate, al di là delle loro differenze specifiche, da che praticate e ricercate oggi rimettono al centro dell’attenzione la ricerca della salute come armonia, del resto ben presente nella tradizione ippocratico galenica, muovendo alla medicina scientifica la critica di concentrarsi sulle singole parti. Il potenziamento delle singole parti Il terzo modello (avere un corpo) è tipico della modernità: a partire dalla posizione cartesiana, il ginnasio filosofico Foucault individua fra l’età ellenistica e l’età imperiale l’epoca della cosiddetta “cura di sé”. In questo periodo, infatti, si sviluppano una serie di pratiche che riguardano il cibo, l’alimentazione, il sesso che hanno lo scopo di costruire un individuo padrone di se stesso (la virtù dell’enkráteia) e quindi anche in grado di guidare gli altri. I piaceri, il cibo, l’attività fisica vanno attentamente modulati proprio a questo scopo. L’uomo sano è colui che è padrone (attivo) e non schiavo passivo dei piaceri: «La pratica del regime come arte di vita è ben altro che un insieme di precauzioni destinate a evitare le malattie o a completarne la guarigione. È tutto un modo di costituirsi come soggetto che ha, del proprio corpo, la preoccupazione giusta, necessaria e sufficiente. Una preoccu- pazione che attraversa la vita quotidiana; che fa delle sue attività più importanti o più banali una posta al tempo stesso igienica e morale; che definisce fra il corpo e gli elementi che lo circondano una strategia circostanziale; che mira infine a dotare l’individuo stesso di una condotta razionale». Un esempio attuale di questo modello sono le medi- 111 per saperne di più E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale. La Nuova Italia, Firenze, 1986. M. Foucault, Storia della sessualità. Feltrinelli, Milano, 1998. Giamblico, Vita pitagorica. Laterza, Roma-Bari, 1973. S. Minguzzi, Il cinema Cyberpunk: la trasformazione del corpo in macchina. www.tesionline.it/default/ tesi.asp?idt.=7785 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Mursia, Milano, 1978. G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone. Raffaello Cortina, Milano, 1999. P. Gil Sotres, “Le regole della salute”. In: M. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, vol I, Antichità e Medio Evo. Laterza, Bari-Roma, 1993. T. Schettino, Il corpo in Nietzsche. Jubal Editore, Cervignano del Friuli, 2005. W. Vaandereycken, R. van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo nella storia. Raffaello Cortina, Milano, 1995. anima e corpo vengono separati. Si assiste così da un lato a una mente (res cogitans) che si trasforma nell’io della filosofia moderna e che rappresenta la sede delle decisioni, della volontà; dall’altra il corpo che viene oggettivato, cioè considerato pura materia (res extensa). La pura materia, soggetta alle leggi della fisica, può venire liberamente manipolata: il corpo verrà considerato progressivamente sempre più come una macchina da rendere più efficiente. Curare i sani significherà innanzitutto impedire i rischi collegati a un danneggiamento della macchina o potenziare le sue possibilità. I fattori di rischio, lontani discendenti delle res non naturales, entrano nel pensiero medico soprattutto a partire dal secondo dopoguerra con i primi studi longitudinali sulle conseguenze dello stile di vita su certe patologie. Nel famosissimo studio Framingham (dalla città americana in cui si scelse di monitorare per anni un gran numero di persone) si sono evidenziati molti dei fattori di rischio oggi noti per le malattie del sistema cardiocircolatorio. Le conoscenze sui fattori di rischio non producono consigli 112 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria per lo stile di vita miranti all’armonia o all’integrazione psicofisica o con l’ambiente, bensì vengono usate per evitare particolari danni in particolari organi. In altre parole, «evitare un’alimentazione eccessivamente grassa» non rientra più nel precetto dell’equilibrio tra replezione ed evacuazione, ma è una misura finalizzata alla specifica difesa dei vasi sanguigni. Sul versante dell’esercizio fisico si nota una simile concentrazione sulle parti del corpo, modificabili e migliorabili nei centri di fitness per mezzo di attrezzi altrettanto “parziali”. Si tratta sempre di controllo sul proprio organismo, ma l’elemento dell’armonizzazione e dell’unità risulta sbilanciato a favore del perfezionamento (o della difesa, nel caso della medicina preventiva dei fattori di rischio) delle parti. Verso la commistione fra uomo e macchina? Il quarto modello (essere un corpo) è per certi versi distinto e in continuità con il precedente. Si riferisce alla fondamentale importanza che viene annessa alle forze, alle pulsioni cor- poree. Si può sintetizzare con una celebre frase di Nietzsche: «Corpo io sono e anima. – così parla il fanciullo – E perché non si dovrebbe parlar come fanciulli? Ma l’uomo desto e cosciente dice: io sono corpo e null’altro all’infuori di ciò; e l’anima è solo una parola per indicare qualche cosa del corpo». Per il filosofo tedesco dunque tutto è corporeo: non c’è più un soggetto unitario, nel senso che il corpo è solo il luogo dove si manifestano le pulsioni e gli istinti vitali. Lo scopo è il potenziamento di questi istinti, della loro forza vitale. Aspetti comuni del terzo e quarto modello sono tipici della nostra epoca, nella quale l’oggettivazione del corpo da un lato e il suo essere teatro di pulsioni Fernando Rosa è specialista in ematologia generale e medicina interna e si interessa di problematiche filosofiche in medicina [email protected] Alessandra Parodi è dottore di ricerca in filosofia e si