Scheda da Film discussi insieme 2006
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Scheda da Film discussi insieme 2006
24 Un silenzio particolare regia: Stefano Rulli (Italia 2004) fotografia: Ugo Adilardi montaggio: Clelio Benevento, Lorenzo Macioce musica: Carlo Siliotto interpreti: Matteo Rulli, Stefano Rulli, Clara Sereni e altri della “Città del sole” produzione: Paneikon, Fond. “La città del sole” distribuzione: Sacher; durata: 1h 15’ STEFANO RULLI Roma - 3 ottobre 1949 1975 Matti da slegare 1988 Calda e perversa 2004 Un silenzio particolare LA STORIA Il filmino racconta il giorno del suo primo anno di vita: Matteo che prova a camminare e gli applausi intorno alla torta con la candelina. Ma a Matteo, che adesso è un ragazzo di più di vent’anni, quegli applausi danno fastidio. “Caro Matteo, ti ricordi quando non riuscivi a dormire e tutto ti faceva paura. In quelle notti io ti raccontavo la storia di un uomo che per vincere il dolore si inventò una città dove sarebbe stato bello vivere. Quell’uomo si chiamava Cam224 UN SILENZIO PARTICOLARE panella e la sua città sognata “La città del sole” Bene, quella città adesso esiste davvero, e sta in mezzo ai boschi. Io e mamma Clara pensiamo che in quella città tutte le persone, anche quelle con i problemi più gravi, avranno diritto alla loro vacanza. Per un giorno lascerai la tua casa dove vivi da un anno con Marco e Demetrio e verrai ai casali, con me e con mamma Clara. Forse lì sarà più facile per voi stare insieme, trovare un po’ di pace. Forse riuscirete a fare una passeggiata da soli. Tu e Clara senza di me a fare il guardiano. Da soli e insieme come una volta”. Così suo padre Stefano Rulli parla del luogo di vacanza che è riuscito a realizzare pensando a lui, suo figlio, e a quei ragazzi con disturbi psichici, che in un altro posto per la loro diversità non sono a proprio agio. E il giorno in cui “La città del sole” ai casali è finalmente una realtà la festa è grande. Presenti tanti ragazzi, ma anche chi ha ormai superato l’età dell’adolescenza e tutto è stato preparato perché ognuno degli ospiti si senta al centro dell’attenzione. Matteo sembra l’unico estraneo alla festa. Resta in macchina ad ascoltare dischi e si alza solo per fare qualche passo intorno al cancello. il padre non riesce a convincerlo ad avvicinarsi agli altri. Alla sera dirà a Clara, sua moglie, “non so neanche se abbia mangiato qualcosa”. E lei: “Chissà che cosa pensa. Ci vuole tempo per lui: Diamogli tempo”: “Diamogli pure fiducia”. “Più tempo e più fiducia: i suoi sono tempi lunghi. Le sue cose poi le fa”. “Diamogli tempo”. La mattina dopo, Matteo resta a letto, quelle voci che arrivano nella sua camera, quei canti degli altri che sembrano contenti di essere là, forse non li sente nemmeno. Al padre dice “Voglio andare a Perugia, voglio andarci subito”. È nervoso, irritato. Inutile tentare di trattenerlo. Ma trascorso qualche mese una lettera di suo padre lo invita di nuovo. “Questa volta non puoi dire di no. Lorenzo e Daniela si sposano e per loro mamma Clara indosserà la fascia tricolore. Non puoi mancare”. Alla cerimonia ci sono proprio tutti gli ospiti del “La città del sole” e Stefano parla con molti di loro. Caterina, ragazza down, racconta del suo fidanzamento con Riccardo, giunto al settimo anno e inevitabilmente in crisi. Il ragazzo che ha appena letto una sua poesia agli sposi spiega a Stefano il suo bisogno di scrivere e la soddisfazione che prova quando rilegge quelle parole, quando si rende conto di essere stato lui a scriverle, e soprattutto quando sua madre le approva. “È importante per me sapere che mia madre si renda conto che anch’io so fare qualcosa e che sia fiera di me”. A fine pranzo, tutti ancora a tavola, Clara prende il microfono e racconta come nacque l’idea di una casa dove Matteo avrebbe potuto essere accolto. Spiega di un obiettore di coscienza che andava da lei, sindaco, a lamentarsi perchè aveva poco da fare e di come insieme abbiano costruito un progetto che dimostrò di poter funzionare. “E allora io ho l’impressione che intorno a Daniela e a Lorenzo oggi ci sia tanta di quella gente per la quale valga la pena di vivere... Che non ce n’è tanta in giro. Quella che ti permette di non pensare ai sogni, che a me piacciono poco ma all’utopia, di cui io credo che ci sia tanto bisogno”. La festa dura a lungo, fine a notte. Matteo si avvicina a Daniela e Lorenzo per portare il suo regalo. Poi scappa. L’occasione per torrnare ai casali si ripresenta con la morte di Claretta, un’addio che diventa un ricordo di gioia. Ed è l’inverno, il vento forte che batte le colline e il ritorno a casa di tutti. La mamma di Matteo prende la chitarra e canta la storia di un bimbo nato proprio in una notte di tempesta. Adagio adagio anche Matteo canta con lei. La mattina successiva tra loro un lungo abbraccio segna la nuova attesa riconciliazione. Ora anche le pagine di questo diario stanno per chiudersi. Matteo è accanto al camino e tiene tra le braccia Sara, una bimba appena nata, e per calmare il suo pianto intona la sua canzoncina. Fuori, avvolti dal vento, padre e madre, si scambiano solo due parole “Che silenzio”. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Un filmino sgranato in superotto mostra una giovane coppia, la madre tiene in braccio un bambino che ha uno sguardo assente: sono la scrittrice Clara Sereni, Stefano Rulli, uno degli sceneggiatori italiani più famosi («La Piovra», «Mery per sempre», «La meglio gioventù») e il loro figlio Matteo. Quest’ultimo è il protagonista di «Un silenzio particolare», film-documento presentato alla scorsa Mostra di Venezia (dove Rulli era anche sceneggiatore di «Le chiavi di casa» di Gianni Amelio, altro film centrato sul disagio mentale di un ragazzo) e che narra il non facile rapporto familiare tra i genitori e il figlio, ormai un giovane ventiseienne, con problemi di schizofrenia. «Un silenzio particolare», realizzato con una telecamera digitale, distribuito da Nanni Moretti, arriva domani in quattro città italiane (Torino, Milano, Perugia e Roma), avviando un percorso cinematografico che lo porterà a coprire un po’ tutto il paese, offrendo un momento di riflessione e di speranza alle famiglie che hanno vissuto, o vivono, i problemi con cui si misurano da anni Clara Sereni e Stefano Rulli e, soprattutto, dando la possibilità di capire un universo da cui è fin troppo facile prendere distanze inconsapevoli. Rulli, come è passato dai filmini familiari con Matteo a questo lavoro in cui vi mettete a nudo? «Il motore di tutto è stato Matteo. Lui ha un pessimo rapporto con il mio lavoro, lo rifiuta quando sono dietro la cinepresa, non sopporta di vedermi scrivere e non posso vedere un film con lui per più di dieci minuti, perché non accetta di stare seduto in una sala. Stavo girando un documentario promozionale nei casali di Monte Peglia, dove curiamo l’operazione “Turismo per tutti”, per la fondazione Città del Sole, di cui sono uno dei fondatori con mia moglie Clara e Matteo, a sorpresa, ha iniziato ad irrompere nel film». Lì ha capito che poteva averlo come protagonista? «All’inizio, non avevo certo pensato a trasformare quei momenti in film, mi sembrava semplicemente una buona occasione per rompere il diaframma che c’è sempre stato tra noi. Il materiale è aumentato, ma quando Matteo, che non aveva mai accettato il cinema, ha chiesto di vedere con me e Clara quanto avevo girato, UN SILENZIO PARTICOLARE 225 seguendo tutto con attenzione e, alla fine, mi ha chiesto di rivedere la scena in cui lui piange, ho capito che era successo qualcosa. Se era finalmente riuscito ad accettarsi sullo schermo, allora questo film era proponibile anche all’esterno. Io credo che il compito del cinema sia dare un valore miracoloso ai nostri gesti quotidiani, un po’ come fa Nanni Moretti quando beve il bicchiere d’acqua alla fine di “Caro Diario”». Che parentela c’è tra il suo film e «Le chiavi di casa»? «Nessuna credo. In uno ci sono la visione e le scelte coraggiose di Amelio, in cui il mio lavoro è quello di sintesi richiesto allo sceneggiatore, in questo c’è invece la “volontà di ascolto” che caratterizza un documentario». Tecnicamente come sono andate le riprese? «Con una telecamera poco più che professionale potevamo fare come volevamo: abbiamo girato più di cinquanta ore da cui abbiamo estratto la nostra storia, ma da cui ne potrebbero uscire tante altre, tutte quelle degli altri ospiti della Città del Sole, sia sani, sia con problemi psicologici. È un lavoro che può ampliarsi, io capisco il desiderio di fuga che si prova di fronte alle malattie mentali, quasi per una forma difensiva, per evitare di guardare la parte più fragile di ognuno di noi». Ci sono dei momenti particolarmente struggenti, ha provato a dirigere suo figlio in qualche modo? «Era impossibile: che Matteo mi toccasse il viso per vedere come sono invecchiato, mentre gli altri cantavano “Father and son” di Cat Stevens, è stato solo un colpo di fortuna, mentre che lui cominciasse a cantare la ninna nanna alla neonata che gli era stata messa in braccio, è una delle tante sorprese che è capace di donare, in modo totalmente inaspettato e non programmabile». (OSCAR COSULICH, Il Mattino, 10 Febbraio 2005 ) All’inizio, ci sono venuti in mente i Rolling Stones. Stefano Rulli, Clara Sereni e il loro figlio 26enne, Matteo, osservano un vecchio filmino sgranato in cui Matteo è bambino. Cinema dentro il cinema, immagini che scrutano altre immagini: i protagonisti del documentario Un silenzio particolare guardano se stessi, e noi guardiamo il film nel suo farsi, nel suo diventare analisi di una storia, di un mondo. Iniziava così anche Gimme Shelter, uno dei più importanti e sconvol226 UN SILENZIO PARTICOLARE genti documentari del New American Cinema: i Rolling Stones, in moviola, osservavano i filmati del loro concerto di Altamont, avvenuto alcuni mesi prima. E pian piano, mentre il film scorreva e «si montava» davanti a loro, rivedevano la tragedia, lo spettatore accoltellato dagli Hell’s Angels sotto il palco, l’utopia dei grandi raduni rock (correva l’anno 1969, quello di Woodstock) che si trasformava in incubo. Il paragone finisce qui, ma è più denso e profondo di quanto appaia a prima vista: innanzi tutto perché anche Un silenzio particolare, in fondo, racconta un’utopia (che non diventa incubo, per fortuna, ma che corre il rischio di sparire); e poi, perché il documentario che riflette su se stesso è forse, in questo scorcio storico, la forma più pura e più avanzata di cinema che si possa immaginare. Da tempo sosteniamo che il documentario è la parte più viva e interessante del cinema italiano; e per capirlo, limitandoci a questo week-end, basterebbe confrontare la verità di Un silenzio particolare con la finzione tutta «di testa», e sostanzialmente irrisolta, di Provincia meccanica, che domani rappresenterà l’Italia in concorso a Berlino. Volendo rimanere dentro il discorso metafilmico (il cinema sul cinema, scusate la parola difficile), potremmo dire che Un silenzio particolare è il tentativo, da parte di un cineasta come Rulli, di far arrivare il proprio cinema al figlio Matteo, che lo