janus istituto giano comitato scientifico

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janus istituto giano comitato scientifico
trimestrale, anno VII numero 26
janus
comitato scientifico
DIRETTORE
Sandro Spinsanti
Luisella Battaglia
Docente di bioetica e filosofia morale, Genova
DIRETTORE RESPONSABILE
Pietro Greco
Giorgio Bert
Cardiologo, esperto di counselling medico, Torino
DIRETTORE EDITORIALE
Eva Benelli
Vito Cagli
Specialista medicina interna, Roma
E RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI
REDAZIONE
Margherita Martini
Paolo Gangemi
Gilberto Corbellini
Istituto di storia della medicina,
Università La Sapienza, Roma
COPERTINA E ILLUSTRAZIONI
Mitra Divshali
Giorgio Cosmacini
Storia della medicina e della salute,
Università Vita-Salute, Milano
PROGETTO GRAFICO E
Corinna Guercini
IMPAGINAZIONE
© ZADIGROMA EDITORE
Via Monte Cristallo 6, 00141 Roma
Tel. 068175644
[email protected] www.zadigroma.it
STAMPA
Tipografia Graffiti, Via Catania 8, Pavona (RM)
istituto giano
DIRETTORE
Sandro Spinsanti
Gianfranco Domenighetti
Dipartimento servizi sociali del Canton Ticino
Alessandro Liberati
Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Paola Luzzatto
Arteterapia, Genova
Felice Mondella
Filosofia della scienza, Università di Milano
Alberto Oliverio
Istituto di neuroscienze, Cnr di Roma
Alberto Piazza
Ordinario di genetica umana, Università di Torino
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
Stefania Santoro
Claudio Rugarli
Ordinario di medicina interna,
Università Vita-Salute, Milano
Via Buonarroti, 7 00185 Roma
Tel. 06 7725 0540 [email protected]
Roberto Satolli
Agenzia di giornalismo scientifico Zadig, Milano
Pubblicazione trimestrale
Singolo numero 16,00 Euro (arretrati 20,00 Euro)
Abbonamento annuale 55,00 Euro
c/c postale n. 38909024 intestato a Zadigroma srl
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Spedizione in abbonamento postale – Poste Italiane
S.p.A. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46)
art. 1 comma 1 Dcb – Roma
Finito di stampare nel mese di giugno 2007
Annalisa Silvestro
Presidente Federazione Nazionale Collegi IPASVI
Giovanna Vicarelli
Docente di Sociologia dell’organizzazione, Ancona
Paolo Vineis
Docente di epidemiologia, Università di Torino
Franco Voltaggio
Storia della medicina, Roma
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Non si rilasciano quindi fatture (art. 1. c. 5 DM 29/12/1989).
05
CARO DIRETTORE
07
EDITORIALE
IL FUTURO DEL PRESENTE
UNIVERSO
MH
12 Scene di lotta di classe nella sanità
italiana
Interventi di: • Francesco Germini e
Pio Lattarulo • Giovanna Vicarelli
19 Il comitato etico? Noi lo usiamo così
Interventi di:
• Americo Sbriccoli • Warren Reich
23 La volontà del paziente ha una data
di scadenza?
Mauro Angarano
26 Evolution based medicine
Gilberto Corbellini
32 Screening: c’è posta per te
Valentina Arcovio
57 Un’epidemia di diagnosi
sta medicalizzando il mondo
Gianfranco Domenighetti
63 Che genere di disturbo? Un disturbo
di genere
Stefano Pisani
67 Quale rimedio per il male oscuro?
Stefania Santoro
71 Il benessere del corpo passa per l’estetica?
Valentina Arcovio
75 Predire, prevenire e curare:
tre cose diverse
Antonio Panti
77 Quando gli unici confini sono i nostri
desideri
Thomas Murray
IL CASO
34 Se il farmaco viene prescritto dal governo
Commenti di: • Gabriele Greco
• Alessandra De Palma • Sandro Spinsanti
L’OBIETTIVO:
Quando la medicina cura i sani
41 La medicina che gioca di anticipo
Roberto Satolli
44 Cesareo: diamoci un taglio
Paolo Gangemi
48 Sport e medicina: non solo doping
Francesco Sala
53 Bambini geneticamente modificati
Margherita Martini
A PIÙ VOCI
80 Il controllo della fertilità di Carlo Flamigni
Lettura critica di:
• Chiara Lalli • Andrea Borini
• Walter Domeniconi
87 Benvenuti al Grand hotel Suicidio
Franco Toscani
91 Storie di cancro a fumetti
Bruno Antonini
IL PROFITTO DELLA MEMORIA
Religio medici
96
Direttive anticipate, ieri e oggi
Daniel Sulmasy
Attualità dei maestri
103 L’Igiene è uguale per tutti
Donatella Lippi
Il ginnasio filosofico
107 Pensare il Sé per pensare la salute
Fernando Rosa e Alessandra Parodi
La settima arte
114 Dr House: il cinico medico malato
Stefano Pisani
La medicina raccontata
118 I racconti dell’isola che… c’è
Sirio Malfatti
La voce di Melpomene
123 Figli di un dio attore
Stefania Santoro
Ultim’ora
indice
126 Disuguaglianze sanitarie:
nessuna nuova, brutte nuove
Pietro Greco
Ecm e medicina
narrativa: assolti…
con vendetta
to infatti che i crediti
sono stati concessi,
in numero di quattro. Perché quattro?
La giornata, di otto
ore formative, prevede momenti di discussione di casi, lavori di gruppo, simulazioni, ed è condotta da alcuni dei
professionisti che si
sono maggiormente
interessati alla medicina narrativa in
Italia. Comunque,
da anni la prassi
consolidata, al di là
di qualsiasi verifica
di qualità degli
eventi, è l’equivalenza 1 ora = 1 credito.
Per noi, un’ora equivale a 0,5 crediti.
Perché?
Cercando di non fare
supposizioni paranoiche, chiediamoci
perché non riusciamo a liberarci di un
sistema incongruo,
offensivo, miope, che
trasforma l’organizzazione di iniziative
formative in una gara a ostacoli assurda, e i crediti formativi in una specie di
sorpresa da uovo di
Pasqua.
Un altro esempio?
Abbiamo chiesto l’accreditamento di un
corso di due giorni,
assoluta fotocopia di
un altro, accreditato
due anni fa con 18
crediti.
Questa volta i crediti
sono solo 16. Che la
qualità degli eventi
abbia una data di
scadenza come i surgelati? O forse, semplicemente, non c’è
nessuna logica, nessuna ricerca di qualità, nessun tentativo di valutare veramente quale formazione viene offerta ai
professionisti?
Chi avesse tempo e
voglia potrebbe aiutarci a raccogliere
esempi di eventi premiati con un alto
numero di crediti a
fronte di una palese
inconsistenza dell’offerta formativa:
viaggiando nel sito
Ecm non ci vorrà
molto a scoprirli,
specialmente verificando i luoghi di
svolgimento.
La caccia è aperta.
caro direttore
Caro direttore,
questo sui crediti
Ecm è uno dei casi in
cui una vicenda particolare può essere di
interesse per tutti.
Breve riassunto della
puntata precedente:
un incauto tentativo
dell’Istituto Change
di ottenere crediti
Ecm per una giornata di formazione sul
tema “La medicina
basata sulla narrazione”, rivolto ai medici interessati alle
medical humanities,
veniva prontamente
rintuzzato dai censori ministeriali, attenti a scoprire le
truffe e gli imbrogli
che, come sappiamo
tutti, fioriscono intorno al business
della formazione.
A un’attenta verifica
contabile emergeva
infatti che la quota
di iscrizione di 25
euro da noi richiesta
ai partecipanti sarebbe stata integrata,
per coprire le spese
organizzative,
da
misteriosi fondi neri
provenienti da… noi
stessi. Cosa si nasconde dietro questa
oscura manovra?
Ci vorrebbe il giallista Carlo Lucarelli
per scoprirlo; ma, a
scanso si equivoci, il
ministero sospendeva l’accreditamento
in attesa di argomentazioni (il ministero scrive la parola
tutta in maiuscole!)
in grado di fugare
ogni dubbio di illecito: gente che non solo
non riesce a farsi finanziare neanche
dalla più micragnosa delle industrie
farmaceutiche, ma
addirittura si paga
l’organizzazione di
un evento, deve avere
per lo meno losche
finalità. La diffusione della cultura fra i
medici, per esempio.
Abbiamo argomentato. Forse (lo ammetto) con un po’ di
polemica, anche se
mitigata da amici e
colleghi che hanno
tagliato qualche aggettivo qua e qualche
argomentazione là.
Siamo stati assolti.
Anzi, quasi assolti.
Ci è stato comunica-
Silvana Quadrino
5
C
he cosa c’è, oltre la salute? La risposta scanzonata, che definisce la salute come uno
stato di benessere provvisorio, dal quale non c’è da aspettarsi niente di buono,
sembra passata di moda. Ora la tendenza è piuttosto quella di enfatizzare la possibilità di aumentare la salute; vale a dire: oltre la salute c’è ancora più salute. Come se la
salute fosse equiparabile a un bene a quantità variabile: così come non si può mai dire di
essere sufficientemente ricchi (né sufficientemente magri, avrebbe aggiunto perfidamente Coco Chanel), allo stesso modo non si è mai abbastanza sani. Il potenziamento dell’essere umano: ecco il nuovo eldorado, terra di conquista della medicina. “Curare i sani” non
è un ossimoro; si tratta piuttosto dell’ultima trasformazione che sta attraversando la
medicina. Con una restrizione d’obbligo: stiamo parlando di ciò che avviene alle nostre
latitudini; nei Paesi che sono fuori dell’area dello sviluppo economico e del benessere, la
medicina è ancora confrontata con il compito primario di contenere le malattie, specie
quelle infettive, e di impedire che la morte tronchi vite umane troppo precocemente.
Il cambiamento più recente era stato la conquista dei non-pazienti (un-patients, in inglese): persone che non accusano sintomi né malesseri, ma che hanno solo la predisposizione ad ammalarsi. Senza essere attualmente presente, la malattia è almeno potenzialmente all’orizzonte delle storie personali degli un-patients. Con l’ultima mutazione, proponendosi di curare i sani, la medicina compie un ulteriore salto, se non di qualità almeno
di quantità: si annette un impero sul quale non tramonterà mai il sole. Quasi pazienti, o
potenzialmente pazienti, sono tutti. A qualificare questa nuova medicina troviamo ancora una volta una parola inglese: enhancement. È la medicina che ha come obiettivo,
appunto, di potenziare l’essere umano.
La trasformazione era già in atto quando, all’inizio degli anni Novanta, lo Hastings Center
di New York promuoveva la ricerca sugli scopi della medicina. Per tre anni, esperti di 14
Paesi si sono confrontati per chiarire la natura e gli obiettivi che la pratica medica dovrebbe proporsi. Nel rapporto finale, coordinato da Daniel Callahan (ne esiste anche una versione italiana: “Gli scopi della medicina: nuove priorità”, pubblicata su Notizie di Politeia
nel 1997), il «miglioramento umano» è chiaramente individuato come uno dei nuovi obiettivi che sovvertono la medicina così come l’abbiamo conosciuta e praticata per secoli:
editoriale
Miglioramento umano. La frontiera più grande, aperta e utopistica della medicina è
quella del miglioramento umano: si tratta di usare la medicina non solo per fronteggiare le patologie biologiche e per restaurare uno stato di normalità, ma anche per migliorare effettivamente le capacità umane – in una parola, di normalizzare e di ottimizzare.
Finora le nostre possibilità di perseguire concretamente questo obiettivo sono state
limitate, ed è possibile che tali rimangano. Tuttavia la prospettiva resta seducente. La
contraccezione moderna ha determinato una svolta drastica nella visione del ruolo
delle donne e della procreazione come componente dell’esistenza. La nuova frontiera
degli interventi genetici integra il quadro con una prospettiva di una manipolazione dei
caratteri umani fondamentali – tra i sogni avveniristici di cui si parla, ricorderò quello di
migliorare l’intelligenza e la memoria e quello di ridurre la violenza. Così la scoperta dell’ormone umano della crescita consente già ora di aumentare la statura di coloro che,
7
non essendo in partenza patologicamente bassi, desiderano però migliorare il loro
aspetto per ragioni personali o sociali. Qui, però, è importante notare che le possibilità
utopistiche di cambiare la natura umana probabilmente sono molto limitate, mentre i
progressi concreti e quotidiani realizzati sul terreno dell’istruzione e su quello farmacologico sono destinati ad esercitare un influsso più ampio e profondo.
Il rapporto insinuava il dubbio che tutti i miglioramenti che riscontriamo nelle ultime
generazioni rispetto alle precedenti dovessero essere attribuiti alla medicina: se siamo
più alti, più sani e più intelligenti, il merito va prioritariamente alla condizione di benessere in cui vive la parte dell’umanità che è privilegiata e al mutato stile di vita. Ma la
disponibilità della medicina a raccogliere il testimone e ad ampliare l’agenda dei suoi
compiti, aggiungendo il miglioramento della natura umana al curare e al consolare, è
totale. Alle esemplificazioni già presenti nel rapporto dello Hastings Center (controllo
totale della procreazione, miglioramento delle funzioni intellettuali mediante la genetica,
intervento sulle dimensioni del corpo favorendone la crescita in altezza), il nostro dossier
aggiunge altri capitoli: migliori prestazioni atletiche (Francesco Sala), modifiche delle
modalità della nascita (Paolo Gangemi), ampio uso dell’ingegneria genetica per eliminare nei bambini le caratteristiche ritenute negative e incentivare quelle positive
(Margherita Martini), interventi sul genere per persone che non si identificano con quello toccato loro in sorte dalla lotteria genetica (Stefano Pisani), modifiche farmacologiche
degli stati emotivi (Stefania Santoro), senza dimenticare gli innumerevoli interventi che,
in nome dell’estetica, vengono proposti dalla chirurgia e dalla medicina (Valentina
Arcovio). E l’elenco non è certamente esaustivo. Il contributo di Thomas Murray sull’enhancement propone il quadro d’insieme della medicina che cura i sani, ma solleva
anche i dubbi e le questioni di fondo che agitano chi questo genere di interventi medici
non si limita a consumarli.
Le riflessioni che ospitiamo in questo numero di Janus problematizzano il ruolo di maggior potere che in questo modo viene attribuito al medico (Roberto Satolli) e all’industria
farmaceutica che tira le fila di questa estensione della medicina (Gianfranco
Domenighetti); ci interroghiamo inevitabilmente anche sulle trasformazioni che subisce
la medicina, sia pubblica che privata, quando non si limita a curare e prevenire, ma si
propone di accrescere la salute (Antonio Panti).
La medicina che cura i sani fa emergere questioni ancora più gravi e impegnative.
Sappiamo che il confine tra salute e malattia, normale e patologico, è mobile: la cultura
(o piuttosto, le culture) lo influenza in modo determinante. Gli argomenti di chi ha voluto restringere l’ambito di legittimità della medicina alla sola cura delle patologie (escludendo, per esempio, gli interventi di fecondazione medicalmente assistita in quanto non
finalizzata alla cura) non sono mai risultati convincenti. Ma un conto è ridiscutere e
negoziare il confine tra salute e malattia, altra cosa invece è cancellarlo del tutto.
L’apparente allargamento del potere della medicina ha basi fragili: l’attività sanitaria
rischia infatti di essere assorbita dal mercato.
Ancora più intrigante è la questione che riguarda la natura umana. Proporsi di migliorar-
8
Janus 26 • Estate 2007
la è una trasgressione che
merita di essere punita
(secondo il concetto di hybris
elaborato dai poeti tragici
greci) o è piuttosto la vera realizzazione dell’umano? La tradizione umanistica ha evidenziato con molta enfasi la peculiarità dell’uomo di poter dare
forma alla sua stessa natura
(cfr. Simonetta Bassi: “La
grandezza dell’uomo è nella
libertà di scegliere la sua natura”, in Janus 25, primavera 2007, a commento della celebre
Oratio di Giovanni Pico della Mirandola Della dignità dell’uomo). E il miglioramento dell’essere umano è, da sempre, al centro di ogni cultura, oltre che di ogni progetto personale. L’enhancement, quindi, o potenziamento, è piuttosto sotto il segno della continuità
rispetto al migliore passato dell’umanità, e non un iniquo portato dei tempi nuovi. La
sfida con cui siamo chiamati a confrontarci è piuttosto la ricerca di criteri con i quali
orientarci tra le innumerevoli proposte che ci vengono rivolte. A meno che non siamo,
pregiudizialmente, orientati a respingerle in blocco o ad accettarle indiscriminatamente,
dobbiamo concordare criteri di discernimento: sia sociali (per distinguere le pratiche da
incoraggiare, quelle da tollerare e quelle da reprimere) sia etici. In mancanza di criteri
assoluti (come quello del rispetto di una natura umana definita una volta per tutte o il criterio della terapeuticità dell’intervento), ci rimangono quelli relativi e indiretti. I valori di
riferimento non mancano a un’etica razionale: possiamo domandarci se con questi interventi produciamo discriminazioni e disuguaglianze; se favoriamo un controllo della persona sul proprio destino (empowerment) o se promuoviamo una pericolosa concentrazione di potere in mano a individui o a organizzazioni. Non da ultimo, possiamo ricorrere a una delle eredità più preziose della saggezza distillata da secoli di esperienze e di
riflessione: la necessità di porsi dei limiti, come individui e come società. Anche la salute,
come la vita stessa, non è meno preziosa per il fatto di essere circoscritta da limiti che
possiamo estendere, ma non cancellare del tutto.
Sandro Spinsanti
editoriale
9
Il futuro del presente
12 Universo MH
34 Il caso
41 L’OBIETTIVO: Quando la medicina cura i sani
80 A più voci
Scene di lotta di classe
nella sanità italiana
Mario Pirani ha recentemente sostenuto su Repubblica la subordinazione gerarchica dell’infermiere al medico, innescando un’aspra polemica. In realtà, da anni la normativa stabilisce che non esistono più professioni sanitarie principali e ausiliarie, e la laurea in
infermieristica è solo la conseguenza di una crescita professionale. Il rischio, secondo
alcuni, è che alla dominanza medica si aggiunga quella infermieristica.
L’uomo che sussurrava ai baroni
Francesco Germini, Pio Lattarulo
«V
engo ai
fatti: da
che mondo è
mondo gli infermieri in corsia dipendono
da una (o un) caposala e
costei risponde al primario
e ai medici di turno»: lo
scrive Mario Pirani su
Repubblica del 23 aprile
2007, in un pezzo d’altri
tempi intitolato “Todos
Caballeros negli ospedali
italiani”. Pirani riferisce
con toni apocalittici di
«nuove nefandezze», definisce «aberrante far saltare
ogni principio di gerarchia
e responsabilità medica», e
12
parla di «ex infermieri in
cerca di poltrone», lasciando passare una clamorosa
artefazione della realtà
quotidiana, e cioè che gli
infermieri dipendono dal
medico di turno.
La vera scala gerarchica
La norma ha stabilito ben
altro, e non ci dovrebbe
essere bisogno di discuterne ancora dopo otto anni:
per gli effetti della Legge
42/99 non esistono più
professioni sanitarie principali e ausiliarie. La scala
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
gerarchica è “infermiere
clinico – infermiere coordinatore – responsabile infermieristico di dipartimento
– dirigente del servizio
infermieristico”. È chiaro
che per le questioni che
riguardano la parte clinica
interviene, in linea di
responsabilità, anche il
direttore della struttura di
appartenenza, e che esiste
sempre una direzione
medica a cui, se è il caso,
far capo. Sarebbe bene precisare che nelle aziende
esiste anche un top management rappresentato dalla
direzione generale e dai
suoi organi, e in Italia ci
sono tra pubblico e privato
diversi infermieri che ricoprono il ruolo di direttore
generale. Paventare ipotetici rischi legati all’affido di
un ruolo di responsabilità
agli infermieri significa
ingenerare ulteriore incertezza nelle persone assistite e nei loro familiari, in un
momento storico non semplice per la sanità italiana.
In tutti i sistemi sanitari dei
Paesi avanzati gli infermieri
ricoprono ruoli di grande
responsabilità, senza gli
effetti deleteri che Pirani
teme.
Chi mette il pappagallo
rea in medicina sono compresi anche studi di infermieristica? Per quale ragione gli infermieri devono
compiere percorsi formativi postbase caratterizzati
da studi di management
per coordinare anche una
singola unità operativa, e
direttori di struttura semplice o complessa si diventa soltanto in base a un
curriculum scientifico relativo al settore per cui si
concorre? Chi ha detto che
essere un medico capace è
equivalente all’essere un
buon manager?
L’intervento
del sottosegretario
Nel terzo articolo, intitolato
“Le 22 ‘professioni’ del caos
sanitario”, del 7 maggio,
Pirani minimizza l’intervento di Gian Paolo Patta,
sottosegretario alla Salute,
che gli ha fatto presente
l’incongruità delle sue
affermazioni, oltre all’insito
pericolo in termini d’impatto sull’opinione pubblica. Scrive infatti: «Qual è il
confine tra i vari “ambiti” e,
soprattutto, chi coordina e,
alla fine, ha l’ultima parola
in quel “modello multiprofessionale” che sancisce la
cancellazione del primato
medico?». In questo atteggiamento c’è una visione
universo MH
Nella seconda puntata, datata 30 aprile, il giornalista
viene al punto della questione: «Quando tutti gli infermieri saranno laureati e
masterizzati, chi distribuirà
le medicine ai degenti, chi
porterà la padella o il pappagallo, chi metterà e toglierà le flebo, chi dovrà
farli mangiare? A che servirà un ospedale pieno di
dottori in medicina o in
scienze infermieristiche?».
Il problema è presto risolto: non c’è necessità di un
infermiere per un pappagallo o una padella; o,
quantomeno, è previsto
che venga fatta una valuta-
zione a priori su chi può fare quella prestazione (naturalmente un operatore di
supporto, su delega e supervisione dell’infermiere).
L’infermiere è più utile per
pianificare l’assistenza e
prevenire le complicanze di
una patologia, e può svolgere un ruolo determinante
nella prevenzione del
rischio clinico e molte altre
attività. È grottesco che
mentre negli ospedali accadono centinaia di errori
probabilmente evitabili
con corretti programmi di
Clinical Risk Management,
sulle pagine di uno dei
principali quotidiani italiani si discuta ancora di
padelle e pappagalli. E
addolora che il presidente
dell’Ordine dei medici di
Roma abbia colto la palla al
balzo per applaudire la
banalizzazione di un sistema complesso e multidisciplinare come il percorso
clinico assistenziale,
ponendo all’indice «quei
professionisti che non solo
mal tollerano l’imprescindibile ruolo di sintesi che il
medico deve avere […] ma
addirittura immaginano di
sostituirsi ad esso».
Evitando di rispondere ad
accuse infondate, si
potrebbe porre qualche
invece domanda seria: nel
settore scientifico disciplinare a cui afferisce la lau-
13
distorta e deleteria del concetto di professionismo: si
omette sempre il termine
“intellettuale”, che invece
ne è parte integrante. Le
professioni intellettuali
sono tali perché alla base
delle attività concrete svolte c’è un processo cognitivo che ha le sue fondamenta nel percorso di formazione che il professionista
namento di una padella o
di un pappagallo non prevede particolari abilità e
competenze, ma tutto ciò
che gira intorno a quell’atto sì: le condizioni fisiche
del paziente, la sua cultura,
il suo senso del pudore, la
sua capacità di affrontare
quell’evento stressante,
così distante dai normali
atti quotidiani. Quindi
È grottesco che mentre negli ospedali accadono centinaia di errori evitabili con programmi di Clinical Risk
Management, sulle pagine di uno dei principali quotidiani italiani si discute ancora di padelle e pappagalli
ha seguito, e che gli ha dato
le competenze e le abilità
necessarie per avere completa padronanza del processo che mette in atto. Un
atto qualunque può non
avere bisogno di alcun
background culturale se lo
si considera avulso dal
contesto, ma la conoscenza
del processo diventa fondamentale se l’atto viene
visto come parte di un processo complesso, che coinvolge una persona la quale,
come un sistema aperto,
viene influenzata dall’atto
stesso sia da un punto di
vista biologico, sia relazionale e spirituale. Il posizio-
14
anche processi di questo
tipo devono essere gestiti
da personale laureato e
competente, che utilizzerà
eventualmente il cosiddetto personale di supporto
per eseguire l’atto stesso.
L’esempio del
Commonwealth
La contrarietà a dotare gli
infermieri di un titolo di
laurea non tiene conto del
fatto che il passaggio della
formazione infermieristica
al livello universitario è
stato la logica conseguenza
di una crescita della profes-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
sione, che negli altri Paesi
(in particolar modo in
quelli del Commonwealth
britannico) ha raggiunto
livelli estremamente elevati, e che l’Italia non poteva
continuare a ignorare.
La normativa vigente
impone un cambiamento
che ancora fatica molto a
concretizzarsi nelle strutture sanitarie italiane: il lavoro in team multiprofessionale, indispensabile proprio per i processi estremamente complessi della cura
di una persona, che rendono di fatto impossibile una
gestione strettamente
gerarchica. L’approccio olistico alla persona prevede
di considerarla non solo in
funzione dell’organo malato, ma di tutte le sue problematiche assistenziali,
degli aspetti sociali e culturali, dei valori laici e religiosi, nel rispetto della sua
unicità: non è pensabile
ridurre tutto questo a una
mera visione “militare” dell’assistenza, con un generale che comanda e il plotone
che esegue ciecamente.
Come può un professionista, medico o non medico,
credere di essere nelle condizioni di poter gestire in
forma esclusiva questa
situazione così complessa?
Pirani afferma poi di avere
già sottolineato in passato
la necessità di delegare agli
sione infermieristica (sentenza del Tribunale di
Matera, riportata sulla
Gazzetta di Matera il 6
aprile 2003), mentre un
ricorso al Tar di Milano,
proposto dall’Associazione
nazionale primari ospedalieri e dall’Associazione
medici dirigenti contro l’istituzione del Servizio
infermieristico, tecnico e
riabilitativo aziendale
dell’Azienda ospedaliera di
Melegnano, è stato respinto con una sentenza dell’11
gennaio 2007. L’altra amara
considerazione è che gli
unici a rischiare, in questa
battaglia inutile per affermare il potere assoluto del
medico, sono i pazienti,
bersagliati da informazioni
contrastanti, e quindi in
preda a confusione e incertezza circa il loro futuro.
Il manifesto dell’Ipasvi
Agli articoli di Pirani la
Federazione nazionale dei
collegi infermieri (Ipasvi)
ha risposto proponendo
un’inserzione (rigorosamente a pagamento) su
Repubblica, con argomentazioni non frutto di una
mera difesa corporativistica, ma pesate e pensate
con la mente di chi pone al
centro del sistema il cittadino. Il manifesto
dell’Ipasvi mostra la
volontà di chiarire alcuni
punti chiave, tra cui il fatto
che da una maggiore qualificazione dell’infermiere
non possono che derivare
benefici in termini di qualità dei servizi e riduzione
della mortalità, com’è
dimostrato da numerosi
studi di ricerca.
L’inserzione non è più
apparsa su Repubblica perché è stata prima rifiutata,
e poi accettata a condizione di operare alcune correzioni, che la Federazione
ha rifiutato.
Un passaggio del testo proposto è esemplare: «La
realtà dei fatti è che gli
Gli autori
Francesco Germini è
dottorando di ricerca in
scienze infermieristiche
presso l’Università di
Roma “Tor Vergata”,
e insegna discipline
infermieristiche in diverse
università
[email protected]
Pio Lattarulo è dottore
magistrale in scienze
infermieristiche e ostetriche, e insegna discipline
infermieristiche
all’Università di Bari
[email protected]
universo MH
infermieri la somministrazione «di oppiacei ai
pazienti afflitti da dolore
acuto». È bene chiarire che
gli infermieri, su prescrizione medica, possono già
somministrare queste terapie; il problema sta nell’assenza, spesso voluta, di
adeguati protocolli che
consentano al personale
infermieristico (ovviamente adeguatamente formato)
di modificare la prescrizione terapeutica in base a
indicatori precedentemente definiti dal personale
medico responsabile di
questo processo. La visione
distorta del potere di prescrizione porta troppo
spesso gli infermieri ad
accettare disposizioni terapeutiche senza un minimo
di autotutela, solo per
compiacere il medico di
turno, esponendosi quindi
al rischio di denuncia in
caso di problemi o, peggio,
di morte del paziente.
Il medico non potrà mai
essere considerato il “superiore” gerarchico dell’infermiere per un semplice
motivo: la laurea in medicina non consente al suo
possessore di essere assunto in qualità di infermiere,
e quindi di esercitare la
professione infermieristica.
È già successo che un
medico sia stato condannato per abuso di profes-
15
infermieri continuano a
formarsi in università, a far
funzionare gli ospedali italiani, a garantire l’assistenza a chi ne ha bisogno, con
serietà e grande senso di
responsabilità, anche in
condizioni di difficoltà
quali sono quelle che oggi
attraversa il nostro sistema
sanitario». La risposta della
Federazione è comparsa in
altra forma ma con la stessa sostanza il 16 maggio
sulle pagine del Corriere
della Sera, ma Pirani ha
ribadito gli stessi concetti il
giorno dopo con il suo
quarto intervento, stravolgendo i concetti e continuando a esprimere il
chiodo fisso di padelle e
pappagalli. L’acme lo rag-
giunge quando dice che
«negli ospedali inglesi, infine, la carriera infermieristica è regolata da precise
regole e periodici concorsi.
Se si passa l’esame si attacca un altro gallone sulle
mostrine»: di nuovo la
gerarchia. Da quest’ultimo
scritto ha preso le mosse
Mario Falconi, che evidentemente appartiene alla
schiera di chi non ha mai
digerito l’autonomia del
professionista infermiere:
in una lettera inviata a
Repubblica il giorno dopo,
e prontamente pubblicata,
si dichiara sconcertato per
la protesta degli infermieri,
ventila nuovi rischi per la
salute della popolazione e
ribadisce l’importanza
degli infermieri per l’utilizzo dei pappagalli.
Sconcertati lo siamo anche
noi. Lo sdegno viene da
una serie di attacchi che a
questo punto potrebbero
indurre qualcuno a pensare
a una regia concordata con
qualche autorevole esponente della classe medica.
Sarebbe stato interessante,
se fosse stato ancora in
vita, invitare a una tavola
rotonda su questo tema
Ivan Illich: avrebbe avuto
modo di chiarire alcuni
passaggi interessanti e
forse non troppo confortanti per chi trae beneficio
dai pensieri di Pirani.
Francesco Germini,
Pio Lattarulo
Attenzione alla dominanza infermieristica
Giovanna Vicarelli
L
a polemica sul nuovo
ruolo delle professioni
sanitarie non mediche si
inquadra in un contesto
ben preciso: la crisi della
dominanza medica. Non
sappiamo se questa crisi si
risolverà alla fine nel tramonto della dominanza
medica o se stiamo solo
assistendo a una fase di
16
transizione, ma il dato di
fatto è la crisi in atto.
La dominanza medica è un
fenomeno che nel nostro
Paese è sempre stato particolarmente accentuato, per
vari motivi. La prima anomalia è già evidente anche
solo dai dati quantitativi: in
Italia il rapporto fra il
numero dei medici e quello
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
degli infermieri è sempre
stato molto maggiore
L’autrice
Giovanna Vicarelli
è docente di sociologia
presso l’Università
politecnica della Marche
[email protected]
rispetto ad altri Paesi.
Perciò molti medici, alla
ricerca di sbocchi occupazionali, hanno preso anche
spazi che altrove sono
appannaggio di personale
specializzato, come i tecni-
DALLE
ci di radiologia o degli
esami ecografici, e in questo modo hanno contribuito a relegare gli infermieri
ad ambiti più “semplici”.
L’altra causa della dominanza medica è stretta-
SUORE AGLI INFERMIERI PROFESSIONALI
Un nuovo livello
gerarchico
È in questa situazione che
si inseriscono le legittime
istanze degli infermieri e
delle altre professioni sanitarie non mediche. Proprio
universo MH
IL PROBLEMA DELLO STATUS PROFESSIONALE dell’assistenza infermieristica ha radici antiche. Fare luce su questi aspetti
storici e sociologici è lo scopo del libro Da servente a
infermiere. Una storia dell’assistenza infermieristica ospedaliera in Italia, di Valerio Dimonte (Cespi, Torino, 2007),
che racconta lo sviluppo della figura dell’infermiere e del
suo lavoro in Italia, dal Medioevo fino al periodo fascista,
in stretta relazione con quello degli ospedali e della
sanità in genere.
Il libro è diviso in tre parti: la prima arriva fino all’inizio
del Novecento, la seconda si concentra sugli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale, e la terza
sulla prima riforma dell’assistenza infermieristica e sulla
figura dell’infermiere professionale.
L’autore è particolarmente interessato all’aspetto sociale
di questa professione, ed esamina alcuni nodi cruciali: in
particolare, si sofferma sul legame fra infermieri e religiosi e sulla presenza femminile che ha sempre contraddistinto l’infermiere rispetto alle altre figure sanitarie.
Per quanto riguarda la questione religiosa, sono sottolineati gli sforzi di laicizzazione della professione; è gustoso in particolare l’accenno alla rivista L’infermiere laico,
nata nel 1907 con l’audace sottotitolo «Organo di propaganda anticlericale». Anche l’aspetto femminile della professione infermieristica viene studiato nel suo divenire
storico, e si interseca, nella figura della suora, con il tema
religioso. Infine, viene analizzata la graduale professionalizzazione della figura dell’infermiere, inserita nel contesto storico e sociale del primo Novecento italiano e internazionale.
p.g.
mente sociale: in Italia, tradizionalmente, il medico è
una figura proveniente
dalla media borghesia, non
dalla fascia più alta. È
generalmente una famiglia
medioborghese, o anche
piccoloborghese, che investe negli studi di un figlio,
per consentirgli di laurearsi
in medicina e fare così “il
grande salto”: quella del
medico è una posizione
ritenuta di alto prestigio
professionale, e quindi in
nessun modo paragonabile
a quella dell’infermiere.
La dominanza medica è
entrata in crisi recentemente per due motivi: da
un lato la presenza di cittadini sempre più informati
ed esigenti, che fanno
vacillare la posizione di
superiorità del medico;
dall’altro l’avanzare del
management sanitario,
cioè il fenomeno conosciuto come aziendalizzazione
della sanità, che ha fatto
diminuire (in alcuni casi
anche troppo) l’autonomia
del medico.
17
per il momento delicato
che sta vivendo, la classe
medica percepisce
queste rivendicazioni come
un’ulteriore minaccia, un
terzo attacco alla sua posizione. E per giunta quest’attacco viene stavolta
dall’interno stesso del
mondo sanitario, e quindi
a maggior ragione genera
inquietudine e complica la
possibilità di trovare una
soluzione che metta d’accordo tutti. Detto questo,
bisogna però sottolineare
che anche dal punto di
vista degli infermieri non
tutto viene condotto nel
modo migliore possibile. È
legittimo volersi ritagliare
un ruolo anche dirigenziale, ed è giustissimo rivendicare per sé un nuovo ruolo
e avanzare richieste per
18
Guarda sul sito del ministero della Salute il filmato che
pubblicizza il corso di laurea in infermieristica:
www.ministerosalute.it/servizio/galleria.jsp?lang=italiano
&id=470&dad=s&men=campagne07&label=professioni
aumentare il numero degli
infermieri, anche per
acquistare maggior peso
come classe; il problema
però è che il modello che
hanno preso come esempio è proprio la professione
medica. Così, volendo rincorrere e imitare il modello
medico, le professioni sanitarie non mediche rischiano di non risolvere il problema della gerarchia, ma
anzi di complicarlo: in altre
parole, creano un livello
gerarchico nuovo, che se da
un lato compete con la
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
classe medica, dall’altro si
impone alle nuove figure
“basse” che vengono inevitabilmente generate. In
questo modo non solo non
si elimina la dominanza
medica, ma anzi si rischia
di imporre una sorta di
dominanza infermieristica.
E tutto ciò va nella direzione opposta a quella, auspicata, di un modello collaborativo, partecipativo, che
superi le questioni legate al
concetto di dominanza.
Giovanna Vicarelli
Il comitato etico?
Noi lo usiamo così
Nel rapporto medico-paziente, alla vecchia reciproca fiducia si è sostituito un nuovo regime di diffidenza. Per ritrovare un clima di armonia possono essere di aiuto i comitati etici:
la presenza di outsider disinteressati garantisce l’autorevolezza e il prestigio che il parere
del medico ha perso, e il loro punto di vista può far recuperare alla bioetica i valori dell’empatia e dell’umanità trascurati dalla filosofia e dalla teologia.
L’outsider nel comitato allargato
Americo Sbriccoli
I
dall’istituzione del sistema
mutualistico e poi del
Servizio sanitario nazionale, che hanno introdotto la
gratuità della prestazione
medica. Il venir meno della
parcella, anche se naturalmente graditissimo, ha
cominciato a insinuare nei
pazienti il timore che il
medico potesse abbassare
il suo livello di attenzione.
L’esclusività del rapporto
con un solo medico è saltata per ragioni più strettamente tecniche, a seguito
della frammentazione specialistica, col risultato che
oggi un assistito seriamen-
te preoccupato per il suo
stato di salute ha grossa
difficoltà a trovare un interlocutore unico a cui affidarsi. Questo per lui finisce
per costituire un serio
motivo di preoccupazione
e alla fine di sfiducia nell’intero sistema.
Nel rapporto medicopaziente, alla vecchia reciproca fiducia si è sostituito
un nuovo regime di reciproca diffidenza, con il
paziente disorientato dalla
visibile mancanza di prestigio e di autorevolezza nei
comportamenti e nelle prescrizioni diagnostico tera-
universo MH
l vecchio
rapporto
medicopaziente era
sostenuto da due fatti fondamentali: da parte del
paziente la stima e la conoscenza delle capacità del
medico; da parte del medico il prestigio che dava
autorevolezza alle sue prescrizioni. A suggello e
garanzia di questo rapporto c’erano due istituti fondamentali: la parcella e l’esclusività del rapporto.
Questo rapporto è andato
sempre più deteriorandosi.
Il primo colpo è venuto
19
peutiche, e il medico molto
timoroso per le possibili,
anche se spesso immotivate, istanze rivendicative.
Fiducia nei comitati etici
A questo proposito, d’accordo con quanto già da
tempo sta succedendo
negli Stati Uniti, un buon
aiuto può venire dal coinvolgimento dei comitati
etici ospedalieri, per via
della pratica che Warren
E
Reich chiama la «outsider’s
perspective».
Secondo questo modo di
vedere, c’è da credere che
di fronte a questioni complicate, difficili e piuttosto
sottili il problema sta nel
valutare, condividere e
quindi accettare risoluzioni, anche sgradevoli, delle
quali si riconosca la necessità, sia per il rigore professionale sia per la correttezza etica nel supremo interesse dell’assistito. La proposta dell’equipe medica,
VOI, COME LO USATE IL COMITATO ETICO?
LA NORMATIVA ITALIANA, pur privilegiando l’attività di valutazione della sperimentazione clinica dei medicinali,
lascia aperte ai comitati etici altre possibilità di intervento: per esempio possono avere una funzione consultiva su
questioni etiche legate alle attività scientifiche e assistenziali.
Per utilizzare al meglio i comitati sarebbe utile conoscere più in dettaglio il loro operato, in particolare le attività che si discostano dall’esame di protocolli di ricerca.
Per questo il Comitato etico provinciale di Modena ha
inviato agli altri comitati etici italiani un questionario,
per indagare la frequenza con la quale sono espletate
altre attività, oltre quella “principale” relativa all’esame
dei protocolli di ricerca.
I risultati e tutto il materiale aggiuntivo ottenuto (brochure, locandine, articoli su giornali o riviste, ecc.) saranno messi a disposizione di chiunque abbia interesse ad
accrescere la cultura dei comitati etici in Italia.
p.g.
