SONO IO - Max Paradiso
Transcript
SONO IO - Max Paradiso
9 771594 123000 50007 Settimanale left avvenimenti Poste italiane spa Sped. abb. post. d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 Dcb Roma anno xxvi - issn 1594-123x 7 MARZO 2015 | NUMERO 8 | SETTIMANALE € 2,00 | 84 PAGINE «SONO IO» Art. 18, Italicum e Giustizia. Berlusconi lo diceva. Renzi lo fa di Giulio Cavalli, Giorgia Furlan, Luca Sappino BANDO DI CONCORSO DELL’ASSOCIAZIONE LUCA COSCIONI BORSA DI STUDIO LIBERTÀ DI RICERCA E DEMOCRAZIA Art. 1 L’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca Scientifica bandisce un concorso per l’assegnazione di una borsa di studio per ricerche su “il rapporto tra libertà della ricerca scientifica e democrazia”. Art. 2 La borsa sarà assegnata, mediante concorso per titoli, a cittadini italiani e stranieri in possesso del titolo di laurea; sarà valutato prioritariamente il titolo di dottore di ricerca, soprattutto se conseguito con tesi di dottorato attinente alle tematiche della borsa. Art. 3 La durata della borsa è di 12 mesi non rinnovabili. La ricerca potrà essere svolta per una durata massima di tre mesi all’estero; per il rimanente periodo dovrà essere condotta in Italia. L’importo della borsa ammonta a Euro 1.000 netti mensili. La borsa sarà sospesa in caso di inadempimento da parte del beneficiario, a insindacabile giudizio dell’Associazione Luca Coscioni. Art. 4 La borsa non è cumulabile con altre borse di studio, con retribuzioni di qualunque natura derivanti dal rapporto di impiego pubblico o privato, né con assegni o sovvenzioni. Art. 5 Per partecipare al concorso i candidati dovranno far pervenire improrogabilmente pena l’esclusione, entro il 31 marzo 2015 alla Associazione Luca Coscioni, via di Torre Argentina 76, Roma a mezzo plico o posta elettronica a info@ associazionelucacoscioni.it; 1) domanda, con firma autografa, in cui siano chiara- mente indicati nome, cognome, indirizzo, codice fiscale, recapito telefonico, indirizzo di posta elettronica del candidato, data e luogo di conseguimento del diploma di laurea ed eventualmente del diploma di dottore di ricerca o titolo equipollente, conseguito in Italia o all’estero, entro la data di scadenza del termine ultimo per la presentazione delle domande di ammissione; 2) curriculum vitae et studiorum; 3) progetto di ricerca che il candidato intende svolgere, con eventuale indicazione di sedi presso cui verrà svolto, del nome e del recapito dei referenti per tali sedi. Il programma di ricerca dovrà eventualmente essere corredato dell’approvazione del responsabile della struttura presso la quale il candidato intende svolgere l’attività. Il vincitore dovrà intrattenere costanti rapporti di comunicazione sullo stato di avanzamento della ricerca con ricercatori ed esponenti dell’Associazione Luca Coscioni indicati dall’Associazione, anche attraverso l’organizzazione di eventi aventi per oggetto il tema della ricerca. Art. 6 La selezione sarà effettuata da una commissione nominata dal Segretario dell’Associazione Luca Coscioni, sentiti il Tesoriere e i Co-Presidenti, e composta da almeno tre esperti. La valutazione avverrà sulla base dei titoli presentati e della congruità del programma di ricerca; i candidati selezionati, ove ritenuto necessario, saranno convocati per colloqui di approfondimento. La commissione stilerà quindi una graduatoria degli idonei. Il giudizio della commissione è insindacabile. Art. 7 Al vincitore sarà data comunicazione del conferimento della borsa di studio a mezzo posta elettronica e telegramma. Entro il termine perentorio di dieci giorni dalla data di ricevimento della comunicazione l’assegnatario dovrà far pervenire alla Associazione Luca Coscioni una