occupa di storia e teoria della medicina [email protected] sti dal corpo naturale. Questo si può rilevare anche nelle concezioni del corpo della body art: alcuni artisti (Stelarc, Orlan) si sono fatti inserire negli arti innesti tecnologici per evidenziare questa continuità fra natura e tecnologia. I modelli culturali odierni sembrano volgere nel senso di percepirsi prevalentemente come corpo. La funzione dell’io è quella di un potenziamento infinito della corporeità: questo forse significa al giorno d’oggi curare i sani. Sono proprio loro da curare, da potenziare, da migliorare. È la fine dell’anima? In un certo senso sì. Tuttavia, dal celebre film Blade Runner può insorgere un dubbio. Nella Los Angeles del 2017 Rick Deckard, ex poliziotto a caccia di pericolosi replicanti assassini fuggiti da una colonia spaziale, viene salvato dalla morte proprio da una replicante, Rachael, che si è innamorata di lui. Anche i replicanti si innamorano dunque, e Rachael contraddice in questo senso la propria natura: le emozioni sono alla base della rivincita di un sé complessivo inserito in un mondo? Fernando Rosa, Alessandra Parodi il ginnasio filosofico Gli autori vitali dall’altro si sposano agevolmente con la ricerca di efficienza del mondo tecnico industriale. Nella medicina della cura di sé era fondamentale l’integrazione dell’uomo nel mondo naturale e in quello sociale, mentre attualmente i limiti della natura del corpo non sono più così chiari. Due aspetti appaiono di particolare rilievo: in primo luogo l’oggettivazione riguarda anche la mente. Il cervello è allora una parte di corpo, quindi un oggetto, sul quale effettuare manipolazioni: l’uso degli psicofarmaci (ma anche delle droghe) può avere un livello simbolico comune, quello di modificare le prestazioni dell’oggetto corporeo “cervello”. In secondo luogo non è più chiaro dove finiscano i confini naturali del corpo. Curare i sani può significare a questo punto anche il potenziamento del nostro corpo? Questo porta certamente a pensare alle possibilità di manipolazione genica. Il cyborg, presente in molti narratori e film di fantascienza, è una commistione fra uomo e macchina: un essere umano che ha subito innesti tecnologici in grado di potenziarlo e che gli permettono di superare i confini impo- 113 Dr House: il cinico medico malato In autunno riprenderà la serie televisiva Dr. House, Medical Division, telefilm ad ambientazione ospedaliera, che vanta indici d’ascolto molto alti. Il protagonista è un sarcastico e carismatico luminare di medicina diagnostica, medico con cui non vorremmo mai trovarci a tavola, ma che vorremmo al nostro fianco se ridotti in fin di vita. Un personaggio anomalo, che ha introdotto nuove chiavi di lettura della figura del medico. Stefano Pisani La settima arte Al cinema per divertirsi? Sì, certo. Al cinema per emozionarsi? Anche. Al cinema per riflettere? Perché no! Il cinema ci rimanda volentieri i vissuti di malattia, guarigione, nascita e morte, che costituiscono la trama essenziale della nostra esistenza corporea. Questo rispecchiamento offre grandi opportunità per riflettere, in quanto attività di pensiero. Per le medical humanities il cinema è una manna. Con una sola difficoltà: scegliere tra le tante offerte che la settima arte ci propone a ritmo incalzante. C inismo e logica stringente. Queste le gambe su cui cammina Gregory House, personaggio eccentrico, diagnosta ospedaliero, protagonista assoluto della serie televisiva Dr. House, Medical Division che in Italia è arrivata alla sua terza stagione, dopo il trionfale esordio dell’estate del 2005. Ne sono passati di anni dai tempi del dottor Kildare, e si vedono tutti. Se il “dottor niente male” faceva entrare per la prima volta nelle case degli italiani iniezioni e camici, accompagnati da 114 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria buoni sentimenti e sorrisi confidenziali, adesso è un medico burbero, che formula diagnosi come se sputasse veleno, a riaprire l’universo dell’ospedale. Certo, nel frattempo qualche altra serie ha compiuto un’operazione simile. Ad esempio General Hospital e Chicago Hope, che non ha quasi lasciato traccia di sé, e lo storico Emergency Room-medici in prima linea (per tutti: ER) forse il primo telefilm medico sanitario di massa che la televisione ricordi. Proprio ER è uno spartiac- que la cui importanza è riconosciuta indiscutibilmente. La rappresentazione televisiva della figura del medico con questo telefilm vive una svolta: il dottore non è più l’angelo custode ma un uomo che può sbagliare e che ha le sue debolezze. Inoltre, le scene degli interventi d’urgenza del pronto soccorso del Chicago County diventano realistiche e cruente, e dettagli anatomo-patologici, prima occultati, ora arrischiscono senza pudori la scena. Con Dr. House non solo si ribadisce che il medico è un uomo, ma che può essere anche un’antipatica canaglia. La curiosità sopra ogni cosa collaboratori e inizia le sue indagini scrivendo su una lavagna i sintomi, come si fa con una mappa del tesoro. Il paziente è lasciato ai suoi assistenti, a lui interessa avere sotto gli occhi solo la cartella clinica perfettamente compilata. Ed è lì che inizia l’investigazione. House è infatti un personaggio a metà fra Sherlock Holmes e Louis Pasteur. È Mentre verifica le sue teorie non mostra nessuna perplessità per le sofferenze che i tentativi non risolutivi procurano al poveretto di turno. Sono solo effetti collaterali. Errori a fin di bene, in un certo senso necessari prio le sfide che piacciono ad House. E la figura del medico acquista allora una caratteristica in più. House non è interessato a conoscere