20
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
che potrebbe essere fonte
di dubbiosa perplessità,
sarebbe meglio accetta se
passasse al vaglio di un
comitato etico, il cui parere
avrebbe il riconoscimento
e il rispetto di autorevolezza che potrebbe mancare
all’equipe proponente.
Secondo Reich, è percepita
come sospetta l’attendibilità di proposte in tema di
bioetica formulate da gruppi omogenei di insider,
intesi come interni alla
struttura e per questo visti
come portati a sostenere le
loro proposte con basso
livello critico, per una sorta
di conflitto di interessi.
L’attendibilità della proposte diventa di molto superiore, e alla fine autorevole,
se sono condivise e sottoscritte da un comitato
allargato ad outsider più
degni di fede perché disinteressati.
È così che nel caso di proposte cliniche sgradevoli,
addirittura ritenute insopportabili e quasi indecenti,
come per esempio le
amputazioni o la grossa
chirurgia demolitiva, specie nei minori, la repulsa
istintiva che si ingigantisce
di fronte alla scarsa autorevolezza del proponente
sarebbe sicuramente superata se la proposta ricevesse il vaglio e l’approvazione
di un comitato etico aperto
a figure esterne di sicuro
prestigio.
La stessa cosa naturalmente ha grande valore per la
giustificazione di interventi
ad alto rischio di complica-
zioni anche gravi ma assolutamente necessari e
urgenti per dare una possibilità, magari anche remota, a chi altrimenti sarebbe
inesorabilmente condan-
L’autore
Americo Sbriccoli è presidente del Comitato etico
interaziendale Macerata-Civitanova
[email protected]
nato. È chiaro che anche in
questo caso l’equipe operativa avrebbe una tutela
molto superiore di fronte a
pur sempre possibili conseguenze giudiziarie.
In questo senso si sta
orientando il comportamento del Comitato etico
interaziendale MacerataCivitanova, pare con aspet
tative lusinghiere.
Americo Sbriccoli
L’importanza dell’empatia in bioetica
Warren Reich
D
un outsider profetico. Nel
1966, infatti, ha pubblicato
un articolo in cui chiedeva
una nuova seria etica della
ricerca, basandosi su 22
casi di ricerca non etica.
Sarebbero molti altri gli
esempi che dimostrano
come alle origini della
bioetica ci fossero persone
che manifestavano il coraggio da outsider per cambiare il nostro modo di percepire i problemi morali, di
rifletterci e di risolverli.
Per alcuni aspetti buona
parte della bioetica ha sviluppato un suo proprio
“complesso dell’insider”,
anche a causa della pressione a restringersi a una
“razionalità formale”, per
usare il linguaggio di Max
Weber. Come spiega il
sociologo americano John
Evans, questo vuol dire che
la bioetica si preoccupa di
valutare il mezzo migliore
per perseguire un obiettivo
generalmente condiviso,
ma spesso sottinteso.
Quest’approccio formale,
che spesso usa una razionalità tipica di calcoli in
termini di costi-benefici e
di analisi di rischi-benefici,
è utile per sviluppare strategie per politiche corri-
universo MH
a quando Colin Wilson
ha pubblicato nel
maggio 1956 il suo best seller The Outsider, in cui esamina il fenomeno dell’outsider in letteratura e nella
cultura, le sue intuizioni
hanno suscitato entusiasmo in tutto il mondo.
Il concetto dell’outsider ci
aiuta a correggere il nostro
modo di vedere: un esempio viene da Henry
Beecher, professore di anestesiologia alla Harvard
University, che, pur rimanendo dal punto di vista
medico un insider, è
improvvisamente diventato
21
spondenti agli scopi del
governo e delle istituzioni
sanitarie, ma a scapito di
considerazioni più sostanziali. La razionalità sostanziale, d’altra parte, tratta di
valori, finalità e modi di
vivere essenziali per comprendere il significato e le
implicazioni umane più
vaste degli argomenti considerati, comprese alcune
questioni sostanziali che
vengono di norma evitate.
insistere sulla domanda
sostanziale che è stata
ignorata. Inoltre, i valori di
base e le fonti delle norme
sono spesso immersi in
questioni che si trovano ai
margini di quello che molti
studiosi ritengono i confini
all’empatia emozionale o
all’umanità (come quella
del buon samaritano) per
stabilire un’etica pubblica.
La considerazione dei problemi “ai confini” può
quindi rivelare valori e
principi trascurati ma
Dal momento che sia la filosofia sia la teologia hanno
trascurato il ruolo delle emozioni nell’etica, c’è bisogno
degli outsider per evidenziare come la bioetica basata
sull’empatia e l’umanità può fornire nuove prospettive
Il buon samaritano
Almeno negli Stati Uniti,
buona parte della bioetica
si fa routine (e qualcuno
direbbe senz’anima) nella
misura in cui diventa un
esercizio formale eseguito
da tecnici intellettuali che
usano una ristretta lista di
principi per stabilire la correttezza o la scorrettezza di
un numero limitato di
azioni legate alle scienze
della vita.
La bioetica deve enfatizzare la razionalità sostanziale; e a volte è l’outsider a
L’autore
Warren Reich è professore
emerito di bioetica,
Georgetown University,
Washington
22
della bioetica. Per esempio,
un esame attento dei modi
in cui ai rifugiati viene fornita o rifiutata l’assistenza
dimostra l’importanza di
guardare apertamente le
loro facce e chiedersi quali
possono essere in questi
casi i criteri dell’empatia.
Analogamente, uno studio
di cooperazione medica
sulla tortura di militari prigionieri in Iraq e a
Guantanamo rivela la
necessità di resuscitare
l’antica virtù dell’umanità.
Argomenti filosofici e religiosi basati sulla persona e
sui diritti sono importanti
per considerare questi casi.
Oggi però un approccio
molto più utile e stimolante è chiedersi come, perché
e in quali circostanze una
società deve fare ricorso
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
applicabili in molte situazioni. Dato che sia la filosofia sia la teologia hanno
trascurato il ruolo delle
emozioni nell’etica, c’è
bisogno degli outsider
intellettuali per evidenziare
come la bioetica basata
sull’empatia e l’umanità
può fornire nuove prospettive. Alla bioetica servono
persone con la mentalità
degli outsider, che abbiano
la voglia e la capacità di
evidenziare come la nostra
visione morale è stata a
volte troppo ristretta, e
come la nostra ricerca di
valori morali può essere
arricchita incorporando le
intuizioni del passato e del
presente che sono state tra
scurate.
Warren Reich
La volontà del paziente
ha una data di scadenza?
Dopo il caso del testimone di Geova a cui è stata praticata una trasfusione di sangue
nonostante il suo esplicito rifiuto e che, di conseguenza, ha chiesto un risarcimento per i
danni subiti, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza sicuramente discutibile,
rifiutando il suo ricorso. Dunque il medico può decidere di non considerare il dissenso
del paziente in situazioni di necessità? Il dibattito rimane aperto.
Mauro Angarano
M
emorragia in atto, prima
dell’intervento chirurgico
d’urgenza aveva dichiarato
di non volere essere sottoposto a trasfusione di sangue, in ossequio alle proprie convinzioni religiose.
Nonostante questa esplicita richiesta, nel corso dell’operazione gli è stata
egualmente praticata una
trasfusione sanguigna. Il
paziente ha in seguito deciso di intervenire legalmente in sede civile nei confronti dei medici, che avevano praticato la trasfusione contrariamente alla sua
esplicita volontà. Ha chie-
sto, dunque, il risarcimento
dei danni morali, patrimoniali e biologici subiti dall’illecito.
La Cassazione
contro l’articolo 32?
Nei primi commenti si è
sottolineato come la
Cassazione, confermando
le due precedenti decisioni
di merito (quella del
Tribunale e quella della
Corte d’appello), che avevano respinto la domanda
risarcitoria, ha enunciato il
principio per cui l’operato-
universo MH
olteplici
sono stati i
commenti a
una recente
sentenza (datata 23 febbraio 2007) della terza
sezione civile della Corte
suprema di Cassazione. Il
tema trattato: trasfusioni di
sangue praticate da un
medico a un testimone di
Geova, nonostante il suo
rifiuto.
L’uomo, ricoverato in ospedale in seguito a un incidente stradale nel quale
aveva riportato numerose
fratture e una lesione dell’arteria principale con
23
re sanitario, nonostante
fosse a conoscenza della
volontà del paziente, non
può essere considerato
punibile secondo l’articolo
54 del Codice penale che
disciplina lo stato di necessità, rappresentato in questo caso dall’urgenza di
scongiurare il pericolo di
vita del malato.
La Cassazione sembra dunque negare rilevanza al
domanda risarcitoria.
Inoltre, si legge che la
volontà precedentemente
espressa dal paziente può
essere disattesa allorché
«non debba più considerarsi operante in un
momento successivo»,
rispetto a quello in cui è
stata dichiarata, «davanti a
un quadro clinico fortemente mutato con imminente pericolo di vita e
Il tema è la possibilità per il medico di non considerare il dissenso del paziente allorché venga meno la piena
rispondenza tra la volontà espressa e la situazione patologica in cui la stessa deve poi trovare applicazione
consenso (anzi, all’espresso dissenso) del paziente ai
fini della liceità del trattamento medico, prevalendo
su quanto affermato nell’articolo 32 della
Costituzione (nonché sulla
convenzione di Oviedo).
Alcune precisazioni peraltro si impongono alla luce
di una lettura integrale
della motivazione.
In diversi passaggi la
Cassazione precisa di essere stata chiamata unicamente, come giudice di
legittimità, a valutare la
congruità della motivazione dei giudici di merito che
avevano respinto la
24
senza la possibilità di un
ulteriore interpello del
paziente ormai anestetizzato».
Dunque il tema parrebbe
essere quello della possibilità per il medico di non
considerare il dissenso del
paziente allorché venga
meno la piena rispondenza
tra la volontà espressa e la
situazione patologica in cui
la stessa deve poi trovare
applicazione.
Quando la volontà deve
essere contestuale
Ma in realtà il problema si
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
ripresenta se si considera
quanto osservato dalla dottrina (si veda l’intervento
di Amedeo Santosuosso
davanti alla Commissione
del Senato che si occupa
dei disegni di legge in
materia di dichiarazioni
anticipate di volontà sui
trattamenti sanitari) che ha
sottolineato che «intendere
il requisito dell’attualità
della volontà come necessaria stretta contestualità
significhi rendere totalmente irrilevante la
volontà del paziente in tutti
i casi in cui un intervento
richieda l’anestesia».
La questione rimane problematica: lo dimostrano
ulteriori passaggi della sentenza dove la Corte, nella
parte finale della motivazione, integra le proprie
considerazioni rilevando
come il comportamento
dei medici sarebbe legittimo anche perché «nei vari
disegni di legge sul “testamento biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano
con riguardo alle terapie
consentite in caso si trovi
in stato di incoscienza,
spesso è previsto che tali
prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che
può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica».
Ma in questa prospettiva, e
L’autore
Mauro Angarano è avvocato e componente
del Comitato di bioetica dell’Azienda ospedaliera
Ospedali Riuniti di Bergamo
[email protected]
senza neppure la specificazione del mutato quadro
clinico a giustificare l’operato del medico, la direttiva
anticipata sarebbe alla fine
irrilevante. Anche perché la
Corte Suprema, pur avendo
considerato il fatto che i
medici si sono adoperati
per salvare la vita del paziente, dà un’interpretazione che non risolve il problema.
Infatti, ipotizzando un caso
con gli stessi presupposti, e
con un comportamento del
medico conforme alla volontà del paziente, il dare
rilievo alla mutata situazione clinica porrebbe il medico nella condizione di chi
viola la posizione di garanzia dovendo rispondere,
nel caso di morte del paziente, di omicidio volontario.
Quali considerazioni si
possono fare a fronte di
una decisione che ripropone una questione ampiamente dibattuta ma, alla
fine, non risolta?
Appare più che mai necessaria l’approvazione di una
legge che affermi in maniera chiara alcuni principi: la
validità dell’eventuale rifiuto del paziente anche per il
tempo successivo a una
sopravvenuta perdita della
capacità naturale, la non
punibilità del medico che
abbia omesso delle cure in
ossequio a detta volontà, la
documentazione di detta
volontà attraverso gli strumenti propri dell’ambito
clinico (come la cartella clinica) che consentano di
garantire il più possibile
l’attualità di detta volontà.
Ma questa è un’estrema
sintesi di un tema di enorme complessità. Mauro Angarano
universo MH
25
Evolution
based medicine
La medicina di oggi, nonostante i suoi grandi e innegabili progressi, soffre di quella che è
stata chiamata «fallacia astorica»: l’incapacità di inquadrare i problemi in un più ampio
contesto temporale. Per risolvere quest’impasse non serve un nozionismo storico, che
non porterebbe benefici concreti, ma un approccio evoluzionistico, che mostri come la
medicina è migliorata e quali idee e metodologie hanno consentito i suoi successi.
Gilberto Corbellini
O
ltre che sulle
prove di
efficacia, cioè
sull’evidence, e
sui modelli sperimentali
delle malattie, la medicina
per avere senso deve fondarsi anche sull’evoluzione. La famosa affermazione
di Theodosius Dobzhansky,
che «niente ha senso in
biologia se non alla luce
dell’evoluzione», implica
che anche i problemi della
medicina assumono un
senso veramente completo
solo se vengono inquadrati
nella prospettiva dell’evoluzione biologica. Non
26
solo: attraverso un inquadramento storico pertinente dei problemi medici,
l’approccio evoluzionistico
può contribuire alla costruzione di un quadro di riferimento teorico unitario in
medicina. Può cioè fornire
le coordinate tematiche e
concettuali per elaborare
una teoria della medicina
in grado di migliorare la
qualità dell’insegnamento
e della comunicazione del
sapere medico.
Negli ultimi decenni è diventato sempre più frequente leggere nelle riflessioni generali sulla natura e
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
gli scopi della medicina
che se davvero si vuole che
la salute degli uomini e
delle donne che abitano e
abiteranno il pianeta continui a migliorare, oltre che a
procedere nell’espandere le
conoscenze e innovare le
strategie di intervento bisogna interrompere il processo di frammentazione conoscitiva che sta corrompendo la medicina occidentale. E per ottenere
questo serve una teoria
della medicina che, in prospettiva, deve anche contribuire a disinnescare, almeno al livello della perce-
zione sociale, tanto le false
aspettative quanto le assurde paure che oggi alimentano un dibattito culturale
troppo spesso fuorviante o
non orientato ad affrontare
e risolvere i problemi sulla
base di analisi obiettive e
concrete. Se guardati da
una prospettiva storica ed
evoluzionistica, alcuni dei
problemi con cui la medicina si sta confrontando, in
alcuni casi senza riuscire a
venirne a capo, acquisiscono un senso meno controverso (o quantomeno che
smaschera la natura ideologica di alcune controversie), e possono produrre
impostazioni culturali più
plausibili e innovative.
Uno status
conquistato lentamente
Il disease mongering
Ma c’è anche il rovescio
della medaglia. Infatti,
anche se non siamo mai
stati meglio, siamo sempre
più preoccupati per la
salute, al punto che la
domanda di salute appare
ingovernabile. Un intreccio
di perverse dinamiche di
mercato e politiche deresponsabilizzanti o utopistiche di promozione della
salute incentivano sia il
salutismo sia la medicalizzazione. Il processo di
medicalizzazione è da
alcuni decenni al centro
dell’attenzione del lavoro
di sociologi ed epidemiologi, che hanno creato anche
un nuovo termine per illustrare la fase estrema di
questo processo: disease
mongering. Si tratta del
fenomeno di negoziazione
tra potenziali clienti (o
pazienti) e fornitori di servizi (medici e imprese farmaceutiche) per trasformare in malattie da trattare
clinicamente o farmacologicamente alcune condizioni che non sono necessariamente malattie e che
non hanno un impatto
significativo dal punto di
vista della sanità pubblica.
La conseguenza è la creazione di un mercato per
nuovi prodotti e prestazioni mediche che vengono
pubblicizzati attraverso i
media da case farmaceutiche, medici e gruppi di
pazienti, presentando condizioni come la calvizie, le
disfunzioni erettili, il
rischio di osteoporosi e la
depressione come più gravi
e più diffusi di quanto non
siano. Attenzione, non
bisogna minimizzare tutte
queste condizioni: per
esempio, le disfunzioni
erettili o la depressione
possono rappresentare
universo MH
Chiunque ragioni con un
minimo di onestà intellettuale non può fare a meno
di riconoscere che oggi si
vive più a lungo e in
miglior salute rispetto a
ogni altro periodo storico.
Per accorgersene basta leggere qualsiasi studio sulla
storia demografica e sanitaria della nostra specie.
Forse serve un po’ più di
onestà, o meglio occorre
abbandonare qualche pregiudizio e avere un’adeguata istruzione, per ricono-
scere che la salute è migliorata in generale grazie
soprattutto ai progressi
delle conoscenze e delle
tecnologie biomediche, che
sono diventate sempre più
sicure ed efficaci. È anche
innegabile che i medici
oggi rispettano molto di
più i loro pazienti, ed esiste
una tutela dei diritti individuali applicata anche alle
persone malate che non ha
precedenti nella storia. Il
medico rimane inoltre la
categoria professionale di
cui i cittadini occidentali si
fidano di più: uno status
conquistato lentamente,
grazie al fatto che la pratica
clinica è diventata efficace,
e che sono costantemente
aumentate la capacità e la
disponibilità ad alleviare il
dolore fisico e la sofferenza
psicologica.
27
problemi clinici molto seri,
per i quali esistono farmaci
dotati di indiscutibile efficacia. Ma alcuni di questi
farmaci vengono utilizzati
anche al di fuori di malattie clinicamente accertate,
per potenziare le normali
benessere in ragione del
miglioramento degli standard di vita e dei condizionamenti socioculturali.
Un fatto che, invece,
dovrebbe preoccupare di
più è che l’enfasi sulla salute e sul processo di medi-
Se guardati da una prospettiva storica ed evoluzionistica, alcuni dei problemi con cui la medicina si sta confrontando, in alcuni casi senza riuscire a venirne a capo,
acquisiscono un senso meno controverso
mai stata tanto morbosa.
Questi problemi non sono
circoscrivibili né analizzabili in modo decontestualizzato rispetto alle sfide
che la medicina deve oggi
affrontare. Infatti, a seconda del tipo di sfida che si
prende in considerazione,
un problema può risultare
più importante di un altro,
e si può correre il rischio di
sottostimare o sovrastimare il peso di qualche difficoltà o controversia.
La «fallacia astorica»
capacità o per evitare di
apportare modifiche al
proprio stile di vita, da persone che potrebbero evitare di ricorrere a principi
chimici comunque dotati
di effetti collaterali (è il
tema dell’obiettivo di questo numero, n.d.r.).
Attenzione morbosa
per la malasanità
Il fenomeno del disease
morngering viene criticato
soprattutto sulla base di
categorie moralistiche,
mentre si tratta verosimilmente anche della conseguenza della naturale ricerca di benessere da parte
delle persone, a fronte del
fatto che si sono innalzate
le aspettative individuali di
28
calizzazione di aspetti
naturali dell’esistenza non
promuove una cultura
medico sanitaria che
apprezza e valorizza il
ruolo della scienza.
Nonostante il merito di
gran parte del guadagno in
salute vada onestamente
attribuito ai progressi della
medicina scientifica, cresce
in modo preoccupante il
consumo di medicine
alternative. Anche rispetto
al rapporto medico-paziente, è singolare che, pur
essendo incredibilmente
migliorato, sia i pazienti sia
i medici risultino più
insoddisfatti oggi rispetto
al passato. Non sono infatti
mai state così numerose le
denunce contro i medici,
né l’attenzione per i casi di
cosiddetta malasanità è
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Provando a elencare le
principali sfide pratiche e
teoriche che la medicina
sta fronteggiando, al primo
posto si collocano indubbiamente i cambiamenti
che stanno interessando le
cause di mortalità e il carico di malattie che colpisce
le popolazioni umane a
livello globale e locale.
Nonostante la passione per
la storia che i medici coltivano da sempre, e nonostante la diffusione nelle
scuole mediche occidentali
di insegnamenti e moduli
didattici che introducono
elementi di conoscenza
storica, la medicina di fatto
soffre di quella che è stata
chiamata «fallacia astorica». La neuropsichiatra
Nancy Andreasen ha defi-
Serve una cognizione
storica
Ciò che verosimilmente
serve oggi al medico non è
però una formazione stori-
ca nozionistica, che costituirebbe solo un ulteriore
bagaglio di informazioni e
concetti da giustapporre
alle altre conoscenze disciplinari, senza che l’acquisizione risulti alla fine di
alcuna utilità pratica. Serve
invece una cognizione storica in grado di svolgere
una funzione costruttiva e
critica anche rispetto al
confronto teorico e metodologico che sta interessando la medicina a diversi
livelli. L’approccio storico
può giocare un ruolo
importante per comunicare allo studente di medicina le coordinate storico
epistemologiche utili per
comprendere le potenzialità e i limiti delle diverse
strategie di concettualizzazione dei fatti medico sanitari. E può aiutare a cogliere meglio il significato di
alcune novità teoriche che
sono emerse negli ultimi
decenni e che, pur non
avendo ancora raggiunto lo
status di idee insegnate nei
corsi universitari, rappresentano comunque linee di
ricerca euristicamente valide e importanti per la
conoscenza e la pratica
medica.
Una storia epistemologica
della medicina può fare di
più che dare semplicemente l’idea che sono cambiate
e stanno cambiando le co-
noscenze, le pratiche mediche e le percezioni socioculturali della medicina,
incluse le variabili che giocano nella comunicazione
tra medico e paziente. Può
dare conto anche di come
la situazione è migliorata e
di quali idee e metodologie
hanno consentito i successi della medicina contemporanea. Può aiutare il medico a ritrovare una coerenza, almeno sul piano
storico, nella frammentarietà e nell’eterogeneità
delle nozioni e delle pratiche che apprende e utilizza. Per esempio, ripercorrere la storia delle tradizioni razionaliste ed empiriste
che hanno alimentato il dibattito metodologico sullo
statuto epistemologico della medicina può essere di
per saperne di più
N.C. Andreasen,
“Changing concepts of
schizophrenia and the
ahistorical fallacy”.
In: American Journal of
Psychiatry 151 (10), 1994.
C.J. MacCallum,
“Does Medicine without
Evolution Make Sense?”.
In: Plos Biol 5(4):
e112, 2007.
doi:10.1371/journal.pbio.
0050112
universo MH
nito la fallacia astorica, nel
contesto delle difficoltà che
la neurologia incontra nella
standardizzazione delle
entità cliniche e nella comparazione degli esiti dei
trattamenti terapeutici,
come l’incapacità di inquadrare i problemi conoscitivi
e pratici in un più ampio
contesto temporale. La fallacia astorica si alimenta di
assunzioni che contrastano
con lo spirito antidogmatico e antiautoritario della
scienza: l’idea che l’esperto
debba avere sempre ragione, o che le cose dette più
recentemente debbano
sempre essere più vere di
quelle meno recenti, o che
l’aumento di informazioni
produca automaticamente
un aumento della conoscenza. Secondo
Andreasen, una percezione
storicamente più allargata
contribuisce ad arricchire
lo spettro di associazioni
che sono fonte di stimoli
alla scoperta. E forse anche
a superare alcune difficoltà
nell’apprendimento dei
concetti e delle spiegazioni
scientifiche.
29
utilità allo studente per capire le origini epistemologiche profonde delle divergenze che oggi caratterizzano gli approcci biosperimentali e quelli epidemiologico sanitari.
L’impianto del pensiero
evoluzionistico
La storia della medicina è
stata caratterizzata da un
malattia, mettendo in secondo piano quelle biologiche e mediche. Inoltre,
oggi nella medicina convivono diverse tradizioni di
ricerca, che si portano appresso e convogliano idee
differenti quando non divergenti sullo statuto metodologico e sui fondamenti concettuali delle conoscenze e delle pratiche
di carattere medico. Da un
lato, la medicina continua
Oggi nella medicina convivono diverse tradizioni di
ricerca, che si portano appresso e convogliano idee differenti sullo statuto metodologico e sui fondamenti
concettuali delle conoscenze e delle pratiche mediche
susseguirsi di idee sulla natura della salute e della
malattia che dopo la seconda guerra mondiale si
sono sclerotizzate in una
sterile contrapposizione tra
definizioni naturalistiche e
definizioni normative o socioculturali. Le prime insistono sulla possibilità di
spiegare la malattia a partire dai processi o dalle
strutture biologiche che
non consentono all’organismo di funzionare adeguatamente, mentre le seconde pongono l’accento sulle
dimensioni culturali e soggettive della salute e della
30
fortunatamente a essere
alimentata da una tradizione biologico sperimentale,
ispirata dalla fisiologia e
dalla microbiologia, che risale alla rivoluzione scientifica della seconda metà
dell’Ottocento. Questa tradizione ha prodotto e continua a produrre le basi
scientifiche del sapere medico. Dalla seconda metà
del Novecento la medicina
si è arricchita di una tradizione epidemiologico sanitaria che ha determinato
un’efficace ed efficiente
standardizzazione della
pratica medica, e che si è
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
in qualche modo organizzata “politicamente” attraverso il movimento dell’evidence based medicine.
Infine, sopravvive nella
medicina una tradizione
clinica che ha resistito con
diversi argomenti ai tentativi di escludere la dimensione individuale della malattia dall’esperienza conoscitiva del medico, e che
comincia a rivalutarsi grazie all’inquadramento genetico evoluzionistico implicato nelle nuove conoscenze genomiche. I modelli esplicativi e le strategie di ragionamento medico promossi da queste tradizioni si sono sviluppati
storicamente rispondendo
a sfide conoscitive diverse,
e sulla base di vincoli teorici piuttosto caratterizzati.
In questo senso occorre innanzitutto comprendere i
limiti dei diversi approcci
concettuali e metodologici,
dipendenti dalle rispettive
origini e dai diversi percorsi evolutivi. Una volta che
questi limiti e vincoli siano
stati compresi si può provare a utilizzare l’impianto
concettuale ed epistemologico del pensiero evoluzionistico.
Superare l’impasse
L’esame dei limiti e dei vin-
L’autore
Gilberto Corbellini, Istituto di storia della medicina,
Università “La Sapienza”, Roma
[email protected]
coli che caratterizzano storicamente le tradizioni epistemologiche della medicina conduce all’ipotesi che
ciò che manca alla medicina sul piano teorico è l’assunzione di una prospettiva evoluzionistica adeguatamente articolata. Le
nozioni di base del pensiero evoluzionistico prospettano un coerente e plausibile superamento dell’im-
passe in cui si dibatte la
teoria medica.
Naturalmente bisogna
intendersi su come applicare in maniera pertinente
e articolata l’approccio
evoluzionistico rispetto alle
varie dimensioni della
medicina.
Una messa in ordine delle
idee utilizzate nell’ambito
degli approcci evoluzionistici è necessaria, e anche
in questo caso una prospettiva storica può essere
di aiuto. Una teoria coerente, basata su un modello
evoluzionistico euristicamente utile, deve non solo
riorganizzare il sistema
delle conoscenze e la categorizzazione dei problemi
medici, ma dare conto,
attraverso i modelli neurobiologici del funzionamento del cervello fondati su
un modo di pensare darwiniano, delle strategie
cognitive implicate in queste categorizzazioni, sia sul
versante del medico, sia su
quello del paziente.
Gilberto Corbellini
universo MH
31
Screening:
c’è posta per te
La diagnostica precoce è una pratica sempre più sponsorizzata dalle istituzioni: curare
tempestivamente le persone, ma anche ridurre le spese della sanità pubblica. Il ministero della Salute ha pubblicato le raccomandazioni per la pianificazione delle campagne di
screening oncologici per il cancro alla mammella, alla cervice uterina e al colon retto. Lo
scopo: raggiungere il maggior numero di persone considerate a rischio.
Valentina Arcovio
I
dentificare una malattia
prima che si manifesti
clinicamente può aiutare a
salvare la vita di molte persone. È per questo che nel
novembre del 2006 il ministero della Salute ha pubblicato le “Raccomandazioni per la pianificazione e
l’esecuzione degli screening di popolazione per la
prevenzione del cancro
della mammella, del cancro della cervice uterina e
del cancro del colon retto”.
Questo documento si rivolge sia ai pianificatori delle
Regioni e delle aziende sanitarie, sia agli operatori
32
direttamente coinvolti nei
programmi di screening.
Secondo il ministero, il
compito del medico non è
soltanto quello di curare le
malattie ma anche, e
soprattutto, diagnosticarle
tempestivamente riuscendo, quindi, a intervenire in
maniera rapida e poco
invasiva. È fondamentale
dunque che gli operatori
sanitari comprendano che
il loro ruolo va ben oltre la
semplice prescrizione di
farmaci: per aiutare i propri pazienti a prendersi
cura di se stessi, è necessario educarli e informarli
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
sulle possibilità offerte
dalla diagnostica precoce.
Efficaci nel ridurre
la mortalità
Per questo il ministero
della Salute si è impegnato
prima nella preparazione e
poi nelle diffusione del
primo documento ufficiale
a sostegno degli screening
oncologici, focalizzando
l’attenzione verso i tre tipi
di cancro più frequenti e
diffusi: il tumore della
mammella, della cervice
uterina e quello del colon
L’autrice
Valentina Arcovio
Agenzia di giornalismo
scientifico Zadigroma
[email protected]
Una campagna
per raggiungere tutti
In questo tipo di malattie,
la diagnosi precoce consente di salvare la vita o,
comunque, di effettuare
interventi poco invasivi. Lo
screening rappresenta
quindi un investimento
importante sulla salute:
ridurre la mortalità ma
anche migliorare la qualità
della vita.
Lo scopo del documento
del ministero è quello di
mettere in atto tutti quei
processi in grado di migliorare le capacità organizzative dei sistemi sanitari, la
tecnologia e le conoscenze,
rafforzando le competenze
finora acquisite.
Quando un medico si trova
di fronte a un paziente
considerato a rischio per
un certo tipo di tumore, è
suo dovere indirizzarlo
verso il percorso diagnostico terapeutico raccoman-
dato per quella malattia.
Tuttavia, le persone che si
rivolgono al proprio medico per sottoporsi a un test
di screening sono in genere
quelle più consapevoli dell’importanza della diagnosi
precoce nella prevenzione
dei tumori: è quindi inevitabile che alcuni gruppi di
cittadini non ne traggano
beneficio.
Grazie ai programmi organizzati di screening, invece,
è possibile raggiungere
tutte le persone che, per
caratteristiche di sesso e di
età, rientrano nella fascia a
rischio per un certo tipo di
tumore. L’azienda sanitaria
diventa protagonista nell’invitare direttamente i cittadini, tramite lettera, a
fare il test gratuitamente,
come anche gli accertamenti diagnostici o trattamenti che si rendano even
tualmente necessari.
Valentina Arcovio
universo MH
retto. Gli screening disponibili per questi tre tumori,
infatti, si sono dimostrati
nel tempo ampiamente
efficaci nel ridurre la mortalità. Il tumore della mammella rappresenta la neoplasia più frequente tra le
donne: si stimano all’incirca 32 mila casi ogni anno.
Vengono, invece, diagnosticati ogni anno circa 3500
casi di tumore alla cervice
uterina, mentre i casi di
tumore del colon retto, che
rappresenta la seconda
causa di morte per tumore
in Italia, sono circa 34 mila
ogni anno.
In Italia molte Regioni
hanno attivato (o stanno
avviando) campagne di
screening per la prevenzione secondaria di questi tre
tipi di tumore. Gli esami
previsti: una mammografia
ogni due anni per le donne
di età compresa tra i 50 e i
69 anni per lo screening del
tumore della mammella;
un Pap test ogni tre anni
per le donne tra i 25 e i 64
anni per lo screening del
tumore del collo dell’utero;
la ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni
per le donne e gli uomini
tra i 50 e i 70 o 74 anni,
oppure una rettosigmoidoscopia per le donne e gli
uomini tra 58 e 60 anni (da
ripetere eventualmente
ogni 10 anni) per lo screening del tumore del colon
retto.
33
Se il farmaco viene prescritto dal governo
IL CASO Il 16 luglio 2006 irrompevano sulla stampa locale di Modena titoli come “Niente
cure, condannato a morire”, “Cura impossibile, lui morirà”, ”Sono un malato di serie B. Davvero
mi vogliono morto”. Gli articoli si riferivano alla denuncia di un esponente del Codacons regionale che, con termini come “indignazione”, ”incredulità”, ”disumano”, ”inaccettabile”, iniziava una campagna di sostegno a un malato di sclerosi laterale amiotrofica. Nelle sue dichiarazioni, accolte con ampio rilievo dalla cronaca locale e nazionale, l’esponente del Codacons riferiva che un farmaco (l’Igf-1), «fondamentale per contrastare la degenerazione cellulare», era
negato dall’Ausl e che i magistrati ai quali era stata presentata un’istanza si erano allineati nel
non concederne la fornitura.
Gli articoli di stampa, tutti dai titoli drammatici e concordi con la posizione del Codacons e dei
familiari, si sono susseguiti numerosi e virulenti nelle settimane successive, seguendo lo svi-
Commenti di: Gabriele Greco, Alessandra De Palma, Sandro Spinsanti
Ma il paziente
non è un consumatore
L
a sclerosi laterale amiotrofica (in sigla Sla)
è una malattia neurodegenerativa,
progressiva, caratterizzata dalla degenerazione del primo
e secondo neurone
di moto, che comporta il coinvolgimento della muscolatura a tutti i livelli,
fino a quelli della
deglutizione e
respirazione. La
morte sopraggiunge
entro 3 anni nel 50
34
per cento dei casi,
ed entro 6 anni nel
90 per cento. La Sla
rientra fra le malattie rare, anche se
colpisce dai 1.200 ai
1.500 italiani l’anno.
Le cause sono sconosciute e non esiste una cura, ma è
indicato un trattamento sintomatico
in presenza di
insufficienza respiratoria, disfagia,
scialorrea. L’unico
farmaco con indicazione registrata in
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Italia è il riluzolo,
che ha mostrato
negli studi un incremento di sopravvivenza di 3 mesi.
L’Igf-1 è un fattore
di crescita naturale
per muscoli e nervi,
oggetto negli ultimi
10 anni di due studi
applicati alla Sla,
con risultati contrastanti sulla possibilità di un rallentamento nella progressione della
malattia. Due revisioni Cochrane ne
hanno criticato la
numerosità campionaria, la lunghezza dei follow-
up, l’inadeguatezza
e la scarsa rilevanza
degli end-point. Un
terzo studio è in
corso, ma per ora
non si possono trarre conclusioni
attendibili sull’efficacia nel modificare
l’andamento della
malattia. In proposito sono esemplari
per equilibrio, analisi scientifica ed
etica le conclusioni
dell’Associazione
dei malati di Sla:
«La somministrazione di farmaci il
cui profilo beneficio-rischio non è
stato adeguatamen-
luppo della vicenda: una drammatica conferenza stampa con la partecipazione del paziente (in
condizioni cliniche emotivamente molto coinvolgenti), l’annuncio del nuovo parere sfavorevole del tribunale, le immancabili prese di posizione dei politici locali, le spiegazioni imbarazzate da parte dell’Azienda sanitaria, le clamorose richieste da parte di altri malati nella provincia. Il tutto nella desolante carenza di informazioni tecniche e cliniche da parte degli esperti
della malattia, mitigata solo da una posizione molto equilibrata espressa dall’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica. I passaggi successivi sono stati il coinvolgimento del presidente del Consiglio, che ha concesso il permesso all’importazione del farmaco, con costi
(140.000 euro annui) coperti attraverso sottoscrizioni popolari, e l’inizio del trattamento.
Un elemento che sembrava irrobustire le argomentazioni a favore della concessione del farmaco era il parere favorevole espresso dai tribunali di alcune piccole città.
te studiato espone i
pazienti a rischi
inutili […] Le rilevanti risorse neces-
patologie. […] Non
vi sono i presupposti per fornire gratuitamente, a carico
quesiti più generali
sul concetto di
“consumatore”, riferito da alcuni a chi
Un malato di sclerosi laterale amiotrofica chiede un farmaco
non indicato per la sua malattia, comunque incurabile.
Il suo caso viene appoggiato dal Codacons, con grande eco sui
giornali. La magistratura dà ragione all’Ausl che aveva rifiutato
il farmaco, ma interviene il governo. I commenti al caso ne analizzano gli aspetti clinici, giuridici ed etici
del Servizio sanitario nazionale, il farmaco Igf-1».
In contrasto con
questa posizione è
il Codacons, che
suggerisce rilevanti
utilizza servizi sanitari. L’accettazione
di questo concetto
trascinerebbe pericolose derive verso
un modello consumistico materialisti-
Gabriele Greco
il caso
sarie per questa
terapia devono
intendersi come
sottratte ai trattamenti con evidenze
scientifiche comprovate per altre
co del rapporto
medico-paziente.
Il deflagrante potere
degli organi di
informazione,
soprattutto in temi
di sanità, impone la
ricerca di un uso
etico del ricorso alle
donazioni, da considerare risorse virtuose, preziose, ma
non illimitate, a
favore di un finanziamento complessivo delle istanze di
salute e come tali
da indirizzare su
canali non solo
emotivi.
35
Considerare il contesto
e le risorse disponibili
I
l legale dell’interessato ha citato
in giudizio
l’Ausl, omettendo la
richiesta formale
secondo le consuete
procedure fissate
dalla Regione
Emilia Romagna,
per ottenere la fornitura gratuita del
medicinale Igf-1.
Si sarebbe trattato
di una somministrazione off label: il
farmaco non è registrato con l’indicazione per la quale
sarebbe stato utilizzato nel suo caso.
Per questo sono
stata coinvolta, in
qualità di medico
legale dell’Ausl:
l’avvocato del servizio legale aziendale,
pur essendo un
valentissimo professionista, necessitava ovviamente di un
supporto medico
legale e clinico per
poter motivare fondatamente la posizione di resistenza
da parte dell’Ausl.
Il neurologo mi ha
fornito prontamente materiale bibliografico e una rela-
36
zione specialistica,
dalla quale si evinceva che non ci
sono a oggi prove
scientifiche inconfutabili che dimostrino una reale efficacia del farmaco
nella cura della Sla,
neanche rispetto al
rallentamento dell’inesorabile evoluzione della malattia.
Partendo dal presupposto che è un
dovere etico assicurare ai cittadini
uguali opportunità
di trattamento e che
è pertanto inevitabile effettuare delle
scelte che contemperino le esigenze
del singolo con
quelle della collettività, nell’ottica di
una corretta allocazione delle risorse
(purtroppo assai limitate), si è considerato che non
avrebbe avuto alcun
fondamento dissipare ingenti somme
di denaro pubblico
per un trattamento
la cui efficacia non
era (e non è) stata
assolutamente
comprovata.
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Anche quando si
chiede il parere del
medico legale bisogna tenere conto
dei criteri che guidano l’esercizio di
una medicina basata sulle prove di
efficacia, secondo il
principio propugnato dal giurista
Ferrando
Mantovani, che sollecitava in ambito
sanitario valutazioni condotte «secondo la miglior scienza ed esperienza del
momento storico»
in cui ci si trova a
operare.
Questo ragionamento, giustissimo,
richiede tuttavia
un’aggiunta e una
precisazione: bisogna tenere conto
non solo del
momento storico,
ma anche del contesto operativo in
cui si lavora e delle
risorse umane e
materiali effettivamente disponibili.
Un clima rovente
Il giudice ha respinto l’istanza dell’interessato e si è scatenata una vera e
propria bufera
mediatica, con articoli sui giornali,
conferenze stampa,
videoriprese, manifestazioni in altri
nosocomi della provincia da parte di
altri pazienti affetti
dalla stessa patologia: una pressione
non indifferente sul
collegio giudicante
che avrebbe poi
dovuto valutare il
ricorso, oltre che un
attacco violento
all’immagine
dell’Ausl.
Si è reso pertanto
necessario predisporre una nuova
memoria difensiva,
questa volta ancora
più dettagliata e
comprovata.