dichiarazione di accettazione della borsa di studio senza riserve alle condizioni indicate nell’articolo 4. In caso di rinuncia da parte del vincitore, la borsa di studio potrà essere assegnata al candidato risultato idoneo secondo l’ordine della graduatoria. La borsa di studio dovrà iniziare entro il mese di aprile 2015, salvo diverso accordo tra l’associazione e il vincitore. Il pagamento della borsa sarà effettuato in rate mensili anticipate. Art. 8 Entro 7 mesi dall’inizio della borsa, il beneficiario dovrà trasmettere alla Associazione Luca Coscioni una prima relazione sintetica sui primi 6 mesi di ricerca. Entro sessanta giorni dal termine della borsa il beneficiario dovrà trasmettere alla Associazione Luca Coscioni una particolareggiata relazione sulle ricerche e sulle attività compiute. Art. 9 Le pubblicazioni relative a ricerche svolte nel periodo di fruizione della borsa dovranno indicare chiaramente che il ricercatore disponeva di una Borsa di Studio della Associazione Luca Coscioni IL BANDO SCADE IL 31 MARZO 2015. PER MAGGIORI INFORMAZIONI. www.associazionelucacoscioni.it - www.freedomofresearch.org IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti 7 marzo 2015 3 SOMMARIO COPERTINA 22 Il Cavaliere Matteo Jobs act, Italicum, responsabilità civile dei magistrati: ma se l’avesse fatto Berlusconi? di Luca Sappino 27 Eccitato da Sergio C’è grande feeling tra Renzi e Marchionne. di Checchino Antonini 28 Lasciate lavorare il bullo Arriva Renzi: il linguaggio diventa pop. di Giulio Cavalli e Giorgia Furlan L’intervista 32 In sella contro la mafia Giuseppe Cimarosa, nipote di Messina Denaro: «Vivo di teatro». di Giulio Cavalli CRIMINALITà 36 La bufala è servita. Dai clan La mozzarella fra truffe e camorra. Il punto sulle agromafie con Caselli. di Francesco Maria Borrelli e Raffaele Lupoli POLITICA 42 Alternativa cercasi I fuoriusciti 5Stelle in cerca di un partito. di Ilaria Giupponi InGHILTERRA 46 Elezioni, dizionario sintetico Guida pratica prima del voto di maggio. di Massimo Paradiso 48 Il candidato che sfotte Farage Il comico Al Murray sfida il leader Ukip. di Virginia C.Grieco 4 NUMERO 8 L’ANALISI 50 Iran in fumo Consumo record di droghe e pene severe. di Maziyar Ghiabi SIRIA 54 Damasco ignorata Parla il capo dei non jihadisti Khoja. di Umberto De Giovannangeli NIGERIA 56 Tratti di corruzione La storia di Dotun Oloko, che denuncia i traffici illegali. di Giacomo Zandonini e tavole di Claudia Giuliani SESSUALITà 62 Pillola libera tutti Storia dell’inventore dell’anticoncezionale più famoso del mondo. di Pietro Greco 66 Ribelli alla natura I nuovi orizzonti della fecondazione assistita raccontati da Edoardo Boncinelli. di Simona Maggiorelli 68 Il sesso delle millennial Le serie tv che formano le ragazze. di Giorgia Furlan LETTERATURA 70 A lezione da Pinocchio I maestri irregolari da Collodi a Bergson. di Filippo La Porta Musica 72 A tempo di libertà Incontro con Jovica Jovic. di Tiziana Barillà 03 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti 04 LETTERE 05 EDITORIALE di Ilaria Bonaccorsi 07 BREVI 08 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari 08 IL BUON VIGNAIOLO di Fulvio Fontana 10 #ITALIAVIVA 12 FOTONOTIZIE 16 La maggioranza invisibile di Emanuele Ferragina 17 IL taccuino di Adriano Prosperi 18 il commento di Elisabetta Amalfitano 19 il commento di Giulia Sarti 20 il monologo di Giulio Cavalli e Emmanouil Glezos 44 scuola di Giuseppe Benedetti 45 calcio mancino di Emanuele Santi 74 libri di Filippo La Porta 74 cinema di Daniela Ceselli 75 arte di Simona Maggiorelli 76 buonvivere di Francesco Maria Borrelli 76 Tendenze di Sara Fanelli 77 musica di Ilaria Giupponi 77 startup di Massimo Panico 80 trasformazione