la storia umana del paziente, ma solo la sua anamnesi. A muoverlo: un’inestinguibile curiosità. La medicina come scienza sperimentale Il bastone di legno e le scarpe da ginnastica lo portano fino al suo studio. Qui riunisce la sua squadra di giovani ma validissimi un detective della medicina dotato di uno spirito d’osservazione eccezionale e di una preparazione medica fuori dal comune. Gli interessa scoprire chi è l’assassino, che in questo caso è la malattia che sta attaccando il paziente. Quella di House sembra una guerra personale contro batteri, virus o malformazioni di cui nessun suo collega è riuscito fino a quel momento ad accorgersi. A tratti sembra un gioco compulsivo. House è un uomo che si arrovella all’ombra del capezzale di la settima arte House zoppica e brontola, non è perfetto come Richard Chamberlain (Kildare), né comprensivo come George Clooney, il dottor Ross, pediatra rubacuori di ER. Uno dei suoi motti preferiti è «sono diventato medico per curare le malattie, non i malati». Gregory House è il primario del reparto di diagnostica dell’immaginario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital del New Jersey. Nelle strutture ospedaliere italiane non esiste un ruolo come questo. Al suo cospetto arrivano i casi insolubili, quelli che nessun altro medico accetterebbe o che, peggio, chiunque liquiderebbe con una diagnosi approssimativa e sbagliata. Ma sintomi inspiegabili, allergie misteriose e reazioni fisiologiche mai viste prima sono pro- 115 un malato con lo stesso maniacale puntiglio di un appassionato di sudoku che risolve uno schema di difficoltà superiore. Forse anche House vorrebbe avere una matita e una gomma per cancellare tutti gli sbagli che fa, mentre tenta di capire che faccia ha la malattia che sta cercando di ingannare? Qui emerge un ulteriore elemento ricorrente del programma, di più ampio respiro scientifico. «La medicina è una scienza sperimentale». Il Direttore sanitario del suo ospedale è tormentato da questa frase con cui House giustifica le terapie che mette in atto nella sua caccia alla patologia. Terapie che discendono direttamente dal suo sesto senso. Ma tutto gli viene concesso, perché le sue intuizioni sono geniali per quanto, spesso, clinicamente inversomili. House procede Il dottor House è un nemico delle medical humanities? Cinico, burbero, geniale ma con un fascino che conquista. Come mai? Che ne pensate? Inviateci la vostra opinione per una discussione sul sito di Janus: www.mhjanus.it secondo logiche e intuizioni che rasentano l’ispirazione divina, e corregge la sua strategia in base agli incidenti di percorso (peraltro immancabili). Per fortuna, il gioco non è mai fatale. No, House non vorrebbe avere quella gomma per cancellare. Mentre verifica le sue teorie, scrive e cancella e poi riscrive sulla sua lavagna e sulla cartella clinica del degente, non mostra nessuna pena o perplessità per le sofferenze che i tentativi non risolutivi procurano al poveretto di turno. Sono solo effetti collaterali. E si tratta di errori a fin di bene, in un certo qual modo necessari. Tutti i pazienti mentono Logica stringente e disarmante. Una logica che, spesso, rivela il lato “disumano” di House e che emerge da frasi come: «Questo posto è pieno di pazienti, se mi sbrigo forse ce la faccio a evitarli». House non ama parlare con i pazienti e detesta il suo turno ambulatoriale, momento in cui deve confrontarsi con le malattie banali, quelle che si possono risolvere con un paio di 116 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria pillole che, qualche volta, sono pure dei placebo. Gli basta una sola occhiata per diagnosticare malattie e scheletri negli armadi. E, uno dopo l’altro, tutti quelli che vengono visitati da lui non trovano il conforto che ci si aspetterebbe in un luogo di dolore, ma una tempesta di ironie e battute in cui l’irritante medico mette a nudo i loro limiti e le loro ipocrisie. «Tutti i pazienti mentono». Un’altra peculiarità della serie televisiva è un nuovo ritratto del degente ospedaliero. O meglio, l’immagine che House, pur chiuso in un individualismo spinto, è riuscito a farsi del malato. Il malato è come un criminale che non vuole confessare e che bisogna torchiare, sapendo che tutto quello che rivelerà è falso. Il paziente è sempre colpevole. Nella maggior parte dei casi, la malattia è il risultato di qualche suo comportamento sbagliato di cui si vergogna, o che non vuole ammettere. Una tossicodipendenza consapevole È una delle prime volte che in televisione la malattia viene rappresentata come una conseguenza di negli- L’autore Stefano Pisani è giornalista scientifico free lance [email protected] un drogato in più di una occasione, ma non parla di questa sua condizione come di un problema da superare. Il Dr House visto dai medici veri Le avventure di un geniale medico tossicodipendente, bello e dannato senza essere bello, hanno avuto chiaramente un impatto mediatico inimmaginabile su spettatori e classe medica, rappresentando, probabilmente, un’umanizzazione estremistica della categoria. Cosa pensano i medici al di qua dello schermo, di questo loro eccentrico collega? La serie americana si avvale della consulenza di molti specialisti che hanno rivelato di aver contribuito alla sceneggiatura ispirandosi a casi (estremi) che hanno realmente incontrato. In Italia, al doppiaggio collabora un docente universitario romano. È di poco tempo fa il risultato di un sondaggio sul gradimento dei serial ospedalieri da parte dei veri camici bianchi. I medici avrebbero promosso a pieni voti tutti i telefilm ambientati i corsia e ci sono addirittura dottori che si ritrovavano