Il clima si faceva
sempre più rovente,
da un lato perché in
altre Regioni gli
organi giudicanti
avevano emesso
giudizi in senso
opposto, condannando le aziende
sanitarie del luogo a
rimborsare per intero il costo del trattamento con il farmaco, dall’altro perché
l’esito espresso
nella nostra realtà
locale avrebbe
potuto influenzare
quello di altre
Regioni, in cui il
giudizio era ancora
in corso.
Nel caso specifico
l’interessato e i suoi
familiari, rivoltisi
anche ad associazioni di consumatori, hanno coinvolto
le più alte sfere
dello Stato ottenendo di poter importare il farmaco: si è
quindi posto l’ulteriore problema
della responsabilità
della sua somministrazione, posto che
il medico prescrittore, residente in
un’altra provincia,
avrebbe richiesto
una remunerazione.
Data però la volontà
dell’interessato di
sottoporsi al trattamento, si è ritenuto
opportuno osservare alcune precauzioni nell’ambito
della collaborazione
che l’equipe aziendale di cure continue avrebbe dovuto
fornire per la somministrazione del
farmaco.
Una terapia
“sperimentale”
In proposito si è
ritenuto necessario
richiedere al medico prescrittore della
terapia di ribadirne
l’utilità anche allo
stato attuale e di
specificarne posologia e modalità di
somministrazione
nel paziente in questione, evidenzian-
Il ricorso alla magistratura
è una sconfitta per tutti
Q
cure si stanno muovendo nella direzione desiderabile. Un
tratto dominante è
sicuramente lo spostamento del centro
di gravità rispetto al
potere decisionale:
la facoltà unica ed
che è stato ricordato
all’interessato quali
possono essere gli
eventuali rischi
individuati e gli
effetti collaterali, e
raccogliendo il consenso informato
sottoscritto dal
paziente. Si è puntualizzato che l’interessato ha richiesto
e accettato la somministrazione del
farmaco off label
pienamente consapevole della natura
“sperimentale” della
terapia, esonerando
quindi da ogni
responsabilità il
personale della
nostra Azienda.
esclusiva del medico di prendere le
decisioni sta cedendo il posto a un
potere condiviso. Si
qualifica questo
fenomeno come
empowerment del
cittadino, in cui la
posizione del malato non è più di sottomissione. Anche
l’esigenza del con-
senso informato per
ogni trattamento va
in questa direzione,
secondo la definizione che ne ha
dato il Comitato
nazionale per la
bioetica: l’esigenza
«di una più ampia
partecipazione del
malato alle decisioni che lo riguardano». Qui sorge la
Alessandra
De Palma
il caso
uesta vicenda si può
considerare
come un test per
verificare se i cambiamenti in atto
nella nostra società
in rapporto ai diritti
e doveri relativi alle
do l’eventuale presenza di controindicazioni e di rischi di
complicanze e gli
effetti collaterali del
trattamento, di cui
avrebbe dovuto
informare puntualmente l’interessato.
Quindi l’equipe
aziendale avrebbe
potuto provvedere
alla somministrazione del farmaco,
una volta pervenuto, dopo avere allegato nella cartella
domiciliare tutto il
materiale, relativo
anche all’autorizzazione (possibilmente scritta) del
paziente all’importazione del farmaco
da parte del ministero della Salute,
registrando altresì
37
Gli autori
Gabriele Greco è direttore UO di neurologia, Ospedale Ramazzini di Carpi (MO)
[email protected]
Alessandra De Palma è responsabile
dell’UO di medicina legale, Ausl di Modena
[email protected]
Sandro Spinsanti è direttore dell’Istituto
Giano, Roma
prima perplessità:
stiamo andando
verso un modello di
decisione condivisa
oppure verso una
subalternità del
medico alle decisioni del paziente?
Nella prima ipotesi
la relazione di sottomissione sarebbe
superata a beneficio
di una decisione
consensuale, mentre la seconda ci
presenta un cittadino che assume la
posizione di dominanza che in passato era propria del
medico, e gli chiede
di essere semplicemente l’erogatore
dei servizi da lui
decisi.
È questa la concezione che trapela
dalle prese di posizione del Codacons:
si erge a tutela di un
38
“consumatore”,
rivendicando il
diritto di accedere a
dei servizi che l’organizzazione sanitaria dovrebbe mettergli a disposizione. Questa trasformazione del ruolo
del malato però è
troppo radicale per
non far sorgere
qualche perplessità.
Indipendentemente
dalla questione dei
costi di una sanità
ridotta a bene di
consumo, è a
rischio la sicurezza
stessa del malatoconsumatore: dietro
il suo apparente
ruolo forte di decisore, emerge una
radicale debolezza,
esposto com’è a
mille pressioni dalle
quali non ha la
competenza per
difendersi. Non solo
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
quelle esterne del
mercato, ma anche
quelle interne,
riconducibili a trattamenti suggeriti
dalla disperazione
piuttosto che da
una ragionevole
speranza. Jerome
Groopman in
Anatomia della speranza illustra quale
competenza comunicativa deve sviluppare il clinico
per guidare il
paziente nel distinguere tra la vera e la
falsa speranza (vedi
i commenti al suo
libro in Janus 24,
inverno 2006). Tutto
ciò andrebbe perso
se l’alleanza terapeutica fosse destinata a dissolversi in
un empowerment
che attribuisca tutto
il potere decisionale
al paziente, senza
comunicazione con
il medico.
Allocare le risorse
Un secondo aspetto
è quello relativo
all’ampliamento dei
compiti del medico.
Fino a un recente
passato, tutto quello che gli era richiesto era di ispirare le
sue decisioni al criterio unico del maggior beneficio del
paziente. Tutto ciò
che, in “scienza e
coscienza”, riteneva
potesse andare a
vantaggio del malato, poteva e doveva
fornirlo. Oggi non è
più così. La nuova
versione del Codice
deontologico dei
medici italiani
(dicembre 2006) ha
espressamente
introdotto altri due
criteri: le preferenze
personali del
paziente, nelle quali
prende corpo la sua
autonomia, e l’attenzione a un’equa
ripartizione delle
risorse, che si traduce nel far entrare
nell’orizzonte delle
considerazioni
anche i potenziali
utenti dei servizi,
che sarebbero svantaggiati da sprechi e
destinazioni di
risorse senza una
base di appropriatezza. Questo era,
appunto, il caso del
paziente di Modena
che richiedeva un
farmaco costosissimo, del quale la
scienza medica non
possiede ancora
prove convincenti
di efficacia.
È giusto attribuire al
medico, in quanto
prescrittore singolo,
il ruolo di vigile
custode delle risorse destinate alla
sanità? I medici, in
quanto categoria
responsabile delle
prescrizioni, e quindi di una parte rilevante della spesa
sanitaria, non possono più chiamarsi
fuori dalle questioni
gestionali. Ma il
modo di affrontarle
non può essere unicamente la responsabilizzazione personale del singolo
medico, promosso
al ruolo di “allocatore di risorse”.
Occorre prendere in
considerazione altre
modalità più collegiali, di responsabilità condivisa. Il
rispetto di linee
guida e protocolli è
senz’altro una condizione necessaria
per una sanità
equa. I professionisti inoltre dovranno
essere sostenuti da
altre funzioni dell’organizzazione
sanitaria nel suo
insieme. Dovranno
essere esplicitati i
livelli di assistenza
assicurati dal servizio sanitario pubblico, differenziandoli da ciò che può
essere catalogato
come un optional.
Nel caso in questione un ruolo positivo
è stato svolto dall’ufficio legale dell’azienda sanitaria e
dal servizio di
medicina legale.
Questa dimensione
della qualità gestionale è, in definitiva,
per saperne di più
Codice deontologico dei medici
italiani (dicembre 2006).
Comitato nazionale di bioetica,
La gestione
dei conflitti
Un terzo aspetto
problematico
riguarda la gestione
dei conflitti, in un
ambito che per
lungo tempo ne era
stato immune. La
modalità di risoluzione dei conflitti
che prevede che
uno perda e l’altro
vinca è devastante
in medicina: tutti
escono perdenti da
scontri come questo. Medici e amministratori sanitari
non possono rallegrarsi di aver avuto
ragione dalla magistratura: il malanimo che questa
vicenda lascia dietro di sé mina alle
radici il buon rapporto di cui nessuna pratica medica
potrà mai fare a
meno. E il ricorso
alla magistratura, se
è legittimo in una
questione di eredità
o di confini, risulta
inappropriato
quando si tratta di
decisioni cliniche.
Bisognerebbe fare
ogni sforzo per
gestire il conflitto in
modo creativo, in
modo che tutti alla
fine ne escano vincitori, e quindi evitare il più possibile
il percorso giudiziario: un’alternativa
potrebbe essere il
coinvolgimento del
comitato etico. I
comitati sono stati
creati per la revisione e il controllo
delle sperimentazioni, ma è previsto
che possano occuparsi anche della
promozione dell’etica nella pratica
clinica. Un loro
intervento consulenziale (non decisionale) in situazioni conflittuali
potrebbe contribuire a una risoluzione
positiva, purché
siano disposti a
entrare in questo
ambito e siano qualificati per fornire
pareri
documentati.
Sandro Spinsanti
il caso
Informazione e consenso all’atto
medico, 1992.
J. Groopman, Anatomia della speranza. Vita e Pensiero, Milano, 2006.
più opera collettiva
che individuale: la
complessità di ruoli
e funzioni coinvolti
è ciò che differenzia
la governance dal
governo clinico,
inteso come esercizio di potere.
39
La medicina
che gioca di anticipo
Dall’antico modello ippocratico alla preclinica. Il rapporto medico-paziente è cambiato
nel tempo. Non è più il malato a rivolgersi al dottore con una richiesta di aiuto, ma è la
scienza che ci dice cosa abbiamo, ancora prima di sentire i sintomi. Il paziente è un consumatore le cui esigenze devono crescere per espandere un mercato di beni e servizi molto complesso. L’unico soggetto in grado di attribuire senso agli atti medici è il paziente.
Roberto Satolli
D
La legittimità degli interventi medici ha avuto per
millenni un solido fondamento nel gesto di chi si fa
avanti per chiedere aiuto:
«Dottore mi curi, perché
sto male». In quel modello,
il paziente decide di avere
bisogno e chiama il medico; con ciò gli chiede di
fare quello che, per sua
scienza, sa essere la cosa
giusta. Il consenso è implicito nella richiesta di aiuto
e l’informazione al malato
appare superflua, se non
addirittura impossibile o
controproducente, perché
è solo il professionista che
deve possederla per agire.
È uno schema a cui implicitamente ritengono di
potersi attenere ancora
oggi sia i medici sia i cittadini, per gran parte dell’attività clinica corrente,
nonostante il gran parlare
di consenso informato e di
autonomia del paziente. In
altre parole, se la medicina
è “un modo del potere”,
secondo l’ipotesi formulata
negli anni Settanta da
Giulio Maccacaro, quel
potere nasce dall’iniziativa
del paziente di rivolgersi al
curante e di affidargli il suo
corpo. O almeno così era
l’obiettivo
icevano gli antichi:
«Medicus non accedat nisi vocatur», il
medico non varchi la soglia
se non viene chiamato. Alle
orecchie contemporanee,
abituate al clamore quotidiano delle campagne per
sensibilizzare i cittadini su
questo o quel malanno trascurato, quel limite suona
strano, fuori luogo e fuori
tempo. Eppure analizzarne
le ragioni, il significato e
l’evoluzione può essere
utile per capire che cosa
sta succedendo alla medicina contemporanea e perché è in difficoltà.
41
sino a poco tempo fa, perché ormai il veto è caduto e
questo ha cambiato le carte
in tavola, al punto che il
modello “ippocratico” non
si può più applicare a gran
parte di ciò che si fa oggi in
medicina.
Nasce la preclinica
Non è più il soggetto che si
dichiara malato, in base ai
disturbi e alle limitazioni
che avverte. La malattia (o
la condizione comunque
bisognosa di cure) viene
riconosciuta prima e a prescindere dai sintomi, grazie
a tecnologie di indagine
con sempre maggiore
capacità di penetrazione.
Se nell’Ottocento è nata la
clinica moderna, parafrasando Michel Foucault si
potrebbe dire che nel
Novecento, con la misurazione della pressione nelle
arterie, la scoperta dei
raggi X e la messa a punto
delle analisi biochimiche
del sangue e delle urine, è
nata la “preclinica”, che ha
continuato a svilupparsi
negli ultimi decenni in
molteplici direzioni: controlli periodici, check up,
screening, diagnosi precoce, test predittivi eccetera.
Attenzione: non si tratta
solo della cosiddetta prevenzione, attività a cui si dà
42
oggi un significato molto
ampio, ma comunque limitato. È tutta la medicina
ormai a giocare di anticipo,
anche quando si tratta di
curare gli esiti di un infarto
o di combattere un tumore:
sono i dati strumentali,
prima che i disturbi del
malato, a svelare la presenza di una disfunzione del
muscolo cardiaco o di una
recidiva neoplastica, ed è
sulla base di quelli che si
prendono le decisioni.
Un segreto ben custodito
Purtroppo la particella
“pre”, che compone molti
dei termini usati per
descrivere le iniziative
mediche di anticipazione,
cela un inganno semantico: supponendo che al
“pre” debba seguire sempre
un poi, lascia intendere che
ogni paziente etichettato in
anticipo sarebbe stato
destinato a divenire prima
o poi un malato nel senso
pieno del termine. Ma non
è così, e quanto più precocemente si vuole intervenire, tanto più alto è il
numero di persone che
vengono medicalizzate per
“curarne” (in uno qualsiasi
dei possibili significati del
termine) una sola.
Tutto ciò si può esprimere
attraverso il numero neces-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
sario da trattare. È una
misura che il settimanale
americano Time qualche
mese fa ha definito come
«uno dei segreti meglio
custoditi della statistica
medica»: pur essendo in
uso da una ventina d’anni,
i medici non ne parlano
mai volentieri, e forse non
ne hanno ben acquisito il
significato durante i loro
studi all’università.
Dalla notte dei tempi sino
a pochi anni fa il numero
necessario da trattare è
sempre stato implicitamente uguale a uno: io mi
rivolgo a te perché sono
malato e tu curi me.
Oggi un medico che prescrive diuretici per la pressione o colliri per il glaucoma tratta cento persone
per curarne una. Però né
lui né i suoi pazienti ne
sono consapevoli, ingannati dai dati strumentali che
testimoniano l’attività dei
trattamenti (la riduzione
della pressione del sangue
o del tono oculare, per
restare ai due esempi), non
il loro esito di salute reale
(evitare un infarto o conservare la vista).
Di fatto il contratto uno a
uno si è rotto, i medici trattano implicitamente popolazioni di pazienti, che loro
stessi hanno dichiarato
bisognosi di cure.
Infatti a ben vedere il limite
ippocratico altro non era
che un divieto teso a impedire che fossero i medici
stessi a stabilire cosa è malattia, quali ne sono i confini e quando è appropriato
somministrare un intervento medico. Di questo
potere si sono ormai saldamente appropriati i medici,
attraverso i diversi livelli e
gradi di istituzioni scientifiche, senza rendersi conto
che il loro ruolo in questo
modo è divenuto totalmente autoreferenziale.
L’ingannevolezza
del consenso informato
Forse nascono proprio da
qui, assai più che da altri
cambiamenti sociali, la
crisi di fiducia tra medico e
paziente, tra medicina e
società, e la percepita
necessità di un consenso
esplicito per ogni intervento medico, viziata dalla non
consapevolezza dell’origine
reale di questa esigenza.
In quest’ottica, il consenso
informato individuale è in
Roberto Satolli
Agenzia di giornalismo
scientifico Zadig
[email protected]
re, collettivamente definibile come mercato. La pubblicità, la promozione e il
marketing sono le modalità
dell’informazione verso il
consumatore, le cui esigenze devono crescere per
A ben vedere il limite ippocratico altro non era che un
divieto teso a impedire che fossero i medici stessi a stabilire che cosa è malattia, quali ne sono i confini e
quando è appropriato un intervento medico
bisognerebbe affiancare a
molte decisioni mediche
anche un consenso collettivo: per esempio per ogni
modifica nella definizione
delle malattie, nell’individuazione della soglie di
intervento, nella messa in
opera di screening, ecc.
Tutto ciò è complicato e
reso torbido dall’irrompere
del punto di vista industriale nel settore della
salute, che vede nell’aumento del numero necessario da trattare l’espansione del proprio mercato
potenziale, e determina la
subordinazione crescente
dei medici a questo
comando, di pura natura
economica.
Vi è qui un’altra spinta
nascosta sul tema del consenso: per l’industria il
paziente è un consumato-
espandere le vendite. Il suo
consenso è perciò strategico per vincere le resistenze
dei sistemi sanitari, che
rappresentano chi paga in
un mercato di beni e servizi molto complesso.
Sta emergendo recentemente (soprattutto negli
Stati Uniti, ma anche in
molti Paesi europei, Italia
compresa) la parola d’ordine “responsabilità per la
salute” (se ti ammali è
colpa tua, soprattutto se
non accetti di seguire stili
di vita salutari o le cure prescritte dal medico) che
viene presentata come l’apoteosi del principio di
autonomia, mentre ne è la
negazione, e confina sempre più spesso con l’obbligo
o la coercizione a curarsi.
Roberto Satolli
l’obiettivo
L’autore
gran parte un inganno perché, come si è detto, i
medici in realtà ormai
quasi sempre trattano tacitamente popolazioni, non
individui. Per rispondere
adeguatamente alla novità,
43
Cesareo:
diamoci un taglio
Praticato per secoli come un intervento eccezionale (e dando per scontata la morte della
madre), il taglio cesareo è diventato negli ultimissimi decenni una pratica abituale in
molti Paesi, e soprattutto in Italia. Nonostante le raccomandazioni dell’Oms e molte
ricerche che evidenziano maggiori rischi, sempre più spesso i medici ricorrono al cesareo
anche quando non è necessario, soprattutto nelle cliniche private e nell’Italia del Sud.
Paolo Gangemi
M
acbeth si sentiva
sicuro sul trono di
Scozia: le streghe gli avevano garantito che «none of
woman born shall harm
Macbeth» (nessun nato di
donna farà del male a
Macbeth). Eppure Macduff
riesce a sconfiggerlo e
decapitarlo: la profezia non
aveva considerato che il
suo nemico era stato «from
his mother’s womb untimely ripp’d» (strappato
prematuramente all’utero
materno).
L’epilogo della tragedia di
Shakespeare dimostra
come la nascita con il cesa-
44
reo fosse vista come una
cosa a metà fra una nascita
vera e propria e una cosa
diversa.
L’idea che veniva data per
scontata era che il cesareo
serviva per salvare il nascituro sacrificando la madre,
e questo approccio è rimasto fino ai tempi moderni:
il primo caso registrato di
cesareo in cui la madre è
sopravvissuta risale alla
Svizzera del 1500.
I Romani invece lo eseguivano solo su donne morte,
e questo smentisce la tradizione che fa risalire l’etimologia della parola a
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Cesare (la cui madre morì
45 anni dopo averlo messo
al mondo); l’attribuzione
conferma però l’aura di
eccezionalità, nel bene e
nel male, che circondava la
pratica: un atteggiamento
che è rimasto sostanzialmente invariato fino a
tempi recenti.
Da eccezione ad abitudine
È solo negli ultimissimi
anni che, dall’eccezionalità, il cesareo è diventato
una pratica abituale. Anche
troppo abituale, secondo
l’Organizzazione mondiale
della sanità. Infatti in molti
Paesi il numero di parti
cesarei è in crescita e supera di molto quello raccomandato dall’Oms stessa: è
un caso emblematico di
trattamento medico (anzi,
chirurgico!) operato in
assenza di condizioni che
lo richiedono.
Questo fenomeno fa registrare un picco proprio in
Spagna e al 16 per cento in
Francia.
Una medicalizzazione
sempre maggiore
«Le cause del fenomeno
sono diverse», spiega
Angela Spinelli, del reparto
Salute della donna e dell’età evolutiva del Centro
nazionale di epidemiolo-
«Molti ginecologi sostengono che i cesarei non indispensabili vengono eseguiti su richiesta delle donne.
Secondo me però questa percentuale è piuttosto bassa,
e non basta a giustificare il loro alto numero»
gia, sorveglianza e promozione della salute
dell’Istituto superiore di
sanità, «ma una, secondo
me, è quella principale: la
medicalizzazione sempre
maggiore della gravidanza,
e quindi in particolare
anche del parto. Il discorso
infatti non vale solo per la
percentuale alta di parti
cesarei, ma anche per altri
indicatori, come per esempio il numero eccessivo di
ecografie durante la gravidanza». Secondo la Società
italiana di ginecologia e
ostetricia (Sigo), infatti, il
30 per cento delle donne in
gravidanza subisce più di 7
I rischi del cesareo
«Un’altra spiegazione,
secondo me convincente,
dell’aumento del numero
dei cesarei in Italia è quella
l’obiettivo
Italia. Secondo la terza edizione del rapporto Cedap
(Certificato di assistenza al
parto), che presenta la
fotografia del parto nel
nostro Paese aggiornata al
2004, la percentuale dei
parti per via chirurgica è
passata dall’11 per cento
del 1980 al 36,4 per cento,
laddove l’Oms ne raccomanda l’uso nel 10-15 per
cento dei casi.
Le cifre sono sensibilmente
più basse in altri Paesi: nel
2000 (quando in Italia la
percentuale era già al 33
per cento), arrivava al 21
per cento in Inghilterra e
Galles, al 18 per cento in
ecografie. Anche il grande
aumento dei parti cesarei
in Italia non dipende da un
incremento di casi urgenti
patologici, dove cioè è
necessario, ma di quelli
cosiddetti elettivi. «Molti
ginecologi sostengono che
i cesarei non indispensabili
vengono eseguiti in seguito
alla richiesta da parte delle
donne che vogliono risparmiarsi le sofferenze del
parto naturale. Secondo
me però questa percentuale è piuttosto bassa, e non
basta a giustificare il
numero dei cesarei elettivi», sostiene Angela
Spinelli. La sua ipotesi è
suffragata da un’indagine
condotta in dodici Regioni
italiane pubblicata sulla
rivista scientifica Birth,
secondo cui le donne italiane preferiscono a larga
maggioranza il parto naturale: nove donne su dieci
tra quelle che avevano partorito spontaneamente
erano soddisfatte della propria scelta, e circa otto su
dieci tra quelle sottoposte
al taglio cesareo avrebbero
preferito il parto naturale.
45
per saperne di più
S. Donati et al., “Do
Italian Mothers Prefer
Cesarean Delivery?”. In:
Birth 30 (2), 2003.
B. Laubereau et al.,
“Caesarean section and
gastrointestinal symptoms, atopic dermatitis,
and sensitisation during
the first year of life”. In:
Archives of Disease in
Childhood 2004; 89.
M.F. MacDorman et al.,
”Infant and Neonatal
Mortality for Primary
Cesarean and Vaginal
Births to Women with ‘No
Indicated Risk,’ United
States, 1998-2001 Birth
Cohorts”. In: Birth 33 (3),
2006.
Ministero della Salute,
Certificato di assistenza al
parto (Cedap). Analisi dell’evento nascita, Anno
2004.
www.ministerosalute.it/
imgs/C_17_pubblicazioni_621_allegato.pdf
J. Mollison et al.,
“Primary mode of delivery
and subsequent pregnancy”. In: Bjog: An
International Journal of
Obstetrics and Gynaecology
112 (8), 2005.
W. Shakespeare, Macbeth
(Testo inglese a fronte).
Giunti, Firenze, 2004.
46
che fa appello ai motivi
medico legali: se ci sono
complicazioni post parto il
medico, tramite la sua assicurazione, deve comunque
pagare», prosegue Angela
Spinelli. «Il cesareo diventa
così un’arma di medicina
difensiva, con cui il medico
si cautela di fronte a possibili obiezioni del tipo “perché non è stato provato un
cesareo?”. Da un lato questo dovrebbe metterli al
riparo, dall’altro però
diversi studi evidenziano
che i rischi di complicanze
sono maggiori in caso di
parto cesareo».
Secondo una ricerca dei
Centers for Disease Control
and Prevention di Atlanta,
infatti, i bambini che
nascono a seguito di un
cesareo hanno un rischio
quasi triplo di morire entro
il primo mese di vita rispetto a quelli nati dopo un
parto naturale: 1,77 ogni
mille bambini rispetto agli
0,62 del parto naturale.
Studiosi della LudwigMaximilians Universität di
Monaco hanno invece
dimostrato che i bambini
nati a seguito di parto cesareo hanno un rischio molto
più elevato di sviluppare
allergie alimentari nel
corso dei primi dodici mesi
di vita. Ma anche per le
madri, a quanto pare, il
cesareo ha conseguenze
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
negative: secondo uno studio di un gruppo di ricercatori scozzesi le donne che
danno alla luce il loro
primo figlio grazie a un
parto cesareo hanno molte
meno probabilità delle
altre di avere un secondo
figlio, e comunque avranno
maggiori difficoltà nel concepimento.
Percentuali più alte
al Sud
Secondo Angela Spinelli,
«una caratteristica specifica che influenza il dato italiano è quella relativa ai
parti successivi a quello
cesareo: per una donna che
abbia partorito una volta
con un cesareo è quasi
automatico che anche
quelli successivi avverranno in questo modo. In Gran
Bretagna, invece, nel 60 per
cento di questi casi si tenta
invece un parto naturale. È
vero che spesso poi si
rende necessario il cesareo,
ma se ne evitano anche di
superflui». Insomma, le differenze risentono molto
della geografia. E anche
all’interno del panorama
italiano le realtà locali presentano grandi disparità:
sempre secondo il rapporto
Cedap, si va dal 59 per
cento della Campania al
19,6 per cento della Valle
d’Aosta. In generale, le
Regioni del Centrosud
hanno percentuali mediamente più alte: dopo la
Campania seguono
Basilicata, Puglia, Sicilia,
Abruzzo e Lazio, tutte con
percentuali sopra il 40 per
cento. «Negli anni Ottanta
le percentuali erano più
basse, ma è interessante
notare che erano le Regioni
del Centronord a far registrare quelle più alte.
L’aumento nel Sud è legato
ancora una volta alla maggiore medicalizzazione che
c’è in quelle Regioni, e probabilmente, in parte, al
ricorso più frequente alle
cliniche private», prosegue
ancora Angela Spinelli.
Differenze fra pubblico
e privato
Il caso limite
di Inés Ramírez
«Il problema è che non
sappiamo come fermare
questo aumento», conclude preoccupata Angela
Spinelli. Anzi, si sperimen-
tano anche tecniche nuove,
per migliorare l’operazione
e ridurre ulteriormente il
dolore e i rischi: alcuni specialisti dell’Allgemeines
Krankenhaus di Vienna
hanno messo a punto una
nuova tecnica per realizzare i parti cesarei che
dovrebbe essere meno
invasiva e dolorosa di quella attualmente praticata in
tutto il mondo. Con il
nuovo metodo si otterrebbe una minor perdita di
sangue da parte della
madre, e basteranno circa
20 minuti per realizzare
l’intervento, con il quale
sono nati oltre 1000 bambini negli ultimi anni.
Il caso che si pone all’estremo opposto è quello di
Inés Ramírez, una contadina messicana che il 5
marzo 2000 ha partorito
nel suo villaggio, dove non
c’erano ospedali e in quel
momento neanche medici.
Così, dopo 12 ore di travaglio, senza avere nessuna
cultura specifica, ha deciso
di operarsi da sola un
taglio cesareo, coronato dal
successo pieno: sia lei che
il bambino sono sopravvissuti. Lei stessa però dice di
non consigliare a nessuno
la sua esperienza: avrebbe
preferito una corsa in ospe
dale, senza dubbio.
Paolo Gangemi
l’obiettivo
Un’altra delle differenze
più eclatanti nei dati è
quella fra strutture pubbliche e cliniche private: nelle
strutture pubbliche la percentuale di parti cesarei è
del 34 per cento, nelle case
di cura accreditate del 57,8
per cento e in quelle private del 74,2 per cento. «Il
fatto che il dato del pubblico si avvicina così tanto a
quello totale testimonia
che solo una minoranza
dei parti avviene in strutture private», spiega Angela
Spinelli. «C’è chi insinua
che i medici ricorrono al
cesareo perché, in quanto
intervento chirurgico, rappresenta una fonte di guadagno. Questo potrebbe
essere vero in alcuni casi
nelle strutture private, che
però, come dicevo, rappresentano una piccola quota
di tutti i parti.
Una spiegazione più convincente riguarda l’organizzazione: ora un medico
può programmare un cesareo con mesi di anticipo,
fissando il giorno e l’ora.
Così si risparmiano le
emergenze notturne e le
corse in ospedale». In ogni
caso, si tratta di un intervento chirurgico che viene
operato su pazienti che
non ne hanno bisogno: la
Sigo sostiene che sarebbe
giustificato in generale per
le donne sopra i 40 anni,
ma denuncia che ricorrono
al chirurgo anche un terzo
di quelle sotto i 25 anni,
per le quali il parto naturale non dovrebbe porre
alcun problema.
47
Sport e medicina:
non solo doping
Lo sport porta con sé patologie specifiche e oggi l’intensificazione dell’attività agonistica
causa infortuni più frequenti sia negli atleti sia nei dilettanti. È quindi importante che la
medicina sportiva veda riconosciuta la sua specificità. Il problema è stabilire fino a che
punto è lecita la farmacologia: spesso, come dimostra il recente caso della Juventus, i trattamenti perdono di vista l’etica, il diritto e la stessa salute degli atleti.
Francesco Sala
L
a medicina sportiva, intesa come ogni atto medico volto a favorire, conseguire e mantenere lo stato
di salute psicofisico dell’atleta impegnato in ambito
agonistico, ha assunto negli
ultimi anni un’importanza
sempre crescente.
La grande rilevanza sociale
dello sport, ormai praticato, sia pure con diversa gradualità di impegno, da
milioni di persone, la
straordinaria risonanza e
popolarità che gli eventi
sportivi e i loro attori
hanno assunto nella vita
comune, gli enormi inte-
48
ressi economici che sempre più spesso li accompagnano, hanno fatto sì che
anche la medicina dello
sport abbia radicalmente
trasformato logiche e
metodiche di intervento.
Questo appare giustificato
e in linea con le mutate esigenze, ma pone sul tappeto
una serie di problemi di
carattere deontologico ed
etico che meritano un’attenta riflessione e ai quali
non è sempre facile dare
una risposta.
Naturalmente è da chiarire
subito che tutto ciò non fa
riferimento all’attualissimo
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
problema del doping, inteso come l’insieme delle
pratiche illecite, farmacologiche e non, volte ad alterare in senso migliorativo
la prestazione sportiva:
non esiste infatti alcuna
incertezza scientifica e non
c’è bisogno di alcuna ulteriore riflessione etica per
definire e rigettare come
eticamente, giuridicamente
e scientificamente inaccettabili e dannose per la salute tutte le pratiche volte ad
alterare e condizionare illegalmente la prestazione
sportiva. Il riferimento è
piuttosto ad altri aspetti,
che offrono alcuni interessanti motivi di riflessione.
Attingere alla cultura
dei valori
Il primo spunto nasce da
un problema che investe la
quotidianità della professione del medico sportivo,
ed è l’atteggiamento di
fondo nei confronti del far-
agli atleti che si affidano a
lui quest’impostazione di
fondo, che attinge pienamente a una cultura dei
valori: insegna che per
migliorarsi o superare i
momenti di crisi è necessario fare leva sulle proprie
risorse, sulla propria determinazione, sulla propria
capacità di realizzare uno
stile di vita adeguato, piuttosto che cercare aiuti al di
Occorre sfatare il mito che vede nell’atleta professionista il prototipo della salute. Sono ormai frequenti i casi
di atleti che devono abbandonare l’attività agonistica
ancora giovani per gravi problemi fisici
fuori di sé, nel farmaco o
nella sostanza miracolosa
più o meno lecita.
Il processo alla Juventus
Il secondo spunto di riflessione riguarda il rapporto
tra farmaco lecito e sport,
naturalmente non tanto da
un punto di vista farmacologico, quanto piuttosto nei
suoi risvolti deontologici
ed etici.
È questo in sostanza il
grande tema che è stato
proposto dal processo
penale allo staff medico
della Juventus: un argo-
l’obiettivo
maco e del suo utilizzo.
Per fare sport a qualsiasi
livello e per ottenere i risultati che si propone, l’atleta
ha a disposizione sostanzialmente due mezzi, che
costituiscono una sorta di
cornice di valori entro cui
dev’essere concepita ogni
pratica sportiva: una metodologia di allenamento
ottimale e una corretta
igiene di vita che includa
l’ottimizzazione dell’alimentazione e del ritmo
sonno veglia e il controllo
delle abitudini voluttuarie.
È importante allora che il
medico dello sport sappia
impegnarsi per trasmettere
mento di grande interesse,
ma che non è stato per
nulla colto dai mass media
e dal grande pubblico, tutti
tesi e concentrati a cogliere
o meno le prove della somministrazione agli atleti di
sostanze dopanti come l’eritropoietina.
In realtà il tema è di grandissimo rilievo, perché
tocca il movimento sportivo nel suo complesso, dall’atleta professionista al
dilettante fino all’atleta
amatoriale, ma anche perché pone una serie di quesiti ai quali oggi più che
mai è necessario dare una
risposta.
Innanzitutto occorre sfatare il mito che vede nell’atleta professionista il prototipo della salute, intesa
non solo come prestanza
ed efficienza fisica, ma
anche nell’accezione più
classica di assenza di patologie. Il grande seguito di
pubblico e di mass media e
i grandissimi interessi economici e commerciali
hanno determinato un
aumento del numero e dell’intensità agonistica degli
eventi sportivi e quindi
anche degli allenamenti, al
punto da portare a livelli
preoccupanti le patologie
da usura e sovraccarico e la
possibilità di gravi incidenti traumatici. Sono ormai
frequenti i casi di atleti che
49
devono abbandonare l’attività agonistica ancora giovani per gravi problemi
fisici, ed è sempre crescente il numero di coloro che
arrivano al termine della
carriera sportiva in condizioni fisiche precarie, tali
comunque da condizionarne la vita futura.
Un prezzo accettabile?
Si può discutere se questo
sia giusto o meno, se sia un
prezzo accettabile da pagare al successo e al conseguimento, a volte, di rilevanti vantaggi economici,
ma dev’essere accettato il
principio che l’attività
sportiva professionistica
possa prevedere e accompagnarsi alla patologia, in
particolare a quella traumatica e da sovraccarico, e
che quindi necessiti di particolari attenzioni e cure
anche farmacologiche.
A questo proposito è interessante ancora una volta
la lettura degli atti del processo di Torino, dai quali
emerge chiaramente il
netto contrasto tra la posizione squisitamente giuridica della Procura («niente
farmaci a persone sane, la
patologia si cura col riposo
e l’astensione dall’attività
fisica») e quella della difesa, supportata dalla cultura
50
e dalla sensibilità medico
scientifica, che riconosce
invece l’uso del farmaco in
presenza di stati patologici
legati all’attività sportiva.
È assolutamente giusto
interrogarsi, più che sulla
liceità in astratto di un
intervento farmacologico
che peraltro è ben presente
e accettato nella cultura
sanitaria attuale, sui suoi
limiti, su fin dove sia lecito
spingersi.
Il riferimento va in particolare alle dosi, ai tempi e alle
modalità di utilizzo dei farmaci che vengono somministrati agli atleti per consentire loro di rendere al
meglio in competizione o
di sopportare allenamenti
sempre più intensi e ripetuti, mediante i quali poter
conseguire quel grado di
forma fisica che li renda e
mantenga competitivi ad
alto livello.
I farmaci in questione sono
soprattutto quelli ad azione
antinfiammatoria e analgesica, di cui sono ben noti
sia le azioni terapeutiche
sia gli effetti collaterali per
somministrazioni intense e
prolungate.
Non va però dimenticata la
vasta ed eterogenea categoria dei cosiddetti integratori, dei farmaci psicoattivi,
dei farmaci “metabolici”,
quasi sempre usati nell’atleta con scopi diversi
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
rispetto alle indicazioni cliniche di registrazione.
Falsi bisogni
Particolare rilevanza ha
assunto negli ultimi anni il
problema degli integratori,
vale a dire di tutta una
serie di sostanze (tra le
quali la carnitina, la creatina, gli aminoacidi ramificati e coenzimi vari) normalmente presenti nel nostro
organismo e nella nostra
alimentazione, ma che
vengono proposti e somministrati in dosi e quantità a volte nettamente
superiori ai reali fabbisogni
fisiologici per influenzare
in senso migliorativo la
prestazione sportiva o per
favorire un più rapido
ristoro delle energie.
L’importanza del problema
è dovuta alla grande diffusione di queste sostanze
non solo nell’ambito sportivo professionistico, ma
anche al livello della gran
massa degli sportivi amatoriali, a loro volta purtroppo
sensibili alle suggestioni di
una moda certamente
sospinta da forti interessi
commerciali.
Senza addentrarsi nel
dibattito sull’efficacia effettiva di queste sostanze, si
può affermare con tranquillità che un atleta in
sull’assenza di effetti dannosi per l’organismo dalla
somministrazione prolungata di alte dosi di queste
sostanze, di cui vengono
segnalati ormai da più
parti i rischi per la salute:
basti citare i ripetuti avvertimenti dei possibili effetti
tossici della creatina ad alte
dosi e la possibile correlazione, evidenziata da alcuni studi recenti peraltro
economico in cui si muove
lo sport, così gravato di
tensioni, pressioni e interessi a volte contrapposti,
tende a condizionare e a
orientare le valutazioni e le
scelte anche in ambito
sanitario, e questo rischia
di determinare situazioni
non sempre pienamente in
linea con la deontologia e
l’etica medica. Ecco allora
che possiamo sforzarci di
Il medico dello sport deve saper essere medico della
persona e non del problema; il suo lavoro deve fondarsi
sulla chiarezza e svilupparsi attraverso il dialogo con lo
scopo di raggiungere scelte ragionate e condivise
meritevoli di ulteriori
approfondimenti, con la
sclerosi laterale amiotrofica, che come è noto ha una
particolare incidenza tra i
calciatori professionisti.
Un richiamo
all’eticità delle scelte
La pratica medica applicata allo sport ha bisogno,
oggi più che mai, di riconoscere una cornice di riferimento, un quadro condiviso di valori entro i quali
collocare le scelte e le decisioni di tutti i giorni. Il contesto sociale, culturale ed
individuare per questo
“dover essere” quotidiano
del medico dello sport
alcuni pilastri fondanti.
Il primo è dato dal saper
essere una volta di più
medici della persona e non
limitarsi a essere medici
del problema. In un contesto così condizionante
come quello dello sport
professionistico, occorre
calare ogni decisione nella
realtà complessiva dell’atleta come persona, tenendo presente e dando il giusto peso a ogni aspetto del
problema, da quelli di
ambito più strettamente
sanitario e della tutela della
l’obiettivo
buono stato di salute
dovrebbe poter trarre da
un’alimentazione opportunamente modulata tutto
quanto necessario per la
sua attività sportiva.
Due osservazioni sono particolarmente significative.
La prima è di ordine culturale e riguarda la nostra
ricca realtà occidentale: la
società che, da quando è
comparso l’uomo sulla
Terra, ha avuto a disposizione la più grande quantità di risorse e di cibo che
mai si sia vista e tutte le
conoscenze scientifiche
per capire cosa è giusto
mangiare in ogni situazione. Ciononostante, siamo i
primi a cercare in ogni
modo di proporre ogni
sorta di integrazioni. È giusto chiedersi allora se ce ne
sia davvero bisogno, pur in
presenza di un’attività fisica intensa e ripetuta, o
piuttosto non si tratti di
falsi bisogni, indotti da una
logica estranea alla tutela
della salute.
La seconda osservazione è
invece di ordine scientifico:
non riguarda tanto il problema dell’efficacia, quanto piuttosto quello dell’innocuità, ancora tutta da
dimostrare.