di Massimo Fagioli 82 un’altra storia di Monica Catalano 7 marzo 2015 EDITORIALE fatte le dovute precisazioni, direi che è meglio migrare altrove ilaria bonaccorsi Io mi rifiuto di continuare a parlare di uno che fino a qualche giorno fa urlava “chi non salta clandestino è”. Anche perché, dolorosamente, mi ricorda un altro che su un palco simile ma di diversa parte politica, alla fine di una campagna elettorale impegnativa, urlava con la stessa leggerezza “chi non salta bianconero è”. Senza voler fare nessun paragone (di “gravità”) penso però che non ne valga più la pena. Se facciamo il riassunto dell’ennesima settimana in Italia passiamo dall’incubo/rituale delle primarie in Campania alla piazza fascista di Salvini. Con al centro, la richiesta di 44 deputati della nostra Repubblica (molti del Pd) al nostro premier, di agevolare fiscalmente l’accesso alle scuole paritarie (in larga maggioranza cattoliche). Il quadro non è roseo, anzi il quadro non ha colori. È tutto uguale. Perché tutto deve essere uguale. Personalmente non colgo alcun trasformismo, non avevo mai creduto nella forza innovatrice né di Renzi né, più in generale, di questa ondata cattodem, deformazione del vecchio e caro cattocomunismo. L’irriducibile contraddizione di “chi pensa di trasformare il mondo” con “chi crede che il mondo ce l’abbia regalato qualcuno che vive lassù”, non è sanabile e produce mostri. Lo scriveva l’antropologa Amalia Signorelli qualche tempo fa, se si ha l’idea di una verità rivelata (o di un mondo creato e regalato) non si trasformerà mai nulla, né il mondo né gli esseri umani che lo popolano. E allora va bene tutto. Va bene che scuole pubbliche e private abbiano gli stessi diritti, va bene che Salvini e i 44 deputati (molti Pd, lo ripeto) citino insieme sia Gramsci che don Milani, va bene che a vincere delle primarie Pd ci sia un indagato, va bene che in tv qualcuno possa urlare a una donna sinti che “è la feccia della società”, va bene continuare a ingoiare punizioni e promozioni da quest’Europa. E va bene anche che Matteo Renzi renda felici Alfano e Sacconi agitando lo specchietto di un governo di centrosinistra. Io non colgo nessun trasformismo, sono tutti esattamente quelli che sono. Quindi, fatte le dovute precisazioni, direi che è meglio accantonare il peggio. E migrare altrove. Anche lontano. Lunedì scorso Saverio Tommasi ha salutato Pepe Mujica, oramai ex presidente dell’Uruguay, e ha 7 marzo 2015 scritto così: «Un giorno, caro Presidente, ho sentito dire che le belle persone come lei non nascono più. Io non ci credo. Io credo invece che nascano di continuo e che ogni bambino sia come lei. E mi creda, questo è il più bel complimento che mi viene in mente. Arrivederci». Voglio dire a Saverio Tommasi che anche a me sembra il più bel complimento che possa venire in mente. Luigi Pirandello ne I Giganti della montagna diceva: «È il libero avvento di ogni nascita necessaria. Al più al più noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita». La nascita è necessaria. E di continuo nascono belle persone e Pepe Mujica è come ogni bambino, ha ragione Saverio Tommasi. Non c’è fascista o razzista che tenga. Non c’è prassi politica o cultura cattodem che possa impedirlo. Sta a noi dirlo, andarcene e raccontarvi altro. Debellare il virus e farvi capire che una cattiva politica è figlia di una cattiva cultura, quella che costringe a credere non tanto in Tina (There Is No Alternative) quanto che l’alternativa è semplicissima, essenziale, e non ha bisogno della vostra partecipazione per essere realizzata. È un atteggiamento culturale che inevitabilmente diventa politico. Di prassi politica che esclude i molti. Che ha fastidio dei tanti. Bianchi o neri, diversi