ogni venerdì sera per la visione di Dr. House, formando dei veri e propri gruppi d’ascolto. Secondo uno di questi dottori, il motivo d’attrazione di serie come Dr. House risiederebbe nel «fascino del camice bianco e nella possibilità di sognare un po’, che accomuna tutte le fiction». Come giudicare però alcune frasi di House come «Si può vivere con dignità, non morire con dignità. La morte fa schifo» che a volte sembrano tentativi di risolvere il rebus della propria esistenza? House è un medico geniale e di successo, ma è profondamente depresso. E qualche volta è anche stanco e annoiato da tutto. Proprio come recita la lista degli effetti collaterali dell’abuso da idro codone. Stefano Pisani la settima arte genza o avventatezza del malato. E in questo House non è da meno: è un medico ma è anche doppiamente malato. Per un incidente alla gamba subito qualche anno prima è costretto a deambulare con un bastone, e di questo non si può fargliene una colpa; ma è anche un tossicodipendente, avendo maturato negli anni una dipendenza da analgesico. Il dolore alla gamba è infatti costante e insopportabile per colpa della diagnosi che, all’epoca dell’infarto, arrivò troppo tardi e causò la necrosi di alcuni tessuti muscolari poi asportati. House, contro ogni parere medico, da quel momento assume quantità incommensurabili di un antidolorifico oppiaceo (idrocodone) realmente esistente, che in Italia non è in vendita. Negli Stati Uniti è prescritto solo per i dolori cronici perché, appunto, è un farmaco che induce assuefazione. House ammette di essere 117 I racconti dell’isola che… c’è Un cane che va a trovare il suo padrone in fin di vita e che lo risveglia. Una moglie che vuole cucinare i gamberoni, piatto preferito del marito malato. La decisione di sposarsi nonostante tutto. Nel ricordo di un medico dell’unità Cure palliative di Livorno, alcune storie legate all’esperienza delle persone (malati, medici, familiari, infermieri) che ogni giorno hanno a che fare con il dolore sia fisico che morale. Sirio Malfatti La medicina raccontata Medici, infermieri e altri professionisti sanitari curano. I migliori fra di loro si prendono anche cura dei pazienti. Così facendo, vengono coinvolti in rapporti personali intensi e si trovano a conoscere vicende umane singolari. Da questo potrebbero trarre ispirazione, se fossero scrittori, per un romanzo. O almeno per un breve racconto. Già, se fossero scrittori... Ma qualche volta, pur senza esserlo, anche a loro vien voglia di deporre il bisturi o la siringa e di prendere in mano la penna. I l mondo ospedaliero è, per sua natura, luogo di dolore. Ma al suo interno, anche in un piccolo reparto di una qualunque città, possono verificarsi episodi che restano impressi nell’anima di tante persone. La sofferenza altrui non è certo un bel fardello da portarsi addosso e, forse per autodifesa, si tende a dimenticare queste storie, piccole o grandi che siano. Ma se rievocare significa essere più consapevoli e disponibili ad accogliere il prossimo, allora io voglio tenere a mente ogni cosa: 118 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria l’esperienza di incontrare persone che hanno bisogno di conforto morale, di sollievo fisico, è sempre viva. Il reparto di Cure palliative di Livorno è una di queste piccole isole nell’oceano della sofferenza in cui il dolore, però, è alleviato dal sostegno e dall’amore reciproco. Un gran salto Gino, un uomo ancora giovane, a causa di un tumore al cervello passava quasi le nella mia memoria. Prima che io o gli infermieri potessimo fare un solo piccolo gesto, King aveva spiccato un balzo sul letto, con le zampe allargate, come fosse un grande abbraccio, e si era sdraiato su Gino leccandogli il viso. Questi si svegliò e solo chi ha visto la sua espressione può capire quanto forte e invincibile sia l’energia e la capacità di affetti che ancora racchiude in sé una persona infinitamente provata dalla malattia. La cucina è a vostra disposizione Nell’hospice si cercano di condividere tante cose. Lo scopo è quello di vivere come in una famiglia, dove il dolore degli altri appartiene a tutti, dove la disponibilità del personale è fatta di professionalità e insieme di umana partecipazione. Tra le tante piccole cose che diciamo alle famiglie quando giungono un po’ stupite e a volte con gli occhi sgranati, come «questa camera è tutta per voi, se volete potete dormire accanto al vostro caro, […] potete entrare a ogni ora, abbiamo una psicologa per un colloquio, se lo deside- rate», ve n’è una che è sempre molto apprezzata: «La cucinetta è a vostra disposizione, se volete cucinare qualcosa di semplice per lui». In realtà l’uso principale che ne viene fatto è per riscaldare qualcosa che è già stato preparato a casa. Caffè caldo, tè e gelati non mancano mai, sono sempre lì. Questi malati hanno già perso molte cose, e tra queste vi è anche l’appetito, è difficile che chiedano qualcosa che già non c’è. Finché un giorno entrò da noi l’anziano Giovanni, un uomo simpatico che giaceva fermo a letto, sempre sorridente, con una moglie forte e decisa che gli stava sempre accanto e non si stancava mai. «Dottore, allora posso usare la cucina? Vuole il suo piatto preferito…». «Faccia pure» le risposi, ben sapendo che l’avrebbe appena annusato. L’indomani, verso mezzogiorno, mentre visitavamo i pazienti in ambulatorio, un fortissimo odore di gamberoni si sparse per il reparto e per i piani vicini. Gli infermieri della pediatria, al piano sotto, vennero su curiosi e preoccupati. I familiari dei nostri ricoverati chiedevano: «C’è pesce oggi, eh?». la medicina raccontata tutto il giorno in uno stato di