Un’attenta rivisitazione
della letteratura scientifica
disponibile non lascia
infatti del tutto tranquilli
51
L’autore
Francesco Sala è membro
del Comitato etico provinciale di Modena come rappresentante della medicina
generale
[email protected]
salute in senso generale e
in senso sportivo, a quelli
che riguardano la sfera psicologica e motivazionale,
fino agli aspetti meno prossimi all’ambito sanitario,
cioè quelli sociali ed economici. Il secondo pilastro
è dato, sulla linea di questo
approccio globale ai problemi della persona, dalla
piena rivalutazione della
centralità del rapporto
medico-paziente nel caso
52
dell’atleta: dimensione
sempre importante nella
medicina di oggi, ma che
assume un’intensità particolare in quanto si realizza
in un contesto complessivo
fortemente condizionante.
E allora è necessario che si
fondi in primo luogo sulla
chiarezza, si sviluppi attraverso il dialogo e abbia
come obiettivo ultimo il
raggiungimento di scelte
ragionate e condivise.
Last but not least, dev’essere sempre presente l’impegno per favorire una cultura sportiva nell’accezione
più piena del termine: una
cultura che insegni a concepire lo sport come un
cammino per trovare e
affermare la parte migliore
di sé, facendo leva su valori
come la disciplina, il sacri-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
ficio, l’autocontrollo, in
una parola sulle proprie
risorse e qualità, senza prospettare altre soluzioni. In
questo senso il ruolo del
medico può essere decisivo, nella misura in cui
saprà essere presente in
maniera positiva, soprattutto nelle sconfitte, nei
momenti di crisi, negli
infortuni che inevitabilmente accompagnano la
vita dell’atleta. Un richiamo allora all’eticità delle
scelte e dei comportamenti
è oggi più che mai necessario nella realtà di uno sport
sempre più spesso esposto
alle suggestioni degli interessi economici e della cultura del dover vincere a
ogni costo.
Francesco Sala
Bambini geneticamente
modificati
Ogni tema che tocca in maniera più o meno pesante i bambini diventa delicato, e in particolare l’enhancement. La morale, l’etica, fanno da sottofondo a pratiche scientifiche utili
ma non sempre necessarie. È il caso dell’abuso dell’ormone della crescita o dell’uso indiscriminato dell’ingegneria genetica. In entrambi i casi si tratta di un mercato espansione
che però si può dimostrare molto rischioso.
Margherita Martini
Q
giusto e cosa è sbagliato,
tra cosa è morale e cosa
non lo è, diventa molto sottile e difficile da stabilire. Il
dibattito è acceso, la
discussione è animata.
Un ormone per crescere
L’ormone della crescita, il
cui nome scientifico è
somatotropina, è indispensabile per il normale processo di sviluppo di un
bambino. Prodotto dall’ipofisi, ghiandola endocrina
alla base dell’encefalo, è un
ormone proteico che indu-
ce e mantiene la crescita
staturale. Possiede numerosi effetti sul metabolismo
e sul trofismo della maggior parte dei tessuti e degli
organi. Viene prodotto
durante tutta la vita: la
secrezione aumenta durante la pubertà, diminuisce in
età adulta fino a essere
quasi del tutto assente in
età senile.
Il deficit dell’ormone della
crescita è quindi una vera e
propria condizione clinica,
causata dalla carenza patologica di questa proteina e
caratterizzata da disturbi
della crescita e da altre
l’obiettivo
uando si ha a che fare
con i bambini, ogni
argomento va affrontato
con delicatezza e responsabilità. E così anche il già
tanto discusso enhancement diventa ancora più
complesso.
Il tema si può analizzare
sotto due punti di vista.
Uno riguarda l’uso appropriato o meno dell’ormone
della crescita (growth hormone), l’altro coinvolge i
bambini ancora prima di
nascere: la modificazione
genetica della linea germinale umana. In entrambi i
casi, il confine tra cosa è
53
anomalie metaboliche. È
riscontrabile sia nei bambini sia tra gli adulti e, in
entrambi i casi, si può trattare con la somministrazione dell’ormone ottenuto
per via sintetica.
Un mercato in espansione
Sono passati vent’anni da
quando l’ingegneria genetica ha prodotto per la
prima volta l’ormone della
crescita con la tecnologia a
della somatotropina è di
circa due miliardi di dollari
e la proteina è approvata
per il trattamento di bambini a cui viene diagnosticato un deficit dell’ormone
della crescita o altri tipi di
problemi che possono portare a una bassa statura. Da
qualche anno tuttavia
viene usata, non senza
controversie, per i bambini
la cui altezza rientra nella
fascia (1,2 per cento) più
bassa dei diagrammi di
crescita pediatrici, anche
Probabilmente non è una questione di fattibilità ma un
problema principalmente etico: chi avrà il potere di
decidere a quali bambini attribuire dati caratteri genetici che li rendono più resistenti di altri?
secrezione proteica, contribuendo a estendere enormemente l’uso di questa
sostanza, prima destinata a
pochi. Fino ad allora, l’ormone della crescita si ricavava dai cadaveri disponibili negli obitori. Il cadavergrowth hormone, però,
oltre a dimostrarsi pericoloso (molti pazienti curati
con questo ormone hanno
poi sviluppato il morbo di
Creutzfeld-Jakob) non era
sufficiente a soddisfare il
bisogno globale.
A oggi il mercato mondiale
54
se non soffrono di un vero
e proprio deficit di questo
ormone.
L’ormone della crescita è
largamente pubblicizzato
su internet e la sua diffusione, soprattutto negli
Stati Uniti, è diventata un
fenomeno di massa.
Uso e abuso
Dall’uso responsabile all’abuso il passo è breve. Il
Journal of the American
Medical Association riferi-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
sce che, negli Stati Uniti,
un terzo delle prescrizioni
mediche di ormone della
crescita sono per persone
adulte e per usi non approvati legalmente: potenziamento atletico, intensificazione del body building,
antinvecchiamento.
L’uso della somatotropina
fa però sorgere problematiche nuove su ciò che la
società considera normale.
Perché si dovrebbero mettere sotto trattamento
bambini che non soffrono
di deficit dell’ormone della
crescita ma che sono semplicemente bassi? L’essere
stigmatizzati per la bassa
statura è uno degli argomenti portati avanti da chi
sostiene un uso più ampio
di questa sostanza.
Figli della genetica
Ancora più controverso, sia
dal punto di vista etico sia
politico, è il tema della
modificazione genetica
della linea germinale
umana. È una tecnica
emergente, resa possibile
dalla fecondazione in vitro,
con la quale si può intervenire sulle caratteristiche
genetiche di ovuli o spermatozoi, o anche di
embrioni che poi vengono
introdotti nell’utero di una
donna. Le genetica ha get-
LOTTA DI CLASSE GENETICA
NON ESISTE UN GENE per lo spirito umano. Lo dimostra la
storia di Vincent, il personaggio principale del film
Gattaca (1997) di Andrei Niccol. Classificato come “nonvalido”, cioè nato in modo naturale, in una società in cui
l’ingegneria genetica è dominante e le persone sono
discriminate in base alla purezza del loro Dna, Vincent
lotta per raggiungere il suo sogno: lavorare nell’agenzia
aerospaziale Gattaca.
In un mondo caratterizzato dall’enhancement, dove l’aspettativa di vita e le malattie sono conosciute già prima
di nascere, le compagnie sono in grado di selezionare i
dipendenti più consoni al posto di lavoro. Esami del sangue, delle urine e qualsiasi test biologico confermano o
meno l’appartenenza di una persona alla categoria dominante dei “validi”, individui con un corredo genetico
quasi perfetto.
Miope e destinato a morire entro i trent’anni, Vincent non
ha nessuna possibilità di successo. Non più discriminazioni di sesso, razza o religione, ma discriminazione di
geni. L’unica possibilità è assumere l’identità di Jerome,
un “valido” rimasto paralizzato in seguito a un incidente,
che gli vende campioni biologici.
Ma, nonostante ogni aspetto della vita sia programmabile già prima della nascita, in questo mondo domina la tristezza.
Vincent è infelice perché discriminato, Jerome perché il destino
ha rovinato una vita
perfetta.
La riuscita sociale dell’uno e il suicidio dell’altro dimostrano che
l’individualità vince e il
destino sopravvive alla
pianificazione.
La locandina del film
l’obiettivo
tato le basi per un nuovo
approccio alla diagnosi e al
trattamento delle malattie
e ha introdotto nuove possibilità di scelte riproduttive. Questo progresso è,
però, accompagnato da
importanti questioni di
ordine etico e sociale.
Anche se molti di questi
problemi, come la privacy,
la stigmatizzazione, il consenso informato, non sono
peculiari della genetica,
proprio in questo ambito
hanno bisogno di maggiore
attenzione.
Il dibattito su questo tipo
di interventi è molto acceso poiché potenzialmente
legato a cambiamenti permanenti e trasmissibili per
via ereditaria.
Uno dei motivi che gli
scienziati presentano a
supporto di questa tecnica
è, per esempio, la possibilità di prevenire una malattia genetica grazie all’eliminazione del singolo gene
che la causa.
Ma quanto è vicina la
scienza alla possibilità di
modificare gli embrioni per
soddisfare qualsiasi desiderio dei genitori?
Probabilmente non è una
questione di fattibilità ma
un problema principalmente etico: chi avrà il
potere di decidere a quali
bambini attribuire dati
caratteri genetici che li ren-
55
dono più resistenti di altri?
Il pericolo è di andare
verso disuguaglianze sanitarie sempre maggiori,
all’interno di una stessa
società ma anche tra i Paesi
economicamente sottosviluppati e quelli più ricchi.
Che bambino vuoi?
Le tecniche genetiche, in
una società caratterizzata
dal consumismo, dall’estetica e dall’enhancement,
rischiano di creare uno
strano mercato. Già molte
banche del seme reclutano
56
donatori modello: un elevato quoziente d’intelligenza, caratteristiche fisiche
vincenti sia dal punto di
vista estetico sia della salute. Il bambino diventa dunque un semplice prodotto?
La possibilità di conoscere
in anticipo la predisposizione verso alcune malattie, e dunque la conseguente differenza tra individui
“geneticamente modificati”
e persone “normali”, porta
con sé problemi verso terzi.
Senza un’adeguata normativa sulla privacy, le famiglie, i decisori politici, i
ricercatori, i medici e
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
anche le compagnie assicurative verrebbero a conoscenza di particolari troppo
personali su coloro che
sono nati con le nuove tecniche genetiche.
Come si è visto per la
fecondazione assistita, il
tempo e l’aumento del
numero di persone che
ricorrono a un determinato
intervento aiutano a superare le perplessità inziali. È
altrettanto vero che un’attenzione particolare su
temi delicati come questi
rimane utile e necessaria.
Margherita Martini
Un’epidemia di diagnosi
sta medicalizzando il mondo
«Un sano non è altro che un malato che non sa di esserlo»: il paradosso di Knock o il
trionfo della medicina di Jules Romains sta diventando la situazione normale della medicina di oggi. La diffusione di screening e check up, e l’abbassamento della soglia del
“patologico”, stanno medicalizzando la società, con l’appoggio delle case farmaceutiche.
La comunicazione sanitaria dovrebbe tenerne conto. Una speranza viene da internet.
Gianfranco Domenighetti
I
za, dall’asimmetria dell’informazione, dalla qualità poco o non misurabile,
dai conflitti di interesse,
dall’autoritarismo e dall’opacità delle decisioni; dal
lato della domanda, da
preferenze individuali e
sociali orientate verso un
sempre maggior benessere
psicofisico, spesso riconducibile ad attese di efficacia
dell’impresa medico sanitaria che superano ogni
ragionevole prova. Queste
ultime sono in larga misura
indotte dai media e dagli
opuscoli “informativi” prodotti dai servizi. Ne segue
che emettere informazioni
medico sanitarie verso la
società civile, in particolare
se sono “buone notizie”,
significa acquisire e mantenere “potere”.
È pure indispensabile sottolineare che, oltre ai classici attori che operano su
questo mercato (pazienti,
fornitori di prestazioni e
servizi, assicuratori, enti
pubblici), ce n’è uno, generalmente “innominato”,
rappresentato dai produttori di tecnologia medico
sanitaria, cioè dall’industria, in particolare quella
farmaceutica.
l’obiettivo
sistemi sanitari “universali” sono sistemi complessi in cui a dominare è
l’offerta: omologa la
domanda, che potrà quindi
beneficiare di un accesso a
prestazioni e a servizi il cui
costo sarà poi socializzato.
Ogni sistema sanitario è
caratterizzato anche da
interessi molto spesso contrapposti tra gli attori
implicati (pazienti, fornitori di prestazioni, produttori
di tecnologia, amministratori, politici). Inoltre, dal
lato dell’offerta, l’attività
sanitaria è governata dalla
complessità, dall’incertez-
57
I suoi obiettivi, espliciti e
legittimi, sono essenzialmente l’espansione dei
mercati e la crescita dei
profitti. La strategia scelta è
quella di influenzare i regolatori, i prescrittori, i cittadini e i pazienti con politiche spesso aggressive di
marketing e di lobbying,
largamente fondate sull’informazione e sulla
comunicazione diretta o
indiretta, che provocano
spesso conflitti di interessi.
meno presso il grande pubblico, che l’industria, in
particolare quella farmaceutica, condiziona pesantemente la prescrizione
medica, la ricerca, le riviste
scientifiche, la formazione
continua dei medici, i media, le associazioni dei pazienti, gli organi di controllo e, tramite il lobbying, la
politica. Meno noto è invece il fatto che le vere inno-
unico scopo l’ottenimento
o l’estensione dei brevetti
che garantiranno prezzi
elevati dei farmaci a carico
dei servizi sanitari. La loro
diffusione sarà garantita,
senza rigorose valutazioni
di efficacia e di efficienza,
tramite le abituali pratiche
di marketing presso i medici che, grazie alla prescrizione, giustificheranno l’omologazione della presa a
È sorprendente l’entusiasmo popolare per i check up e
58
La medicalizzazione
della società
gli altri servizi di diagnosi precoce. Il marketing indu-
Un famoso incipit sul Bmj
del 2002 segnalava che «si
possono fare molti soldi se
si arriva a convincere i sani
che in realtà sono degli
ammalati». Già nel 1923
Jules Romains faceva dire
al dottor Knock, nell’omonima commedia, «un sano
non è altro che un malato
che non sa di esserlo». Nel
1976, in un’intervista a
Fortune, Henry Gadson,
della Merck Sharp and
Dohme, osservava che «il
mio sogno è fare farmaci
per le persone sane». Oggi
il suo desiderio si è ampiamente realizzato e Big
Pharma ha esteso la propria influenza a tutti i settori della società.
È cosa assai nota, anche se
sia ormai diventata sinonimo di guarigione assicurata
striale ha fatto sì che nel pubblico la diagnosi precoce
vazioni terapeutiche, e non
solo in campo farmaceutico, sono state, negli ultimi
vent’anni, assai scarse.
La rivista indipendente
Prescrire ha evidenziato
che dal 1981 al 2005, sui
3.335 nuovi farmaci
immessi sul mercato francese, solo 7 hanno rappresentato un progresso terapeutico “maggiore” e 78 un
progresso “importante”
(con alcuni limiti), mentre
gli altri erano sostanzialmente delle copie o farmaci senza nessun interesse
clinico o perfino dannosi.
Questa abbondante pseudoinnovazione ha come
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
carico del costo da parte
degli assicuratori o dei servizi sanitari nazionali.
Ma le strategie che mirano
alla medicalizzazione della
vita degli individui e della
società sono altre. Oggi la
costruzione sociale delle
malattie sta per essere
sostituita dalla loro costruzione industriale. Questa
dinamica è sostenuta e
promossa da tre fattori.
Il ribasso della soglia
della patologia
Il primo fattore è la sistematica revisione al ribasso
di farmaci che avrà fine
solo con il decesso dei consumatori. Tra i nove membri della Conferenza di
consenso che ha definito
(abbassandole) le nuove
soglie per il trattamento
dell’ipercolesterolemia,
facendo così passare da 13
a 36 milioni il numero di
cittadini americani eleggibili al trattamento, solo
uno non aveva conflitti di
interesse con l’industria
farmaceutica. Il New York
Times del 20 maggio 2006
rivelava che il panel che ha
definito le nuove soglie dell’ipertensione aveva ricevuto 700.000 dollari da tre
società farmaceutiche produttrici di antipertensivi.
Va rilevato che la medicalizzazione dei fattori di
rischio comporta un cambio di paradigma dell’agire
medico tutt’altro che trascurabile: promuove l’abbandono della misura e
della verifica dei risultati
dell’intervento medico su
un paziente unico e certo,
per trasferire l’azione terapeutica verso il trattamento di probabilità anonime,
e questo impedirà di verificare se l’intervento o la
prescrizione abbiano avuto
successo. Abbassare all’infinito il tasso di colesterolo
in prevenzione primaria
sembra essere diventata
l’ossessione culturale dei
paesi industrializzati,
nonostante fondati dubbi
sull’efficacia delle nuove
linee guida siano stati
avanzati anche da prestigiose riviste di medicina.
Riducendo i rischi potenziali dei sani si distoglieranno in futuro mezzi e
risorse per la cura di chi è
effettivamente malato.
Screening a tappeto
Il secondo fattore è la
generalizzazione della diagnosi precoce (screening,
check up, ecc.), pratica oggi
percepita dalla popolazione come garanzia di guarigione se non di prevenzione dall’insorgenza di questa o quella morbilità. Un
sondaggio del 2006 che
abbiamo condotto in Italia
ha mostrato come l’80 per
cento dei cittadini è dell’opinione che sia sempre
utile fare degli esami per
sapere in anticipo se si ha
oppure no una malattia,
contro solo il 17 per cento
che correttamente rispondeva «solo in certi casi».
È sorprendente constatare
l’entusiasmo popolare per i
check up e gli altri servizi
di diagnosi precoce. Per
esempio negli Stati Uniti il
50 per cento delle donne
che hanno perso il collo
dell’utero a seguito di iste-
l’obiettivo
delle soglie che definiscono
il “patologico” per tutta una
serie di fattori di rischio
diffusi (ipertensione, ipercolesterolemia, diabete,
ecc.), che tende a trasformare milioni di individui
oggi “soggettivamente” sani
in persone “oggettivamente” malate. Un recente studio apparso sul Bmj
mostrava per esempio che
estrapolando sulla popolazione norvegese le raccomandazioni delle linee
guida della Società europea
di cardiologia sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica, nessun uomo di età
superiore ai 40 anni poteva
essere considerato a basso
rischio (!). Queste e altre
linee guida, abbondantemente sponsorizzate dall’industria, mirano a lottare
contro i cosiddetti “fattori
di rischio” (trasformati così
in vere e proprie malattie),
e implicano una medicalizzazione farmaceutica di
massa il cui denominatore,
in rapporto all’anonimo
individuo che ne trarrà un
eventuale beneficio, tenderà a crescere con l’abbassamento della soglia.
Da qui l’ evidente interesse
economico per l’industria
di medicalizzare in modo
epidemico i fattori di
rischio, poiché garantiranno un consumo giornaliero
59
per saperne di più
P.B. Bach et al., “Computed tomography screening and
lung cancer outcomes”. In: Jama 2007; 297.
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Bmj 2005; 330.
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members and the pharmaceutical industry”. In: Psychoter.
Psychosom 2006; 75.
G. Domenighetti, R. Grilli, A. Liberati, “Promoting consumer’s demand for evidence-based medicine”. In: Int J
Technol Assess Health Care 1998; 14.
G. Domenighetti, R. Grilli, J. Maggi, “Does provision of
an evidence-based information change public willingness
to accept screening tests?”. In: Health Expect 2000; 3.
G. Domenighetti et al., “Women’s perception of the benefits of mammography screening: population-based survey
in four countries”. In: Int J Epidemiol 2003; 32.
G. Domenighetti, “Ben sarebbe folle chi quel che non
vorria trovar cercasse”. In: Occhio Clinico 2005; 11.
L. Getz et al., “Estimating the high risk group for cardiovascular disease in the Norwegian Hunt 2 population
according to the 2003 European guidelines: modelling
study”. In: Bmj 2005; 331(7516).
P.C. Götzsche, M. Nielsen, “Screening for breast cancer
with mammography”. In: Cochrane Database of Systematic
Reviews 2006, 4.
S.M. Grundy et al., “Implications of recent clinical trials
for the National Cholesterol Education Program adult
treatment panel III guidelines”. In: Circulation 2004; 110.
R. Moynihan et al., “Selling sickness: the pharmaceutical
industry and disease mongering”. In: Bmj 2002; 324.
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R. Smith, “In search of ‘non-disease’”.In: Bmj 2002; 324.
Transparency International. Global corruption report 2006:
corruption in health systems. London: Pluto Press, 2005.
60
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
rectomia totale continuano
a sottoporsi al test per la
diagnosi precoce del tumore al collo dell’utero, e in
alcuni Paesi europei la
situazione non è diversa. È
stato dimostrato come il 60
per cento della popolazione sia perfino disposta a
sottoporsi al test per la
ricerca precoce del tumore
(praticamente incurabile)
al pancreas, e che l’80 per
cento delle donne italiane
credono che sottoporsi
regolarmente alla mammografia eviti o riduca il
rischio di ammalarsi in
futuro di cancro al seno.
Probabilmente il marketing
industriale e mediatico ha
fatto sì che nel pubblico la
diagnosi precoce sia ormai
diventata sinonimo di guarigione assicurata. I check
up, gli screening e i test
diagnostici di massa hanno
molto spesso la capacità di
sovrastimare l’incidenza di
morbilità inconsistenti,
oppure di anticipare una
diagnosi senza che poi vi
sia un reale beneficio in
termini di sopravvivenza.
Recentemente lo studio
sull’efficacia della Tac spirale nella prevenzione della
mortalità per tumore al
polmone ha mostrato che,
nonostante l’indagine precoce abbia anticipato oltre
il 90 per cento delle diagnosi, la mortalità è risulta-
ta identica a quella del
gruppo di controllo che
non era stato sottoposto
allo screening. Anche per lo
screening mammografico
l’anticipo della diagnosi
positivo potrò dirmi che ho
fatto bene a farlo, perché
avrò così la possibilità di
iniziare la cura in anticipo
e questa sarà più efficace;
se il risultato sarà negativo
gneria genetica darà a
ognuno la possibilità di
essere trasformato subito
dopo la nascita in un
“malato”. Quello che ci fa
ammalare, titolava il New
York Times del 2 gennaio
2007, è soprattutto un’epidemia di diagnosi.
In futuro internet e l’e-health saranno un potentissimo
strumento di empowerment del cittadino, ma anche uno
strumento che necessiterà della verifica tramite la
L’aumento
delle non-malattie
comunicazione con un professionista della sanità
senza benefici di sopravvivenza a 10 anni concerne il
93-94 per cento delle
donne ultracinquantenni a
cui è stato diagnosticato un
tumore al seno, mentre
quelle che beneficeranno
della diagnosi precoce
saranno, a seconda delle
fonti, da 0,5 a 2 donne su
1000 (in 10 anni).
Una gabbia logica
l’obiettivo
È interessante notare che
in assenza di un’informazione esplicita, esaustiva e
comprensibile sui benefici,
gli eventi avversi e le incertezze della diagnosi precoce, quest’ultima costituisce
una “gabbia” logica che
conduce a ragionamenti di
questo tipo: «È sempre
meglio fare l’esame: se farò
l’esame e il risultato sarà
(o falso positivo), avrò
ancora fatto bene a fare l’esame perché sarò rassicurato; se invece non dovessi
fare l’esame e poi mi
ammalerò, avrò fatto male
a non farlo. Quindi in ogni
caso la scelta di sottoporsi
alla diagnosi precoce sarà
da preferire. Anche se
dovessi decidere di chiedere un parere al medico,
quest’ultimo, per cautelarsi
verso l’incertezza, darà con
grande probabilità un avviso positivo». Eppure, contrariamente all’opinione
comune e dominante, una
delle scelte più difficili è
proprio quella di decidere
se sottoporsi a una diagnosi precoce e per quali tipologie di morbilità.
In un futuro prossimo la
generalizzazione della diagnosi precoce che sarà resa
possibile grazie all’inge-
Il terzo fattore è l’attribuzione dello statuto di “malattia” a condizioni che fanno parte del normale processo biologico della vita.
Non a caso il Bmj ha pubblicato una “Classificazione
internazionale delle nonmalattie” che contabilizza
oltre 200 condizioni reputate a torto come malattie,
fra cui la menopausa, l’osteoporosi, la fobia sociale,
il colon spastico, la sindrome di fatica cronica, ecc.
L’influenza dell’industria e
i conflitti di interesse sono
presenti anche quando si
tratta di definire se una situazione o condizione di
vita debba essere elevata
alla dignità di “malattia”.
Questo consentirà poi l’assunzione da parte dei sistemi nazionali di salute o di
quelli assicurativi dei costi
delle prescrizioni e dei trattamenti. Un recente studio
dell’Università del
61
L’autore
Gianfranco Domenighetti è economista e direttore della
Sezione sanitaria del Dipartimento della sanità e della
socialità del Cantone Ticino. È consulente dell’Oms.
[email protected]
Massachusetts ha denunciato la sponsorizzazione
da parte dell’industria farmaceutica del panel di psichiatri incaricato di aggiornare l’elenco delle condizioni psichiche che meritavano di essere omologate
come vere e proprie malattie. Paradossalmente, mentre i servizi sanitari spendono miliardi per lottare
contro la malattia, in realtà
stanno creando milioni di
ammalati supplementari e
facendo a poco a poco
scomparire le persone in
buona salute.
«Secondo Google
sto benissimo»
Oggi, quindi, la comunicazione sanitaria diretta
verso la società civile
dovrebbe anche, se non
soprattutto, orientarsi
verso una lettura critica
della medicalizzazione
della vita indotta direttamente o indirettamente
dall’industria della tecnologia della salute. Non a
62
caso il rapporto 2006 di
Transparency International
è tutto dedicato alla «corruzione nel settore sanitario». Infatti asimmetria
informativa, complessità e
incertezza danno ai produttori, ai fornitori e ai prescrittori di beni e servizi
sanitari una rendita di
posizione sconosciuta agli
altri settori economici di
largo consumo, in grado di
manipolare le preferenze
dei cittadini che, nella loro
quasi totalità, preferiscono
ovviamente vivere piuttosto che morire.
L’uso dell’e-health e di
internet può o potrà aiutare il cittadino a distinguere
il grano dal loglio?
Probabilmente già ora i
giovani (più abili in informatica), nella misura in cui
conoscono la lingua inglese
e sono minimamente “letterati” al gergo medico
sanitario, possono accedere a siti di qualità, come
per esempio quelli prodotti
dal National Health Service
britannico o da altre agenzie pubbliche.
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
In Italia, alcuni esempi
sono EpiCentro, portale del
Centro nazionale di
Epidemiologia dell’Istituto
superiore di sanità
(www.epicentro.iss.it) o
anche il sito promosso
dall’Istituto Mario Negri
(www.partecipasalute.it).
Sicuramente in un prossimo futuro internet e l’ehealth saranno un potentissimo strumento di
empowerment del cittadino
consumatore, ma anche
uno strumento che necessiterà, in particolare per il
paziente, della verifica tramite la comunicazione
interpersonale con un professionista della sanità.
Tuttavia il confronto dialettico ne sarà probabilmente
arricchito per tutte quelle
situazioni dove l’urgenza
non imporrà decisioni
immediate. «Secondo
Google sto benissimo» è
una frase che si sente sem
pre più spesso.
Gianfranco Domenighetti
Che genere di disturbo?
Un disturbo di genere
La trattazione scientifica del transessualismo è iniziata solo negli anni Sessanta, con gli
studi di Harry Benjamin. Dal 1982 in Italia c’è una legge che tutela il diritto a cambiare
sesso, ma rimangono molti vuoti normativi sulle procedure. Chi vuole cambiare sesso
deve sottoporsi a test psicologici e terapie ormonali, e solo dopo una sentenza del tribunale può sottoporsi all’intervento, che viene rimborsato dal Servizio sanitario nazionale.
Stefano Pisani
P
malato. Un transessuale
soffre precisamente di
“disturbo dell’identità di
genere”, considerato una
patologia in base alla quarta edizione del Manuale di
classificazione dei disturbi
mentali redatto
dall’Associazione americana degli psichiatri. Anche
secondo la decima edizione della Classificazione
internazionale delle malattie dell’Organizzazione
mondiale della sanità,
adottata nel 1994, il transessuale è un malato. In
questo caso, la sua patologia va sotto il nome di
“disforia di genere”.
Uno dei paradossi dell’inquadramento del transessualismo è che si tratta dell’unica patologia classificata come psichiatrica a non
essere curata psichiatricamente. Lo psichiatra infatti
non guarisce la persona
transessuale facendola
nuovamente sentire a proprio agio con il suo sesso di
origine, ma avvia la persona a cui è diagnosticato il
disturbo alle terapie endocrinologiche e chirurgiche
per iniziare il percorso di
transizione verso il cambio
di sesso.
l’obiettivo
er la società, transessuale è colui o colei che
ha un comportamento sessuale caratterizzato dalla
non accettazione del proprio sesso e dall’identificazione nel sesso opposto. È
una persona che sente di
appartenere al genere sessuale opposto a quello in
cui è nato, che vive il suo
corpo come una contraddizione con cui si sveglia
ogni giorno, e che ha bisogno di adeguare questa
realtà esterna alla sua
verità interna.
Per la scienza medica
moderna, invece, è un
63
Per molti decenni, fra la
fine dell’Ottocento e i
primi venti anni del
Novecento, la persona
transessuale veniva sottoposta a tentativi di “guarigione”, cioè di scomparsa
del “disturbo”, sia attraverso la psicoterapia, sia attraverso la somministrazione
di ormoni del proprio sesso
genetico. I tentativi sono
stati però fallimentari e
molto tempo: l’intervento
chirurgico ha avuto infatti
complicazioni fatali. Il
primo transessuale noto
sopravvissuto in modo
duraturo all’intervento è
stato invece l’americano
George Jorgensen, diventato Christine Jorgensen nel
1953. Christine è stata travolta ben presto da un
ciclone pubblicitario, a
dispetto dei suoi tentativi
Lo psichiatra non guarisce la persona transessuale
facendola nuovamente sentire a proprio agio con il suo
sesso di origine, ma la avvia alle terapie per iniziare il
percorso di transizione verso il cambio di sesso
hanno determinato un
numero elevatissimo di
suicidi. Soltanto intorno al
1960 si è iniziato a pensare
che l’unica “guarigione”
della persona transessuale
si potesse ottenere adeguando il corpo alla psiche
e non viceversa.
Gli studi di Benjamin
Il primo intervento medico
di riassegnazione sessuale
è stato tentato in Germania
nel 1930, quando Einar
Wegener venne operato e,
successivamente, visse
come Lili Elbe. Ma non per
64
di mantenere il riserbo: la
donna è diventata la prima
“transessuale mediatica” o,
come l’hanno definita altre
transessuali, una “trans
martire”, e ha vissuto sia i
benefici sia la maledizione
della fama. Come risultato,
infatti, è apparsa in alcuni
film di Hollywood ed è
diventata abbastanza celebre da rendere il transessualismo visibile alla
società postindustriale.
Nei decenni successivi solo
singoli medici (rari) hanno
trattato i transessuali, mentre la maggioranza della
comunità medica ha considerato la transessualità un
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
mero disordine mentale
senza basi biologiche. Il
primo professionista che
davvero ha provato ad aiutare i transessuali con compassione e studi scientifici
è stato il sessuologo tedesco Harry Benjamin, che ha
studiato e curato con
attenzione il transessualismo, dedicandogli la maggior parte della sua carriera. I risultati dei suoi studi
attenti e documentati sono
stati pubblicati nel libro Il
fenomeno transessuale, che
ha portato direttamente a
quei benefici di cui possono godere i transessuali di
oggi e ha aperto le porte a
seri studi sulla condizione.
Attualmente la Harry
Benjamin International
Gender Dysphoria
Association continua il suo
lavoro e aiuta a fissare gli
standard di cura per il trattamento dei transessuali da
parte dell’establishment
medico.
Un iter laborioso
In Italia la mobilitazione
del Movimento italiano
transessuali e dei Radicali,
che hanno sensibilizzato
l’opinione pubblica sulla
questione, ha portato alla
legge 164 del 14 aprile
1982. La legge riconosce
alle persone transessuali la
del tribunale ci si può
rivolgere poi alle strutture
ospedaliere per richiedere
gli interventi chirurgici:
penectomia, orchiectomia
ed eventualmente vaginoplastica per chi vuole passare da maschio a femmina; mastectomia, isterectomia ed eventualmente falloplastica o clitoridoplastica per il percorso inverso.
Dopo essersi sottoposti agli
interventi di rimozione
bisogna nuovamente rivolgersi al tribunale per il
cambiamento di stato anagrafico, attraverso il quale i
documenti di identità vengono modificati per sesso e
per nome, con l’eccezione
del casellario giudiziario e
dell’estratto integrale di
nascita. Le persone che
hanno concluso, da un
punto di vista legale, la
transizione da un sesso
all’altro, possono anche
sposarsi e adottare figli.
È interessante osservare
che rimane difficile eliminare ogni traccia che
riguardi il nome e il sesso
originari, nonostante questa intenzione sia alla base
della legge: i curricula scolastici e accademici e alcuni attestati e certificazioni
non sono riscrivibili.
In altri Paesi europei, invece, la sentenza per l’adeguamento dei dati anagrafici può essere emessa
anche prima dell’atto chirurgico, consentendo una
vita socialmente più vicina
ai desideri del transessuale.
Interventi sempre più
frequenti
Gli interventi autorizzati
relativi ai caratteri sessuali
per saperne di più
American Psychiatric
Association, Diagnostic
and Statistical Manual
of Mental Disorders
(Dsm-IV), 1994.
H. Benjamin,
Il fenomeno transessuale.
Astrolabio, Roma, 1968.
D. Di Ceglie,
Straniero nel mio corpo.
FrancoAngeli, Milano,
2003.
Organizzazione mondiale
della sanità,
Classificazione statistica
internazionale delle malattie e dei problemi sanitari
correlati. www.who.int/
classifications/apps/icd/
icd10online
La versione italiana si
può scaricare al sito
www.istat.it/strumenti/
definizioni/malattie.pdf
D. Tucker, Transamerica
(2005).
l’obiettivo
loro condizione e le autorizza a compiere il percorso
atto a conformare il corpo
al sesso d’elezione e quindi
al cambio anagrafico dopo
gli interventi chirurgici per
rimuovere gli organi riproduttivi. La legge non prevede però un regolamento di
applicazione e quindi la
procedura giudiziaria, a
oggi, è frutto di un’interpretazione tendenzialmente condivisa, che lascia
comunque ampi vuoti.
L’iter è piuttosto laborioso:
chi decide di iniziare il percorso per la riattribuzione
del sesso, in base alle Linee
guida dell’Osservatorio
nazionale sull’identità di
genere, deve rimanere in
osservazione per 6 mesi
(facoltativi in altri Paesi),
sottoponendosi a colloqui
psicologici e indagini
ormonali. A questo periodo
segue un anno di “test di
vita reale”, durante il quale
vengono somministrati gli
ormoni (estrogeni e antiandrogeni o androgeni), non
rimborsabili. In seguito, in
assenza di turbe psichiatriche o di grave malattie,
vengono rilasciate le relazioni mediche e psicologiche da presentare al tribunale di residenza che, nel
caso lo ritenga necessario,
nomina un consulente tecnico d’ufficio.
Con la sentenza positiva
65
L’autore
Stefano Pisani
è giornalista scientifico
free lance
[email protected]
primari vengono rimborsati dal Sistema sanitario
nazionale.
I trattamenti gratuiti, dopo
sentenza del tribunale,
sono la vaginoplastica, la
falloplastica, la clitoridoplastica, l’isterectomia, la
mastectomia, la riduzione
del diametro dell’areola e il
volume del capezzolo.
Sono a pagamento invece
operazioni come la riduzione del pomo d’Adamo (il
costo è di circa 2000 euro),
la mastoplastica additiva
66
(fino a 7 mila euro) e la
liposuzione (3-4000 euro).
La chirurgia è molto più
dolorosa quando è una
donna che diventa uomo.
All’asportazione del seno
segue infatti quella del
muscolo dell’avambraccio,
che viene trapiantato nel
pube come materiale per la
falloplastica. L’operazione
era una volta molto rischiosa, ed è per questo che,
anche oggi, molte donne si
fermano alla prima fase.
Il cambiamento di sesso
prevede infine che venga
seguita per tutta la vita una
terapia ormonale. I costi
medi mensili vanno dagli 8
ai 15 euro per il testosterone e dai 30 agli 80 euro per
estrogeni e farmaci antiandrogeni.
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
La percezione del disturbo
di identità avviene soprattutto in età adolescenziale.
Attualmente si ritiene che a
soffrire di disturbi di identità di genere negli adulti
sia un uomo su 40.000 e
una donna su 150.000, ma
non tutti arrivano all’intervento. In Italia, dall’approvazione della legge, il
numero di soggetti operati
è stato sempre in crescita,
anche se di poco.
Attualmente si calcola che
ogni anno, solo nelle strutture pubbliche, vengano
effettuati circa 80 interventi, con una netta prevalenza per l’intervento da
uomo a donna rispetto al
viceversa.
Stefano Pisani
Quale rimedio
per il male oscuro?
Considerata la malattia del terzo millennio, la depressione colpisce milioni di persone in
tutto il mondo. Un malessere per cui non è facile definire il confine tra semplice disagio
psichico e vera e propria patologia e per cui si registra un abuso nella prescrizione di farmaci. Sia per gli adulti sia per i bambini, il ricorrere agli antidepressivi è pratica comune
e troppo frequente. Non sempre la serenità si riconquista ingoiando una pillola.
Stefania Santoro
«C
entra nel campo della
patologia. Il malumore
diventa malattia quando
toglie l’appetito, il sonno,
l’interesse per le proprie
attività preferite, la stima
nelle proprie capacità, la
fiducia nel futuro e in ultimo la volontà. In realtà clinicamente non esiste un’unica forma della malattia,
ma diversi disturbi con
caratteristiche comuni.
Fondamentalmente si
distinguono una depressione “maggiore” caratterizzata dal pensiero ricorrente
del suicidio e varie forme
“minori” caratterizzate da
demotivazione nel lavoro e
nelle relazioni sociali. Nel
mondo sono afflitte da
questi sintomi circa 100
milioni di persone. In Italia
le diagnosi di depressione
sono circa 5 milioni, di cui
un milione per la forma
“maggiore”.
Secondo l’Organizzazione
mondiale della sanità il
fenomeno è in forte diffusione. Sempre più persone
fanno ricorso a farmaci
antidepressivi e, dato allarmante, sono soprattutto
bambini. Secondo uno studio dell’Istituto Mario
Negri, in Italia sono più di
l’obiettivo
ercava un posto la
tristezza, veramente
desolato e solitario. Vide
deserto il mio cuore e si
annidò in quel vuoto». Con
queste parole Johann
Wolfgang Goethe descriveva come il “male oscuro” si
impadronì della sua anima. Una sensazione di nullità della vita così forte da
non lasciare alternativa al
suicidio.
Capita a tutti di essere un
po’ giù d’umore, ma quando l’intensità e la durata
sono tali da non poterlo
più considerare uno stato
d’animo passeggero si
67
35 mila i giovani, al di sotto
dei 18 anni, in cura con
questo tipo di medicinali.
Malgrado sia un fenomeno
sempre più diffuso, la vecchia etichetta di “male
oscuro” resta tuttora attuale perché, in realtà, non
sono ancora note le cause
della depressione. Né sono
stati individuati i criteri per
riconoscerla e per differenziarla in maniera univoca
dai malesseri esistenziali
che caratterizzano i percorsi della vita di ogni uomo.