o simili. Sono sempre troppi. Saluto anche io Pepe Mujica e i suoi cinque meravigliosi anni in cui ha, per esempio, triplicato gli investimenti sulla scuola. Perché come ha detto una volta: «Ci hanno educato in un mondo cristiano che diceva che questa è una valle di lacrime, e che solo dopo incontreremo un paradiso. Ma per favore! Il mondo non può essere una valle di lacrime, il paradiso è questo e ognuno se lo deve costruire “socialmente”. L’affermazione biblica “nato senza camicia”, se la prendi alla lettera è un’assurdità. Bisogna vivere per le cose importanti: gli amici, la persona che ami, i figli. Tutto il resto è superfluo. Bisogna tenersi “il tempo” per vivere. Si deve insegnare a vivere la vita appieno, con onestà e facendo “comunità”, circondandosi di persone che lo vogliono veramente». Bello no? I risultati? L’indice di disoccupazione è sceso al 6%; i salari sono in aumento; il Pil è cresciuto del 6%, in meno di dieci anni e il tasso di povertà è diminuito dal 39% al 6%. In Uruguay. 5 Lettere Direttore responsabile Ilaria Bonaccorsi [email protected] redazione Tiziana Barillà [email protected] Donatella Coccoli [email protected] Giorgia Furlan [email protected] Ilaria Giupponi [email protected] Raffaele Lupoli [email protected] Simona Maggiorelli [email protected] Alessio Ruta (responsabile web) [email protected] Luca Sappino [email protected] progetto grafico CatoniAssociati via Metastasio 50124 Firenze Direttore creativo Francesco Leonini Art director Marco Michelini Photoeditor Monica Di Brigida editoriale novanta srl Via Ludovico di Savoia 2/B redazione Via Ludovico di Savoia 2B 00185 - Roma [email protected] abbonamenti [email protected] stampa Puntoweb Srl Via Variante di Cancelliera snc 00040 - Ariccia (RM) Distribuzione Pressdì Mondadori Segrate (Mi) Registrazione al Tribunale di Roma n. 357/88 del 13/6/88 Copertina: Illustrazione di Antonio Pronostico 6 Io odio l’8 marzo Io odio l’8 marzo. Dico sul serio, lo odio. Profondamente. Lo odio col suo carico di carovane di donne in libera uscita, lo odio con le sue mimose di plastica su scatole di cioccolatini, con quelle comprate a prezzo folle da fiorai. Odio l’8 marzo con le sue celebrazioni settarie, le sue omissioni legislative durante tutto l’anno, gli organismi di partito ghettizzanti, usati solo come bacino di voti all’occorrenza. Odio l’8 marzo che lava la coscienza ad uomini distanti, violenti o solo semplicemente ignavi che lo usano come viatico per sentirsi bravi e solidali un giorno all’anno. Odio l’8 marzo festeggiato solo dalle donne. Lo vorrei festeggiato dagli uomini, da tutti gli esseri umani. Vorrei una festa dell’Umanità, dell’essere solidali, del non prevaricarsi, del rispetto, dell’uguaglianza, sempre. Odio l’8 marzo usato dal marketing di aziende che poi sbattono cosce e tette in prima pagina gli altri 364 giorni per vendere cose. Odio l’8 marzo di ragazzine ormai ignare di quello che significa, di mamme che se ne sono dimenticate o che non l’hanno mai saputo. Odio l’8 marzo delle donne senza ironia, coscienza di sé, di donne che non sanno accettarsi con indulgenza e fuori da schemi imposti. L’8 marzo di donne realizzate solo su tacchi 12 che si costringono da sole in una immagine che, alla fine, le imprigiona e frustra. Odio l’8 marzo di “50 sfumature di grigio” al cinema una sera , e di rosso sangue versato di tante tutto l’anno. Odio l’8 marzo di donne ancora con sensi di colpa, l’8 marzo di mamme che non possono lavorare perché costa di più farlo che stare a casa. Odio l’8 marzo del dover scegliere ancora fra casa e famiglia, di una economia in cui il lavoro per le donne è un lusso in più. L’8 marzo di bambine tutte uguali allevate a telefilm, portate