profondo sopore. Poi, sia per le terapie che cercavano di ridurre la pressione all’interno della scatola cranica, sia per la musicoterapia che aveva risvegliato in lui quella piccola parte ancora sana dei ricordi e delle emozioni, era tornato tra noi. La musicoterapeuta gli proponeva le canzoni di Elvis Presley che tanto amava, e lui spesso aggiungeva la sua voce. Gino era stato un esperto allevatore di cani e un giorno si disse triste perché da tanto non vedeva il suo cane. «In hospice è possibile» gli fu risposto, e così ci preparammo alla visita di quel nuovo amico. Quando King arrivò, nel pomeriggio, appariva un po’ inquieto e timoroso. Per igiene gli furono messi alle zampe dei calzini nuovi e fu accompagnato nella stanza. Entrò nella camera. Il suo padrone dormiva profondamente. Il cane in un primo tempo non sembrò accorgersi della sua presenza. Poi, arrivato di fianco al letto, annusò la mano penzolante dell’uomo e in un attimo accadde una scena la cui immagine è indelebi- 119 Lei, l’anziana moglie, entrò fiera da Giovanni con quel pentolino fumante. «È squisito, dottore, Gina è speciale» e li mangiò veramente. Ma gli sarebbe bastato anche solo l’odore, e la ripetizione di un gesto d’affetto al quale era stato sempre abituato. Chi ebbe la fortuna di essere di turno quel giorno li trovò meravigliosi. Nella sala grande dell’hospice è stato celebrato anche il matrimonio di una coppia che stava insieme da anni. Lui portato con il suo letto, lei in piedi al suo fianco: « […] Ed ora siete marito e moglie». Sì, il nostro reparto è un luogo di dolore perché va Infine tutti coloro che incontrano l’hospice, parenti o amici dei pazienti, verificando l’esistenza di una medicina diversa, più a misura d’uomo, forse possono cambiare in qualche modo il loro impegno sociale. Una vecchietta, visitando Mi domando spesso che cosa stia pensando chi sta per arrivare da noi. Certamente la speranza che qualcuno Vuoi tu sposare… Nell’hospice avvengono cose difficili a realizzarsi in altre parti dell’ospedale. E non solo perché qui ogni malato ha tutta una stanza a sua disposizione. No, il motivo principale è che da altre parti proprio non si pensa che sia possibile festeggiare un compleanno con torte e musica, o portare bambini piccolissimi a visitare genitori o nonni ricoverati. O addirittura far entrare animali. Non ci pensano né i pazienti, né i familiari, e non lo propone di certo il personale sanitario oberato da così tanta mole di lavoro. Chi invece ha visto accadere queste cose, sa il valore che hanno avuto per chiunque vi abbia partecipato. riesca a lenire i suoi dolori. E che i suoi familiari possano stargli sempre vicino. Poter riposare, poter dormire in scena la sofferenza dell’uomo. Eppure per le esperienze di quasi quaranta anni in ospedale, penso che un atteggiamento di grande condivisione, solidarietà e attenzione per tutti i bisogni della persona, cercando di dare valori dove sembra che non ve ne siano più, porti anche altri frutti. Serenità per i familiari: ora sanno che è stato fatto di tutto per alleviare le sofferenze dei loro cari e vi sarà una migliore accettazione della perdita. Maturazione per il personale sanitario, attore in queste esperienze umane e professionali di alto impegno emotivo e relazionale. 120 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria spesso un parente ricoverato da noi, disse: «a star qui vien voglia d’aiutare tutto il mondo». Dottore, mi creda Quando riteniamo di aver visto tutto quello che c’è da vedere, quando pensiamo che qualunque cosa succeda siamo pronti ad affrontarla e a trovarne la spiegazione, l’essere umano apre la sua anima e ti mette davanti, con semplicità, una verità che ti confonde, che non avresti mai potuto immaginare. Un signore di mezza età, con malattia molto avanzata, era assistito con pazien- nostro viaggio di nozze». Avevano vissuto il breve intenso periodo degli addii, della conferma finale della loro dichiarazione d’amore, della rievocazione delle passioni e dei sogni, di tutto ciò che non riusciamo ad apprezzare quando lo abbiamo. In un luogo che accoglie e rispetta, è possibile che avvenga anche questo. Un letto vuoto Camere sempre pulite, tenute come fossero quelle di casa, e anche di più. Camere sempre occupate, sono molte le persone che hanno bisogno di noi. Eppure, di tanto in tanto, una camera libera, un letto vuoto. Qualcuno è tornato a casa, assistito là dalla famiglia e dal personale della domiciliare, tra le sue cose, tra i ricordi più cari. Molti altri hanno lasciato quel letto che è stato l’ultimo della loro vita. Eppure il pensiero di tutti è già proiettato in L’autore Sirio Malfatti è medico nell’Ospedale di Livorno e coordinatore del locale Comitato etico; lavora nell’Hospice per malati terminali [email protected] avanti: chi verrà? La speranza è sempre la stessa: che non sia un giovane. È più doloroso assistere e stare vicino a qualcuno che potrebbe essere nostro figlio o nostro fratello, la sua sofferenza appare più ingiusta, quello che ci porteremo via a fine turno sarà difficile scollarcelo dalla mente. Ma siamo qui, come tutti coloro che svolgono questo “mestiere”, a cercare di mantenere quel sereno equilibrio che ci consente di lavorare bene in gruppo e dare agli altri il meglio di noi. Mi domando spesso che cosa stia pensando chi sta per arrivare da noi. Nell’ambulanza o nella lettiga che lo porta, quali domande, quali speranze? Certamente la speranza che qualcuno riesca a lenire i suoi dolori. E che i suoi familiari possano stargli sempre vicini. E che girando gli occhi intorno a sé non debba vedere il dolore di altri malati. Poter riposare, poter