L’aggettivo “oscuro” denota
bene il tratto più caratteristico di questo male: il manifestarsi anche in assenza
di cause evidenti o comunque in misura sproporzionata rispetto ai fattori scatenanti. C’è differenza tra il
dolore legato all’elaborazione di un evento drammatico e una condizione
psichica patologica. Il mal
di vivere viene considerato,
infatti, “disagio psichico”
quando è tale da impedire
il regolare svolgimento delle attività quotidiane.
La malattia
del terzo millennio
Avvilimento, sconforto,
pessimismo, demotivazione, perdita di autostima e
perdita di volontà: sono
stati d’animo che ciascuno
68
prova nel corso della propria vita e che, presto o
tardi, riesce a superare. Ma
perché talvolta questo disagio assume dimensioni
patologiche? Malgrado i
progressi delle neuroscienze, è ancora difficile trovare
una risposta biologica a
questa domanda.
Il dato più allarmante è che
il fenomeno si sta diffondendo così tanto da poter
considerare la depressione
come la malattia del terzo
millennio. È sintomatica,
infatti, del modo di essere
della società contemporanea. La psiche non è insensibile alla storia.
Secondo Freud alla base
della nevrosi c’è il conflitto
tra i propri desideri e le
norme imposte della
civiltà. Allo stesso modo,
come ben illustrato dal
sociologo Alain Ehrenberg,
la depressione è il dramma
dell’uomo della società
dove tutto è possibile.
L’assenza di limiti causa
nell’uomo un senso di inadeguatezza che lo paralizza
in uno stato di non-decisione, non-azione, nonvolontà. Una condizione
che la società odierna, fondata sul paradigma dell’efficienza, penalizza pesantemente. Una condizione
che, poiché impedisce il
regolare svolgimento delle
attività quotidiane, è da
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
considerare patologica e
quindi da medicalizzare.
Un rimedio abusato
La tendenza attuale sembra però quella di un’eccessiva facilità a emettere diagnosi di depressione.
Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla
rivista The Archives of
General Psychiatry, un
quarto delle persone classificate come depresse in
realtà soffre semplicemente il dispiacere di un avvenimento doloroso: un lutto,
un divorzio, un licenziamento.
La fiducia nel potere terapeutico degli antidepressivi
sembra aver influenzato i
criteri diagnostici. Nel 2002
lo psicologo americano
Irving Kirsch, ha riesaminato i risultati dei test clinici per la valutazione dell’efficacia dei principali antidepressivi di nuova generazione, gli inibitori selettivi
della ricaptazione della
serotonina (Selective
Serotonin Reuptake
Inhibitors), ai quali appartiene il Prozac ®. È emerso
che la loro efficacia è di
poco superiore, se non
uguale, a quella di un placebo. Come si spiega allora
lo strepitoso successo di
questi farmaci?
Pare che più della metà
degli studi finanziati dalle
case farmaceutiche per
dimostrare l’efficacia di
questi farmaci siano stati
fallimentari. La maggior
parte di questi, però, non
sono mai stati pubblicati,
per un fenomeno noto
come publication bias, cioè
la distorsione della verità
scientifica, derivante da
una tendenza dalla pubblicazione dei soli dati favorevoli. I risultati di Kirsch
non sono stati smentiti,
anzi diversi psichiatri interpellati hanno rivelato di
essere a conoscenza dell’omissione di dati.
Un’inchiesta del 2006 ha
rivelato che metà degli psichiatri che hanno redatto
l’ultima versione del
Manuale di classificazione
dei disturbi mentali,
dell’Associazione psichiatrica americana, ha legami
economici non dichiarati
con le case farmaceutiche,
in qualità di ricercatori,
consulenti o relatori.
Più trasparenza,
ma non basta
Una pillola
per l’Io biologico
Nonostante i tentativi di
controllo, il consumo degli
antidepressivi rimane elevato, grazie soprattutto alle
massicce campagne di
marketing delle case farmaceutiche, che presentano questi farmaci come
vere e proprie “pillole della
felicità”.
Nella società contemporanea l’ansia, l’insonnia, la
perdita di iniziativa, sono
solo ostacoli a cui rimediare. Non ci si può fermare a
riflettere se siano sintomi
di un disagio esistenziale.
Riconoscerlo significherebbe ammettere le proprie
debolezze ed esporsi al
rischio dello stigma sociale.
Non resta che attribuire al
proprio male un’origine
fisica e pensare di curarlo
con una pillola, che
dovrebbe restituirci la carica necessaria. Sarà curato
così l’Io biologico, che però
le stesse neuroscienze ci
dimostrano essere inscin-
per saperne di più
A. Ehrenberg, La fatica
di essere se stessi.
Depressione e società.
Einaudi, Torino, 1999.
I. Kirsch, et al., “The
emperor’s new drugs; an
analysis of antidepressant
medication data submitted to the US Food and
Drug Administration”.
In: Prevention &
Treatment, 2002.
l’obiettivo
Anche in seguito alle rivelazione della ricerca di
Kirsch, l’Oms ha preso dei
provvedimenti per potenziare la trasparenza degli
studi clinici. Ulteriori ricerche hanno poi evidenziato
che all’assunzione di antidepressivi è associato un
rischio maggiore di suicidio, in particolare nei bambini. In risposta a questa
denuncia, negli Stati Uniti
la Food and Drug
Administration ha imposto
alle ditte farmaceutiche di
dichiarare espressamente
questo rischio nel foglietto
illustrativo.
Malgrado questi provvedimenti, il numero di prescrizioni degli antidepressivi è
in crescita, grazie soprattutto all’assunzione offlabel (cioè da scopi diversi
da quelli per cui sono autorizzati). Gli antidepressivi
vengono prescritti anche
per la terapia di attacchi di
panico, disturbi ossessivo
compulsivi, bulimia.
La realtà che desta più
preoccupazione è, però,
quella dei minori: alcuni
antidepressivi controindicati all’uso pediatrico vengono comunque prescritti
dai medici (autorizzati dal
punto di vista penale) per
curare i disturbi comportamentali infantili.
69
dibile da un Io psicologico.
Quello farmacologico,
quindi, non deve essere il
rimedio più diffuso, solo
perché più facilmente praticabile. Occorre provare a
nutrire le molecole che
fanno da substrato alla
L’autrice
Stefania Santoro, master in Comunicazione e
divulgazione scientifica, Università Federico II, Napoli
[email protected]
nostra vita interiore e emozionale, prima di tentare di
rianimarle con pillole di
dubbia efficacia. Pillole che
vale la pena di conoscere e
migliorare per quei pazienti che nulla possono più
contro quel “male oscuro”
che non vuole abbandona
re il loro vuoto.
Stefania Santoro
70
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Il benessere del corpo
passa per l’estetica?
Se si considera la salute non come semplice assenza di malattie, ma secondo la definizione dell’Oms come «completo benessere psicofisico e sociale», allora la chirurgia estetica
assume un ruolo importante in medicina: soddisfa bisogni che da molti sono sentiti come
rilevanti. Oltre alle ormai tipiche liposuzione e mastoplastica, sono sempre più frequenti
gli interventi al naso, alle palpebre e perfino alle orecchie e alle mani.
Valentina Arcovio
C’
ha in questa moda ormai
ampiamente diffusa? Cura
soltanto i malati oppure
può contribuire al benessere generale di una persona
sana, compreso quindi anche l’aspetto fisico? Non
esiste una risposta univoca,
come non esiste una definizione assoluta della parola “salute”. Questo concetto
è sicuramente associato alla mancanza di malattie o
di deformazioni che non
permettono a un individuo
di vivere pienamente la
propria vita.
L’Organizzazione mondiale
della sanità definisce la sa-
lute come «il completo benessere psicofisico e sociale»: non è difficile intuire
che l’idea della salute come
semplice assenza di malattie non è del tutto esatta,
anzi è parziale. L’individuo
ha il diritto di soddisfare
tutti i suoi bisogni, sia fisici, sia psichici, sia sociali. E
se la chirurgia estetica rappresenta una via per il
“completo benessere” di un
essere umano, perché farne
a meno? Quest’idea apre
però la porta anche ad alcune obiezioni: è possibile
raggiungere un completo
benessere? La pienezza
l’obiettivo
è chi lo fa per correggere un semplice difetto fisico, chi perché non
è soddisfatto del proprio
corpo, chi perché non accetta di invecchiare e chi
per adeguarsi ai canoni di
bellezza della propria epoca. Qualunche sia il motivo
reale, un dato certo è che
sono davvero in tanti a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica. E non solo:
a volte per migliorare la
propria estetica si fa ricorso ai rimedi più stravaganti, non di rado anche pericolosi per la propria salute.
Ma la medicina che ruolo
71
Mastoplastica ed errori medici
no degli interventi classici di chirurgia estetica è la
mastoplastica, che prevede l’aumento o l’ingrandimento del volume del seno attraverso l’inserimento di protesi,
spesso di silicone (mastoplastica additiva), oppure la riduzione di un seno (mastoplastica riduttiva). In tutta Europa
si assiste da anni a una maggiore richiesta di interventi di
mastoplastica additiva, ma in Italia questo aumento è
decisamente superiore alla media, con un incremento pari
al 10 per cento l’anno: secondo la Società italiana di chirurgia plastica, ogni anno in Italia vengono mediamente
effettuati circa 40.000 interventi di mastoplastica additiva. Molte ragazze cominciano a pensare ad aumentare il
volume del seno quando sono ancora adolescenti e l’età
media delle donne che si sottopongono all’intervento è di
circa 30 anni. Il costo varia dai 4.500 agli 8.000 euro.
Secondo il rapporto Pit Salute del Tribunale dei diritti del
malato, quello della mastoplastica è uno degli ambiti in
cui si segnala il più alto numero di presunti errori medici,
pari quasi al 30 per cento.
U
Gli uomini insoddisfatti del naso
aspetto estetico del naso si può migliorare attraverso la
riduzione, il rimodellamento della punta o la modifica
delle narici. La rinoplastica è un intervento sempre più diffuso e il suo costo varia dai 3.000 ai 6.000 euro. Anche se
in Italia mancano dati certi, il trend sembra essere simile
a quello americano: l’aumento rispetto al 2000 si aggira
intorno al 150 per cento. Nel 2005, la rinoplastica era al
secondo posto per frequenza degli interventi chirurgici in
America, il più frequente per gli uomini e il terzo per le
donne. Ma anche per questo tipo di operazione, secondo il
Tribunale dei diritti del malato, si stima un alto numero di
errori medici, pari a circa il 12 per cento. Inoltre, non sono
pochi i pazienti che al risveglio dall’anestesia si sono ritrovati con un naso non armonioso e hanno avuto in seguito
anche seri problemi di respirazione.
L’
72
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
della soddisfazione è inarrivabile: se la salute coincide con il completo benessere psicofisico e sociale, si
tratta dunque di un diritto
impossibile. Qual è il confine che separa il concetto di
bisogno con quello più effimero di desiderio?
Secondo Fabrizio Malan,
primario del reparto di chirurgia plastica e ricostruttiva del Centro traumatologico ortopedico di Torino,
non esiste un parametro
oggettivo. «Una valutazione
di questo genere richiede
un’analisi scrupolosa e
attenta caso per caso. Non
bisogna sempre assecondare le richieste dei pazienti, ma bisogna valutare
quali sono le vere motivazioni del loro disagio.
Spetta alla deontologia
professionale dei medici
capire il paziente e, qualora
fosse necessario, instradarlo verso il recupero di sé».
Il medico può sempre
manifestare la propria indisponibilità all’intervento o
per mancanza di evidenti
necessità o per impraticabilità tecnica. «Non siamo
semplici prestatori d’opera.
Il nostro ruolo va ben oltre
quello di esecutori materiali dei desideri dei
pazienti, né tantomeno
possiamo lavarci la
coscienza semplicemente
rifiutandoci di intervenire
rabili psichicamente, rendono indispensabile una
valutazione preventiva da
parte del medico sulla
natura della richiesta del
paziente.
Merita un discorso a parte
la chirurgia ricostruttiva
che ha come finalità principale quella di correggere
malformazioni congenite o
le conseguenze di traumi,
incidenti o malattie.
Spiega ancora Malan:
«Nella chirurgia ricostrutti-
va rientrano due categorie
di interventi: quelli di ricostruzione funzionale e
quelli di ricostruzione
morfologica. Fanno parte
dei primi tutte quelle operazioni che vanno a intervenire su parti del corpo
funzionali per il paziente,
come ad esempio gli arti.
Invece, gli interventi di
ricostruzione morfologica
non sono funzionalmente
necessari, ma sono molto
utili per curare la mente.
Liposuzione: per molti ma non per tutti
no dei “peccati” estetici più gravi è naturalmente il
grasso: per questo c’è la liposuzione, cioè l’aspirazione
di accumuli adiposi localizzati e il rimodellamento del profilo corporeo. Possono sottoporsi a questo tipo di intervento soltanto quelle persone che presentano depositi di
grasso isolati in certe aree del corpo, a causa di fattori
genetici o costituzionali. Quindi la liposuzione non è adatta a chi vuole semplicemente dimagrire tanto e subito: per
loro occorre una dieta alimentare sana e tanto esercizio
fisico. L’operazione consiste nel praticare piccole incisioni
nelle aree in cui è localizzato il grasso per poi introdurre
cannule meccaniche collegate a un potente aspiratore,
attraverso le quali il grasso viene eliminato. Il costo per
questo tipo di intervento varia dai 4.500 ai 6.000 euro.
Secondo i dati della Società italiana di chirurgia plastica,
ricostruttiva ed estetica, ogni anno ci sono circa 60.000
interventi di liposuzione. In Italia si sottopongono annualmente a interventi di addominoplastica (cioè di liposuzione della parte bassa e centrale dell’addome) circa 20.000
persone, il 68 per cento donne e il 32 per cento uomini.
Sono invece il doppio e quasi tutte donne (92 per cento)
quelle che fanno ricorso alla liposuzione per rimodellare
fianchi, addome, cosce e glutei.
U
l’obiettivo
su un paziente. Dobbiamo
comunicare con lui e indirizzarlo verso specialisti
più idonei ad aiutarlo. Mi
ricordo il caso di un
paziente che mi ha chiesto
di operarlo alle orecchie
perchè desiderava averle
appuntite, proprio come i
personaggi del noto film
Star Treck. Naturalmente
ho rifiutato di eseguire un
intervento così bizzarro.
Desiderare di cambiare
qualcosa del proprio corpo
non è paragonabile alla
scelta di un pantalone o di
una maglietta. Una semplice richiesta da parte del
paziente non giustifica
automaticamente l’effettuazione dell’intervento »
ha spiegato Malan.
E allora fino a che punto è
lecito ricorrere al bisturi
per migliorare l’aspetto
estetico? Esistono limiti o
confini oltre i quali spingersi è moralmente sbagliato?
Sicuramente la chirurgia
estetica è legittimata e giustificata dalla dilatazione
del concetto di salute e
quindi dalla liceità di intervenire sul proprio corpo
per acquistare maggiore
fiducia in sé e nei rapporti
con gli altri. Tuttavia, gli
insistenti messaggi dei
media e le forti pressioni
sociali, soprattutto quelli
rivolti ai soggetti più vulne-
73
Mi riferisco, ad esempio a
tutte quelle donne che, a
causa di un tumore al seno,
sentono di aver perso qualcosa della propria femminilità: un intervento di chirurgia ricostruttiva potrebbe aiutarle ad allontanare
lo spettro del tumore».
Modelli
dettati dalla televisione
In ogni epoca l’uomo ha
cercato di migliorare la
propria fisicità, ma mai
come in questo momento
storico la bellezza e un
aspetto giovanile sono stati
considerati i valori primari
e gli obiettivi da raggiungere per affrontare una piena
e “sana” vita relazionale.
Negli ultimi trentacinque
anni questa branca della
medicina ha visto un successo crescente, trainata
L’autrice
Valentina Arcovio
Agenzia di giornalismo
scientifico Zadigroma
[email protected]
74
dalla straordinaria impennata della domanda di bellezza e di immagine in tutti
gli ambiti della società,
dallo spettacolo alla vita
relazionale di tutti i giorni.
Un tempo rimedio esclusivo dei capricci delle dive o
dei personaggi pubblici, la
chirurgia estetica è diventata progressivamente un
servizio per tutti: donne e
uomini, adulti e adolescenti. Il boom è scoppiato in
America intorno al 1990:
milioni di persone hanno
affollato le cliniche per
inseguire la bellezza e la
perfezione. Se prima l’intervento chirurgico era
considerato come ultima
spiaggia nella risoluzione
di difetti fisici, adesso rappresenta la via più semplice per mantenersi in forma
e sconfiggere i segni dell’età. E dagli Stati Uniti
questa visione delle cose è
migrata anche in Europa,
Italia compresa. Se, infatti,
i nutrizionisti consigliano
stili di vita sani ed equilibrati, gli italiani sembrano
preferire le scorciatoie: non
un’alimentazione corretta e
tanta attività fisica, ma un
semplice tocco di bisturi.
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
Gli interventi più richiesti
riguardano la correzione di
alcuni piccoli difetti estetici, ma in generale sono i
mezzi di comunicazione, in
primis la televisione, a dettare i modelli a cui uniformarsi: dalla taglia del seno
allo spessore delle labbra,
fino ad arrivare al ringiovanimento generale del
corpo.
«Il culto della bellezza in
una società di consumi
costringe a passi obbligati.
Su questa premessa si
gioca il valore della libertà
personale, e l’uomo è solo
libero di scegliere quello
che gli altri hanno già scelto per il suo destino». È con
queste parole che Renato
Malta, professsore di
Bioetica all’università di
Palermo, nel suo libro Etica
e chirurgia estetica. Bioetica
e cultura, sottolinea la tendenza della società moderna a costringere gli individui a un corpo sempre più
vicino alla perfezione, inseguendo il miraggio di
un’accettazione sociale
acritica e
spersonalizzante.
Valentina Arcovio
Predire, prevenire e curare:
tre cose diverse
La “medicina di iniziativa” è di nuovo al centro del dibattito medico. Principale protagonista di questo approccio è il medico di medicina generale che, proprio per il suo rapporto continuo con il paziente, può promuovere una prevenzione attiva. Ma quando si parla
di prevenzione non bisogna scivolare in situazioni in cui si inventano malattie e si trasformano condizioni di vita in patologie curabili con farmaci.
Antonio Panti
D
cea: è incontestabile che
prevenire è meglio che curare, e i maggiori successi
della medicina si devono ai
vaccini e alla sanità pubblica, cioè al miglioramento
delle condizioni igieniche e
ambientali. Il medico senza
tecnica, chimica e politica
igienista consolerebbe, accompagnerebbe alla morte
e nulla più. Ma i benefici
degli screening non sono
così rilevanti e poche sono
le azioni preventive largamente efficaci.
Oggi si parla nuovamente
con enfasi di “medicina di
iniziativa” sia come orien-
tamento di sistema sia
accentuando il ruolo del
medico generale, unico
professionista capace, per
la continuità del suo rapporto col paziente, di intraprendere forme attive di
prevenzione.
Un fragile confine
Ai nostri giorni però la
sanità è al centro di interessi colossali e lo spostamento dei limiti della
medicina deve indurre
qualche riflessione, in particolare sui rapporti tra
l’obiettivo
a secoli il medico ha
svolto il duplice ruolo
di “guaritore” e di custode
della salute, individuando
le influenze dell’ambiente
sulle malattie. Già
Ippocrate, nel De morbo sacro, sostiene che la salute si
perde per cause naturali e
con rimedi naturali si cura
la malattia e che il medico
deve conoscere la «natura
dei luoghi e delle acque».
Ippocrate già conosce i determinanti di salute. Negli
anni ruggenti del dibattito
sulla riforma sanitaria la
prevenzione venne alla ribalta quasi come una pana-
75
prevenzione e predizione.
Oggi il concetto di cura si
amplia da strumento per
recuperare una perduta
salute a mezzo per mantenere il precario equilibrio
della cronicità, frutto delle
moderne terapie che sempre curano e spesso non
guariscono. Alla medicina,
inoltre, si chiede non soltanto il mantenimento
della salute ma delle
performance giovanili.
Infine, l’abbassamento
della soglia diagnostica e
l’anticipazione della diagnosi, insieme alla medicina predittiva e alle scoperte
della genetica applicata
alla farmacologia, fanno sì
che oggetto della cura
diventi non la “probabilità”
ma la “possibilità” di
ammalarsi. Si rischia allora
che il numero di persone
da trattare per ottenere un
risultato positivo si ampli a
quasi tutta la popolazione.
Sempre più labili diventano i confini tra bisogni e
desideri. Il disease mongering, cioè la pressione commerciale condotta fino a
L’autore
Antonio Panti è presidente dell’Ordine dei medici di
Firenze
[email protected]
76
inventare malattie o trasformare condizioni di vita
in patologie curabili con
farmaci, diventa una realtà.
Su The Scientist si racconta
di un sito frequentato da
medici e pazienti in cui si
vantano le doti di un farmaco inesistente per una
malattia fantasiosa ma
descritta in modo coinvolgente. Uno scherzo per
mostrare i metodi delle
multinazionali del farmaco,
ma anche un paradigma di
una deriva della medicina
moderna.
Medicina di iniziativa
La medicina di iniziativa è
prerogativa per lo più del
medico di famiglia e consente miglioramenti nello
stato di salute della cittadinanza attraverso i vantaggi,
tra l’altro, della diagnosi
precoce. Implica anche interventi complessi, sociali,
urbanistici, industriali, tutti
affidati a una ragionevole
interpretazione del concetto di precauzione. Tuttavia,
se manca un accordo sull’uso delle parole, si corre il
rischio di scambiare predizione con prevenzione o di
indurre malattie inesistenti a uso delle aziende
farmacologiche.
La vera medicina di iniziativa intercetta i bisogni della
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
per saperne di più
J. Romains, Knock o il
trionfo della medicina.
Millennium, Bologna, 2005.
popolazione, discerne le
vere novità dalle seduzioni
commerciali, identifica le
criticità nei determinanti di
salute. Il sistema sanitario
potrà vincere le sfide della
sostenibilità dei costi, della
frammentazione riduzionistica, della transizione
demografica, dello strapotere della tecnologia, solo
se il sistema salute saprà
uscire dalle incertezze sui
limiti e sugli scopi della
medicina per definire, in un
nuovo patto sociale, quali
bisogni e quali novità debbono essere assunti dalla
prassi. Altrimenti, esaltando la medicina predittiva e
enfatizzando la genetica, si
finirebbe per considerare la
vita stessa (seguendo le
teorie del dottor Knock
nella commedia di
Romains) come malattia.
L’aveva già detto Francois
Xavier de Bichat: l’unica
malattia che ha il cento per
cento di mortalità è la vita.
Non verremmo che questo
diventasse il “numero
necessario da trattare” del
futuro. Antonio Panti
Quando gli unici confini
sono i nostri desideri
La ricerca medica e le moderne tecnologie offrono possibilità sempre nuove per gli esseri umani: curarsi, migliorarsi, per vivere meglio e più felici. Ma quando si parla di enhancement, o potenziamento delle funzioni del corpo umano, i confini morali diventano confusi e il dibattito si accende. È la società intera che si deve interrogare: sia il progresso
scientifico sia i valori etici appartengono alla natura umana.
Thomas Murray
D
chiara: è inopportuno
assumere medicinali quando non c’è una malattia in
corso. Tanti possono essere
gli effetti collaterali, tante
le controindicazioni, sia dal
punto di vista fisico sia da
quello psicologico.
Enhancement sì,
enhancement no
Come regolare, dunque,
questo tipo di farmaci? Nel
caso degli steroidi, per
esempio, le associazioni
sportive ne proibiscono
l’uso durante le competi-
zioni: in ballo ci sono non
solo i rischi per la salute
ma anche il pericolo di
gare agonistiche falsate.
In alcune circostanze, però,
un determinato trattamento può portare benefici non
solo a chi è considerato clinicamente malato ma
anche a chi è sano. Un
betabloccante, per esempio, può aiutare a superare
la paura del palcoscenico
poiché blocca alcuni recettori del sistema nervoso
che provocano sudorazione e accelerazione del battito cardiaco. Un medico,
però, così come può deci-
l’obiettivo
efinire cos’è l’enhancement non è cosa facile.
In ballo ci sono il giudizio
dei singoli individui e la
morale personale. Quello
che può sembrare lecito e
legittimo per uno, può
risultare sbagliato per un
altro.
Il confine che intercorre tra
l’utilizzare un medicinale o
una nuova tecnologia per il
trattamento terapeutico di
un paziente e l’adoperarlo
al solo scopo di migliorare
le performance o l’aspetto
fisico di qualcuno non è
sempre netto.
Per alcuni la differenza è
77
dere di somministrarlo a
un paziente che soffre di
problemi cardiovascolari,
può anche rifiutarsi di prescriverlo a un artista che ne
sente il bisogno. È il singolo specialista a decidere se
c’è o meno la necessità o
possibilità dell’enhancement.
Alcuni bioeticisti pensano
che dividere il mondo in
coloro che sono malati e
coloro che non lo sono
(cioè i normali) è assolutamente riduttivo: alcune
malattie possono essere
considerate come la fine
estrema di un continuo che
comincia con la normalità.
L’Alzheimer, per esempio, è
una degenerazione terminale del naturale processo
di invecchiamento che
spesso comincia con i vuoti
della memoria a breve termine che si verificano con
l’avanzare degli anni.
Un po’ di scetticismo
Le nuove tecnologie mediche e le nuove scoperte
scientifiche hanno portato
ulteriori possibilità ma
anche nuovi problemi.
Dunque, sfide sempre
maggiori per la nostra
società, per le nostre intelligenze, per le nostre leggi.
E la questione si complica
quando si considerano le
78
problematiche che il progredire della scienza porta
con sé. Le novità rendono
gli uomini critici e scettici;
solo il passare del tempo
aiuta a normalizzare una
pratica inizialmente criticata.
I vaccini, che la maggior
parte delle persone considera pratiche mediche
necessarie e di routine, a
pensarci bene, possono
essere visti come una
mina ciò che c’è di più
ammirevole nella pratica
sociale o la supporta.
I dubbi che rimangono
Le tecnologie biomediche
non rispettano l’umana
distinzione fra terapia ed
enhancement, tra ciò che è
naturale e ciò che non lo è.
La domanda sorge spontanea: ci dovrebbero essere
Le tecnologie biomediche non rispettano l’umana
distinzione tra terapia ed enhancement, tra ciò che è
naturale e ciò che non lo è. Ci dovrebbero essere limiti,
morali e legali, su quanto avanti ci si possa spingere?
forma di enhancement, in
quanto non curano una
malattia ma stimolano il
sistema immunitario di
una persona. Un altro
esempio è rappresentato
dalla procreazione assistita
che, anche se sempre sotto
i riflettori del dibattito collettivo, è ormai generalmente riconosciuta come
una pratica di uso comune.
È difficile stabilire la moralità di una tecnica considerando solo se è adatta a
trattare una malattia.
Probabilmente dipende dal
contesto e, quindi, ci si può
chiedere se l’enhancement
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
limiti, morali e legali, su
quanto avanti ci si possa
spingere? Nella pratica
terapeutica abbiamo dei
confini definiti dal concetto di salute; con l’enhancement non esistono confini
se non i nostri desideri.
Gli argomenti si evolvono
ma i dubbi rimangono.
Molte questioni non si possono più risolvere solamente all’interno del dibattito fra liberali e conservatori o fra laici e religiosi. È
l’intera collettività (intesa
come l’insieme della
comunità scientifica, della
stampa, dei governi, del
mondo sportivo, ecc.) a
portare avanti il dialogo su
questi argomenti.
Gli ottimisti percepiscono
le nuove opportunità come
parte dei vantaggi che derivano dal progresso scientifico. I pessimisti si preoccupano sulle conseguenze
che la promozione di uno
stile di vita basato sull’enhancement avrà sui sin-
L’autore
Thomas Murray è presidente dell’Hastings Center
di Garrison, NY (Usa)
e fondatore della rivista
Medical Humanities Review
goli individui, sui bambini,
sulle famiglie, sulle società.
Affinché possa esistere un
dibattito produttivo è
necessario distaccarsi dalle
convenzioni sociali per
provare a scoprire le questioni morali e filosofiche
che ne sono alla base.
Nonostante il carattere fortemente polarizzato della
discussione, molte persone
condividono i valori dell’etica e delle scienze mediche, poiché entrambi gli
aspetti sono parte della
natura dell’essere umano.
L’enhancement porta con
sé anche una questione più
profonda, che estende i
problemi del singolo individuo alla collettività inte-
ra: l’acutizzazione di problemi sociali e delle disuguaglianze.
Lo scenario potrebbe essere una società in cui solo
una minoranza, i più ricchi, possono permettersi
interventi di enhancement,
sia di leggero impatto
(assunzione di qualche
medicinale), sia di tipo
radicale (interventi genetici). La disuguaglianza
sarebbe una possibilità
reale e un difficile problema morale da affrontare
nel momento in cui l’accesso alle tecnologie mediche fosse appannaggio solo
di alcuni.
Thomas Murray
l’obiettivo
79
Il romanzo
della procreazione
LETTURA CRITICA I temi legati al controllo della fertilità
sono al centro di un dibattito fra i più accesi, in particolare in Italia. Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione
assistita, descrive la situazione e racconta come ci si è arrivati: partendo dal mito, le risposte alla questione della
riproduzione si sono sviluppate in modo diverso nelle
varie società, più o meno permissive con aborto, contraccezione e infanticidio, fino ad arrivare alle recenti polemiche sull’embrione.
Dal mito al controllo della procreazione
Chiara Lalli
C
arlo Flamigni ci trasporta in un mondo
affascinante, raccontandolo nei minimi dettagli, con
rigore storico e scientifico e
con l’andamento di un
romanzo avventuroso: il
mondo della procreazione
umana, quel mistero
rispetto al quale ogni uomo
si è interrogato e confrontato, se non come genitore,
come figlio. E che lungo un
percorso complesso e tortuoso si è in gran parte sve-
80
lato, offrendo alle persone
prima la possibilità di controllare la procreazione
(attraverso la contraccezione) e poi quella di ribellarsi
alla sterilità (attraverso la
procreazione artificiale).
Il “rapporto impossibile”
della Chiesa
La prima parte è una
minuziosa ricostruzione
della storia della contracce-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
zione e di come le credenze
sui meccanismi riproduttivi siano passate dai tentativi di spiegazione con una
forte connotazione magica
a una conoscenza sempre
più razionale. Il ricorso a
miti e a spiegazioni fantasiose ha lentamente ma
Il controllo della fertilità
Carlo Flamigni
Utet, Torino, 2006
pp. 988, euro 42,00
Così come è illuminante,
per fare un altro esempio, il
percorso della dottrina cattolica nei confronti dell’aborto e dell’inizio della vita
personale. Forse in pochi
ricordano che la posizione
attuale del magistero cattolico è un prodotto storico e
determinato da decisioni di
strategia politica: nessuna
verità monolitica e imperitura, dunque, e soprattutto
meno compattezza dottrinale di quanto generalmente si crede.
Il nodo dell’embrione
Uno dei problemi più ardui
affrontati da Flamigni è
indubbiamente la discussione sull’inizio della vita
personale: «Quand’è che
l’embrione (o comunque
qualsiasi struttura biologica che si formi dopo la fertilizzazione dell’uovo) può
essere considerato una persona?».
La questione è spinosa e di
massima rilevanza. Spinosa
perché è una domanda
morale e non fattuale, e
pertanto non rimanda a
una soluzione che coincide
con la scoperta della verità
(che magari è difficile da
scovare, ma prima o poi
verrà stanata), ma a una
soluzione saldamente
argomentata. Di massima
rilevanza perché la risposta
che viene data a questa
domanda influenzerà inevitabilmente il giudizio
morale su diverse questioni, dall’aborto alle tecniche
di procreazione artificiale,
dalla sperimentazione
embrionale ad alcune pratiche contraccettive.
Per rispondere a questa
domanda è necessario partire da una definizione di
persona che sia il più rigorosa e chiara possibile.
Anche su questo punto si
concentrano gli scontri che
investono la validità dei
criteri adottati. Se tra le
premesse della vita personale viene accolta la condizione della presenza di una
minima attività cerebrale,
allora nelle prime fasi di
sviluppo l’embrione non
potrebbe essere considerato come una persona. Di
conseguenza molti dei
divieti o delle condanne
morali verrebbero meno.
Lo scontro fra chi attribuisce lo statuto di persona a
un embrione di pochi giorni e chi glielo nega è inconciliabile. Gli strumenti che
abbiamo a disposizione
sono quelli del giudizio e
dell’analisi razionale degli
argomenti che vengono
addotti a sostegno di una
ipotesi o dell’altra. Non
sempre però queste “regole
del gioco” vengono accet-
a più voci
inesorabilmente lasciato il
posto alla comprensione,
fino al vero e proprio controllo della fertilità.
Lungo il percorso di ricostruzione storica ci sono
alcuni passaggi decisivi
anche per la valutazione
dell’atteggiamento odierno
verso la procreazione e il
suo controllo, e verso la
scienza e le biotecnologie
in generale. Un caso esemplare è il “rapporto impossibile” tra la Chiesa cattolica e la contraccezione, una
vera e propria guerra che
arriva a investire le stesse
leggi civili e la considerazione delle donne (dovrebbe suonare familiare e
attuale). Nonostante i vari
processi per immoralità
subiti da chi non demonizzava la contraccezione (o
praticandola o interrogandosi sui mezzi per farlo), e
nonostante la stagnazione
tra il XVI e il XVIII secolo
dell’anelito conoscitivo, la
conoscenza e la diffusione
dei metodi contraccettivi
non subiranno mai un
arresto. E giungeranno infine a consegnare nelle mani
degli uomini anche il controllo di un dominio tanto
sacro e fino ad allora inviolabile (o forse soltanto
inviolato) come quello
della procreazione umana.
Il dibattito attuale ne è una
prova.
81
tate, ed è frequente imbattersi in affermazioni che si
reggono su argomenti fallaci o incoerenti.
I difensori della vita
che uccidono
La parte dedicata all’interruzione di gravidanza e alla
legge 194 evidenzia un dato
drammatico: la piaga degli
aborti clandestini e le terribili conseguenze sulla salute delle donne. Per quanto
salute, e al limite anche la
morte.
Flamigni sottolinea come
la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza sia
sempre stata gravata da
una guerra brutale e inesauribile (fino agli estremi
delle uccisioni dei medici
che praticano gli aborti da
parte di fanatici difensori
della “vita”): è impossibile
«trovare un altro argomento che nella storia della
medicina abbia causato
anche solo un decimo delle
Pochi ricordano che la posizione attuale del magistero
cattolico è un prodotto storico determinato da decisioni politiche: nessuna verità monolitica e imperitura, e
meno compattezza dottrinale di quanto si crede
sia estremamente difficile
avere una stima precisa del
numero di aborti effettuati
nel mondo, la gravità del
fenomeno non ne è diminuita. Sembra che al
mondo ci siano 55 milioni
di aborti ogni anno, cioè 70
per 1000 donne in età
riproduttiva e 300 per 1000
gravidanze. Questo significa che circa 150.000 donne
ogni giorno abortiscono in
condizioni sanitarie e igieniche a dir poco insoddisfacenti, rischiando gravi
conseguenze per la propria
82
polemiche che si sono scatenate e continuano a scatenarsi sul tema dell’aborto
volontario». Basti pensare
alle reazioni causate in
Italia dal tentativo di introdurre la RU486, la “pillola
dell’aborto fai da te”, come
con disprezzo è stata ribattezzata (o anche kill pill o
aborto facile: tutte espressioni poco felici e tutte
emergenti da una condanna verso la possibilità di
interrompere una gravidanza, indipendentemente
dal mezzo scelto). Il mife-
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
pristone, il principio farmacologico della RU486,
interrompe il proseguimento di una gravidanza in
uno stadio molto precoce,
ma è pur sempre una
forma di aborto volontario.
La libertà sessuale
è un diritto
D’altra parte, perché stupirsi di queste reazioni se
addirittura la contraccezione d’emergenza si attira
feroci condanne morali? La
cosiddetta pillola del giorno dopo è infatti bersaglio
di attacchi feroci ed è considerata come un abortivo
da molti suoi nemici. È
inoltre oggetto della possibilità di obiezione di
coscienza da parte dei
medici, con il risultato che
è spesso molto difficile
ottenerne una prescrizione
in un tempo ragionevolmente utile, in barba alla
sua natura di contraccettivo d’emergenza.
Snobbando la sterminata
letteratura scientifica,
ricorda Flamigni con amarezza, nel 2004 il Comitato
nazionale per la bioetica ha
attribuito al progestinico in
questione un potere che
non ha: un’azione antiprogestazionale e la modifica
dell’endometrio. Questo è
un esempio triste di come
spesso la malafede o i pregiudizi travolgano la ragionevolezza e le prove scientifiche, fino ad arrivare ad
affermazioni degne di un
cabaret dell’assurdo: «un
ginecologo cattolico ha
insinuato l’esistenza di un
effetto negativo del progestinico sugli spermatozoi,
come se la pillola del giorno dopo la prendessero
entrambi».
La parte finale è dedicata ai
contraccettivi moderni,
cioè a «quel lungo e difficile viaggio che ha condotto
l’uomo dall’orribile scelta
di sacrificare i propri figli
alla messa a punto di
metodi anticoncezionali
sicuri». Questi metodi,
secondo Flamigni ancora
perfettibili ma indubbiamente rappresentanti di
una storia di progresso e
civiltà, sono un mezzo per
esercitare una scelta pro-
creativa davvero libera e
responsabile, senza sacrificare un diritto altrettanto
fondamentale: quello di
esercitare la propria libertà
sessuale. Libertà che è tale
e completa se è possibile
fare ricorso ai contraccettivi che hanno separato
quanto prima era indissolubilmente unito: sesso e
riproduzione.
Chiara Lalli
Una legge anacronistica
Andrea Borini
I
Per moltissimi anni,
soprattutto
per le
poche
conoscenze
biologiche,
il rimedio
alle gravidanze indesiderate è stato l’infanticidio. In
numerose civiltà, infatti, la
responsabilità di questa
specie di “regolamentazione” veniva lasciata interamente al padre, che decideva la sopravvivenza di un
nuovo nato senza discussioni, senza alternative,
senza pietà.
Con il passare del tempo, le
legislazioni hanno iniziato
a interessarsi di questo
fenomeno e, com’era facilmente ipotizzabile, l’infanticidio è stato poi considerato un crimine. Venivano
tuttavia colpevolizzate e
punite sempre e solo le
donne, mai gli uomini.
Per vedere ridotto il numero di infanticidi abbiamo
dovuto attendere l’introduzione di norme giuridiche
che li hanno considerati un
crimine: è successo in
Francia nel 1556, e in
Inghilterra qualche decennio più tardi.
a più voci
nevitabilmente quando si
parla di regolamentazioni delle decisioni procreative bisogna fare i conti con i
comportamenti da tenere
nei riguardi delle gravidanze indesiderate e della contraccezione.
Le opportunità e i rischi di
una regolamentazione
sociale sono al centro di
una delle parti più importanti del libro di Flamigni,
un libro piacevole, affascinante e utile per chi conosce bene queste realtà dal
punto di vista professionale ma non altrettanto da
quello storico e filosofico.
83
Ma il problema rimane
attuale: in alcuni Paesi del
mondo, in particolare Cina,
India e Pakistan, dove i figli
maschi sono preferiti alle
femmine, è ancora diffuso
nascite. L’aborto aveva
quindi sostituito l’infanticidio come metodo di controllo delle nascite. Nel
1861 è stata approvata in
Inghilterra una legge che
«L’analisi sociologica dimostra che l’uso dell’aborto è
tutto sommato razionale, corrisponde alle logiche dell’emergenza e non ha il significato di un’ulteriore metodologia anticoncezionale»
l’infanticido, tanto che
l’Onu ogni anno denuncia
la mancanza di un milione
di bambine all’appello
demografico.