dalle estetiste anche alle elementari da mamme cresciute con programmi che annacquano il cervello. Odio l’8 marzo lettere @ left.it con mimose di cui non si sa più né la storia né la provenienza. Lo amerei, invece, l’8 marzo, come l’amavo... e tanto. Amerei l’8 marzo del ricordo, per esempio. L’8 marzo di una ragazza italiana, Teresa Mattei che ha scelto lei, la mimosa, come simbolo di questa giornata. Giornata di celebrazione, non di “festa”. La mimosa perché fiore semplice, spontaneo, disponibile per tutti. Amerei l’8 marzo del ricordo di questa ragazza degli anni Venti, che a 17 anni si fece espellere da tutte le scuole del Regno per non assistere alle lezioni sulla difesa della razza, per esempio. Amerei l’8 marzo del ricordo di questa ragazza ex partigiana che, poco più che ventenne, scrisse l’articolo 3 della nostra Costituzione, quello sull’Uguaglianza... di tutti noi, di tutti i cittadini. Vorrei amarlo, insomma, questo giorno, tornare a farlo. Come tutte le cose amate alla follia che quando ti deludono e vedi trasformarsi in altro ti fanno soffrire di più, come un amore tradito e perso. Proviamo con il 9 allora e poi con il 10, l’11 e via via andiamo avanti ogni giorno, provando ad amare questi giorni, uno dopo l’altro con una consapevolezza che non celebra ma agisce e “fa”, insieme. Magari, cosi, accade che arriviamo ad un prossimo 8 marzo. Quello dell’anno giusto. Quello in cui ci apparirà, celebrandolo, prima di tutto proprio l’immagine di questa ragazza italiana, di Teresa Mattei che scrive a vent’anni questa nostra bistrattata Costituzione. L’immagine di una donna italiana coraggiosa e appassionata che scrive di uguaglianza e di diritti. Che ne scrive fiduciosa, in tempi non lontani ma che ora sembrano secoli, mentre tiene una mimosa appena colta stretta, stretta forte fra le mani. Milene Mucci Errata corrige. Nell’ultimo numero di Left è stata pubblicata la foto di Roberto Reggi al posto di quella di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute. Ce ne scusiamo con i diretti interessati e con i lettori. Chiuso in tipografia il 3 marzo 2015 BREVI UP la data 9 MARZO 1959 Debutta nelle vite delle bimbe Barbie, la fashion doll lanciata dalla Mattel. È l’inizio di bambole che rappresentano donne anziché neonati, nonché di un’infanzia truccata da adulta. Da allora ne sono state vendute oltre un miliardo, tre al secondo. Trucco pesante, tacchi, senso prorompente su corpo esile e vitino da vespa, Barbie diventa modello nel bene e soprattutto nel male: la bambola viene successivamente modificata nell’aspetto in quanto istigatrice di criteri di bellezza deviati come l’anoressia. Non va meglio sul versante intellettuale: il suo nome diventa sinonimo dispregiativo di ragazza di bell’aspetto ma priva di spessore e sostanzialmente stupida. Non solo: viene anche accusata di contenere sostanze tossiche - accusa che molti uomini riservano alle loro mogli anche nella vita reale. Proprio per avvicinarla alla realtà, Mattel inventa una biografia, che porterà nel 2004 Barbara Stefania Roberts a candidarsi alle presidenziali col Partito delle Ragazze con tanto di programma elettorale. Barbie è stata inventata da una donna. 