dormire. Scoprire di sognare di nuovo. Avere intorno chi voglia ascoltarlo, perché vuol raccontare chi è stato. Poter sorridere al sorriso degli altri. Sapere che c’è chi si prende cura dei suoi. Ed essere certo, infine, che le sue scelte la medicina raccontata za e assiduità dalla moglie. Lei tutte le notti spostava il letto accanto all’altro, e in quella alcova quasi matrimoniale dormivano dandosi la mano. Le cure erano riuscite a togliere i dolori, e lui restava lucido e comunicativo anche se ogni giorno, insensibilmente, diveniva sempre più debole. Lei mostrava calma e grande coraggio: queste doti della donna sono fondamentali quando l’uomo è malato perché gli comunicano quella forza che da solo è molto difficile avere. Inesorabilmente la malattia avanzò e dopo quasi due settimane di ricovero egli si spense. Mi trovai da solo con la moglie, sedemmo nella sala grande. Scendevano delle lacrime dai suoi occhi, eppure non dava la sensazione di piangere. Mi guardò, non vidi tristezza. «Dottore, mi creda, anche se per lei sarà difficile capirlo, per me questi giorni passati qui con lui sono stati i più belli dopo il 121 sono quelle che guideranno le nostre. Non preoccuparti, in quel letto vuoto sto per ricoverarmi io. Un giorno ancora Non ne sono scientificamente dimostrati il perché e il come, ma è noto che quando questi malati hanno una scadenza importante da aspettare, arrivano in molti al traguardo, anche contro ogni nostra previsione più rosea. Il matrimonio della figlia, una laurea, un nipotino che sta per nascere… quante volte abbiamo discusso con i familiari se era il caso di anticipare le date che potevano essere spostate. L’attesa gioiosa ed emozionante di questi eventi crea nell’animo e nel fisico provato di queste persone per saperne di più Le storie presentate in questo articolo sono tratte dal libro Storie dalla piccola isola di Sirio Malfatti (Associazione Cure palliative Livorno). www.curepalliativelivorno. org qualcosa di speciale. Il quotidiano ripetere: «allora ci siamo, eh? Si sta per diventare nonni […] ehi, allora siamo tutti d’accordo, la sposa, dopo la cerimonia, sarà qui a mezzogiorno, ci saremo anche noi». E i preparativi della famiglia, anche se soffici e ovattati, trasmettono a questo stanco attore principale una speciale forma di serena energia. Che cos’è? Non lo so, la scienza studia cose più concrete, non queste. Ma anche qualcos’altro si modifica, e il perché è più comprensibile. L’evento, per tutti coloro che vi partecipano, acquista un valore più profondo, perde tutti i suoi rami inutili e accessori. Il suo significato e il suo svolgimento divengono essenziali. Tanti arrivano a questi traguardi, ma gli altri? Chi non ce la fa? Forse sono altrettanti, e molti familiari vivono con tristezza uno degli eventi più importanti della loro vita, perché il loro caro non è più con loro. Forse, quando uno dei nostri malati riesce a vivere queste esperienze, la nostra gioia ci fa dimenticare tutti quelli che hanno dovuto abbandonare la corsa. 122 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria L’energia per andare avanti L’hospice, questa piccola isola, contiene tante altre storie di vicende umane che è opportuno restino solo nel ricordo di chi le ha vissute. Spesso i parenti di chi non c’è più tornano per un saluto, per rievocare, per aiutare con una donazione la nostra associazione Cure palliative. Ogni loro visita rinforza in noi la consapevolezza, già forte, dell’importanza di ciò che è stato fatto e dà nuove energie e fantasie per un impegno ancora maggiore. Sirio Malfatti Figli di un dio attore Emmanuelle Laborit, parigina, vuole abbattere l’isolamento in cui è costretta dalla sordità. Ci riesce grazie al teatro: sul palco il suo modo di esprimersi, come quello degli altri attori non udenti, non risente del silenzio, e la comunicazione è rivolta in modo uguale a udenti e non udenti. La sua arte permette agli spettatori di raggiungere un livello superiore di comprensione, e arriva perfino a eseguire «musica senza suoni». Stefania Santoro U Il teatro è nato per esprimere le passioni più forti dell’uomo, le sue domande fondamentali e il suo destino. In una società dove l’alfabetizzazione non era capillare, era lo strumento ideale per rivolgersi a tutti. Al giorno d’oggi Melpomene, la musa della tragedia, parla a gente diversa, in un contesto diverso e in modi diversi, ma rimane sempre l’interlocutrice privilegiata della parte più profonda dell’anima. un linguaggio, quello del corpo, unico nella sua universalità e nel suo potere comunicativo, che trova nel teatro la sua massima espressione. Come ogni categoria artistica, anche il teatro dei sordi ha una sua star: è Emmanuelle Laborit, una trentacinquenne parigina la cui storia è nota al grande pubblico tramite la sua autobiografia Il grido del gabbiano. Sorda dalla nascita, riesce ad abbattere l’isolamento dovuto alla sua disabilità grazie al teatro. Le grida del gabbiano la voce di Melpomene La voce di Melpomene n viaggio tra le emozioni del silenzio. È il teatro dei sordi, attori che non hanno voce ma hanno tanto da raccontare. Con le mani, con il corpo, con il volto mettono in scena commedie e drammi come gli «udenti non li hanno mai visti». Così il teatro diventa il luogo d’elezione per l’incontro tra due mondi isolati: i non udenti hanno l’attenzione di chi non li può ascoltare; gli udenti scoprono un mondo che altrimenti non potrebbero vedere. Lo rende possibile 123 sono i versi con cui lei, sin da piccolissima, provava a esprimersi: forti e graffianti per la rabbia di non essere compresa, per quella solitudine opprimente a cui era costretta. La