Tra il 1220 e il 1230 il giurista inglese Henry de
Bracton ha scritto una
sorta di summa delle leggi
vigenti in quell’epoca in
Inghilterra: era punito
come omicida chiunque
colpisse una donna per
procurarle un aborto se il
feto era formato e animato
e altrettanto era previsto
per chi le somministrava
pozioni che avevano lo
stesso effetto. La legge
ignorava invece le interruzioni della gravidanza in
fase iniziale, che, come
ricorda Flamigni, continuavano a far parte delle scelte
che rappresentano un diritto delle famiglie per quanto
riguarda il controllo delle
84
condanna la donna che si
procuri volontariamente
l’aborto. In Francia è del
1791 una legge che considerava l’aborto un crimine.
L’aborto non è un mezzo
contraccettivo
In Italia, prima dell’approvazione della Legge 194 del
22 maggio 1978, c’era un
elevato ricorso all’aborto
clandestino. L’intento del
legislatore è scritto nei
primi due commi dell’articolo 1: «Lo Stato garantisce
il diritto alla procreazione
cosciente e responsabile,
riconosce il valore sociale
della maternità e tutela la
vita umana fin dal suo inizio», e «L’interruzione
volontaria della gravidanza
[...] non è mezzo per il controllo delle nascite».
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
In effetti c’era il timore che
l’aborto diventasse un
metodo contraccettivo
legalizzato. Invece, in una
decina di anni, il numero
di aborti si è quasi dimezzato: dai 233.976 del 1983
ai 130.512 del 2001. Per ciò
che riguarda invece gli
aborti clandestini, un rapporto dell’Istituto superiore
di sanità del 1983 ha evidenziato che gli aborti eseguiti illegalmente sono
stati circa 100.000. Negli
anni successivi sono poi
diminuiti progressivamente, fino ai 21.000 del 2000.
Il legislatore è riuscito
quindi a salvaguardare la
salute delle donne facendo
diminuire il ricorso all’aborto clandestino ed evitando nello stesso tempo
che l’aborto diventasse una
pratica contraccettiva.
Flamigni commenta dicendo che «l’analisi sociologica delle interruzioni di gravidanza dimostra che, tranne ovvie eccezioni, l’uso
dell’aborto è tutto sommato razionale, corrisponde
alle logiche dell’emergenza
e non ha il significato di
un’ulteriore metodologia
anticoncezionale».
Il dato sicuramente più
importante è che, nel
tempo, si sia cercato di salvaguardare la vita umana e
che la contraccezione sia
diventata “il” metodo per
controllare le nascite. In
tutto questo ci sono fattori
sociali, culturali e religiosi
che hanno influito e influiscono tuttora.
Le leggi sull’aborto hanno
cercato di evitare il più
possibile l’infanticidio; con
l’avvento della contraccezione moderna abbiamo
assistito a una riduzione
significativa degli interventi di interruzione volontaria della gravidanza.
Poca considerazione
per la donna
DELL’ACCESSO
Il libro di Flamigni conferma il suo impegno e l’attualità del
suo insegnamento, presentati qui da un testimone diretto.
NELLA STORIA DEL CONTROLLO DELLA FERTILITÀ FLAMIGNI è stato
uno dei principali protagonisti, con un ruolo in cui lo
scienziato, il clinico e l’intellettuale si sono fusi per
sostenere questo «grande cambiamento della vita».
Nonostante i grandi progressi, sono ancora sensibili i problemi: quando nel 1996 ha accettato di assumere, oltre
agli altri impegni, la direzione del primo Centro di fisiopatologia della riproduzione in un’azienda sanitaria periferica, le resistenze, poi superate, sono venute da alcuni
colleghi e dagli ambienti cattolici di quella città, anche
quelli più “sensibili”.
Attuali sono anche, in Italia, i problemi «dell’equità dell’accesso», delle garanzie del solidarismo che sta alla base
del nostro sistema sanitario e della situazione che si è
creata con lo sviluppo di una sanità caratterizzata da un
“federalismo regionale” diffuso. Un’operatrice in una Ausl
di una grande città del Sud parla dell’«impossibilità di
liberarsi del gap psicologico che una diagnosi di infertilità determina, soprattutto in una donna del Sud»;
dell’«iniquità che è prima di tutto culturale»; degli «svantaggi, per quelli del Sud, derivanti dal fatto che i migliori centri sono collocati al Nord».
Un esempio è la storia vera di una donna di oggi, una
colta professionista: un primo “aborto” nello “studio del
Professore”, a pagamento naturalmente: c’era già la legge
194 ma era più «sicuro e tranquillo» così, al Sud. Una
seconda “interruzione volontaria di gravidanza”, questa
volta con il “coraggio” di farla in clinica, come prevede la
legge, come al Nord. Dopo alcuni anni una serie di tentativi di procreazione medicalmente assistita, in un centro
del Nord; poi la rinuncia a fronte di ripetuti fallimenti. A
quasi 50 anni i numerosi viaggi della speranza all’estero,
la gravidanza tanto attesa e la nascita nei mesi scorsi di
un figlio. C’è ancora molto da fare per assicurare una procreazione libera e responsabile.
Walter Domeniconi
a più voci
La lettura del capitolo sul
controllo delle nascite fa
pensare a quanto sia diversamente impostata la
Legge 40/2004 sulla fecondazione assistita.
In questo caso il legislatore
ha tenuto poco in considerazione la donna: la
costringe infatti a sottoporsi a un maggior numero di
trattamenti, a subire più
sconfitte, a provare più
delusioni e quindi, in definitiva, a patire psicologicamente l’incapacità propria
o del partner a procreare.
Di contro, il legislatore ha
riservato al concepito gli
stessi diritti dell’uomo e
della donna.
Come tutti ricordano, c’è
stata un’acerrima discussione politica, influenzata
L’EQUITÀ
85
pesantemente dal credo
religioso e ideologico. La
Chiesa è sempre stata contraria alle tecniche di
fecondazione assistita, e in
questo caso si è schierata
in maniera molto decisa
dalla parte di chi questa
legge l’ha voluta. Forse si
era pensato che concedere
per legge dei diritti a un
embrione di due cellule
avrebbe portato come logica conseguenza anche a
Gli autori
Chiara Lalli è docente di
logica e filosofia della
scienza presso la facoltà
di Medicina e chirurgia,
Università di Roma
“La Sapienza”
[email protected]
Andrea Borini è responsabile clinico e scientifico
del centro di fecondazione
assistita Tecnobios
Procreazione di Bologna e
presidente di Cecos Italia
[email protected]
Walter Domeniconi è
direttore dell’unità
operativa complessa dell’ospedale di Bentivoglio
(BO) del dipartimento
igienico organizzativo
[email protected]
86
una revisione della legge
sull’aborto, che era e rimane il chiaro intendimento
della Chiesa.
Con la legge sulla fecondazione assistita non si doveva sanare una situazione di
clandestinità dei trattamenti, né di illegalità di
particolari tecniche di procreazione medicalmente
assistita: la fecondazione
assistita veniva eseguita
nella maggior parte dei
centri italiani come nel
resto del mondo.
Era necessaria solo una
precisa regolamentazione
da dare a tutti i centri;
erano necessarie verifiche
sulle strutture, e non certamente una regolamentazione delle modalità con le
quali si effettua un trattamento di fecondazione
assistita.
I risultati che questa legge
ha portato sono una diminuzione delle gravidanze
nelle donne sopra i 40 anni
e in quelle con partner con
problemi seminali e un
aumento delle gravidanze
plurigemellari nelle donne
giovani. Mentre nel
Nordeuropa si consiglia ai
centri di fare selezione
sugli embrioni per cercare
di trasferirne uno solo con
alte probabilità di impianto
ed evitare così le gravidanze plurime, in Italia si è
obbligati a trasferire tutti
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
gli embrioni ottenuti (massimo 3) senza fare distinzione di età della donna.
Ancora: non è più possibile
ricorrere alla diagnosi
genetica preimpianto per
evitare che coppie portatrici di mutazioni genetiche
per malattie come la talassemia e la fibrosi cistica
debbano ricorrere all’aborto in caso di feto malato.
In conclusione, questa
legge appare quantomeno
anacronistica, considerando il fatto che già in passato si era cercato di legiferare su argomenti come la
maternità, la contraccezione e l’aborto, tenendo presente come condizione
necessaria e fine ultimo la
salvaguardia della salute
della donna, e lasciando
alla coscienza di ogni individuo la decisione di privilegiare eventualmente la
condizione del nascituro.
Andrea Borini
Benvenuti
al Grand hotel Suicidio
DA LEGGERE Un mondo in cui i morti si possono rianimare ma vivono separati dal resto dell’umanità, e un futuro improbabile in cui si vive fino a 150 anni ma viene incoraggiato il suicidio assistito. Sono gli scenari descritti nei
due racconti che compongono il libro L’amore al tempo dei
morti di Robert Silverberg: fantascienza in fondo poco
provocatoria, ma con un messaggio laico oggi particolarmente necessario, soprattutto in Italia.
Franco Toscani
I
come l’arte, la natura, il
lusso, la buona cucina, probabilmente anche il sesso.
Dei cosiddetti “piaceri della
vita”, insomma. Persone
che hanno sperimentato e
capito qualcosa di importantissimo e segreto, con la
faccia un po’ così come
quelli che hanno visto
Genova, qualcosa che
«intender non lo può chi
non lo pruova».
Incomprensibili, almeno
per noi vivi, noi con la
nostra logica fatta di continuità, di sentimenti e passioni, di paure, di speranze,
di attese e pretese. In
poche parole, noi che viviamo come se esistesse qualcosa – noi, l’universo fisico,
il tempo – di eterno. In
questo futuro (in effetti già
passato, visto che l’autore,
scrivendo nei primi anni
Settanta, lo colloca negli
anni Novanta dello scorso
secolo) un tale cerca disperatamente la moglie amaL’amore al tempo dei morti
Robert Silverberg
Fazi, Roma, 2006
pp. 206, euro 14,50
a più voci
mmaginate un mondo
dove la rianimazione non
è efficace soltanto prima
del decesso, ma, se sufficientemente tempestiva,
anche dopo le esequie,
creando così una comunità
di “diversi”, assolutamente
simili in tutto agli altri, ma
con in comune, ovviamente solo tra loro, l’aver sperimentato la propria morte.
Una comunità unita, ricca,
esclusiva e riservatissima,
che vive in città vietate ai
vivi, di uno squallore totale
perché a nessuno di loro
importa più nulla di cose
87
tissima, morta e rianimata,
facendo di tutto per incontrarla, parlarle, ricostruire il
loro rapporto; quantomeno
per avere spiegazioni, per
cavarne un senso che gli
permetta di accettare la
situazione. La rincorre
nelle città dei morti e dei
vivi, ma lei ha perso ogni
interesse per lui, così come
per ogni altra cosa. I morti
si capiscono solo tra loro, e
si difendono, forse aspet-
un’America improbabile,
dove si vive almeno fino a
150 anni grazie alla medicina e ai trapianti, dove i vecchi sono arzilli almeno fino
al secolo di età (e anche
dopo se la cavano benino).
Sono tutti ricchi, come
vuole l’american dream,
ma finiscono per stufarsi di
vivere, un po’ perché nonostante i trapianti e i viagra,
in effetti, un po’ mummie
lo diventano; e un po’ per
Se oggi negli Stati Uniti decine di milioni di poveri cristi senza assicurazione hanno un’assistenza sanitaria da
Romania di Ceausescu, il sistema futuribile offre gratis
un soggiorno illimitato in complessi da dieci stelle
tandosi che prima o poi i
vivi li riammazzino tutti.
Ma il tizio insiste tanto che
alla fine i morti gli fanno la
pelle e lo rianimano. Allora
lo accolgono affettuosamente come, appunto, uno
di loro. Anche la moglie. E
allora anche lui si accorge
che di tutto, compresa la
moglie, non gliene potrebbe più importare di meno.
Fine.
Ricchi ma stufi
Secondo scenario. Un futuro un po’ più lontano,
88
patriottismo, senso civico,
o quello che si vuole; per
far posto ai giovani, che si
intuisce essere ammucchiati, nello sfondo, in
un’interminabile fila per
accedere a eredità, carriere,
Lebensraum, in un mondo
un po’ sovraffollato. E allora, ecco la soluzione. Un
sistema di facilitazione dell’uscita di scena, mediante
suicidio assistito, che ricorda più il contesto kitsch di
un predicatore cristiano
mediatico che l’austerità e
la classe dell’autoctonia
stoica.
Se oggi negli Stati Uniti
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
alcune decine di milioni di
poveri cristi senza assicurazione hanno un’assistenza
sanitaria da Romania di
Ceausescu, il sistema futuribile offre gratis a tutti un
soggiorno illimitato in
complessi da dieci stelle,
trattati come all’hotel
Danieli di Venezia, con
viaggi per e da ovunque,
estesi a famigliari e amici,
piscine, relax, nursing da
James Bond, sesso non si
sa ma probabilmente
anche quello, musica, libri,
cibo, sport (quel che si può
a centocinquant’anni),
assistenza medica, legale e
notarile, religioni varie, e
un rompiscatole di assistente personale che cerca
in tutti i modi di farti cambiar parere («Ma sei sicuro?». «Sì». «Ma sei proprio
sicuro?». «Ma sì!!». «Ma sei
proprio proprio sicuro?».
L’ultimo piacere,
quello di rinunciare
Ed ecco quindi un altro
tizio, musicista sublime,
pieno di figli, successi e
dollari, che a poco più di
centotrent’anni si stufa di
esistere e, voilà!, decide di
andarsene. Ed entra nel
processo di cui sopra, e
saluta i figli, e saluta gli
amici, e ascolta la sua
musica, e comincia a com-
porne altra, e non si decide
mai ad andarsene, come il
coro dell’Ernani. E tutti che
gli dicono: «Ma dai, torna
indietro, campa ancora un
po’», ecc.
Un lettore filoeutanasico a
questo punto si aspetta la
solita tirata cattolicista:
sembra tutto bello ed elegante, ma in effetti è solo
un mezzo per sopprimere i
vecchi, nella più bieca e
trita logica delle buone
intenzioni che lastricano la
strada per l’inferno. La
morale, ci si aspetta, sarà
che qualsiasi servizio viaggi
per l’aldilà si risolve necessariamente in soluzione
finale. Slippery Slope e
Argumentum ad Hitlerum.
E invece no. Alla fine, colpo
di scena: è tutto vero e
onesto. Ma il tizio decide
nelle ultime righe di morire
malgrado al mondo ci stia
tutto sommato ancora
benissimo. Ed ecco la trovata originale: il suicidio
«come un ultimo piacere:
quello di rinunciare all’unica cosa rimastami che
valga la pena tenere».
Appunto, la vita.
Questi due racconti di
Robert Silverberg, uno dei
grandi della fantascienza,
il grand hotel all included e
completamente gratis per
morire è veramente ingenuo. Presuppone l’illimitatezza delle risorse economiche, cosa ancor meno
probabile della vita dopo la
morte.
Ma, si sa, gli scrittori di
fantascienza sono dei visionari, e spesso riescono a
prevedere più dei politologi, degli scienziati e degli
economisti.
Bisogna comunque riconoscere la limpidezza del
messaggio implicito: la vita
è dell’individuo e sta a lui
decidere quando e come
lasciarla. Un grande messaggio laico al quale, qui in
Italia, non siamo più abituati. Si intuisce il cuore
dell’America liberale e
individualista pulsare nel
petto di Silverberg, non
turbato da prudenze e cautele, dal timore di irritare
Santamadrechiesa e di
ricevere critiche indignate
o stizzite.
Un buon giorno
per morire
È invece veramente strascicata la suggestione dell’ammazzarsi perché tale è
il nostro piacere: in genere
si cerca di darsi la morte
quando si vive male.
Il suicidio del musicista
a più voci
Il cuore
dell’America liberale
sono raccolti in un volumetto dal titolo marqueziano L’amore al tempo dei
morti. Silverberg, classe
’35, laurea alla Columbia
University, scrittore trash
da giovane e di culto poi,
saggista così così, è uno dei
più prolifici autori di fantascienza.
Alcuni suoi romanzi sono
decisamente eccellenti,
come Le ali della notte,
diventato ormai un classico. Questi racconti, invece,
non sono all’altezza, anche
se il primo, che dà il titolo
al volume, ha vinto nel
1969 il premio Nebula.
Non perché non siano
godibili o scritti male, ma
perché le provocazioni che
contengono sono implausibili, e tutto sommato, poco
interessanti. L’idea di una
Weltanshauung dei defunti
è senz’altro poetica, ma
assolutamente ossimorica.
Un po’ come il «Cosa mangia chi non mangia?» di
Odifreddi.
Come si fa a cambiare
modo di pensare se non si
è? A meno che, sotto sotto,
non si pensi che la vita
continui dopo la morte, e
che addirittura permanga
la persona, ecc. Ma allora
sono molto più fantascientificamente e poeticamente
suggestive le religioni.
Un’ipotesi già sentita.
Nel secondo racconto, poi,
89
L’autore
Franco Toscani è direttore
scientifico della
Fondazione L. Maestroni
[email protected]
potrebbe al più stimolare
qualche interesse per un
esteta decadente, un tipo
con i capelli impomatati e
la riga in mezzo, il frac e le
ghette, champagne e cocaina. De gustibus. Oppure
per un neosciamano new
age. Come il vecchio capo
indiano di Piccolo grande
uomo. Anche lui diceva:
«Questo è un buon giorno
per morire!». Si avvolgeva
nella coperta e si stendeva
sul letto nel cimitero indiano sulla collina. Chiudeva
gli occhi e aspettava un po’.
Poi si stufava di aspettare,
si rialzava e tornava a valle.
La morte, però, l’aspettava,
non se la dava.
Ma entrambi, dandy e
Sioux, sono personaggi letterari. I poveri cristi che
cercano la morte la vorrebbero facile e dolce proprio
come è offerta al musicista
di Silverberg, ma loro, che
invece sono veri e reali,
non la trovano, perché
uccidersi è peccato, e aiutarli reato.
Però loro sì che se la
danno: gettandosi nella
90
tromba delle scale, sotto il
treno, inghiottendo acidi e
alcali, tagliandosi vene e
arterie, sparpagliando sul
pavimento il proprio cervello con un colpo di pistola o le interiora con una
coltellata. Perché la loro
vita è un inferno, perché
soffrono orribilmente, perché la depressione li ha
estenuati, o il cancro
distrutti, o perché «all’odio
e all’ignoranza preferirono
la morte». Perché non sopportano di farsela sotto e di
mangiare da un sondino;
perché non vogliono finire
ebeti e sbavanti in un ospizio. E lo fanno di nascosto,
come dei ladri, e scusandosi per aver sporcato.
Di loro ci si vergognerà, ci
si sentirà imbarazzati a
parlarne, verranno condannati dalla pubblica opinione, si negherà loro il
funerale in chiesa, oppure,
al meglio, verranno giustificati come fuori di testa,
con un escamotage ipocrita
e insultante.
Darsi la morte è sì un’uscita di sicurezza, ma è sempre anche una tragedia. È
un diritto, è libertà: ma a
quale prezzo!
Un suicidio “di piacere”
appare come una mancanza di rispetto per tutti
costoro, povera farina
macinata dal mulino di
Amlódi, lo Stritolatore, «la
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
macina di scogli crudele
alle schiere» che le Nove
Fanciulle rimestano con
veemenza, archetipo cantato da Snorri Sturluson e
dagli sconosciuti bardi del
Kalevala; che dona ricchezza e morte, metafora della
ruota del Cielo che genera
e scandisce il tempo e l’ineluttabilità del godere e
del soffrire. Sofferenza, così
come il piacere, senza connotazioni etiche: né giusta
né sbagliata, né pia né peccaminosa. Necessaria.
Numinosa. Maestosa. Che
non riscatta l’umanità
come quella di Cristo, ed è
pertanto ancor più solenne
e terribile nella sua insen
satezza.
Franco Toscani
Storie di cancro
a fumetti
DA LEGGERE L’americana Miriam Engelberg, dopo la diagnosi di cancro, ha trovato un modo originale di raccontare la sua malattia: un libro a fumetti, a volte angoscioso
ma, a sorpresa, anche faceto e divertente. Un ragazzo di 28
anni che è passato per la stessa esperienza racconta come,
leggendolo, si sia immedesimato nelle vicende e, soprattutto, nel modo ironico di affrontare una situazione drammatica. È solo alla fine che i due percorsi si separano.
Bruno Antonini
C
vede come sfortunati,
diversi. Quando, dopo l’annuncio, ci si ritrova in
mezzo agli altri ci si chiede
«perché proprio a me?»; si
prova una sorta di indignazione nel vedere le persone
spensierate, così nei piccoli
gesti della vita quotidiana.
Si divide così il mondo in
“persone col cancro” e
“persone senza cancro”, e
fa un certo effetto far parte
improvvisamente del
primo gruppo quando lo si
è sempre guardato da fuori.
La prima mossa, dopo un
certo sconforto emotivo, è
andare alla ricerca di testimonianze di persone che
hanno avuto esperienze
simili, per raccogliere le
loro sensazioni, i loro consigli ma soprattutto capire
come hanno combattuto la
malattia. La ricerca di
informazioni sulla propria
patologia diventa una sorta
di “hobby”: si trascorre
Il cancro mi ha reso
più frivola
Miriam Engelberg
Tea, Milano, 2007
pp. 144, euro 9,00
a più voci
ancro: una parola che
solo a pronunciarla fa
venire i brividi, perché si
associa ad atroci sofferenze, al momento peggiore
della vita di una persona e
soprattutto è spesso sinonimo di morte. Questa
malattia è considerata così
tabù da non essere chiamata per nome: la parola
viene aggirata utilizzando
metafore, perifrasi e
soprattutto non detti.
Nel momento in cui viene
diagnosticata, stravolge la
vita di se stessi e di tutte le
persone care perché ci si
91
tutto il tempo libero su
internet alla ricerca di sintomi, cause, terapia, statistiche, testimonianze.
Questi sono alcuni dei tanti
lati di un’esperienza di
malata oncologica che
emergono dal libro di
Miriam Engelberg Il cancro
mi ha reso più frivola, un
libro a fumetti che la protagonista ha scritto alla fine
delle terapie come valvola
di sfogo per gli effetti collaterali della chemioterapia.
Il doppio volto
dell’umorismo
Agli occhi di una persona
che non ha vissuto personalmente (o tramite le persone care) un’esperienza
del genere, il libro potrebbe
creare un certo disagio a
causa della capacità della
protagonista di ironizzare
la malattia a fumetti L’Alzheimer è il protagoni-
sta del fumetto di
Paco Roca Rides
(Delcourt, Parigi, 2007).
Ancora cancro in
Le cancer de Maman,
di Brian Fies (Çà et Là,
Bussy-Saint-Georges,
2007).
92
sulle paure associate al
male e alle cure.
Come aveva capito
Pirandello, però, l’umorismo della protagonista è
una sorta di maschera
bifronte, con un lato che
ride per nascondere (e
combattere) l’altro lato
(reale) che invece piange.
La malattia tabù viene così
affrontata con ironia per
renderla meno pesante:
una buona soluzione per
non abbattersi e combattere con maggiore forza. Nei
vari giorni di degenza per
le cure ho potuto constatare in prima persona che
questo atteggiamento di
“scherzo” è uno dei tanti
con cui ci si pone verso la
malattia, ma inaspettatamente è il più diffuso,
soprattutto fra le persone
giovani.
L’anziano invece si appoggia alla trascendenza e
spera di giungere a obiettivi vicini, come per esempio
vedere nascere il nipote,
vedere sposare un figlio,
ecc. Fondamentale per far
fronte alle cure è l’atteggiamento del personale sanitario del reparto. Dottori e
infermieri disponibili, rassicuranti, comprensivi,
affabili, gentili e sorridenti
(oltre che competenti,
ovviamente) sono il mix
per non far pesare la crudezza delle terapie. Sono
Janus 26 • Estate 2007 • il futuro del presente
rimasto colpito dalla loro
disponibilità; una raccomandazione in particolare:
«Qualunque sintomo strano tu senta durante la terapia, chiamaci senza esitare». Credevo intendessero
sintomi gravi, poi ho scoperto che anche lievi effetti
possono nascondere gravi
insidie.
Somiglianze inaspettate
Durante la lettura sono
emerse anche altre somiglianze fra la mia esperienza personale e quella della
protagonista, a partire dall’emetofobia. Si va alla
ricerca di testimonianze di
persone che hanno già
affrontato le chemioterapie
per sapere quante volte si è
rigurgitato, e si rimane stupiti quando si sentono
affermazioni del tipo: «Ho
vomitato solo tre volte».
Miriam avrebbe esclamato:
«Tre volte è spaventoso,
orribile! Se succedesse a
me, morirei!».
Fortunatamente chi si
ammala oggi vive in un
periodo in cui la ricerca ha
fatto grossi passi, soprattutto nell’attenuazione
degli effetti collaterali dei
farmaci chemioterapici, in
primis gli antiemetici e i
fattori di crescita.
Quando mi è stato annun-
ciato che mi sarei dovuto
sottoporre a tre o quattro
cicli di terapia e mi è stata
comunicata la lista dei possibili effetti collaterali, il
dottore è stato molto rassicurante, e ha dichiarato:
«La terapia causerà caduta
dei capelli, un leggero gonfiore, mentre nausea e
vomito saranno tenuti
sotto controllo con i farmaci antiemetici». Io ho risposto: «Sopporto ogni tipo di
effetto, basta che non mi
fate vomitare!», e il dottore
mi ha rassicurato:
«Tranquillo, con gli antiemetici non vomiterai».
Effettivamente nei quattro
cicli è andata come avrei
voluto: ho avuto delle strane sensazioni che solo l’ultimo giorno dell’ultimo
ciclo ho riconosciuto come
nausea, ma una nausea
diversa da quella che si ha
per esempio quando si
viaggia in automobile o in
barca. In compenso si sono
verificati altri effetti collaterali: tachicardia, eccesso
di appetito, ansia, bruciori
di stomaco, singhiozzo,
Bruno Antonini
Agenzia di giornalismo
scientifico Zadigroma
[email protected]
Cruciverba
e altre stravaganze
Un’altra somiglianza con
Miriam è la pianificazione
del tempo in cui si affronteranno i cicli.
Si preparano libri, studi,
film e poi, durante le terapie, ci si ritrova con una
grande voglia di non fare
nulla: unico passatempo
cruciverba e sudoku.
Ci si prepara anche con il
look, si va dal parrucchiere
di fiducia che come sempre
chiederà: «Che taglio facciamo oggi?». L’inaspettata
risposta sarà: «Sto per fare
la chemioterapia e perderò
i capelli, perciò vorrei un
taglio più corto possibile».
Segue il silenzio imbarazzato del povero acconciatore, e poi la ricerca di una
parrucca trendy (nel caso
di Miriam) o di un cappello
all’ultima moda (come nel
mio caso): viste le future
sofferenze ci si concede
qualche effimera stravaganza e qualche vizio!
Una somiglianza inaspettata è stata invece l’incontro
con l’infermiera cattolica.
Quella di Miriam è una
“radioterapista allegra” che
allieta i pazienti con la sua
“bambolina tiramisù” e
tenta di rassicurarli dando
per scontato che tutti al
mondo siano religiosi. Se si
risponde: «Rispetto la sua
fede, ma vorrei che la
smettesse di impormela»,
l’infermiera reagisce: «Su,
su, via quel broncio, in
nome di Dio!». Nel mio
caso personale mi sono
imbattuto con delle religiose volontarie che passavano per il reparto ad annunciare la buona novella, e
con cui, durante i primi
cicli, abbiamo avuto confronti di pareri sulla figura
di San Paolo.
Il libro verso la fine cambia
clima, nel momento in cui
alla protagonista vengono
riscontrate metastasi cerebrali. Diventa triste e
malinconico, non ci sarà
più spazio per l’umorismo.
Nel mio caso invece sembra che per il momento
abbia vinto io, e l’esperienza del cancro mi ha reso
più ironico.
Bruno Antonini
a più voci
L’autore
acne, una forte allergia
cutanea e atroci dolori alle
ossa provocati dai fattori di
crescita (effetti collaterali
di medicinali che combattono effetti collaterali dei
medicinali chemioterapici,
a loro volta attenuati con
altri farmaci per ridurre il
dolore: una spirale di effetti
collaterali). Le mie aspettative si erano così avverate:
tutto tranne vomitare.
93
Il profitto della memoria
96 Religio medici
103 Attualità dei maestri
107 Il ginnasio filosofico
114 La settima arte
118 La medicina raccontata
123 La voce di Melpomene
126 Ultim’ora
Direttive anticipate,
ieri e oggi
Le direttive anticipate non sono una novità rivoluzionaria, ma il proseguimento della tradizione di rinuncia ai mezzi straordinari, intesi come interventi non obbligatori e quindi
definiti in funzione dei singoli casi. Due esempi toccanti dimostrano la necessità di
approvare una legge sulle direttive anticipate, che per essere condivisa da tutti deve rimanere distinta dalle problematiche legate all’eutanasia.
Daniel Sulmasy
Religio medici
Da missione a professione: la
trasformazione del contesto
che dà senso al lavoro del medico, dell’infermiere e di chi è
implicato in un rapporto di cura, sembra irreversibile. Così
come l’evoluzione dal contesto
sacro a quello profano, dalla
guarigione di pertinenza della
religione (salvezza) a quella in
termini laici (salute). Ma l’eredità di un passato religioso dell’attività di cura non è solo un
peso inutile. La rubrica esplora
quanto il sacro e la spiritualità
possano aiutare chi è impegnato nel lavoro di assistenza.
96
L
a discussione sulle direttive anticipate ruota
intorno a tre punti centrali.
Primo, le direttive anticipate di trattamento non sono
un’idea rivoluzionaria, ma
piuttosto il proseguimento
di una tradizione centenaria che prevede la rinuncia
all’utilizzo di mezzi di cura
straordinari. Secondo, è vitale separare il dibattito
sulle direttive anticipate da
quello sul tema dell’eutanasia: non si può permettere che delle divisioni rispetto alla questione dell’eutanasia precludano il
raggiungimento del con-
Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
senso legislativo in materia
di direttive anticipate.
Terzo, benché non siano
una panacea, le direttive
anticipate possono essere
molto utili in campo sanitario nei processi decisionali riguardanti lo stato di
malattia terminale.
Mangiare pernici
è un mezzo straordinario?
Quali interventi possono
essere considerati straordinari? Non ci si lasci
confondere dall’uso comune dei termini “ordinario” e
Direttive anticipate: convegno a Roma
aniel Sulmasy, francescano e medico del St. Vincent’s
Hospital-Manhattan and New York Medical College, è
intervenuto al convegno “Testamento biologico: le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari”, che
si è tenuto a Roma il 29 e 30 marzo scorsi. Il suo contributo integrale si può leggere on line sul sito di Janus
(www.mhjanus.it).
Dal convegno, organizzato da Ignazio Marino, presidente
della Commissione igiene e sanità del Senato, con la partecipazione del ministro della salute Livia Turco, è emersa
la volontà di trovare rapidamente larghe intese per una
legge sulle direttive anticipate. Infatti sono stati presentati in Parlamento otto disegni di legge sul tema ma, a differenza di altri Paesi, manca ancora una legge, e l’argomento è affrontato solo nel nuovo Codice deontologico dei
medici (vedi a questo proposito l’articolo “Otto anni per
cambiare. Ecco il Codice rinnovato”, su Janus 25).
Nella seconda giornata del convegno, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si sono alternati esponenti di varie confessioni religiose: il cardinale
Javier Barragán, il professore Hassan Hanafi Hassanien per
l’Islam, l’ex presidente delle comunità ebraiche italiane
Amos Luzzatto e il lama buddhista Thamthog Rinpoche.
D
p.g.
sibilità di vivere la vita da
invalido, potrebbe moralmente rifiutarla in quanto
mezzo straordinario. Il suo
abate non avrebbe il potere
di obbligarlo ad accettare
l’amputazione.
Dignità, finitezza
e diversità
Le direttive anticipate
dovrebbero essere percepi-
te come strumenti utili nel
progetto più vasto di aiutare pazienti, famiglie e
medici a finalizzare la scelta migliore per il malato
terminale, e rientrano perfettamente all’interno della
tradizione di rinuncia dell’utilizzo di mezzi straordinari, che si fonda su quattro principi.
Il primo principio è la
dignità della persona. Ogni
essere umano, in virtù del
religio medici
“straordinario”: il termine
“straordinario” è utilizzato
qui come termine tecnico
con il significato di “non
obbligatorio”. In questo
senso qualunque trattamento di sostegno vitale, in
determinate circostanze,
può essere considerato
straordinario. La lista non
si limita solo agli interventi
tradizionalmente medici.
Secoli fa, quando la medicina poteva fare molto
poco, ad alcuni esperti di
morale fu chiesto se un
paziente fosse obbligato a
seguire il consiglio medico
di mangiare pernici o di
abbandonare la Sicilia alla
volta delle Alpi. I saggi
risposero che questi interventi potrebbero considerarsi straordinari. Se il
paziente non poteva permettersi le pernici, poteva
mangiare il pollo. Se il trasferimento sulle Alpi avesse
isolato il paziente e lasciato
sul lastrico la famiglia,
poteva restare a casa e
accettare di morire. Questi
interventi sono da considerarsi straordinari o moralmente opzionali. Perfino il
timore della condizione in
cui uno si troverebbe dopo
il trattamento lo potrebbe
rendere straordinario.
Quindi un monaco che non
fosse preoccupato tanto
dal dolore dell’amputazione quanto invece dalla pos-
97
semplice fatto di essere
umano, ha un valore intrinseco che chiamiamo
dignità. Questo è il principio fondamentale di tutta la
moralità interpersonale. La
medicina si prende cura dei
malati innanzitutto perché
ognuno di loro ha una
dignità intrinseca che deve
sempre essere rispettata.
Il secondo principio è il
dovere di preservare la vita.
Questo principio ha diverse
origini, la più ovvia delle
quali è l’interesse personale. Poi c’è anche un dovere
di gratitudine per il dono
della vita, almeno verso i
nostri genitori e antenati se
non verso Dio. Infine, il
nostro dovere di preservare
la vita deve tenere conto
del nostro ruolo e della
nostra responsabilità verso
altri.
Il terzo principio è il limite.
Come esseri umani siamo
limitati, dal punto di vista
morale, intellettuale e fisico. Ci ammaliamo e moriamo. Anche la medicina è
un’arte imperfetta, e prima
o poi tutti i pazienti
muoiono. Anche le nostre
risorse, sia individuali sia
collettive, sono limitate, da
un punto di vista fisico,
psicologico, sociale, economico e morale. La nostra
finitezza costituisce il limite del dovere di preservare
la vita.
98
Il quarto principio è la
diversità degli esseri
umani. Ciascuno di noi è
unico. Per esempio, possiamo reagire diversamente
alla somministrazione della
stessa medicina. Siamo
diversi anche da un punto
di vista psicologico, sociale,
economico e morale. Ogni
medico sa che Aristotele
aveva ragione quando diceva che i medici non curano
memoria. Il signor Q non
riesce a ricordare all’ora di
pranzo quello che ha mangiato a colazione, però
ricorda perfettamente episodi della sua vita prima
dell’incidente ed è cosciente della natura delle lesioni
subite e della sua conseguente disabilità. A causa
del danno cerebrale, non
ha potuto mantenere il suo
incarico come professore
«La mamma lo sapeva che sarebbe stata dura per te. Mi
ha detto che non voleva nessun tubo. Guarda, ha firmato tempo fa questo foglio con le direttive anticipate e
mi ha incaricato di prendere le decisioni per conto suo»
l’umanità in generale ma
curano Socrate o Callio, o
altri singoli individui affetti
da malattia. Ciascun caso è
unico nel suo genere: un
paio di esempi aiutano a
chiarire.
Il caso del signor Q
Il signor Q è un uomo di 60
anni, che 25 anni fa è stato
aggredito per furto. Nel
corso degli anni le sue
lesioni cerebrali si sono
risolte, il paziente ha ripreso a parlare e a muoversi,
tuttavia lamenta un
profondo danno della
Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
di storia all’Università del
Montana. Non si è mai
sposato; nel corso degli
anni i suoi genitori, che si
sono sempre presi cura di
lui, sono morti. Vagando
qua e là, tristemente, è arrivato dal Montana fino a
New York, dove è diventato
un vagabondo: vaga per le
strade, mangia alla mensa
pubblica e dorme tra i cartoni sulle grate vicino ai
grattacieli. Quattro anni fa
un’associazione affiliata
alla Chiesa per l’aiuto dei
senzadimora ha iniziato a
prendersi cura di lui. Poco
per volta lui ha cominciato
a fidarsi di quest’associa-
zione, e così ha accettato di
essere ospitato in un dormitorio. Per le prime sei
settimane si è trovato bene.
Era certamente un animo
solitario e non parlava che
raramente solo per qualche
minuto, probabilmente
imbarazzato dal suo problema di memoria. Era
gentile e riusciva a volte ad
avere brevi conversazioni,
ma non più di tanto. La sua
gioia più grande era riuscire a leggere tutto il New
York Times ogni giorno.
Andava d’accordo con l’assistente sociale che stava
cercando di procurargli
una qualche forma di assistenza governativa per le
spese mediche.
Nessuno
può decidere per lui
ma la prognosi è pessima,
tanto che, se il paziente
sopravvive, vivrà in uno
stato che molti potrebbero
giudicare profondamente
oneroso». Il primario di
cardiologia era cosciente
che non avrebbe potuto
decidere da solo della
natura straordinaria delle
cure prestate, perché la
decisione avrebbe dovuto
coinvolgere il paziente. Ma
chi può decidere per il
paziente? La famiglia non
esiste. L’associazione aveva
perfino contattando la
polizia, nel tentativo di trovare dei familiari, ma senza
risultato. Il signor Q non
aveva nessuno che potesse
parlare per lui.
Ricorrere al giudice
A questo punto è stato
organizzato un consulto
etico. Secondo la legge
dello stato di New York, per
staccare dal respiratore un
paziente che ha perduto la
capacità decisionale è
necessario avere le prove
«chiare e convincenti» delle
sue volontà. Ma il signor Q
era arrivato da poco al dormitorio pubblico e non
aveva mai parlato con nessuno delle sue volontà nell’eventualità di una situazione del genere. Il personale del dormitorio era in
religio medici
Poco tempo fa, durante la
colazione con altri ospiti
del dormitorio, ha avuto un
collasso. Il personale ha
chiamato un’ambulanza ed
è cominciata la rianimazione cardiorespiratoria. Il
personale dell’ambulanza
non è riuscito a ristabilire il
polso e ha continuato la
rianimazione durante la
corsa all’ospedale.
All’arrivo al pronto soccorso la cardioversione ha
ristabilito polso e pressione, ma il paziente è rimasto
in uno stato profondamente comatoso. All’inizio non
erano riscontrabili neppure
i riflessi vegetativi, come la
costrizione delle pupille,
l’ammiccamento o la respirazione autonoma. Era
dipendente dal respiratore.
Il giorno dopo è diventato
febbrile, probabilmente per
una polmonite. Dopo qualche giorno la febbre è
diminuita, ma il signor Q è
rimasto completamente
comatoso e incapace di
respirare senza il supporto
del respiratore.
Il suo cervello non era
morto, ma gravemente
danneggiato. È restato in
coma; nel corso del tempo
ha riguadagnato parzialmente la funzione delle pupille, delle palpebre, ma
non la respirazione autonoma. A questo punto la
prognosi del signor Q era
sopravvivenza del 50 per
cento, con la prospettiva di
finire, al meglio, in uno stato vegetativo persistente.
Naturalmente per accertare
questa diagnosi sarebbero
stati necessari almeno sei
mesi di terapia intensiva.
I cardiologi si chiedevano
se continuare le cure intensive fosse realmente nell’interesse del paziente. Si
dicevano: «Il trattamento
non può essere considerato
futile perché la possibilità
di sopravvivenza è reale,
99
per saperne di più
D.A. Cronin, “Conserving
Human Life”. In: Russell
Smith (a cura di),
Conserving Human Life.
The Pope John Center,
Braintree, 1989.