detesta. Stefano Rulli è il famoso sceneggiatore che, in coppia con Sandro Petraglia, ha scritto il cinema e la tv più «civili» e popolari degli ultimi vent’anni (Mery per sempre, Il portaborse, La meglio gioventù, svariate Piovre). Suo figlio Matteo non fa cinema. Non ama il lavoro del padre. Ma non siamo di fronte a un «semplice» rifiuto della figura paterna. Matteo è un ragazzo con gravi problemi psichici. Spesso si rifugia in se stesso, ai limiti dell’autismo. Quando comunica, lo fa a volte in maniera violenta, aggressiva. Rulli e sua moglie, la scrittrice Clara Sereni, non esitano a confessare che l’idea del film nasce anche da un’antica, terribile e umanissima vergogna: non sempre è facile dire che si è genitori di un figlio handicappato. Si ha paura delle proprie parole, si ha paura degli sguardi della gente, del giudizio del mondo. E qui si arriva alla suddetta utopia. Da anni, Rulli e Sereni hanno fondato in un casale umbro una piccola comunità chiamata «La città del sole», dove ragazzi con lo stesso problema di Matteo possono incontrarsi e trascorrere le vacanze assieme alle famiglie. Il film è nato, inizialmente, come un documentario su questo luogo dove Matteo, a lungo, si è sentito estraneo: andava lì con mamma e papà, ma si rifiutava di entrare. Poi, come scrive Rulli, «un giorno Matteo decide di entrare, non per una festa ma per l’ultimo saluto a una delle ragazze del gruppo prematuramente scomparsa. Un po’ a sorpresa, Matteo entra nella grande sala, vede con gli altri ragazzi su un televisore le immagini di quella festa a cui non ha voluto partecipare, condivide con loro il dolore di quella perdita». Così, nel suo farsi, Un silenzio particolare diventa la storia di come Matteo entra nel film, diventa parte della comunità, e riesce a stabilire con i genitori un contatto prima quasi impossibile. Fra i tanti lavori di Rulli, quello più vicino a Un silenzio particolare è Matti da slegare, girato trent’anni fa assieme a Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Silvano Agosti. Era una straordinaria testimonianza sui manicomi, sulla necessità di entrare in contatto con quella sofferta umanità che sta dall’altra parte, oltre la nostra cosiddetta normalità. Qualche anno dopo, con la nascita e la crescita di Matteo, Stefano si è ritrovato quel film dentro casa e oggi ci racconta, con pudore e coraggio, il mestiere più difficile del mondo: che non è quello di sceneggiatore, ma quello di padre (in senso lato, di uomo). Un silenzio particolare è un’esperienza, più che un film: se ne esce scossi, dolenti, ma anche riempiti di umanità. Andatelo a vedere (al Nuovo Sacher di Roma, all’Anteo di Milano…) anche perché facendolo aiuterete l’utopia: la regione Umbria sta vendendo il casale della «Città del sole» e servono soldi perché chi ha realizzato il progetto possa, ora, comprarselo. Serve l’aiuto di tutti. Anche il vostro. (ALBERTO CRESPI, L’Unità, 11 febbraio 2005) persone debbono essere trattate per sentire meno il vuoto, l’abbandono, l’angoscia; insegna il coraggio, l’intelligenza, la tenerezza e la pazienza con cui i genitori possono affrontare il destino proprio e del figlio. La scrittrice Clara Sereni e lo sceneggiatore Stefano Rulli hanno avuto un figlio ora ragazzo, Matteo, con problemi psichici: con grande forza d’animo, generosità e bravura, mettono in scena la loro piccola famiglia e gli amici in difficoltà, spesso giovani, che si ritrovano per le vacanze, le feste, i matrimoni, nei casali della Country House nella campagna perugina della Fondazione «La città del sole» da loro ideata. Raccontano un mondo speciale, dove per fortuna mancano il buon senso, la ragionevolezza, l’egocentrismo, mentre non mancano la musica, la gaiezza, l’estro. Persone dalle facce alterate si lamentano, recitano versetti, cantano, ballano, ridono incongruamente, parlano spesso in modo incomprensibile oppure tacciono. C’è sempre qualcuno che si stringe in un angolo, muto, con gli occhi vuoti. Matteo Rulli, che non abita con i genitori ma con due amici, appare all’inizio nei film domestici piccolino con lo sguardo già nebbioso, poi cresciuto: sta sempre solo da una parte, dentro l’automobile o all’aperto. È davvero bello. Gli càpita di prendere a pugni il padre, di rifiutare la madre; contempla e tocca la faccia paterna trovandola invecchiata; sente male al collo o al cuore, piange, non arriva ad addormentarsi; ha repentine crisi di violenza. Poi si addolcisce, canta se stesso bambino («pioveva e tirava/un forte vento/il bimbo Matteo/era abbastanza contento»): l’ultima immagine lo mostra, con la dolcezza di un lieto fine, abbracciato alla madre sempre respinta. Senza trama, senza effetti nella fotografia e nelle riprese di Ugo Adilardi, Un silenzio particolare è il racconto più eloquente di una condizione umana che si potrebbe avere l’orgoglio fiero di saper vivere. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 9 febbraio 2005) Un silenzio particolare di Stefano Rulli è un film non soltanto intenso e bello, ma prezioso: insegna a conoscere il modo di vivere delle persone con problemi psichici (affetti da autismo, parrebbe; ma nessuna malattia viene nominata); insegna la maniera rispettosa, affettuosa e attiva con cui queste INCONTRO CON IL REGISTA STEFANO RULLI Stefano Rulli: La mia prima esperienza è stata di cinema documentario. Trent’anni fa feci con Bellocchio, Agosti e Petraglia un film documentario sul Manicomio di Parma che UN SILENZIO PARTICOLARE 227 si chiamava Matti da Slegare e una comunicazione, dove c’è fu per me una esperienza imun linguaggio da imparare. C’è portante: scoprii insieme il ciquesta parola che ritorna, nema e un mondo con cui poi anche nei dialoghi con Clara, mi sono misurato per esperien“la pazienza”, il darsi la pazienza di vita, quello della malattia za, dare tempo. Poi c’è il ruolo mentale. Dopo quella espedella cinepresa: elemento che a rienza con Bellocchio, come volte blocca la comunicazione, regista di cinema documentama nel caso di Matteo e del rio, ho cominciato a fare lo tuo rapporto con lui invece è sceneggiatore, che è poi divenstato proprio l’elemento che tata la mia professione princil’ha favorita, che ha reso possipale e ho fatto vari film, ho bile forse un salto di qualità... fatto la televisione, le “piovre”, con Placido, poi con vari regiRulli: Matteo ha sempre avuto un pessimo rapporto con il sti… Mary per sempre è stato il sinistra: p. Guido Bertagna, Stefano Rulli, Daniela Cristofori e primo film che ho scritto per da mio lavoro di sceneggiatore. Giacomo Poretti Marco Risi, poi c’è Il PortaNemmeno quando scrivevo a borse, Il ladro di bambini, La meglio gioventù, l’ultimo film macchina amava tanto vedermi scrivere. Immaginiamo la di Amelio e di Giordana e Le chiavi di casa. Dopo trent’anni telecamera… Spesso lavoravo quando lui non c’era e coho voluto ritornare a fare il cinema documentario perché munque era un rapporto difficile forse perché sentiva questa penso che questa piccola storia che ho raccontato la potevo mia passione per il cinema come qualcosa che toglieva qualraccontare solo io perché è un’esperienza personale: racconta cosa a lui a livello affettivo e quindi non ho mai pensato di il mio rapporto con mio figlio Matteo, un ragazzo che ha fare un film su Matteo o con Matteo. Noi non abbiamo mai avuto problemi mentali dalla nascita. Poter raccontare que- visto un film insieme al cinema anche se questo è il mio sto era possibile solo se c’era una situazione che non era da lavoro. Matteo, che ora ha 27 anni, non sa leggere e scrivere cinema ma era più, come dire, di incontro, di dialogo perso- e quindi quest’esperienza, anche come padre, non l’ho potunale ed è stata un’esperienza che ho fatto a partire da un sen- ta vivere con lui. Questo documentario era partito come timento che Matteo ha espresso, quello cioè di volerci stare, una piccola cosa promozionale che volevo fare per la di voler fare una cosa con me; quindi prima di tutto è stato Fondazione “La Città del Sole” che è una Fondazione che un elemento di dialogo tra noi. Poi quando ho fatto un ho creato con mia moglie, Clara Sereni, per fare dei progetti primo montaggio del film, gliel’ho fatto vedere, lui l’ha di vita per persone con problemi psichici medio e medioaccettato e allora a quel punto ho pensato che si potesse far gravi. L’agriturismo è una di queste esperienze. Lì vengono vedere anche ad altri… accolti tutti, qualunque turista può venire, ma in particolare le Associazioni, le persone, i familiari di individui che hanno P. Bertagna: Stefano è qui come autore ma, come ci siamo problemi. Volevo fare un piccolo documentario per racconaccorti, vedendo il film, ben più, ben più che autore. È un tare l’esperienza di questo agriturismo, intervistando anche i film che potrebbe per esempio essere compreso attraverso nostri clienti. Durante una di queste riprese venne anche l’itinerario delle difficili vie della comunicazione, che cosa Matteo con Clara e mentre stavo facendo la ripresa ad un vuol dire percorrere fino in fondo le vie di un incontro e di certo punto entrò in campo, si mise in mezzo mentre facevo 228 UN SILENZIO PARTICOLARE l’hanno fatta Nicola e Giovanni l’intervista. Lì per lì pensavo che Pisano?”. Io “Beh, insomma in fosse una provocazione. L’opefondo un po’ come noi, non siaratore Ugo Adilardi - anche lui mo bravi come loro però l’hanno un amico di Matteo - mi dice: fatta insieme”. E lui s’è messo a “Io penso che lui ci voglia stare in ridere. In realtà mi ha fatto penquesta cosa, non era una introsare lui che in fondo questo film missione aggressiva”. Allora abper me è di straordinaria imporbiamo provato a filmare alcune tanza: non abbiamo potuto scricose solo con lui per capire se davvere insieme, non abbiamo potuvero aveva voglia di starci, se era to imparare a leggere insieme ma quello il senso. Una delle poche abbiamo potuto fare una cosa incose rimaste delle prime che absieme attraverso il linguaggio con biamo filmato è la passeggiata nel il quale io vivo e lavoro, quello bosco, quando proviamo a tagliadel cinema. Quindi in questo senre un ramo in modo goffo: lì ho so è un film che aveva un senso sentito che lo stato d’animo di da sinistra: Stefano Rulli ed Ezio Alberione per me anche se fosse rimasto nel Matteo rispetto al materiale che filmavamo era positivo. Ci voleva stare anche se poi non ce cassetto. Matteo l’ha visto la prima volta insieme con Clara, la faceva, usciva fuori, tornava, usciva di nuovo. Allora a su un televisore. Era ancora un montaggio largo, non definiquel punto abbiamo deciso di continuare. Il film è stato tivo: si è visto il film tutto, seduto, senza mai alzarsi e alla girato in due anni e mezzo, sempre con questo meccanismo, fine mi ha detto: “Voglio rivedere Matteo che piange”. Ha soprattutto dei week end, delle feste. Ho girato cinquanta voluto rivedere la sequenza della sua crisi e mentre la vedeva, ore di materiale e poi alla fine ho deciso questo montaggio ne parlava, cioè mi chiedeva che stava succedendo e perché. In un certo senso, il film per me aveva un senso, un’impor- Ovviamente io non l’avevo una risposta ma era la prima tanza già solo perché