7 marzo 2015 La “tana” dell'Hiv Scoperte le tane dove si nasconde l’Hiv, i bunker genetici in cui il virus dell’aids può rimanere indisturbato. A farlo sono stati i ricercatori dell’Icgeb (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology) di Trieste, guidati da Mauro Giacca. Su Nature si spiega come il virus “entri” nella cellula e si nasconda nella membrana esterna al nucleo confondendo il proprio Dna con quello delle cellule che infetta. Ma adesso, una volta “smascherato”, sarà più facile colpirlo con la terapia farmacologica. DOWN Formigli e il ring in tv «Rom feccia della società», grida Gianluca Buonanno. Che l’eurodeputato leghista non fosse un liberal con un pensiero rispettoso dei diritti civili si sapeva. Ma stupisce che un giornalista come Corrado Formigli abbia permesso che Piazzapulita si trasformasse in un ring con una unica vittima sacrificale. Diana Pavlovic, attrice, rappresentante della cultura Rom, è stata attaccata più volte dall’esponente padano, tra gli applausi del pubblico. Non basta che Formigli si sia dissociato. Forse avrebbe dovuto invitare Buonanno ad andarsene, perché di sicuro quella non era informazione. IL NUMERO 100 È il numero dei detenuti che per sei mesi lavoreranno all’Expo di Milano. Nello specifico: 35 del carcere di Opera, 35 da quello di Bollate, 10 da Monza e altre 20 persone attualmente affidate agli Uffici di esecuzione penale esterna. Grazie a un accordo fra il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria (Prap) di Milano e la società Expo spa, i 100 uomini verranno assunti per svolgere le mansioni più disparate, dal facchinaggio all’accoglienza, durante tutto il periodo della fiera. E, come previsto dalla legge 354 del 1975, verranno pagati un terzo rispetto ai contratti collettivi nazionali. In programma anche l’organizzazione di un convegno, sempre nella vetrina dell’Expo, sul tema dell’inclusione sociale a cui parteciperà il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Dunque, cibo da tutte le parti del mondo ma anche, possibilmente, «pari diritti per tutti», ha dichiarato la presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro. LA PAROLA GIUSTA Serietà Necessaria dopo le primarie di Liguria e Campania. Denunce, accuse di brogli, spostamenti di pacchetti di voti, ricorsi alle commissioni di garanzia e soprattutto disincanto di moltissimi cittadini. A 10 anni dall’introduzione di questo strumento partecipativo, occorre una riflessione sui meccanismi del suo utilizzo. Le primarie, da grande occasione di confronto politico, di partecipazione e scelta dal basso, stanno diventando sempre più fenomeno con cui i grandi interessi riescono a intervenire nei partiti, condizionandoli. La vita democratica interna ai partiti va regolata attraverso un’apposita norma che introduca elementi di garanzia nei criteri per le candidature, nella fase di accreditamento dei votanti come nello scrutinio. Senza regole, primarie e congressi diventano prove di forza che non hanno nulla a che vedere con quella delle proposte e del confronto. Garantire ai cittadini spazi partecipativi sempre più ampi è questione fondamentale e allo stesso tempo delicata che non può essere affrontata con superficialità. Ecco perché, aldilà di vincitori e sconfitti, occorre indubbiamente serietà. Filippo Treiani 7 PICCOLE RIVOLUZIONI Popolo di alluvionati di PAOLO CACCIARI Sono i cittadini che vediamo apparire in televisione con pale, stivali e sacchetti di sabbia il giorno delle esondazioni e di cui poi nessuno si occupa più È ufficiale: Nasa e Noaa hanno confermato che il 2014 è stato l’anno più caldo da quando sono iniziate le misurazioni scientifiche globali. E non poteva essere diversamente. Le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera continuano a crescere; quest’anno raggiungeranno la soglia media globale delle 400 parti per milione. Per trovare una composizione chimica simile bisogna risalire a 4 o 5 milioni di anni fa, quando le temperature erano molto più elevate e i mari almeno 20 metri più alti. La mappa dell’agenzia americana Noaa indica l’Europa e il Mediterraneo tra le aree più calde del pianeta. Conseguenza ovvia la tropicalizzazione del clima. La maggiore energia accelera il ciclo dell’acqua provocando