D.P. Sulmasy, “Double
effect reasoning and care
at the end of life: some
clarifications
and distinctions”.
In: Vera Lex 2005;6.
D.P. Sulmasy, “End of life
care revisited”. In: Health
Progress 2006;87(4).
D.P. Sulmasy et al.,
“Prospective trial of a
new policy eliminating
signed consent for Do
Not Resuscitate orders”.
In: Jgim 2006;21.
P. Verspieren, Eutanasia?
Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento
dei morenti. Paoline,
Cinisello Balsamo, 1985
K. Faber-Langendoen, “A
multi-institutional study
of care given to patients
dying in hospitals. Ethical
and practice implications”.
In: Archives of Internal
Medicine 1996;156.
T.R. Fried, M.R. Gillick,
“Medical decision-making
in the last six months
of life: choices about
limitation of care”.
In: Jags 1994;42.
possesso delle direttive
anticipate di circa l’80 per
cento dei clienti, ma non
aveva ancora affrontato il
discorso con lui. Se c’era la
possibilità di venire in possesso di un documento di
direttive anticipate del
signor Q con una sua
dichiarazione di non venire
rianimato in circostanze
simili alle attuali, o con cui
nominava un procuratore
per decisioni mediche, e se
il procuratore avesse
espresso il rifiuto dell’uso
del respiratore in vece sua,
il respiratore avrebbe potuto essere staccato verso la
metà di febbraio. Ma l’associazione ha presentato
una petizione al tribunale
per essere nominata come
suo procuratore. E intanto
il signor Q langue in terapia intensiva, con duplici
danni cerebrali, una prima
volta per colpa dei ladri e la
seconda per colpa della
medicina, incapace di dargli la liberazione che tutti
sospettano sia il suo desiderio. E questo perché non
ha espresso le direttive
anticipate.
La signora Z e famiglia
La signora Z, una donna di
79 anni, è affetta da
Alzheimer avanzato. La
signora ha un marito total-
100 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
mente devoto a lei, ancora
in buona salute nonostante
i suoi 82 anni suonati, e
cinque figli profondamente
legati a lei. Tutta la famiglia
ha contribuito alle sue cure
a casa con affetto, tempo e
denaro. Circa dieci anni
prima la donna aveva preparato le sue direttive anticipate indicando il figlio
maggiore come fiduciario
per le decisioni sanitarie.
«Conosco tuo padre», gli
aveva detto, «non riuscirebbe a lasciarmi andare.
Per questo motivo scelgo
te. Se divento inferma al
punto da non potermi più
esprimere e non c’è nessuna speranza di guarire, non
voglio cure che prolunghino la vita. Non voglio il
respiratore. Non voglio l’ospedale. Non voglio tubi.
Chiama il prete e lasciami
morire in pace. Se non
posso più dire il rosario,
che vita sarebbe? Se non
posso più riconoscere tuo
padre, che vita sarebbe?
Sarebbe doloroso per lui
vedermi in quello stato. Lui
penserebbe che è suo
dovere tenermi in vita, ma
non dovrebbe pensare così.
Nessuno di voialtri dovrebbe rovinarsi la vita solo per
tenermi viva: per cosa?
Qualche mese in più? No,
non se ne parla neanche.
Se arriviamo a una situazione del genere, lasciami
andare a casa da Gesù».
La donna aveva ripetuto
una conversazione simile
col figlio maggiore cinque
anni dopo, quando le era
stato diagnosticato
l’Alzheimer. Ha firmato la
dichiarazione, indicando
che quelle erano le sue
volontà. Lentamente è passata dal perdere la memoria fino a non riuscire più
ad alzarsi. È stata ospedalizzata per un’infezione
delle vie urinarie e successivamente per polmonite. È
diventata incapace di riconoscere i suoi familiari e ha
cominciato ad avere piaghe
da decubito. Negli ultimi
mesi è stata nutrita cucchiaino per cucchiaino dai
familiari, ma anche questo
è diventato un problema,
perché ha perso il controllo
della deglutizione e tende a
soffocare anche per deglutire piccoli sorsi d’acqua.
«Portiamola a casa»
chiesto allora: «Ma mia
moglie morirà di fame senza un tubo gastrico?»
«No, non succede così.
Prima diventerà disidratata. È un processo naturale,
è il modo con cui la maggior parte degli esseri umani è morta a seguito di malattie croniche. Voi potete
continuare a nutrirla un
pochino, che prenda quello
che può. Se la nutrite in
questo modo, lei lo apprezzerà e potrà ancora gustare
il cibo in bocca. Potete anche bagnare le labbra con
pezzettini di ghiaccio e
idratare le labbra con della
vaselina. Questi sono momenti molto umani e intimi. Lei non può comprendere molto a questo punto,
ma questi piccoli gesti comunicheranno il vostro
amore per lei. Infatti nutrirla con un’infusione continua attraverso il tubo gastrico non ha nessun significato interpersonale. Non
le darà neppure la sensazione di sazietà, perché lo
stomaco non si distende, in
quanto il cibo è infuso goccia a goccia e non avrà il
piacere del gusto in bocca.
Oltre a questo il suo corpo
sta perdendo colpi. Tanto
per cominciare, sta perdendo l’appetito. È stato dimostrato che pazienti affetti
da Alzheimer che hanno un
tubo gastrico non sopravvi-
religio medici
A questo punto la signora è
stata ricoverata ancora una
volta per polmonite. Il dottore ha suggerito di inserire
un tubo gastrico, vista la
sua impossibilità a deglutire, e ha chiesto il consenso
al marito. Il marito ha
acconsentito dicendo:
«Faccia tutto il possibile
per aiutarla». Lo stesso
giorno il figlio maggiore si
è recato all’ospedale, è
venuto a sapere della decisione e subito si è ricordato
della conversazione avuta
con la madre anni prima
riguardo a decisioni del
genere. Prima ancora che
avesse il tempo di parlare
col padre, il gastroenterologo, cioè lo specialista che
inserirà il tubo gastrico, è
entrato nella stanza e ha
spiegato che è stato chiamato per esaminare la
signora prima di inserire il
tubo gastrico.
Il marito gli ha detto:
«Benissimo, il medico curante mi ha spiegato che
questo tubo dovrebbe prevenire la polmonite e così
lei può essere mantenuta in
vita». Il gastroenterologo ha
invitato marito e figlio a sedersi, spiegando che le cose
non stavano esattamente
così: «Questo intervento
permette al cibo di raggiungere lo stomaco, però
può capitare che parte del
cibo sia rigurgitata dall’esofago alla trachea, provocando la polmonite. L’unico
modo per evitare completamente la possibilità della
polmonite sarebbe quello
di chiudere le corde vocali
e far respirare la signora
tramite un tubo inserito nel
collo, cioè la tracheotomia.
Ma non credo che dovremmo farlo». Il marito ha
101
L’autore
Daniel Sulmasy
è medico e francescano,
St. Vincent’s HospitalManhattan and New York
Medical College
vono più a lungo di pazienti che non lo hanno. Il mio
consiglio è che la portiate a
casa».
Il figlio maggiore ha preso
allora la parola: «Sai papà,
la mamma lo sapeva che
sarebbe stata molto dura
per te. Mi ha detto che non
voleva nessun tubo.
Guarda, ha firmato tempo
fa questo foglio con le
direttive anticipate e mi ha
incaricato di prendere le
decisioni per conto suo. Lei
sapeva che tu le vuoi troppo bene per riuscire a
lasciarla andare. Il tubo
gastrico è un mezzo straordinario. Mi ha detto che
non voleva tubi di alcun
genere. Non servirebbe né
a lei, né a te, né a noi. Dai,
portiamola a casa».
«Tua madre, lo sai, è così:
così bella, così amabile.
Siamo stati così tanti anni
insieme. D’accordo, capisco, hai ragione. Niente
tubi. Merita il suo riposo.
102 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
La portiamo a casa».
Questo è il modo tradizionale di prendere decisioni,
facilitato nel ventunesimo
secolo dall’uso delle direttive anticipate. Nel sedicesimo secolo non era necessario avere un documento
così per rinunciare al consiglio medico di trasferirsi
sulle Alpi.
Tuttavia per continuare
quella tradizione nel ventunesimo secolo, il popolo
italiano può beneficiare di
una legislazione che autorizzi l’uso delle direttive
anticipate.
Daniel Sulmasy
L’Igiene
è uguale per tutti
Statistica sanitaria, ostetricia e igiene sono le tre discipline verso cui si concentra Francesco Boncinelli
che, a fine Ottocento, si impegna per promuovere
un’importante politica sanitaria rivolta a quella
che lui stesso definisce «l’umanità sofferente». Lo
scopo principale: migliorare la salubrità delle abitazioni, poiché ogni singolo aspetto della vita
sociale può esercitare conseguenze importanti dal
punto di vista medico e sanitario.
Donatella Lippi
«L
La scienza non si costruisce più
sulla parola dei maestri. La
nostra vita morale, invece, continua ad aver bisogno di maestri e di modelli.
Compresa la vita di coloro che
hanno fatto del curare e del
prendersi cura la loro professione. Rievocare i maestri è dolce,
come per Dante risuscitare la
cara e buona imagine paterna di
Brunetto Latini. E istruttivo.
interiorizzato. Cinquemila
volumi e opuscoli donati al
Comune di Firenze, e oggi
conservati nella biblioteca
comunale centrale, che
testimoniano la sua formazione umanistica, a cui
rimarrà legato, lungo tutta
la sua carriera professionale, anche dopo la scelta di
seguire gli studi medici.
Un’educazione life long
learning ricostruita attraverso un patrimonio librario rimasto compatto e
indiviso, che consente di
ripercorrere la storia istituzionale e scientifica della
disciplina igienista.
attualità dei maestri
Attualità dei maestri
a mia povera libreria
che mi è costata sessant’anni di cure, di affetti,
di spese, e dalla quale ho
retratto quel po’ più di sapere che ho acquistato (essendo stati i libri i miei più
cari e più fedeli amici) non
so adattarmi a che ella possa andare dispersa con grave e oltraggiosa jattura».
Un saluto quasi accorato,
quello che Francesco
Boncinelli rivolge, nel suo
testamento, ai volumi della
sua biblioteca, compagni di
viaggio di un percorso
umano e professionale
profondo e sinceramente
103
Francesco Boncinelli, nato
a Firenze nel 1837, dopo
aver militato nelle guerre di
Indipendenza, si dedica attivamente alla professione
medica e ottiene interinati
in varie zone della Toscana.
Successivamente diventa
capo dell’ufficio di Igiene
di Firenze e poi ufficiale sanitario. Dimostra in questo
ruolo una grande capacità
organizzativa, che gli vale
l’encomio della giunta comunale per aver fronteg-
per saperne di più
F. Boncinelli, Relazione
sullo stato igienico del
comune di Firenze 1893,
Firenze 1894.
F. Boncinelli, Le condizioni igienico sanitarie del
Comune di Firenze nell’anno 1898, Firenze 1899.
F. Boncinelli, L’Igiene e la
salute pubblica in Firenze,
Firenze 1897.
F. Boncinelli, Decalogo
delle madri, Firenze 1898.
D. Lippi, “Il colera si cura
quando non c’è. Igiene e
medicina preventiva nell’opera di Francesco
Boncinelli”. In: F. Giorni,
M. Pinzani, a cura di, Il
lascito Boncinelli.
Assessorato alla Cultura,
Firenze, 2005.
giato in modo veramente
efficace un’epidemia di tifo
particolarmente virulenta.
Intanto Boncinelli continua
a pubblicare in tema di
igiene e letteratura, dedicandosi in modo assiduo a
numerose iniziative di
beneficenza: «L’umanità
sofferente» è un leitmotiv
della sua riflessione.
Malattie
e condizioni di vita
Le patologie più diffuse in
Toscana, tra Ottocento e
Novecento, erano la malaria, la tubercolosi e il tifo.
Nei primi anni in cui vennero elaborati dati completi, alla fine del XIX secolo,
le malattie gastroenteriche
erano in media la causa di
più del 15% di tutte le morti (comprese quelle accidentali e violente), mentre
le diverse forme di tubercolosi contribuivano per
circa il 6%, ma, soprattutto,
avevano un’incidenza demografica ben superiore a
quella della tubercolosi.
Le malattie dell’apparato
digerente decimavano la
popolazione infantile, contribuendo più di ogni altra
patologia all’abbassamento
della vita media.
L’analisi di queste malattie
ha un’importanza che va
molto al di là del dato
104 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
puramente quantitativo
dell’incidenza statistica che
avevano sulla mortalità.
Apre, infatti, uno spaccato
drammatico sulla situazione generale delle condizioni di vita, oltre che delle
pratiche igieniche nelle
infrastrutture sanitarie.
In un’ottica più strettamente sociale, le caratteristiche
eziologiche e diffusive di
queste malattie facevano sì
che fossero appannaggio
delle classi più povere,
costrette a vivere in condizioni particolarmente difficili e scarsamente igieniche, nei quartieri più affollati e miseri delle città.
Contro questa situazione si
muove Francesco
Boncinelli che indirizza la
sua denuncia su punti
chiari e ben definiti: promuovere un’azione educativa nei confronti della popolazione, inaugurare una
politica sanitaria con investimenti importanti, monitorare la situazione sanitaria dei centri urbani, impostare una politica urbana
destinata a migliorare la salubrità delle abitazioni.
Controllo sanitario
collettivo
Statistica sanitaria, ostetricia e igiene: questi sono i
tre filoni su cui si indirizza
innestano la rivoluzione
pasteuriana e gli studi di
Robert Koch.
Le necessarie cure
materne
Il campo d’azione dell’igienista è vastissimo in quanto, come scrive Boncinelli,
«l’igiene, nel ricercare e
investigare le cause che
sa, dogmatica, aforistica»
avrebbe dovuto fornire
alcuni principi di fondo per
la cura dei figli. Attenzione,
cura, affetto materno,
devono essere integrati dal
rispetto di determinate
norme igieniche: allattamento al seno, bagno, igiene del capezzolo, abbandono delle fasciature, uso di
latte bollito, svezzamento
progressivo, vaccinazione.
«L’igiene, nel ricercare le cause che possono ledere l’integrità della privata e pubblica salute, non può omettere di considerare alcuno dei fatti che si svolgono nelle
mille manifestazioni della vita individuale e collettiva»
possono in maggiore o
minor grado ledere l’integrità della privata e pubblica salute, non può omettere di considerare alcuno
dei fatti che si svolgono
nelle mille manifestazioni
della vita individuale e collettiva». Ogni aspetto della
vita sociale deve essere
attentamente valutato, in
quanto esercita conseguenze importanti, anche
dal punto di vista medico e
sanitario.
Non a caso, Boncinelli insiste sull’importanza dell’educazione delle donne, elaborando il Decalogo delle
madri che «in forma conci-
Obiettivo dell’intervento di
Boncinelli è, quindi, la
difesa dei bambini dalla
mortalità per «cause comuni, per malattie acute degli
organi di petto e per quelle
del tubo digerente».
L’igiene prima di tutto
Igiene come strategia preventiva e come mezzo di
redenzione sociale, ma
anche come strumento di
crescita morale.
«Il filosofo Descartes ha
detto già da molto tempo:
“La medicina e l’igiene
sono il principale mezzo
attualità dei maestri
maggiormente l’attenzione
di Boncinelli e la sua produzione scientifica, sulla
scia dell’insegnamento
inaugurato a Pavia nel
XVIII secolo da Johann
Peter Frank, fondatore
della Medizinische Polizei.
Attraverso il controllo delle
condizioni di vita dei suoi
concittadini, Frank sosteneva la necessità di una
sorta di controllo sanitario
collettivo, che doveva essere realizzato dal medico,
visto come vero interlocutore dello Stato. È, infatti, il
medico-politico la figura
vincente nel corso del XIX
secolo, attore protagonista
di una politica sanitaria,
che culmina nella prima
legge di Sanità pubblica,
del 1888, formulata dal
grande igienista Luigi
Pagliani.
Inchieste, sondaggi, ricognizioni, verifiche: soltanto
dopo aver rilevato le necessità e le emergenze, sarebbe stato possibile intervenire con strategie mirate.
Questa impostazione, che
risente anche dell’insegnamento di Jean Pierre
Alexandre Louis, fondatore
della méthode numerique
in medicina, nella Parigi
della prima metà
dell’Ottocento, dà una svolta radicale ai problemi
sanitari e alla pianificazione degli interventi, su cui si
105
L’autrice
Donatella Lippi è docente
di storia della medicina e
bioetica all’Università di
Firenze
[email protected]
per rendere gli uomini
comunemente virtuosi” ed
il mio illustre e glorioso
maestro Francesco
Puccinotti vaticinava che la
medicina sarebbe divenuta
un giorno non altro che un
ben ordinato e completo
sistema di Igiene. La libertà
e l’eguaglianza, consacrate
dai progressi della civiltà in
tutte le manifestazioni
della vita, negli ordini civile, politico, religioso ed
economico, hanno guadagnato un nuovo campo di
azione, per cui si può dire
con pari verità che della
Legge: “L’Igiene è uguale
per tutti”. Lasciamo che i
sani precetti di quest’arte
divina, volgarizzati e posti
in atto ogni giorno dai suoi
convinti e zelanti apostoli,
che la Legge ha disseminato negli ottomila Comuni
del Regno, si siano fatti
strada fra il volgo ricco e
plebeo, e a poco a poco
intrinsecati e assorbiti
nella coscienza pubblica; e
sarà dato allora di osservare una quasi meravigliosa
trasformazione del fisico
materiale benessere non
solo, ma un salutare e
potente risveglio della pubblica e privata moralità
[…]», scrive Francesco
Boncinelli.
Igiene urbana e igiene della
casa sono i due elementi
principali del programma
di risanamento della città,
nel progetto dell’igienista:
«La salubrità della casa
forma l’agglomerato capitale e l’oggetto della maggior importanza di pubblica igiene, perché una città
che non è altro che un
aggregato e una riunione
più o meno grande di case,
non può essere salubre se
non sono salubri le parti
che la compongono […]».
Mediatori culturali
per diffondere l’igiene
Il problema della salubrità
della casa, considerato da
Boncinelli come «questione di primissima importanza nell’interesse della
privata e pubblica igiene»,
sarà questione centrale del
programma della Giunta
del 1907, guidata da
Francesco Sangiorgi, che
segnerà per Firenze la strada della modernizzazione.
Guido Banti, assessore
all’Igiene nel 1907, porterà
avanti le osservazioni di
Boncinelli, denunciando le
106 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
difficoltà di funzionamento
dell’ufficio di Igiene, sia per
i problemi di ordine logistico, sia per la mancanza di
personale. «La cura della
salute pubblica è il primo
dovere di un uomo di
Stato»: riportando le parole
di Benjamin Disraeli,
Boncinelli richiede un
maggiore impegno delle
autorità nei confronti di
queste istanze e individua
negli insegnanti, nei parroci, nei medici condotti i
mediatori culturali più
importanti per veicolare le
norme igieniche basilari
all’interno delle famiglie.
Non a caso, Boncinelli
parla di “apostolato”, nella
professione e nella vita:
ancora lontani dalla medicina sociale degli anni successivi, Boncinelli «si pone
sul piano dell’apostolato
fra le classi popolari, come
forma di mediazione culturale, di ricerca sul campo e
di azione concreta a sostegno delle rivendicazioni
delle classi più umili, nel
solco della più nobile tradizione scientifica toscana».
Oggi, di fronte alle emergenze rappresentate dalle
nuove povertà, il messaggio
scientifico e il messaggio
umano di Francesco
Boncinelli suonano parti
colarmente attuali.
Donatella Lippi
Pensare il Sé
per pensare la salute
Il concetto di salute non è di facile definizione ed è stato interpretato diversamente a
seconda dei contesti storici e culturali. Il suo significato comunque dipende essenzialmente dall’idea del Sé, e quindi del rapporto fra corpo e anima (o mente): da Pitagora a
Nietzsche, passando per Platone e Cartesio, i filosofi hanno formulato diverse concezioni
del Sé. Di conseguenza sono cambiati anche i modi di intendere la salute e di curarla.
Fernando Rosa, Alessandra Parodi
I
Quod optimus medicus sit
quoque philosophus: «È chiaro
che il miglior medico è sempre
anche filosofo». L’opinione di
Galeno si scontra con la costruzione dei saperi che è propria
del nostro tempo: medicina e
filosofia hanno preso due strade diverse. Eppure i punti di
raccordo esistono.
In questa rubrica andiamo a
cercarli, per valorizzare l’apporto del pensiero filosofico alle
medical humanities.
di ammalarci? Perché e a
che proposito curare i sani?
Per iniziare a porci questi
problemi si deve partire
dalla percezione di sé
rispetto al mondo, da cui
poi individuare dei modelli
di sé. Curare i sani significa
anche occuparsi di tratti
rilevanti per certe concezioni di salute, proprio per
evitare un possibile danno.
L’esperimento di Cartesio
È possibile innanzitutto
individuare tre semplici ma
fondamentali esperienze
il ginnasio filosofico
Il ginnasio filosofico
l concetto di salute è
tutt’altro che chiaro: dipende dalle aspettative degli individui e della società,
ed è quindi pensato rispetto al senso complessivo
che viene dato all’esistenza
umana. È sufficiente parlare di una salute fisica (l’assenza di dolore, il senso di
benessere fisico)? Oppure:
è in salute chi ha un problema nascosto, per esempio una malattia che non si
è ancora manifestata?
Quali provvedimenti dobbiamo adottare, e fino a
che punto, per tutelare la
salute, per ridurre il rischio
107
del sé. Tutti noi possiamo
fare esperienza di ognuna
in vari momenti della vita,
ma certamente alcune prevalgono, in base alla nostra
cultura, intelligenza, sensibilità e ai nostri valori.
Verosimilmente è sempre
stato possibile per l’uomo
avere esperienza di sé
attraverso queste tre modalità, anche se il prevalere di
ognuna è stata dipendente
in modo decisivo dal periodo storico.
Una prima possibilità è
quella di percepirsi come
un corpo. Le sensazioni
(fame, sete, rabbia, dolore)
vengono riferite al corpo e
sono percepite spesso
come un fatto esclusivamente fisico. Un tipico
esempio può essere l’uomo
come viene descritto da
Omero, che non viene
quasi concepito come un
individuo unitario, ma suddiviso nei suoi organi. La
vita mentale è intesa come
qualcosa di organico: per
esempio il cuore è l’organo
dei sentimenti e degli affetti, il diaframma (traduzione
in realtà impropria di
phrén, i praecordia latini) è
sia una parte anatomica sia
un aspetto della mente.
L’uomo omerico non conosce una mente interna, ma
colloca nel corpo le forze
che lo condizionano.
Una seconda possibilità è
quella di concepirsi come
una mente, staccata dal
corpo. Anche questa è
un’esperienza di tutti: per
esempio quando vogliamo
fare un movimento, un’azione e il nostro corpo non
risponde, come se ci fosse
una dissociazione fra i due
aspetti; oppure quando ci
stiamo rilassando, o stiamo
per addormentarci e ci
sembra quasi di non percepire più il nostro corpo, e
che il nostro sé sia racchiuso tutto nella mente. Il tipico esempio di questo è il
celebre esperimento mentale di Cartesio, all’inizio
della prima Meditazione
metafisica: pensa se stesso
come completamente
distaccato dal corpo.
Vi è infine una terza possibilità: il percepirsi come
una totalità mente-corpo.
Anche questa è comune: ci
basti pensare a momenti di
contemporaneo benessere
fisico e mentale o, viceversa, di dolore associato ad
angoscia.
Un’origine sciamanica?
A partire da queste semplicissime esperienze si può
facilmente comprendere
come il concetto di corpo e
il suo rapporto con la
mente (o l’anima) risulti
decisivo nel prendere in
108 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
considerazione i motivi per
cui trattare la persona
sana, che cosa trattare e
come trattarla. Si possono
infatti individuare alcuni
modelli che si sono presentati nel corso della storia:
in base alla loro accettazione gli approcci alla conservazione della salute sono
stati diversi. L’importanza
di questi modelli non è
solo storica ma anche
attuale, perché molti di essi
sopravvivono anche nella
nostra epoca. I modelli,
anche se la loro separazione non è così netta, possono essere individuati in:
• essere in un corpo
• essere un tutto
(mente-corpo)
• avere un corpo
• essere un corpo.
Il primo modello individua
come unica parte veramente importante del sé
l’anima, struttura spirituale, spesso preesistente al
corpo e che nel corpo viene
contenuta. Nella cultura
occidentale quest’interpretazione deriva dalla tradizione orfico pitagorica, sviluppatasi soprattutto nel
corso del VI secolo a.C. in
Grecia e a sua volta, verosimilmente, di origine sciamanica. Gli sciamani si
caratterizzano proprio per
la capacità di distaccare
l’anima (o le anime) dal
corpo e di viaggiare in altri
luoghi o nell’aldilà. L’anima
così concepita, che può
trasmigrare da un corpo
all’altro alla morte dell’individuo, non è ancora
paragonabile a quella che
noi chiamiamo mente,
anche perché spesso è
inconscia. Questa tradizione, proprio per l’importanza che annette all’anima,
concepisce la sua cura
sforzi verso le scienze e gli
studi e stabilire, per i suoi
discepoli, prove svariatissime e castighi e premi per
l’intemperanza e la cupidigia innate in tutti gli uomini. [...] Inoltre insegnava ai
discepoli l’astinenza da
tutti gli animali e da alcuni
cibi che erano di ostacolo
alla vigilanza e alla purezza
del pensiero». Compare qui
un primo aspetto importante anche per i modelli
Sono significativi i casi di molte ascete nel tardo
medioevo: si trattava soprattutto di donne che si privavano del cibo in maniera quasi totale, al punto che
molte di loro si nutrivano soltanto dell’ostia consacrata
successivi: l’alimentazione
è una delle principali cure
della persona sana, ma il
suo scopo era favorire il
benessere dell’anima, più
che quello del corpo.
Il corpo,
prigione dell’anima
La tradizione orfico pitagorica viene integrata nella
filosofia socratica e successivamente platonica: si
deve a Platone la celebre
immagine del corpo come
prigione dell’anima o
tomba dell’anima, giocata
il ginnasio filosofico
come l’attività principale
dell’uomo: la stessa cura
del corpo ha lo scopo di
influire sull’anima, che è
l’elemento fondamentale.
Scrive Giamblico nel IV
secolo d.C. nella Vita pitagorica: «Così egli [Pitagora]
per mezzo della musica
attendeva alla formazione
spirituale delle anime.
Un’altra forma di purificazione del pensiero e, insieme, di tutta quanta l’anima, era attuata da lui attraverso esercizi di vario genere in questo modo.
Specificamente egli credeva necessario indirizzare gli
sull’assonanza fra soma
(corpo) e sema (tomba). La
svalutazione del corpo
appare centrale anche in
molte pratiche ascetiche
cristiane, antiche e
medioevali. L’inclusione
del cristianesimo nel primo
modello dev’essere tuttavia
precisata. Il cristianesimo
risente certamente dell’influsso platonico, ma esistono fondamentali differenze: innanzitutto il cristiano
non crede nella metempsicosi, bensì nella resurrezione della carne, e non nella
semplice immortalità dell’anima. Cristo stesso poi è
vero Dio e vero uomo, con
un corpo uguale a quello
umano. Il corpo, quindi,
non sembrerebbe così
dover essere svalutato. In
realtà molte tradizioni
ascetiche si sono rifatte alla
concezione del corpo come
carcere dell’anima, ma certamente non tutto il cristianesimo. Volendo ottenere la perfezione spirituale, i loro aderenti hanno
sottoposto i propri corpi a
grandi prove: non essendo
questa la vita vera, ci si
“curava” per l’aldilà. La
cura dei sani anche in questo caso si otteneva con
astinenza e digiuno; ma
mentre nei pitagorici le
pratiche avevano lo scopo
di favorire l’anima, qui prevale il tentativo di sotto-
109
mettere completamente il
corpo all’anima.
Certamente anche la
Chiesa imponeva astinenza
e digiuno nei periodi prescritti, ma con minore
durezza, mentre molti
asceti passavano la vita in
un digiuno quasi assoluto,
con il risultato che molti
erano così deperiti da sembrare simili a fantasmi.
Sono significativi i casi di
molte ascete nel tardo
medioevo: si trattava
soprattutto di donne che si
privavano del cibo in
maniera quasi totale, al
punto che molte di loro si
nutrivano soltanto dell’ostia consacrata. Questi
comportamenti sono stati
paragonati alla moderna
anoressia nervosa, una
sorta di “santa anoressia”.
Vivere in stato di purezza
rituale
Il secondo modello possiamo definirlo “essere un
tutto”, cioè un insieme
armonico di mente (o
anima) e corpo. È necessario osservare come per
certi versi sia in continuità
con il primo, ed è fondamentale nel mondo classico. Innanzitutto dipende
dalla possibilità di percepirsi come una totalità
costituita da due elementi
distinti anche se strettamente uniti, ai quali viene
data uguale importanza.
Platone stesso, se per certi
versi è certamente il
responsabile del passaggio
nella tradizione cristiana
della concezione del corpo
come tomba, in altri testi,
come la Repubblica, è prodigo di consigli per il
benessere corporeo. In
secondo luogo, l’individuo
non solo è un tutto, ma è
“in un tutto”, cioè in un
ambiente che lo ospita e
con il quale si deve armonizzare, in continuità con
la tradizione medica greca.
Come chiarisce Pedro Gil
Sotres, per la medicina
greca le pratiche igieniche
e dietetiche (i “regimi”)
sono una serie di precetti
volti al mantenimento
della salute così come la
intendiamo ancora oggi,
ma derivano anche dal
binomio pitagorico composto da purezza e impurità: non si tratta soltanto
di vivere senza malattie,
ma anche in stato di purezza rituale. Basti pensare al
ruolo dell’acqua, nel quale
gli aspetti della pulizia
esteriore e della purificazione morale sono intrinsecamente correlati. Accanto
all’aspetto della purezza
rituale si colloca quello dell’armonia. I trattati ippocratici Sul regime e
110 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
Sull’antica medicina (del V
secolo a.C.) sottolineano
l’importanza della dieta e
dello stile di vita, così come
delle modalità di abitazione, allo scopo di evitare la
pletora (lo squilibrio tra alimentazione e consumo) e
di mantenere o ristabilire
l’equilibrio all’interno del
corpo e tra corpo e
ambiente. Perciò la dieta
deve variare con le stagioni
e con il clima, oltre che con
l’età.
Anche il regime di vita
descritto nelle opere di
Galeno (principalmente nel
De custodia sanitatis, II
secolo d.C.) si fonda sulla
coppia armonia-disarmonia e su quel gruppo di fattori che entreranno nella
storia del pensiero medico
igienico come le «sex res
non naturales». Le «sei cose
non naturali» si contrappongono alla costituzione
individuale, per definizione
non modificabile, e rappresentano il raggio d’azione
che l’uomo può esercitare
sulla sua salute in vista dell’armonia psicofisica e con
l’ambiente. Sono l’aria
(intesa come luogo di abitazione e clima), l’alternanza di esercizio e riposo, l’alimentazione, il ritmo
sonno-veglia, il bilanciamento tra replezione ed
evacuazione e gli «accidenti dell’anima». Sia nel
Corpus Hippocraticum sia
in Galeno, così come nella
successiva medicina araba
e medievale, la salute è in
grande misura direttamente derivante dalla conduzione consapevole di tutti
gli aspetti dell’esistenza.
È sano
chi è padrone si se stesso
alcuni aspetti: la stretta
interdipendenza e la corrispondenza fra le parti dell’organismo e la curabilità
dei sintomi delle parti per
mezzo di trattamenti che
mirano a ristabilire l’armonia generale. Non si può
non notare, inoltre, l’analogia dell’idroterapia con
forme di purificazione
rituale finalizzate all’eliminazione dei miásmata
nocivi. Le medicine olisti-
Il cyborg, presente in molti film di fantascienza, è una
commistione fra uomo e macchina: un essere umano che
ha subito innesti tecnologici in grado di potenziarlo e
fargli superare i confini imposti dal corpo naturale
cine olistiche. L’aggettivo
rimanda immediatamente
all’interezza dell’organismo
e alla sua integrazione con
la sfera psichica e con
l’ambiente. Le forme di
medicina nate in altre culture, come quella cinese e
indiana, e le idee terapeutiche sviluppate in ambito
europeo come reazione a
una medicina accademica
vista come parcellizzante e
meccanicistica (gli esempi
più noti sono l’idroterapia
alla Kneipp e la medicina
omeopatica), sono accomunate, al di là delle loro
differenze specifiche, da
che praticate e ricercate
oggi rimettono al centro
dell’attenzione la ricerca
della salute come armonia,
del resto ben presente nella
tradizione ippocratico galenica, muovendo alla medicina scientifica la critica di
concentrarsi sulle singole
parti.
Il potenziamento
delle singole parti
Il terzo modello (avere un
corpo) è tipico della
modernità: a partire dalla
posizione cartesiana,
il ginnasio filosofico
Foucault individua fra l’età
ellenistica e l’età imperiale
l’epoca della cosiddetta
“cura di sé”. In questo
periodo, infatti, si sviluppano una serie di pratiche
che riguardano il cibo, l’alimentazione, il sesso che
hanno lo scopo di costruire
un individuo padrone di se
stesso (la virtù dell’enkráteia) e quindi anche in
grado di guidare gli altri. I
piaceri, il cibo, l’attività
fisica vanno attentamente
modulati proprio a questo
scopo. L’uomo sano è colui
che è padrone (attivo) e
non schiavo passivo dei
piaceri: «La pratica del
regime come arte di vita è
ben altro che un insieme di
precauzioni destinate a evitare le malattie o a completarne la guarigione. È tutto
un modo di costituirsi
come soggetto che ha, del
proprio corpo, la preoccupazione giusta, necessaria
e sufficiente. Una preoccu-
pazione che attraversa la
vita quotidiana; che fa delle
sue attività più importanti
o più banali una posta al
tempo stesso igienica e
morale; che definisce fra il
corpo e gli elementi che lo
circondano una strategia
circostanziale; che mira
infine a dotare l’individuo
stesso di una condotta
razionale».
Un esempio attuale di questo modello sono le medi-
111
per saperne di più
E.R. Dodds, I Greci e
l’irrazionale. La Nuova
Italia, Firenze, 1986.
M. Foucault,
Storia della sessualità.
Feltrinelli, Milano, 1998.
Giamblico,
Vita pitagorica. Laterza,
Roma-Bari, 1973.
S. Minguzzi, Il cinema
Cyberpunk: la trasformazione del corpo in macchina.
www.tesionline.it/default/
tesi.asp?idt.=7785
F. Nietzsche,
Così parlò Zarathustra.
Mursia, Milano, 1978.
G. Reale, Corpo, anima e
salute. Il concetto di
uomo da Omero a Platone.
Raffaello Cortina,
Milano, 1999.
P. Gil Sotres, “Le regole
della salute”. In: M.
Grmek (a cura di), Storia
del pensiero medico occidentale, vol I, Antichità e
Medio Evo.
Laterza, Bari-Roma, 1993.
T. Schettino, Il corpo in
Nietzsche. Jubal Editore,
Cervignano del Friuli,
2005.
W. Vaandereycken,
R. van Deth, Dalle sante
ascetiche alle ragazze
anoressiche. Il rifiuto del
cibo nella storia. Raffaello
Cortina, Milano, 1995.
anima e corpo vengono
separati. Si assiste così da
un lato a una mente (res
cogitans) che si trasforma
nell’io della filosofia
moderna e che rappresenta
la sede delle decisioni,
della volontà; dall’altra il
corpo che viene oggettivato, cioè considerato pura
materia (res extensa). La
pura materia, soggetta alle
leggi della fisica, può venire
liberamente manipolata: il
corpo verrà considerato
progressivamente sempre
più come una macchina da
rendere più efficiente.
Curare i sani significherà
innanzitutto impedire i
rischi collegati a un danneggiamento della macchina o potenziare le sue possibilità. I fattori di rischio,
lontani discendenti delle
res non naturales, entrano
nel pensiero medico
soprattutto a partire dal
secondo dopoguerra con i
primi studi longitudinali
sulle conseguenze dello
stile di vita su certe patologie. Nel famosissimo studio
Framingham (dalla città
americana in cui si scelse
di monitorare per anni un
gran numero di persone) si
sono evidenziati molti dei
fattori di rischio oggi noti
per le malattie del sistema
cardiocircolatorio. Le conoscenze sui fattori di rischio
non producono consigli
112 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
per lo stile di vita miranti
all’armonia o all’integrazione psicofisica o con
l’ambiente, bensì vengono
usate per evitare particolari
danni in particolari organi.
In altre parole, «evitare
un’alimentazione eccessivamente grassa» non rientra più nel precetto dell’equilibrio tra replezione ed
evacuazione, ma è una
misura finalizzata alla specifica difesa dei vasi sanguigni. Sul versante dell’esercizio fisico si nota una
simile concentrazione sulle
parti del corpo, modificabili e migliorabili nei centri
di fitness per mezzo di
attrezzi altrettanto “parziali”. Si tratta sempre di controllo sul proprio organismo, ma l’elemento dell’armonizzazione e dell’unità
risulta sbilanciato a favore
del perfezionamento (o
della difesa, nel caso della
medicina preventiva dei
fattori di rischio) delle
parti.
Verso la commistione
fra uomo e macchina?
Il quarto modello (essere
un corpo) è per certi versi
distinto e in continuità con
il precedente. Si riferisce
alla fondamentale importanza che viene annessa
alle forze, alle pulsioni cor-
poree. Si può sintetizzare
con una celebre frase di
Nietzsche: «Corpo io sono
e anima. – così parla il fanciullo – E perché non si
dovrebbe parlar come fanciulli? Ma l’uomo desto e
cosciente dice: io sono
corpo e null’altro all’infuori
di ciò; e l’anima è solo una
parola per indicare qualche
cosa del corpo». Per il filosofo tedesco dunque tutto
è corporeo: non c’è più un
soggetto unitario, nel senso
che il corpo è solo il luogo
dove si manifestano le pulsioni e gli istinti vitali. Lo
scopo è il potenziamento
di questi istinti, della loro
forza vitale.
Aspetti comuni del terzo e
quarto modello sono tipici
della nostra epoca, nella
quale l’oggettivazione del
corpo da un lato e il suo
essere teatro di pulsioni
Fernando Rosa è specialista in ematologia generale
e medicina interna e si
interessa di problematiche
filosofiche in medicina
[email protected]
Alessandra Parodi è
dottore di ricerca in filosofia e si occupa di storia
e teoria della medicina
[email protected]
sti dal corpo naturale.
Questo si può rilevare
anche nelle concezioni del
corpo della body art: alcuni
artisti (Stelarc, Orlan) si
sono fatti inserire negli arti
innesti tecnologici per evidenziare questa continuità
fra natura e tecnologia.
I modelli culturali odierni
sembrano volgere nel
senso di percepirsi prevalentemente come corpo. La
funzione dell’io è quella di
un potenziamento infinito
della corporeità: questo
forse significa al giorno
d’oggi curare i sani. Sono
proprio loro da curare, da
potenziare, da migliorare. È
la fine dell’anima? In un
certo senso sì. Tuttavia, dal
celebre film Blade Runner
può insorgere un dubbio.
Nella Los Angeles del 2017
Rick Deckard, ex poliziotto
a caccia di pericolosi replicanti assassini fuggiti da
una colonia spaziale, viene
salvato dalla morte proprio
da una replicante, Rachael,
che si è innamorata di lui.
Anche i replicanti si innamorano dunque, e Rachael
contraddice in questo
senso la propria natura: le
emozioni sono alla base
della rivincita di un sé
complessivo inserito in un
mondo?