permetteva a me e a Matteo un rap- volta che lui si guardava dall’esterno ed era la prima volta porto che in passato non avevamo potuto avere. Mi sono che noi riuscivamo a parlargli proprio di questo. Il fatto di sempre io occupato di Matteo, invece in questo caso faceva- poterne parlare è stato importante per Matteo, proprio dal mo davvero una cosa insieme. È stata una esperienza parti- punto di vista della relazione tra noi. Quando l’abbiamo colare. Mi ricordo un episodio, quando siamo andati a vive- proiettato per la prima volta a Venezia, avevo dubbi, non re a Perugia, una città particolarmente accogliente e adatta sapevo se Matteo dovesse esserci o no perché c’era molta per Matteo più che le grandi città. I primi tempi, appunto, gente, più di 500 persone. Poteva essere una emozione tropandando in giro, vedevamo Corso Vannucci, gli raccontavo po forte. Ne parlai con uno psichiatra della Fondazione, mi tutte le bellezze di questa città, cercavo un approccio peda- disse “Se Matteo l’ha fatto il film probabilmente è in grado gogico, indicavo i monumenti, soprattutto la fontana mag- di vivere anche questa emozione”; quindi Matteo è stato giore, che è un capolavoro di Nicola e Giovanni Pisano. Lui presente con me. Ha visto il film in sala e c’è stato l’applauovviamente mi chiedeva sempre dove stava il bar, dove pote- so finale: lui è venuto lì, l’ha raccolto, ha applaudito a sua va trovare un flipper, cioè non gli interessava assolutamente volta. Poi è successa una cosa buffa che in realtà mi ha salvanulla dei monumenti di cui io gli parlavo. Dopo che abbia- to da una situazione molto complicata. Matteo ha una granmo fatto il film, dopo dodici anni, facciamo una passeggiata de passione per il cappuccino e io gli dico non più di una su Corso Vannucci e lui mi dice “Ma la Fontana Maggiore volta al giorno entro le quattro perché sennò poi non dormi UN SILENZIO PARTICOLARE 229 la notte. Quel giorno ero un po’ in ansia anche io e gli ho detto: “Matteo, se va tutto bene, se tu sei tranquillo, stasera in via eccezionale ti puoi prendere un cappuccino”. Allora, finito l’applauso la gente è rimasta lì in piedi… Di solito per educazione il regista non se ne va prima che se ne vada il pubblico. Quindi io stavo fermo, il pubblico stava fermo in piedi, in una situazione di stallo un po’ così strana e a un certo punto Matteo mi ha detto: “Ma papà, e il cappuccino?” e siamo usciti grazie a Matteo. L’ho portato a prendere il cappuccino. Intervento 1: vedendo Matteo ho pensato che tutte le interpretazioni che ho molto apprezzato, Dustin Hoffman o il giovane Di Caprio in Buon Compleanno Mister Grape: erano comunque inevitabilmente qualcosa di molto costruito… Le volevo chiedere se dopo questo film è cambiato qualcosa nel rapporto suo con Matteo. Rulli: Sì qualcosa è cambiato, però non so se è la conseguenza del film o se il film invece è la conseguenza di un cambiamento che già era avvenuto in Matteo, perché quel Matteo che entra in campo è quello il mistero. Io ho saputo solo cogliere quel momento però probabilmente, come spesso mi è capitato con Matteo, c’erano dei cambiamenti dentro di lui che non ho saputo cogliere. La sensazione è che ci fosse probabilmente già in Matteo un cambiamento forte se è stato in grado di accettarsi, di vedersi e di entrare in campo. Ora credo di avere con Matteo un rapporto più adulto, dove c’è uno scambio, dove lui mi può, come in questo film, dare qualcosa di molto profondo insomma creativamente al film. Non è soltanto il fatto della sua presenza che io ho registrato. C’è stato come una generosità creativa di Matteo dentro questa. Verso di lui oggi mi sento meno infermiere, meno maestro, meno tecnico e più, più libero nel rapporto con lui. Ezio Alberione: Sul titolo Un silenzio particolare, perché l’hai scelto? Kandinski all’inizio di Punto, linea, superficie, parla proprio del silenzio come di qualcosa che è allo stesso tempo uno stop, un’afasia, una impossibilità di parlare ma 230 UN SILENZIO PARTICOLARE anche invece una grande apertura, una grande disponibilità e quindi un segno molto ambivalente, molto ricco di negazione e di affermazione. Perché dunque questa centralità data al silenzio? Inoltre, si parla spesso di te e del rapporto con Matteo ma c’è, a volte sullo sfondo ma di cui si intravede anche la sofferenza, la figura di Clara Sereni, tua moglie, mamma di Matteo. Come ha vissuto il film finito e il fatto di essere comunque anche lei consegnata a una presentazione pubblica del suo rapporto col figlio? Rulli: È Un silenzio particolare perché lo dice Matteo. C’è un momento del film, un momento di crisi al termine della quale Matteo dice: “Quand’è che c’è un silenzio, quand’è che c’è un silenzio particolare”, come se lui parlasse di un silenzio dell’anima. Un silenzio diverso da quello del vento. Piuttosto è un vento dentro di lui, e quindi questo anelito ad un silenzio particolare esprime un’aspirazione, la ricerca di una quiete interiore che non sia rassegnazione, che non sia rifiuto della vita, ma sia un nuovo equilibrio, un silenzio che non è un vuoto, un silenzio che è un altro sentimento del mondo, meno tumultuoso, meno confuso. Questo è il silenzio particolare che io ho sentito in quella frase di Matteo e ho voluto darlo come titolo al film. Il silenzio è un altro linguaggio. Spesso le persone le capisci meglio nei silenzi, cioè quando sono capaci di non usare le parole per coprirsi. A volte le parole non si usano per comunicare ma si usano per coprire le proprie ansie e i propri dolori. Nel film, dopo la crisi di Matteo, dopo che