liberava dizio: solo l’acquisizione della lingua parlata le avrebbe permesso una vita più normale, l’avrebbe aiutata ad avvicinarsi agli altri, a comprenderli, a uscire dall’isolamento. Ma non Crescendo Emmanuelle impara a convogliare le sue energie in un sogno possibile: diventare un’attrice. Ha il talento per fare carriera sul palcoscenico, e il successo è coronato nel 1993 dal premio Molière dall’isolamento il dialogo possibile, istintivo e gestuale, con la madre: essenziale ma intimo e vero. Il sogno di Emmanuelle Essere sordi non significa però essere condannati alla solitudine: c’è una speranza, ed è il linguaggio dei segni. Emmanuelle conosce questa realtà a sette anni; fino ad allora il padre non aveva considerato questa possibilità perché condizionato da un pregiu- era così: la sua disabilità rendeva la sua vita diversa da quella degli altri, e solo trovando un modo diverso di comunicare avrebbe potuto avere una vita normale. Così Emmanuelle trova il modo di essere e sentirsi uguale agli altri come essere umano, ma diversa come modo di vedere le cose, come lingua, come cultura. Ed ecco che il “gabbiano”, volteggiando con le sue mani nell’aria, tira fuori tutto il suo mondo, per anni nascosto nel buio dell’incomunicabilità. L’autrice Stefania Santoro, master in Comunicazione e divulgazione scientifica, Università Federico II, Napoli [email protected] 124 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria Non molti udenti però conoscono il linguaggio dei segni. La presenza di questa barriera alla comunicazione la ferisce e la inquieta, e la sofferenza si esprime in atti di ribellione che, non trovando comprensione, la rendevano sempre più indisponente e provocatrice. Ma la svolta è dietro l’angolo, o meglio dietro le quinte. Crescendo Emmanuelle impara a convogliare le sue energie in un sogno possibile: diventare un’attrice. Ha il talento indispensabile per chiunque voglia fare carriera sul palcoscenico, e il successo è coronato nel 1993 dal premio Molière per la sua interpretazione in Les Enfants du silence, versione francese dell’opera teatrale di Mark Medoff Figli di un dio minore. Nel teatro Emmanuelle trova anche qualcosa di più di una strada per liberare le sue abilità dall’ombra della disabilità: il palco è lo spazio che gli permette finalmente di andare oltre i confini che la separano dal mondo degli udenti. In teatro Emmanuelle, e come lei tutti gli attori non udenti, hanno un’occasione unica: sono oggetto di attenzione non per la loro disabilità, ma perchè chia- mati a esprimere il loro autentico sé. Un livello di comprensione superiore per saperne di più E. Laborit, Il grido del gabbiano. Rizzoli, Milano, 1995. M. Medoff, Figli di un dio minore. Mondadori, Milano, 1992. Musica senza suoni Tra il pubblico c’è stata una prevalenza di udenti, probabilmente perché più abituati ad andare in teatro; ma lo scopo di Emmanuelle è soprattutto quello di raggiungere i non udenti, di farli uscire dall’isolamento che lei stessa ha vissuto prima di incontrare il teatro. In programma all’ International Visual Theatre Atti senza parole di Beckett, Les Fables de la Fontaine, ispirato alle favole dello scrittore francese, Racconti di donne di Dario Fo e Franca Rame e Le grand cahier di Agota Kristof. Ma anche Inoui Music Hall, una rivista di canzoni nella lingua dei segni. Sì, canzoni, perché per i sordi è possibile anche la musica: adagi e andanti, modulati non da suoni ma dalla sinuosità e dall’armonia ritmica dei movimenti del corpo nello spazio e nel tempo. La melodia fa da cornice a significati poetici, creati con la distorsione dei gesti “canonici”; rime e assonanze nascono dall’esecuzione di ripetitività “sonore” all’interno delle frasi attraverso l’alternanza o la sovrapposizione dei segni creati da ciascuna mano. Tutto in un linguaggio per sua natura estremamente descrittivo e concettuale che sorprende il pubblico udente per la ricchezza di significati e di sfumature: per una volta la mancanza delle parole non si sente. Stefania Santoro Nella rubrica “la voce di Melpomene” su Janus 25, Antonello Panero è stato chiamato, per errore, Alessandro. Sebbene ci abbia perdonato, ci scusiamo con lui e con i lettori. la voce di Melpomene Pensieri e desideri dell’uomo non possono restare inespressi solo perché non si ha la possibilità di comunicarli nelle modalità in cui sono comunemente ascoltati. È il messaggio che vuole diffondere Emmanuelle, che quest’anno vedrà concretizzare il suo sogno: trovare una sede permanente per l’International Visual Theatre, teatro fondato a Parigi nel 1976 per promuovere l’uso del linguaggio dei segni. Con la sua caparbietà è riuscita a ottenere dal governo francese i fondi per restaurare un vecchio teatro a Pigalle dove ha allestito un cartellone davvero innovativo. Per la prima, la compagnia ha scelto K. Lear, un adattamento in lingua dei segni della tragedia shakespeariana. Per gli udenti il linguaggio dei segni viene tradotto a voce o attraverso proiezioni su uno schermo alle spalle degli attori. Ma ci sono monologhi non tradotti, attimi di silenzio in cui lo spettatore udente si perde. Nell’emozione dello smarrimento il pubblico udente scopre un livello di comprensione superiore che lo riporta sul filo della storia con una sensibilità nuova. 