Fernando Rosa,
Alessandra Parodi
il ginnasio filosofico
Gli autori
vitali dall’altro si sposano
agevolmente con la ricerca
di efficienza del mondo
tecnico industriale. Nella
medicina della cura di sé
era fondamentale l’integrazione dell’uomo nel
mondo naturale e in quello
sociale, mentre attualmente i limiti della natura del
corpo non sono più così
chiari. Due aspetti appaiono di particolare rilievo: in
primo luogo l’oggettivazione riguarda anche la
mente. Il cervello è allora
una parte di corpo, quindi
un oggetto, sul quale effettuare manipolazioni: l’uso
degli psicofarmaci (ma
anche delle droghe) può
avere un livello simbolico
comune, quello di modificare le prestazioni dell’oggetto corporeo “cervello”.
In secondo luogo non è più
chiaro dove finiscano i
confini naturali del corpo.
Curare i sani può significare a questo punto anche il
potenziamento del nostro
corpo? Questo porta certamente a pensare alle possibilità di manipolazione
genica. Il cyborg, presente
in molti narratori e film di
fantascienza, è una commistione fra uomo e macchina: un essere umano
che ha subito innesti tecnologici in grado di potenziarlo e che gli permettono
di superare i confini impo-
113
Dr House:
il cinico medico malato
In autunno riprenderà la serie televisiva Dr. House, Medical Division, telefilm ad ambientazione ospedaliera, che vanta indici d’ascolto molto alti. Il protagonista è un sarcastico e
carismatico luminare di medicina diagnostica, medico con cui non vorremmo mai trovarci a tavola, ma che vorremmo al nostro fianco se ridotti in fin di vita. Un personaggio
anomalo, che ha introdotto nuove chiavi di lettura della figura del medico.
Stefano Pisani
La settima arte
Al cinema per divertirsi? Sì,
certo. Al cinema per emozionarsi? Anche. Al cinema per
riflettere? Perché no! Il cinema
ci rimanda volentieri i vissuti di
malattia, guarigione, nascita e
morte, che costituiscono la
trama essenziale della nostra
esistenza corporea. Questo
rispecchiamento offre grandi
opportunità per riflettere, in
quanto attività di pensiero. Per
le medical humanities il cinema è una manna. Con una sola
difficoltà: scegliere tra le tante
offerte che la settima arte ci
propone a ritmo incalzante.
C
inismo e logica stringente. Queste le gambe
su cui cammina Gregory
House, personaggio eccentrico, diagnosta ospedaliero, protagonista assoluto
della serie televisiva Dr.
House, Medical Division
che in Italia è arrivata alla
sua terza stagione, dopo il
trionfale esordio dell’estate
del 2005.
Ne sono passati di anni dai
tempi del dottor Kildare, e
si vedono tutti. Se il “dottor
niente male” faceva entrare
per la prima volta nelle
case degli italiani iniezioni
e camici, accompagnati da
114 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
buoni sentimenti e sorrisi
confidenziali, adesso è un
medico burbero, che formula diagnosi come se
sputasse veleno, a riaprire
l’universo dell’ospedale.
Certo, nel frattempo qualche altra serie ha compiuto
un’operazione simile. Ad
esempio General Hospital e
Chicago Hope, che non ha
quasi lasciato traccia di sé,
e lo storico Emergency
Room-medici in prima
linea (per tutti: ER) forse il
primo telefilm medico
sanitario di massa che la
televisione ricordi.
Proprio ER è uno spartiac-
que la cui importanza è
riconosciuta indiscutibilmente. La rappresentazione televisiva della figura
del medico con questo
telefilm vive una svolta: il
dottore non è più l’angelo
custode ma un uomo che
può sbagliare e che ha le
sue debolezze. Inoltre, le
scene degli interventi d’urgenza del pronto soccorso
del Chicago County diventano realistiche e cruente, e
dettagli anatomo-patologici, prima occultati, ora arrischiscono senza pudori la
scena.
Con Dr. House non solo si
ribadisce che il medico è
un uomo, ma che può essere anche un’antipatica
canaglia.
La curiosità
sopra ogni cosa
collaboratori e inizia le sue
indagini scrivendo su una
lavagna i sintomi, come si
fa con una mappa del tesoro. Il paziente è lasciato ai
suoi assistenti, a lui interessa avere sotto gli occhi
solo la cartella clinica perfettamente compilata. Ed è
lì che inizia l’investigazione.
House è infatti un personaggio a metà fra Sherlock
Holmes e Louis Pasteur. È
Mentre verifica le sue teorie non mostra nessuna perplessità per le sofferenze che i tentativi non risolutivi
procurano al poveretto di turno. Sono solo effetti collaterali. Errori a fin di bene, in un certo senso necessari
prio le sfide che piacciono
ad House. E la figura del
medico acquista allora una
caratteristica in più. House
non è interessato a conoscere la storia umana del
paziente, ma solo la sua
anamnesi. A muoverlo:
un’inestinguibile curiosità.
La medicina come scienza
sperimentale
Il bastone di legno e le
scarpe da ginnastica lo
portano fino al suo studio.
Qui riunisce la sua squadra
di giovani ma validissimi
un detective della medicina
dotato di uno spirito d’osservazione eccezionale e di
una preparazione medica
fuori dal comune. Gli interessa scoprire chi è l’assassino, che in questo caso è
la malattia che sta attaccando il paziente. Quella di
House sembra una guerra
personale contro batteri,
virus o malformazioni di
cui nessun suo collega è
riuscito fino a quel
momento ad accorgersi. A
tratti sembra un gioco
compulsivo. House è un
uomo che si arrovella
all’ombra del capezzale di
la settima arte
House zoppica e brontola,
non è perfetto come
Richard Chamberlain
(Kildare), né comprensivo
come George Clooney, il
dottor Ross, pediatra rubacuori di ER. Uno dei suoi
motti preferiti è «sono
diventato medico per curare le malattie, non i malati».
Gregory House è il primario del reparto di diagnostica dell’immaginario
Princeton-Plainsboro
Teaching Hospital del New
Jersey. Nelle strutture ospedaliere italiane non esiste
un ruolo come questo. Al
suo cospetto arrivano i casi
insolubili, quelli che nessun altro medico accetterebbe o che, peggio, chiunque liquiderebbe con una
diagnosi approssimativa e
sbagliata. Ma sintomi
inspiegabili, allergie misteriose e reazioni fisiologiche
mai viste prima sono pro-
115
un malato con lo stesso
maniacale puntiglio di un
appassionato di sudoku
che risolve uno schema di
difficoltà superiore.
Forse anche House vorrebbe avere una matita e una
gomma per cancellare tutti
gli sbagli che fa, mentre
tenta di capire che faccia
ha la malattia che sta cercando di ingannare?
Qui emerge un ulteriore
elemento ricorrente del
programma, di più ampio
respiro scientifico. «La
medicina è una scienza
sperimentale». Il Direttore
sanitario del suo ospedale
è tormentato da questa
frase con cui House giustifica le terapie che mette in
atto nella sua caccia alla
patologia. Terapie che
discendono direttamente
dal suo sesto senso. Ma
tutto gli viene concesso,
perché le sue intuizioni
sono geniali per quanto,
spesso, clinicamente inversomili. House procede
Il dottor House è un nemico
delle medical humanities?
Cinico, burbero, geniale ma
con un fascino che conquista.
Come mai? Che ne pensate?
Inviateci la vostra opinione
per una discussione sul sito di
Janus: www.mhjanus.it
secondo logiche e intuizioni che rasentano l’ispirazione divina, e corregge la
sua strategia in base agli
incidenti di percorso
(peraltro immancabili). Per
fortuna, il gioco non è mai
fatale.
No, House non vorrebbe
avere quella gomma per
cancellare. Mentre verifica
le sue teorie, scrive e cancella e poi riscrive sulla sua
lavagna e sulla cartella clinica del degente, non
mostra nessuna pena o
perplessità per le sofferenze che i tentativi non risolutivi procurano al poveretto di turno. Sono solo effetti collaterali.
E si tratta di errori a fin di
bene, in un certo qual
modo necessari.
Tutti i pazienti mentono
Logica stringente e disarmante. Una logica che,
spesso, rivela il lato “disumano” di House e che
emerge da frasi come:
«Questo posto è pieno di
pazienti, se mi sbrigo forse
ce la faccio a evitarli».
House non ama parlare
con i pazienti e detesta il
suo turno ambulatoriale,
momento in cui deve confrontarsi con le malattie
banali, quelle che si possono risolvere con un paio di
116 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
pillole che, qualche volta,
sono pure dei placebo. Gli
basta una sola occhiata per
diagnosticare malattie e
scheletri negli armadi. E,
uno dopo l’altro, tutti quelli
che vengono visitati da lui
non trovano il conforto che
ci si aspetterebbe in un
luogo di dolore, ma una
tempesta di ironie e battute in cui l’irritante medico
mette a nudo i loro limiti e
le loro ipocrisie.
«Tutti i pazienti mentono».
Un’altra peculiarità della
serie televisiva è un nuovo
ritratto del degente ospedaliero. O meglio, l’immagine che House, pur chiuso
in un individualismo spinto, è riuscito a farsi del
malato. Il malato è come
un criminale che non vuole
confessare e che bisogna
torchiare, sapendo che
tutto quello che rivelerà è
falso. Il paziente è sempre
colpevole. Nella maggior
parte dei casi, la malattia è
il risultato di qualche suo
comportamento sbagliato
di cui si vergogna, o che
non vuole ammettere.
Una tossicodipendenza
consapevole
È una delle prime volte che
in televisione la malattia
viene rappresentata come
una conseguenza di negli-
L’autore
Stefano Pisani
è giornalista scientifico
free lance
[email protected]
un drogato in più di una
occasione, ma non parla di
questa sua condizione
come di un problema da
superare.
Il Dr House
visto dai medici veri
Le avventure di un geniale
medico tossicodipendente,
bello e dannato senza essere bello, hanno avuto chiaramente un impatto
mediatico inimmaginabile
su spettatori e classe medica, rappresentando, probabilmente, un’umanizzazione estremistica della categoria. Cosa pensano i
medici al di qua dello
schermo, di questo loro
eccentrico collega? La serie
americana si avvale della
consulenza di molti specialisti che hanno rivelato di
aver contribuito alla sceneggiatura ispirandosi a
casi (estremi) che hanno
realmente incontrato. In
Italia, al doppiaggio collabora un docente universitario romano. È di poco
tempo fa il risultato di un
sondaggio sul gradimento
dei serial ospedalieri da
parte dei veri camici bianchi. I medici avrebbero
promosso a pieni voti tutti i
telefilm ambientati i corsia
e ci sono addirittura dottori
che si ritrovavano ogni
venerdì sera per la visione
di Dr. House, formando dei
veri e propri gruppi d’ascolto. Secondo uno di
questi dottori, il motivo
d’attrazione di serie come
Dr. House risiederebbe nel
«fascino del camice bianco
e nella possibilità di sognare un po’, che accomuna
tutte le fiction».
Come giudicare però alcune frasi di House come «Si
può vivere con dignità,
non morire con dignità. La
morte fa schifo» che a volte
sembrano tentativi di risolvere il rebus della propria
esistenza? House è un medico geniale e di successo,
ma è profondamente depresso. E qualche volta è
anche stanco e annoiato
da tutto. Proprio come recita la lista degli effetti collaterali dell’abuso da idro
codone.
Stefano Pisani
la settima arte
genza o avventatezza del
malato.
E in questo House non è da
meno: è un medico ma è
anche doppiamente malato. Per un incidente alla
gamba subito qualche
anno prima è costretto a
deambulare con un bastone, e di questo non si può
fargliene una colpa; ma è
anche un tossicodipendente, avendo maturato negli
anni una dipendenza da
analgesico. Il dolore alla
gamba è infatti costante e
insopportabile per colpa
della diagnosi che, all’epoca dell’infarto, arrivò troppo tardi e causò la necrosi
di alcuni tessuti muscolari
poi asportati. House, contro ogni parere medico, da
quel momento assume
quantità incommensurabili
di un antidolorifico oppiaceo (idrocodone) realmente esistente, che in Italia
non è in vendita. Negli Stati
Uniti è prescritto solo per i
dolori cronici perché,
appunto, è un farmaco che
induce assuefazione.
House ammette di essere
117
I racconti dell’isola
che… c’è
Un cane che va a trovare il suo padrone in fin di vita e che lo risveglia. Una moglie che
vuole cucinare i gamberoni, piatto preferito del marito malato. La decisione di sposarsi
nonostante tutto. Nel ricordo di un medico dell’unità Cure palliative di Livorno, alcune
storie legate all’esperienza delle persone (malati, medici, familiari, infermieri) che ogni
giorno hanno a che fare con il dolore sia fisico che morale.
Sirio Malfatti
La medicina raccontata
Medici, infermieri e altri professionisti sanitari curano. I
migliori fra di loro si prendono
anche cura dei pazienti. Così
facendo, vengono coinvolti in
rapporti personali intensi e si
trovano a conoscere vicende
umane singolari. Da questo potrebbero trarre ispirazione, se
fossero scrittori, per un romanzo. O almeno per un breve racconto. Già, se fossero scrittori... Ma qualche volta, pur senza esserlo, anche a loro vien
voglia di deporre il bisturi o la
siringa e di prendere in mano
la penna.
I
l mondo ospedaliero è,
per sua natura, luogo di
dolore. Ma al suo interno,
anche in un piccolo reparto di una qualunque città,
possono verificarsi episodi
che restano impressi nell’anima di tante persone.
La sofferenza altrui non è
certo un bel fardello da
portarsi addosso e, forse
per autodifesa, si tende a
dimenticare queste storie,
piccole o grandi che siano.
Ma se rievocare significa
essere più consapevoli e
disponibili ad accogliere il
prossimo, allora io voglio
tenere a mente ogni cosa:
118 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
l’esperienza di incontrare
persone che hanno bisogno di conforto morale, di
sollievo fisico, è sempre
viva.
Il reparto di Cure palliative
di Livorno è una di queste
piccole isole nell’oceano
della sofferenza in cui il
dolore, però, è alleviato dal
sostegno e dall’amore reciproco.
Un gran salto
Gino, un uomo ancora giovane, a causa di un tumore
al cervello passava quasi
le nella mia memoria.
Prima che io o gli infermieri potessimo fare un solo
piccolo gesto, King aveva
spiccato un balzo sul letto,
con le zampe allargate,
come fosse un grande
abbraccio, e si era sdraiato
su Gino leccandogli il viso.
Questi si svegliò e solo chi
ha visto la sua espressione
può capire quanto forte e
invincibile sia l’energia e la
capacità di affetti che
ancora racchiude in sé una
persona infinitamente provata dalla malattia.
La cucina
è a vostra disposizione
Nell’hospice si cercano di
condividere tante cose. Lo
scopo è quello di vivere
come in una famiglia, dove
il dolore degli altri appartiene a tutti, dove la disponibilità del personale è
fatta di professionalità e
insieme di umana partecipazione.
Tra le tante piccole cose
che diciamo alle famiglie
quando giungono un po’
stupite e a volte con gli
occhi sgranati, come «questa camera è tutta per voi,
se volete potete dormire
accanto al vostro caro, […]
potete entrare a ogni ora,
abbiamo una psicologa per
un colloquio, se lo deside-
rate», ve n’è una che è
sempre molto apprezzata:
«La cucinetta è a vostra
disposizione, se volete
cucinare qualcosa di semplice per lui».
In realtà l’uso principale
che ne viene fatto è per
riscaldare qualcosa che è
già stato preparato a casa.
Caffè caldo, tè e gelati non
mancano mai, sono sempre lì. Questi malati hanno
già perso molte cose, e tra
queste vi è anche l’appetito, è difficile che chiedano
qualcosa che già non c’è.
Finché un giorno entrò da
noi l’anziano Giovanni, un
uomo simpatico che giaceva fermo a letto, sempre
sorridente, con una moglie
forte e decisa che gli stava
sempre accanto e non si
stancava mai.
«Dottore, allora posso
usare la cucina? Vuole il
suo piatto preferito…».
«Faccia pure» le risposi,
ben sapendo che l’avrebbe
appena annusato.
L’indomani, verso mezzogiorno, mentre visitavamo i
pazienti in ambulatorio, un
fortissimo odore di gamberoni si sparse per il reparto
e per i piani vicini. Gli
infermieri della pediatria,
al piano sotto, vennero su
curiosi e preoccupati. I
familiari dei nostri ricoverati chiedevano: «C’è pesce
oggi, eh?».
la medicina raccontata
tutto il giorno in uno stato
di profondo sopore.
Poi, sia per le terapie che
cercavano di ridurre la
pressione all’interno della
scatola cranica, sia per la
musicoterapia che aveva
risvegliato in lui quella piccola parte ancora sana dei
ricordi e delle emozioni,
era tornato tra noi.
La musicoterapeuta gli
proponeva le canzoni di
Elvis Presley che tanto
amava, e lui spesso aggiungeva la sua voce.
Gino era stato un esperto
allevatore di cani e un giorno si disse triste perché da
tanto non vedeva il suo
cane.
«In hospice è possibile» gli
fu risposto, e così ci preparammo alla visita di quel
nuovo amico.
Quando King arrivò, nel
pomeriggio, appariva un
po’ inquieto e timoroso.
Per igiene gli furono messi
alle zampe dei calzini
nuovi e fu accompagnato
nella stanza.
Entrò nella camera. Il suo
padrone dormiva profondamente.
Il cane in un primo tempo
non sembrò accorgersi
della sua presenza.
Poi, arrivato di fianco al
letto, annusò la mano penzolante dell’uomo e in un
attimo accadde una scena
la cui immagine è indelebi-
119
Lei, l’anziana moglie, entrò
fiera da Giovanni con quel
pentolino fumante.
«È squisito, dottore, Gina è
speciale» e li mangiò veramente.
Ma gli sarebbe bastato
anche solo l’odore, e la
ripetizione di un gesto d’affetto al quale era stato
sempre abituato.
Chi ebbe la fortuna di essere di turno quel giorno li
trovò meravigliosi.
Nella sala grande dell’hospice è stato celebrato
anche il matrimonio di una
coppia che stava insieme
da anni. Lui portato con il
suo letto, lei in piedi al suo
fianco: « […] Ed ora siete
marito e moglie».
Sì, il nostro reparto è un
luogo di dolore perché va
Infine tutti coloro che
incontrano l’hospice,
parenti o amici dei pazienti, verificando l’esistenza di
una medicina diversa, più
a misura d’uomo, forse
possono cambiare in qualche modo il loro impegno
sociale.
Una vecchietta, visitando
Mi domando spesso che cosa stia pensando chi sta per
arrivare da noi. Certamente la speranza che qualcuno
Vuoi tu sposare…
Nell’hospice avvengono
cose difficili a realizzarsi in
altre parti dell’ospedale.
E non solo perché qui ogni
malato ha tutta una stanza
a sua disposizione. No, il
motivo principale è che da
altre parti proprio non si
pensa che sia possibile
festeggiare un compleanno
con torte e musica, o portare bambini piccolissimi a
visitare genitori o nonni
ricoverati. O addirittura far
entrare animali.
Non ci pensano né i
pazienti, né i familiari, e
non lo propone di certo il
personale sanitario oberato
da così tanta mole di lavoro. Chi invece ha visto
accadere queste cose, sa il
valore che hanno avuto per
chiunque vi abbia partecipato.
riesca a lenire i suoi dolori. E che i suoi familiari possano stargli sempre vicino. Poter riposare, poter dormire
in scena la sofferenza dell’uomo. Eppure per le esperienze di quasi quaranta
anni in ospedale, penso
che un atteggiamento di
grande condivisione, solidarietà e attenzione per
tutti i bisogni della persona, cercando di dare valori
dove sembra che non ve ne
siano più, porti anche altri
frutti.
Serenità per i familiari: ora
sanno che è stato fatto di
tutto per alleviare le sofferenze dei loro cari e vi sarà
una migliore accettazione
della perdita. Maturazione
per il personale sanitario,
attore in queste esperienze
umane e professionali di
alto impegno emotivo e
relazionale.
120 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
spesso un parente ricoverato da noi, disse: «a star qui
vien voglia d’aiutare tutto il
mondo».
Dottore, mi creda
Quando riteniamo di aver
visto tutto quello che c’è da
vedere, quando pensiamo
che qualunque cosa succeda siamo pronti ad affrontarla e a trovarne la spiegazione, l’essere umano apre
la sua anima e ti mette
davanti, con semplicità,
una verità che ti confonde,
che non avresti mai potuto
immaginare.
Un signore di mezza età,
con malattia molto avanzata, era assistito con pazien-
nostro viaggio di nozze».
Avevano vissuto il breve
intenso periodo degli addii,
della conferma finale della
loro dichiarazione d’amore,
della rievocazione delle
passioni e dei sogni, di
tutto ciò che non riusciamo ad apprezzare quando
lo abbiamo.
In un luogo che accoglie e
rispetta, è possibile che
avvenga anche questo.
Un letto vuoto
Camere sempre pulite,
tenute come fossero quelle
di casa, e anche di più.
Camere sempre occupate,
sono molte le persone che
hanno bisogno di noi.
Eppure, di tanto in tanto,
una camera libera, un letto
vuoto.
Qualcuno è tornato a casa,
assistito là dalla famiglia e
dal personale della domiciliare, tra le sue cose, tra i
ricordi più cari. Molti altri
hanno lasciato quel letto
che è stato l’ultimo della
loro vita. Eppure il pensiero di tutti è già proiettato in
L’autore
Sirio Malfatti è medico nell’Ospedale di Livorno e coordinatore del locale Comitato etico; lavora nell’Hospice
per malati terminali
[email protected]
avanti: chi verrà?
La speranza è sempre la
stessa: che non sia un giovane.
È più doloroso assistere e
stare vicino a qualcuno che
potrebbe essere nostro
figlio o nostro fratello, la
sua sofferenza appare più
ingiusta, quello che ci porteremo via a fine turno sarà
difficile scollarcelo dalla
mente. Ma siamo qui,
come tutti coloro che svolgono questo “mestiere”, a
cercare di mantenere quel
sereno equilibrio che ci
consente di lavorare bene
in gruppo e dare agli altri il
meglio di noi.
Mi domando spesso che
cosa stia pensando chi sta
per arrivare da noi.
Nell’ambulanza o nella lettiga che lo porta, quali
domande, quali speranze?
Certamente la speranza
che qualcuno riesca a lenire i suoi dolori. E che i suoi
familiari possano stargli
sempre vicini. E che girando gli occhi intorno a sé
non debba vedere il dolore
di altri malati. Poter riposare, poter dormire. Scoprire
di sognare di nuovo. Avere
intorno chi voglia ascoltarlo, perché vuol raccontare
chi è stato. Poter sorridere
al sorriso degli altri. Sapere
che c’è chi si prende cura
dei suoi. Ed essere certo,
infine, che le sue scelte
la medicina raccontata
za e assiduità dalla moglie.
Lei tutte le notti spostava il
letto accanto all’altro, e in
quella alcova quasi matrimoniale dormivano dandosi la mano.
Le cure erano riuscite a
togliere i dolori, e lui restava lucido e comunicativo
anche se ogni giorno,
insensibilmente, diveniva
sempre più debole.
Lei mostrava calma e grande coraggio: queste doti
della donna sono fondamentali quando l’uomo è
malato perché gli comunicano quella forza che da
solo è molto difficile avere.
Inesorabilmente la malattia
avanzò e dopo quasi due
settimane di ricovero egli si
spense.
Mi trovai da solo con la
moglie, sedemmo nella
sala grande. Scendevano
delle lacrime dai suoi
occhi, eppure non dava la
sensazione di piangere. Mi
guardò, non vidi tristezza.
«Dottore, mi creda, anche
se per lei sarà difficile
capirlo, per me questi giorni passati qui con lui sono
stati i più belli dopo il
121
sono quelle che guideranno le nostre. Non preoccuparti, in quel letto vuoto
sto per ricoverarmi io.
Un giorno ancora
Non ne sono scientificamente dimostrati il perché
e il come, ma è noto che
quando questi malati
hanno una scadenza
importante da aspettare,
arrivano in molti al traguardo, anche contro ogni
nostra previsione più
rosea. Il matrimonio della
figlia, una laurea, un nipotino che sta per nascere…
quante volte abbiamo
discusso con i familiari se
era il caso di anticipare le
date che potevano essere
spostate.
L’attesa gioiosa ed emozionante di questi eventi crea
nell’animo e nel fisico provato di queste persone
per saperne di più
Le storie presentate in
questo articolo sono
tratte dal libro
Storie dalla piccola isola
di Sirio Malfatti
(Associazione Cure
palliative Livorno).
www.curepalliativelivorno.
org
qualcosa di speciale. Il
quotidiano ripetere: «allora
ci siamo, eh? Si sta per
diventare nonni […] ehi,
allora siamo tutti d’accordo, la sposa, dopo la cerimonia, sarà qui a mezzogiorno, ci saremo anche
noi». E i preparativi della
famiglia, anche se soffici e
ovattati, trasmettono a
questo stanco attore principale una speciale forma
di serena energia.
Che cos’è? Non lo so, la
scienza studia cose più
concrete, non queste. Ma
anche qualcos’altro si
modifica, e il perché è più
comprensibile.
L’evento, per tutti coloro
che vi partecipano, acquista un valore più profondo,
perde tutti i suoi rami inutili e accessori. Il suo significato e il suo svolgimento
divengono essenziali.
Tanti arrivano a questi traguardi, ma gli altri? Chi
non ce la fa?
Forse sono altrettanti, e
molti familiari vivono con
tristezza uno degli eventi
più importanti della loro
vita, perché il loro caro non
è più con loro.
Forse, quando uno dei
nostri malati riesce a vivere
queste esperienze, la
nostra gioia ci fa dimenticare tutti quelli che hanno
dovuto abbandonare la
corsa.
122 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
L’energia
per andare avanti
L’hospice, questa piccola
isola, contiene tante altre
storie di vicende umane
che è opportuno restino
solo nel ricordo di chi le ha
vissute. Spesso i parenti di
chi non c’è più tornano per
un saluto, per rievocare,
per aiutare con una donazione la nostra associazione Cure palliative.
Ogni loro visita rinforza in
noi la consapevolezza, già
forte, dell’importanza di
ciò che è stato fatto e dà
nuove energie e fantasie
per un impegno ancora
maggiore.
Sirio Malfatti
Figli
di un dio attore
Emmanuelle Laborit, parigina, vuole abbattere l’isolamento in cui è costretta dalla sordità. Ci riesce grazie al teatro: sul palco il suo modo di esprimersi, come quello degli altri
attori non udenti, non risente del silenzio, e la comunicazione è rivolta in modo uguale a
udenti e non udenti. La sua arte permette agli spettatori di raggiungere un livello superiore di comprensione, e arriva perfino a eseguire «musica senza suoni».
Stefania Santoro
U
Il teatro è nato per esprimere
le passioni più forti dell’uomo,
le sue domande fondamentali e
il suo destino. In una società
dove l’alfabetizzazione non era
capillare, era lo strumento
ideale per rivolgersi a tutti.
Al giorno d’oggi Melpomene, la
musa della tragedia, parla a
gente diversa, in un contesto
diverso e in modi diversi, ma rimane sempre l’interlocutrice
privilegiata della parte più
profonda dell’anima.
un linguaggio, quello del
corpo, unico nella sua universalità e nel suo potere
comunicativo, che trova nel
teatro la sua massima
espressione.
Come ogni categoria artistica, anche il teatro dei
sordi ha una sua star: è
Emmanuelle Laborit, una
trentacinquenne parigina
la cui storia è nota al grande pubblico tramite la sua
autobiografia Il grido del
gabbiano. Sorda dalla
nascita, riesce ad abbattere
l’isolamento dovuto alla
sua disabilità grazie al teatro. Le grida del gabbiano
la voce di Melpomene
La voce di Melpomene
n viaggio tra le emozioni del silenzio. È il
teatro dei sordi, attori che
non hanno voce ma hanno
tanto da raccontare. Con le
mani, con il corpo, con il
volto mettono in scena
commedie e drammi come
gli «udenti non li hanno
mai visti».
Così il teatro diventa il
luogo d’elezione per l’incontro tra due mondi isolati: i non udenti hanno l’attenzione di chi non li può
ascoltare; gli udenti scoprono un mondo che altrimenti non potrebbero
vedere. Lo rende possibile
123
sono i versi con cui lei, sin
da piccolissima, provava a
esprimersi: forti e graffianti
per la rabbia di non essere
compresa, per quella solitudine opprimente a cui
era costretta. La liberava
dizio: solo l’acquisizione
della lingua parlata le
avrebbe permesso una vita
più normale, l’avrebbe aiutata ad avvicinarsi agli altri,
a comprenderli, a uscire
dall’isolamento. Ma non
Crescendo Emmanuelle impara a convogliare le sue
energie in un sogno possibile: diventare un’attrice. Ha
il talento per fare carriera sul palcoscenico, e il successo è coronato nel 1993 dal premio Molière
dall’isolamento il dialogo
possibile, istintivo e
gestuale, con la madre:
essenziale ma intimo e
vero.
Il sogno di Emmanuelle
Essere sordi non significa
però essere condannati alla
solitudine: c’è una speranza, ed è il linguaggio dei
segni. Emmanuelle conosce questa realtà a sette
anni; fino ad allora il padre
non aveva considerato
questa possibilità perché
condizionato da un pregiu-
era così: la sua disabilità
rendeva la sua vita diversa
da quella degli altri, e solo
trovando un modo diverso
di comunicare avrebbe
potuto avere una vita normale. Così Emmanuelle
trova il modo di essere e
sentirsi uguale agli altri
come essere umano, ma
diversa come modo di
vedere le cose, come lingua, come cultura. Ed ecco
che il “gabbiano”, volteggiando con le sue mani
nell’aria, tira fuori tutto il
suo mondo, per anni
nascosto nel buio dell’incomunicabilità.
L’autrice
Stefania Santoro, master in Comunicazione e
divulgazione scientifica, Università Federico II, Napoli
[email protected]
124 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
Non molti udenti però
conoscono il linguaggio dei
segni. La presenza di questa barriera alla comunicazione la ferisce e la inquieta, e la sofferenza si esprime in atti di ribellione che,
non trovando comprensione, la rendevano sempre
più indisponente e provocatrice.
Ma la svolta è dietro l’angolo, o meglio dietro le
quinte. Crescendo
Emmanuelle impara a convogliare le sue energie in
un sogno possibile: diventare un’attrice. Ha il talento indispensabile per
chiunque voglia fare carriera sul palcoscenico, e il
successo è coronato nel
1993 dal premio Molière
per la sua interpretazione
in Les Enfants du silence,
versione francese dell’opera teatrale di Mark Medoff
Figli di un dio minore. Nel
teatro Emmanuelle trova
anche qualcosa di più di
una strada per liberare le
sue abilità dall’ombra della
disabilità: il palco è lo spazio che gli permette finalmente di andare oltre i
confini che la separano dal
mondo degli udenti. In
teatro Emmanuelle, e
come lei tutti gli attori non
udenti, hanno un’occasione unica: sono oggetto di
attenzione non per la loro
disabilità, ma perchè chia-
mati a esprimere il loro
autentico sé.
Un livello di comprensione
superiore
per saperne di più
E. Laborit,
Il grido del gabbiano.
Rizzoli, Milano, 1995.
M. Medoff,
Figli di un dio minore.
Mondadori, Milano, 1992.
Musica senza suoni
Tra il pubblico c’è stata una
prevalenza di udenti, probabilmente perché più abituati ad andare in teatro;
ma lo scopo di
Emmanuelle è soprattutto
quello di raggiungere i non
udenti, di farli uscire dall’isolamento che lei stessa ha
vissuto prima di incontrare
il teatro.
In programma all’
International Visual
Theatre Atti senza parole di
Beckett, Les Fables de la
Fontaine, ispirato alle favole dello scrittore francese,
Racconti di donne di Dario
Fo e Franca Rame e Le
grand cahier di Agota
Kristof. Ma anche Inoui
Music Hall, una rivista di
canzoni nella lingua dei
segni. Sì, canzoni, perché
per i sordi è possibile
anche la musica: adagi e
andanti, modulati non da
suoni ma dalla sinuosità e
dall’armonia ritmica dei
movimenti del corpo nello
spazio e nel tempo. La
melodia fa da cornice a
significati poetici, creati
con la distorsione dei gesti
“canonici”; rime e assonanze nascono dall’esecuzione
di ripetitività “sonore”
all’interno delle frasi attraverso l’alternanza o la
sovrapposizione dei segni
creati da ciascuna mano.
Tutto in un linguaggio per
sua natura estremamente
descrittivo e concettuale
che sorprende il pubblico
udente per la ricchezza di
significati e di sfumature:
per una volta la mancanza
delle parole non si sente.
Stefania Santoro
Nella rubrica “la voce di
Melpomene” su Janus 25,
Antonello Panero è stato
chiamato, per errore,
Alessandro.
Sebbene ci abbia perdonato, ci scusiamo con lui
e con i lettori.
la voce di Melpomene
Pensieri e desideri dell’uomo non possono restare
inespressi solo perché non
si ha la possibilità di comunicarli nelle modalità in cui
sono comunemente ascoltati. È il messaggio che
vuole diffondere
Emmanuelle, che quest’anno vedrà concretizzare il
suo sogno: trovare una
sede permanente per
l’International Visual
Theatre, teatro fondato a
Parigi nel 1976 per promuovere l’uso del linguaggio dei segni. Con la sua
caparbietà è riuscita a ottenere dal governo francese i
fondi per restaurare un
vecchio teatro a Pigalle
dove ha allestito un cartellone davvero innovativo.
Per la prima, la compagnia
ha scelto K. Lear, un adattamento in lingua dei segni
della tragedia shakespeariana. Per gli udenti il linguaggio dei segni viene tradotto a voce o attraverso
proiezioni su uno schermo
alle spalle degli attori. Ma
ci sono monologhi non tradotti, attimi di silenzio in
cui lo spettatore udente si
perde. Nell’emozione dello
smarrimento il pubblico
udente scopre un livello di
comprensione superiore
che lo riporta sul filo della
storia con una sensibilità
nuova.
125
Disuguaglianze sanitarie:
nessuna nuova, brutte nuove
Pietro Greco
L’
Organizzazione mondiale della sanità
ha pubblicato il World Health Statistics
2007, il quadro statistico della sanità nel mondo.
Il rapporto, che è giunto alla terza edizione, offre
dati sempre più omogenei, ma non segnala particolari novità. E a ben vedere la notizia è proprio
questa. Le disuguaglianze sanitarie nel mondo sono enormi – come dimostrano i 47 anni di differenza che corrono
tra la vita media di un maschio della Sierra Leone (39 anni) e quella di una donna in Giappone (86 anni) – e non accennano affatto a diminuire. Janus ha già avuto modo,
anche di recente, di soffermarsi su queste inaccettabili health inequalities, le disuguaglianze rispetto al diritto universale alla salute. E ancora ci ritornerà in futuro. Purtroppo – e non certo per colpa
sua – il World Health Statistics 2007 non ci fornisce dati nuovi.
Ci offre, tuttavia, la possibilità di confrontare con dati omogenei le differenze tra i vari Paesi.
Compresi i Paesi più ricchi del mondo, la cui popolazione ha raggiunto una condizione sanitaria davvero invidiabile, almeno dal punto di vista delle persone che vivono nei Paesi più
poveri. Prendiamo, per esempio, i Paesi del G7: Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone,
Regno Unito e Stati Uniti. Le performance, almeno sui numeri di fondo, sono abbastanza
simili. Eppure ci sono differenze significative, in termini di efficienza, che, anche se da
tempo conosciute, vale la pena sottolineare.
Tra i sette, il Paese che offre i risultati più brillanti è il Giappone: per esempio, 79 anni di vita
media per i maschi, 86 per le donne, una mortalità infantile di 3 ogni 1000 nati vivi. Al secondo posto l’Italia: 78 anni di vita media per i maschi, 84 per le donne, una mortalità infantile
pari a 4. All’ultimo posto nel G7 per tutti questi parametri gli Stati Uniti: una vita media di 75
anni per i maschi (2 anni in meno della media del G7); di 80 anni per le donne (quasi 3 anni
in meno rispetto alla media del G7); una mortalità infantile di 7 ogni 1000 nati vivi (quasi 3
vite perse in più rispetto alla media del G7).
Gli Stati Uniti sono ultimi nel G7 per mortalità dovuta a malattie croniche (460 ogni 100.000
abitanti, contro una media di 398) e penultimi per morti da incidenti (47 ogni 100.000 abitanti, contro una media di 36). Sono ancora ultimi per incidenza del contagio da Aids tra persone adulte (508 ogni 100.000 abitanti contro una media inferiore di 230).
126 Janus 26 • Estate 2007 • il profitto della memoria
Certo, la condizione sanitaria media dei cittadini negli Usa è incredibilmente alta rispetto
alla media mondiale. Tuttavia è costantemente in coda alla media di quell’universo piccolo
e privilegiato rappresentato dai Paesi del G7.
Condizione che viene solo in parte confermata dai dati che riguardano i servizi sanitari. Se
infatti gli Stati Uniti sono ultimi nel G7 per numero di posti letto ospedalieri ogni 1000 abitanti (33, contro i 40 dell’Italia, i 75 della Francia, gli 84 della Germania e i 129 del Giappone),
sono nella media per numero di medici ogni 1000 abitanti (2,56: un dato inferiore rispetto ai
3,37 di Francia e Germania e ai 4,20 dell’Italia, prima assoluta, ma superiore agli 1,98 del
Giappone). Strano caso, questo del Paese asiatico: l’arcipelago nipponico vanta la minore
presenza relativa di medici tra i Paesi del G7 e le maggiori performance sanitarie del mondo:
è evidente che i risultati in fatto di salute non dipendono – non in maniera lineare almeno –
dalla quantità di medici presenti sul territorio, quanto piuttosto dall’organizzazione sanitaria. E il quadro economico sembra dimostrarlo, in maniera addirittura clamorosa. Gli Stati
Uniti sono ultimi per efficienza nel G7 pur essendo di gran lunga primi nella spesa: spendono in sanità il 15,4% della ricchezza che producono ogni anno, contro il 10,6% della
Germania, il 10,5% della Francia, il 9,8% del Canada, l’8,7% dell’Italia, l’8,1% del Regno Unito
e addirittura il 7,8% del Giappone. La spesa pro capite di un americano è di 6096 dollari
all’anno, contro i 3171 di un tedesco, i 2414 di un italiano e i 2293 di un giapponese.
È
ultim’ora
vero che la struttura della spesa è radicalmente diversa: gli Stati Uniti sono l’unico Paese
del G7 dove la spesa privata in sanità (55,3%) supera quella pubblica (44,7%), mentre in
tutti gli altri Paesi la spesa pubblica è pari o superiore al 70%, o addirittura all’80% in
Giappone e nel Regno Unito. Eppure anche lo Stato negli Stati Uniti spende di più che in ogni
altro Paese del G7: 2725 dollari all’anno a persona, contro i 2440 in Germania, i 2382 in
Francia, i 2215 in Canada, i 2209 nel Regno Unito, i 1864 in Giappone. Lo Stato italiano, contrariamente a quanto si crede, con 1812 dollari per cittadino all’anno è quello che spende di
meno nel G7.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a una situazione in apparenza paradossale: i peggiori risultati tra i Paesi avanzati sono ottenuti dal Paese che spende di più, sia nella sanità privata sia in quella pubblica. Paese che, per giunta, è il più ricco in assoluto e dotato del
migliore sistema di ricerca scientifica del mondo. Mentre i risultati migliori sono ottenuti dai
Paesi che investono di meno (Giappone e Italia).
Perché? Le accurate statistiche del World Health Statistics 2007 non ce lo dicono. E per trovare una risposta ben fondata converrà indagare più in profondità. Tuttavia almeno due
dubbi sono legittimi: non è che negli Stati Uniti, come in moltissimi Paesi del Terzo e del
Quarto Mondo, l’inefficienza è dovuta alla mancanza di un sistema che pianifica e coordina
sull’intero territorio nazionale le attività sanitarie, garantendo a tutti il diritto alla salute, a
prescindere dal reddito e sulla base del principio di equità?
E non è che questi dati debbano indurre quantomeno a un supplemento di riflessione coloro che in Italia chiedono sia ulteriori di tagli dei fondi pubblici per la salute sia un maggiore
tasso di “federalismo sanitario”?
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