lui parla del silenzio particolare, c’è un silenzio, c’è un lungo silenzio tra me e Matteo, uno scambio di sguardi, e Matteo che mi prende la mano. Ecco per me quel silenzio comunica più di tante nostre parole. Quando stavamo montando c’era qualcuno che diceva “È troppo lungo, taglia, non c’è una battuta”. Invece il silenzio aveva una intensità emotiva, era come se quella pace che Matteo mi chiedeva, cercava, per quell’attimo l’avessimo vissuta. Per quanto riguarda il ruolo di Clara in questo film, devo dire che è stata molto generosa con me. Clara Sereni è una scrittrice, ha scritto vari libri sulla diversità e anche sulla sua esperienza con Matteo. Ci sono dei libri che io ritengo straordinari come Manicomio primavera, dove parla dell’esperienza delle madri con figli con problemi. Ha sempre usato la mediazione della scrittura, della letteratura, senza fare le storie autobiografiche e la scrittura le ha permesso in qualche modo di parlare delle sue emozioni senza mettersi in gioco in prima persona. Perciò accettare di essere dentro questo film ha significato per lei fare una novità e in certo senso una forzatura rispetto a quella che era stata la sua scelta nel parlare di queste cose. Quindi lei ha faticato molto a fare questo film. Sicuramente è stato per lei molto difficile mettere in scena anche la complessità del rapporto con Matteo, una complessità che mette in gioco la distanza fisica che non è distanza affettiva: quell’abbraccio finale, così contorto, così storto, così difficile è proprio il segno di quel rapporto. Vale a dire: è una grande conquista. Quello che è naturale in un bambino appena nato, che il bambino si accoccola sul seno della madre è stato per Matteo una conquista che è arrivata attorno ai 18-19 anni. Matteo non sapeva abbracciare, in particolare la madre, non sapeva stringere. Questa è stata una delle prime cose da cui abbiamo capito che Matteo era un bambino diverso. Appena nato stava addosso al corpo della madre come un bastoncino dritto: scoprire cos’è il corpo della madre, scoprire che cos’è un abbraccio è stata una grossa conquista di Matteo e il rapporto con la madre quindi è stato un rapporto molto complesso, fusionale, cioè un desiderio di tale unione che poi però si rivoltava e diventava anche di aggressività. Quindi fu una scelta degli psichiatri, più di uno ne abbiamo consultato che hanno ritenuto opportuno evitare che Matteo e Clara fossero per un periodo della loro vita insieme da soli, diciamo nel periodo dell’adolescenza di Matteo, dai 13 anni ai 23-24. Debbo dire che anche in questo senso, dopo il film, è cambiato il rapporto con Clara. Adesso lentamente hanno ricominciato ad uscire nuovamente insieme, una due ore. Adesso riescono di nuovo a stare da soli e proprio l’altro mese Matteo ha dormito da solo a casa con la madre. Quindi c’è un percorso, c’è un cambiamento anche se è ovvio che Matteo non sarà mai quello che si chiama una persona normale. È un diverso. Ha una diversità dalla nascita, però la cosa importante è sentire in questi casi che c’è un processo, c’è un cambiamento, c’è un arricchimento, c’è una possibilità di cambiare i rapporti personali. Intervento 2: Forse in questa sede non si dovrebbe parlare di cose personali però io ho avuto un figlio che è diventato schizofrenico a vent’anni (ora questo figlio non c’è più). Uno psichiatra una volta mi ha detto che col tempo avremmo imparato a parlare come Marco. Stefano e Clara sono riusciti a parlare come Matteo. Rulli: Si pensa spesso di queste persone, di cui non si capisce quello che dicono, che dicono delle cose insensate. Questo ci angoscia. Invece la realtà è che loro usano un altro linguaggio: per loro ha un senso, siamo noi che non riusciamo a capirlo. Siamo come due linguaggi paralleli, il nostro è più diffuso quindi noi ci capiamo ma ha un senso per loro e allora il punto è cercare di capire quell’altro linguaggio e questo dà un senso al rapporto. Ad esempio c’è una sequenza di questo film che sempre mi emoziona rivedere ed è quella quando alla festa di matrimonio lui mi tocca l’occhio. Quel gesto lo ha fatto molte volte ma io l’ho sempre interpretato come se Matteo mi volesse mettere un dito nell’occhio, cioè un gesto di aggressività. Quella sera ho capito che lui invece stava guardando una mia ruga e allora, quando l’ho capito e gliel’ho detto, ho visto che lui sorrideva e abbiamo cominciato a giocare sull’invecchiare. È stato per me straordinario, lì stavo parlando con Matteo, avevo capito il linguaggio di Matteo quella volta, avevo capito che quel gesto significava una cosa per lui diversa da quella che significava per me. Io ero molto ideologico, ero molto rigido, pensavo che 2+2 fa 4. Vivendo con Matteo ho capito che ci sono tanti linguaggi, tanti modi di dire le cose, le parole spesso dicono cose diverse da quelle che sembrano dire razionalmente. Dipende da come le dici. Sì, insomma. È un grande viaggio quello del linguaggio di queste persone: se ce la fai a stargli dietro, anche molto divertente, davvero molto divertente. P. Guido: Il tuo film verrebbe da pensare di classificarlo come un documentario; nell’accezione comune del termine, UN SILENZIO PARTICOLARE 231 per documentario si intende una visione “oggettiva” della realtà attraverso la macchina da presa. In che senso dobbiamo capire la visione della “realtà oggettiva” nel tuo film? Rulli: Il cinema documentario è cinema. Spesso propone un racconto che non è fatto con gli attori ma c’è un racconto. Avendo girato cinquanta ore di materiale ho fatto molte scelte quindi non è la rappresentazione