125 Disuguaglianze sanitarie: nessuna nuova, brutte nuove Pietro Greco L’ Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato il World Health Statistics 2007, il quadro statistico della sanità nel mondo. Il rapporto, che è giunto alla terza edizione, offre dati sempre più omogenei, ma non segnala particolari novità. E a ben vedere la notizia è proprio questa. Le disuguaglianze sanitarie nel mondo sono enormi – come dimostrano i 47 anni di differenza che corrono tra la vita media di un maschio della Sierra Leone (39 anni) e quella di una donna in Giappone (86 anni) – e non accennano affatto a diminuire. Janus ha già avuto modo, anche di recente, di soffermarsi su queste inaccettabili health inequalities, le disuguaglianze rispetto al diritto universale alla salute. E ancora ci ritornerà in futuro. Purtroppo – e non certo per colpa sua – il World Health Statistics 2007 non ci fornisce dati nuovi. Ci offre, tuttavia, la possibilità di confrontare con dati omogenei le differenze tra i vari Paesi. Compresi i Paesi più ricchi del mondo, la cui popolazione ha raggiunto una condizione sanitaria davvero invidiabile, almeno dal punto di vista delle persone che vivono nei Paesi più poveri. Prendiamo, per esempio, i Paesi del G7: Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Le performance, almeno sui numeri di fondo, sono abbastanza simili. Eppure ci sono differenze significative, in termini di efficienza, che, anche se da tempo conosciute, vale la pena sottolineare. Tra i sette, il Paese che offre i risultati più brillanti è il Giappone: per esempio, 79 anni di vita media per i maschi, 86 per le donne, una mortalità infantile di 3 ogni 1000 nati vivi. Al secondo posto l’Italia: 78 anni di vita media per i maschi, 84 per le donne, una mortalità infantile pari a 4. All’ultimo posto nel G7 per tutti questi parametri gli Stati Uniti: una vita media di 75 anni per i maschi (2 anni in meno della media del G7); di 80 anni per le donne (quasi 3 anni in meno rispetto alla media del G7); una mortalità infantile di 7 ogni 1000 nati vivi (quasi 3 vite perse in più rispetto alla media del G7). Gli Stati Uniti sono ultimi nel G7 per mortalità dovuta a malattie croniche (460 ogni 100.000 abitanti, contro una media di 398) e penultimi per morti da incidenti (47 ogni 100.000 abitanti, contro una media di 36). Sono ancora ultimi per incidenza del contagio da Aids tra persone adulte (508 ogni 100.000 abitanti contro una media inferiore di 230). 126 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria Certo, la condizione sanitaria media dei cittadini negli Usa è incredibilmente alta rispetto alla media mondiale. Tuttavia è costantemente in coda alla media di quell’universo piccolo e privilegiato rappresentato dai Paesi del G7. Condizione che viene solo in parte confermata dai dati che riguardano i servizi sanitari. Se infatti gli Stati Uniti sono ultimi nel G7 per numero di posti letto ospedalieri ogni 1000 abitanti (33, contro i 40 dell’Italia, i 75 della Francia, gli 84 della Germania e i 129 del Giappone), sono nella media per numero di medici ogni 1000 abitanti (2,56: un dato inferiore rispetto ai 3,37 di Francia e Germania e ai 4,20 dell’Italia, prima assoluta, ma superiore agli 1,98 del Giappone). Strano caso, questo del Paese asiatico: l’arcipelago nipponico vanta la minore presenza relativa di medici tra i Paesi del G7 e le maggiori performance sanitarie del mondo: è evidente che i risultati in fatto di salute non dipendono – non in maniera lineare almeno – dalla quantità di medici presenti sul territorio, quanto piuttosto dall’organizzazione sanitaria. E il quadro economico sembra dimostrarlo, in maniera addirittura clamorosa. Gli Stati Uniti sono ultimi per efficienza nel G7 pur essendo di gran lunga primi nella spesa: spendono in sanità il 15,4% della ricchezza che producono ogni anno, contro il 10,6% della Germania, il 10,5% della Francia, il 9,8% del Canada, l’8,7% dell’Italia, l’8,1% del Regno Unito e addirittura il 7,8% del Giappone. La spesa pro capite di un americano è di 6096 dollari all’anno, contro i 3171 di un tedesco, i 2414 di un italiano e i 2293 di un giapponese. È ultim’ora vero che la struttura della spesa è radicalmente diversa: gli Stati Uniti sono l’unico Paese del G7 dove la spesa privata in sanità (55,3%) supera quella pubblica (44,7%), mentre in tutti gli altri Paesi la spesa pubblica è pari o superiore al 70%, o addirittura all’80% in Giappone e nel Regno Unito. Eppure anche lo Stato negli Stati Uniti spende di più che in ogni altro Paese del G7: 2725 dollari all’anno a persona, contro i 2440 in Germania, i 2382 in Francia, i 2215 in Canada, i 2209 nel Regno Unito, i 1864 in Giappone. Lo Stato italiano, contrariamente a quanto si crede, con 1812 dollari per cittadino all’anno è quello che spende di meno nel G7. Ancora una volta ci troviamo di fronte a una situazione in apparenza paradossale: i peggiori risultati tra i Paesi avanzati sono ottenuti dal Paese che spende di più, sia nella sanità privata sia in quella pubblica. Paese che, per giunta, è il più ricco in assoluto e dotato del migliore sistema di ricerca scientifica del mondo. Mentre i risultati migliori sono ottenuti dai Paesi che investono di meno (Giappone e Italia). Perché? Le accurate statistiche del World Health Statistics 2007 non ce lo dicono. E per trovare una risposta ben fondata converrà indagare più in profondità. Tuttavia almeno due dubbi sono legittimi: non è che negli Stati Uniti, come in moltissimi Paesi del Terzo e del Quarto Mondo, l’inefficienza è dovuta alla mancanza di un sistema che pianifica e coordina sull’intero territorio nazionale le attività sanitarie, garantendo a tutti il diritto alla salute, a prescindere dal reddito e sulla base del principio di equità? E non è che questi dati debbano indurre quantomeno a un supplemento di riflessione coloro che in Italia chiedono sia ulteriori di tagli dei fondi pubblici per la salute sia un maggiore tasso di “federalismo sanitario”? 127