esatta di che cosa è Matteo. Certo questa è una mia ricostruzione, una mia immagine, ma il modo in cui tu metti una scena prima o dopo diventa decisivo. Io penso di non aver forzato la realtà. L’ho interpretata certo. Una scelta decisiva è come filmare, come raccontare il mio rapporto con Matteo. C’era anche un problema morale non solo di tecnica cinematografica: Godard diceva sempre che i movimenti di macchina sono un fatto morale, cioè come si usa la macchina, in particolare in questa situazione (e non solo perché filmavo mio figlio), ma in generale: filmare una persona con problemi pone delle questioni morali. Non essere troppo aggressivi oppure, di fondo, se è giusto filmarli. Alla domanda se era giusto filmare questa situazione io ho risposto che era giusto. Nella mia vita ho scelto di non chiudermi in casa per evitare il dolore del confronto con il mondo e ho sempre pensato che la gente non è cattiva ma spesso non sa le cose, non ne capisce. Perciò è importante parlarne, è importante mostrare. Non c’è niente da nascondere. La cosa difficile è superare l’imbarazzo che è un fatto culturale. Circa il modo di filmare per esempio una crisi di Matteo: io non l’ho certo mai cercata, però avevo messo nel conto che poteva capitare. Come l’avremmo dovuta filmare? Abbiamo avuto un lungo confronto con l’operatore perché in quelle situazioni io non potevo intervenire come regista, non potevo dire di mettere la macchina in un punto o nell’altro perché ero in campo, ero in campo emotivamente intendo dire, come padre. In quel momento io ero preso dalla crisi di Matteo non dal movimento di macchina. Ma dato che si stava facendo anche cinema l’operatore doveva sapere in sua autonomia come muoversi. Le due indicazioni di fondo sono state queste: prima di tutto non zoomare, non aggredire la realtà. Se la crisi accade la filmo perché accade, ma non vado con la 232 UN SILENZIO PARTICOLARE macchina da presa a cercarla. Quel movimento di macchina per me è un fatto morale, per dirla ancora con Godard. Io ti rispetto, sto lì ma non drammatizzo, non provoco la lacrima commossa dello spettatore con la zoomata sulla faccia di chi vive la crisi. La seconda indicazione è non interrompere mai il movimento di macchina. Abbiamo usato molto il piano sequenza. Non c’è interruzione: la macchina da presa, quando parte una crisi, la racconta in tempo reale perché io credo che lo spettatore così possa capire. Non è stata costruita quella situazione, è accaduta. Quindi la racconto, però è altra cosa se io con il montaggio alterno un primo piano, delle mani, gli occhi di Matteo, la mia reazione. Ecco quello è il cinema che cerca lo spettacolo. Le crisi avvengono quando meno te le aspetti. Ad esempio la sequenza in cui Matteo si sveglia la mattina e io mi siedo vicino a lui, è chiaro che è successo qualcosa prima ma non c’è quel rapporto causaeffetto troppo costruito. C’è qualcosa di più misterioso ed è questo che ti da una grande angoscia, il fatto di non capire: col piano sequenza ho potuto raccontare questa esperienza che è esperienza di violenza. Dove i silenzi non bastano più c’è la violenza. La violenza non è la negazione di un rapporto: l’operatore è stato bravissimo ad interpretare la richiesta di filmare queste situazioni tenendo una distanza rispettosa rispetto a quello che accadeva e, contemporaneamente -nella scena in cui Matteo si sveglia la mattina e ha una reazione aggressiva verso di me, ed era e la prima volta che l’operatore la vedeva non gli era mai capitato prima - a un certo punto la macchina fa proprio così, cioè proprio balla, lui ha una mano molto ferma e a quel punto mi hanno detto “Beh, ma tagliala scusa, metti un primo piano, leva quel movimento di macchina sbagliato”, ma no! Perché quel movimento di macchina mi commuove sempre molto, perché è l’emozione dell’operatore, la mano gli trema perché sta male anche lui, la macchina in quel caso sta dialogando con quello che succede e allora non è un movimento di macchina sbagliato ma quello è proprio il movimento dell’anima dell’operatore, un uomo che sta dentro quella situazione. Quindi anche nel montaggio, una serie di scelte sono state di questo tipo. Non ho voluto fare un montaggio pulito, ho voluto fare un montaggio che aiutasse a capire quelle che erano le emozioni vere delle persone che erano in quel momento presenti. Intervento 3: immagino abbia conosciuto famiglie con problemi analoghi al suo: che idea si è fatto di come le famiglie riescono ad andare avanti, a trovare una ragione? Rulli: Io penso che le associazioni sono fondamentali… E il primo sentimento è quello di solitudine, quindi un’associazione è qualcosa che ti aiuta a sentire che puoi condividere il tuo dolore con gli altri e poi ti senti anche meno solo e senti che puoi fare qualcosa per tuo figlio ma insieme la puoi fare anche per gli altri. Ad esempio, che un genitore vada a parlare con gli insegnanti in un consiglio di classe per difendere suo figlio è una cosa tra le più drammatiche che uno possa vivere perché ti senti in colpa, ti senti accusato, ti senti di doverlo giustificare, ma tu non stai parlando di tuo figlio e se tu li affronti troppo duramente i professori - poi in classe ci sarà lui che non si sa difendere… Se invece io ci vado come associazione, non ci vado come padre ma ci vado anche come associazione a difendere quel ragazzo, penso di poterlo fare con una maggiore libertà emotiva e poterlo fare con maggiore convinzione. In una città dove sono stato, una famiglia si poneva il problema del dopo, quando i genitori muoiono cosa sarà di questi figli e quindi lasciargli una casa, lasciargli qualcosa: e ci sono ormai delle possibilità a livello di leggi, Ma c’è un altro dopo di noi che è un dopo di noi affettivo, quando noi saremo morti - ma come ci ricorderanno i figli, se non hanno memoria - e allora ha proposto alla sua associazione di fare dei video dove ognuno di loro raccontava la sua storia, la sua vita da lasciare a suo figlio. È solo una delle tante modalità per dire che non ci dobbiamo vergognare della nostra storia. I COMMENTI DEL PUBBLICO OTTIMO Vittorio Zecca - Non tanto un semplice film, ma una vera e forte lezione di vita che fa pensare a quante risorse di amore, coraggio, intelligenza ci sono in noi e che spesso o sempre non sappiamo o non vogliamo utilizzare per noi stessi e per gli altri. Margherita Tornaghi - L’interiorità di Matteo, un ragazzo “diverso”, è stata espressa in modo magnifico dal regista padre che ci fa capire anche la grande sofferenza dei genitori nei confronti di questo figlio, pur trattandolo con tanto amore. Trovo splendida la conclusione del film, quando affidano a Matteo una piccola neonata che lui prende con molta titubanza e incomincia a cantarle, a modo suo, la ninna nanna che la mamma gli aveva ricordato e che cantava a lui quando era piccino. Franco Lorandi - Un film intenso che ti aiuta a condividere le situazioni ed i problemi di una esperienza difficile da gestire. Letizia Ragona - Film non facile da dirigere, specialmente quando si vivono in prima persona situazioni tanto difficili. Il regista Rulli è riuscito magnificamente a rappresentare il mondo di tanti genitori che vivono in silenzio drammi simili. Tutto è calibrato e talvolta anche con qualche angoscia ed apprensione (il fuoco che arde e il ragazzo malato con il piccolo bambino in braccio!). Difficile il rapporto di Matteo con la madre, che Rulli ha reso molto bene. È un modo diverso di comunicare ma molto efficace. Bella “La città del sole” dove tutti possono comunicare. Non si può parlare di recitazione perché i personaggi sono solo se stessi! Anna Lucia Pavolini Demontis - Stefano Rulli ha avuto in questo film “Un silenzio particolare”, suo primo film come regista, anche il ruolo di sceneggiatore (sua attività principale). Non credo sia stato facile costruire una pellicola sulla storia di Matteo, suo figlio, con gravi disturbi psichici. Il risultato è di grande sensibilità e molto impegnativo. Semplice e spontanea la recitazione di Matteo, di Stefano e di Clara Sereni sua moglie. L’uso della telecamerina digitale talvolta disturba la visione e con difficoltà si intuisce il linUN SILENZIO PARTICOLARE 233 guaggio dei vari ospiti della “Città del sole”. Un plauso per il coraggio e per la grande capacità di far conoscere un problema così difficile quale è quello della comunicazione. BUONO Alessandra Casnaghi - Un film che dà al pubblico momenti di intensa emotività, con immagini che giungono al cuore di ognuno, ponendo quesiti e suscitando propositi. La “diversità” disorienta, ma può renderci migliori. Matteo lotta contro un destino che lo priva di molto, ma non certo dell’affetto e della dedizione dei suoi genitori. Mi ha intenerito quel padre paziente, tenace, risoluto. Le sue inquadrature da regista mostrano la sensibilità esclusiva e “privilegiata” di chi condivide l’esistenza con persone come Matteo. Un film pudico, sincero, doloroso. Clara Schiavina - È difficile per noi “normali” calarci nella mente del “diverso”. Questo film ci mostra come il diverso sappia essere sensibile, forse più dei “normali” e sappia cogliere sfumature della vita che a noi, presi da troppe cose, sfuggono. Il film mi è piaciuto e penso che l’averlo girato con una piccola videocamera digitale abbia dato maggior valore al modo in cui viene trattato questo tema. Bruno Bruni - Il film è il diario di una quotidianità, attraverso un percorso d’amore che riduce l’angoscia e non rinnega la vita. Il superamento di una tradizionale forma di riservatezza per rimarcare l’esistenza di realtà drammatiche di persone con ritardi mentali, ed il personale comportamento verso questi problemi nei riflessi della vita privata di ognuno. Stefano Rulli ha sentito il bisogno di rendere pub- 234 UN SILENZIO PARTICOLARE blico il dramma personale, rappresentando il proprio ragazzo nell’ambito familiare e nei rapporti con l’esterno. Ne è nato un documento spontaneo e commovente, nella sua semplicità; uno spaccato di un vissuto dall’apparente serenità, ma dai risvolti talvolta imprevedibili e per questo dolorosi. Cosa può aggiungere alla nostra sensibilità una esperienza come questa? Nei riguardi dei familiari, al rinnovato dolore, un senso di maggior conforto. Per noi pubblico una consapevolezza diversa verso un vissuto particolare ed una vicinanza solidale, da non limitarsi ad un compenetrato silenzio. DISCRETO Antonella Spinelli - Narrazione cinematografica del senso del silenzio in chi non ha tutti i mezzi per comunicare. Interessante. MEDIOCRE Ennio Sangalli - Non è un film perché manca una costruzione filmica. Non è un documentario perché manca l’obiettività e il rigore di un documento. È il risultato di un bisogno (da parte degli autori/genitori) di raccontarsi, più che di raccontare gli altri. Ma non si capisce perché. La carica emotiva fortissima non basta a contrastare il senso di noia su scene eccessivamente lunghe e ripetitive (poteva essere un corto di 30/40 min.) e di inpudicizia morale nella scelta di porre il figlio malato in primo piano. Sicuramente nella realtà ci sono amore e pietà. Nell’opera non si sono visti se non a tratti.