sempre più frequenti nubifragi, bufere, tempeste, trombe d’aria e le devastanti “bombe d’acqua”. A ciò aggiungiamo abbandono rurale, incuria, impermeabilizzazione dei terreni e otteniamo il generalizzato dissesto idrogeologico italiano: alluvioni e frane. Maltempo e malpaese alleati provocano ad ogni cambio di stagione vittime e danni enormi. In attesa dell’unica “grande opera” che servirebbe all’Italia – un piano organico e dettagliato per bacini fluviali di messa in sicurezza degli argini, dei dirupi e delle coste – le popolazioni colpite dai ricorrenti disastri ambientali, riunite in svariati comitati e associazioni, non si sono scoraggiate e hanno avuto la forza di mettersi assieme e dare vita ad una Rete nazionale delle comunità dei fiumi denominata: “Mai più bombe d’acqua e disastri ambientali nelle aree a rischio idrogeologico” (http://maipiu.eu/). Sono i cittadini che vediamo apparire in televisione con pale, stivali e sacchetti di sabbia il giorno delle esondazioni e di cui poi nessuno si occupa più. Sono i plurialluvionati del fiume Magra a Spezia e Massa Carrara, del Calore in Irpinia, del fiume Secchia nel modenese, delle Terre Joniche, dell’Isola d’Elba, di Genova, della Sardegna, della Sicilia, dell’Emilia Romagna, del Veneto. Devono battersi per ottenere le opere di presidio più urgenti, per riscuotere qualche euro di risarcimento, per dare la sveglia a Comuni, Autorità di bacino, Regioni, Governo per la applicazione della Direttiva europea 2007/60 sui rischi idraulici. Ad essi si sono aggiunti anche i Cittadini per la memoria del Vajont. La più grande testimonianza di ciò a cui conduce l’avidità umana. IL BUON VIGNAIOLO di Fulvio Fontana 8 7 marzo 2015 IO SONO BASTARDO Il vecchio e il Palazzo Seduto sopra un muretto su un'isola, in vista del mare più in basso, un vecchio marinaio sta, col coltello, affilando un pezzo di legno. Il sole è quello del tardo inverno. E le parole borbottate sono quelle della fine della sua vita. L'incazzatura quella di sempre. Ne ha viste di cose. Ottantotto anni e le mani ancora non tremano, il passo è deciso e diritto lo sterno. La schiena non si è mai piegata. Ne ha viste di cose. Ducetti del cazzo appesi e sopravvissuti. Parvenu e lacché di mestiere. Gente che poi si compra un'azienda, ce la regalano, o un giornale e “sdottora sta minchia!”, come dicono certi amici. Quanto ha riso alle battute all'osteria con quegli amici di sempre, mentre le carte che battono sul tavolo lo striscio e il busso e il rumore del mare si confondono. “C'ha talmente la lingua infilata nel culo del premier che ci titilla le tonsille!”, minchia le risate. “È talmente zocchina che le ginocchia piatte si sono fatte!” e intanto quegli amici se ne sono andati. Chi di malattie troppo co- stose per essere curate. Chi di pensione corta perché, a rovistare nella spazzatura, la vita si fa insopportabile. Chi perché ha dovuto chiudere l'azienda. Francesco, il nipotino che va in una scuola che i muri cadono a pezzi. Mentre quelli a Roma mangiano. Per lui lo fa. Piglia il traghetto, poi il treno, poi arriva al Palazzo. E quel paletto appuntito che prepara con tanto amore, nel cuore ce lo pianta a quei vampiri. Perché un uomo deve onorare il nome che porta. Bresci mi chiamarono. E Bresci sono. di Bebo Storti EPICA FILATELICA Questa settimana dedichiamo il francobollo a un personaggio fuori contesto della storia della canzone italiana: Piero Ciampi, livornese, comunista, anarchico. Uno che non si considerava ricco perché non poteva avere contemporaneamente una frittata di cipolla, un bicchiere di vino, un caffè caldo e un taxi alla porta. E non si sentiva povero perché rispetto all’ultimo dei miserabili aveva qualcosa in più: la poesia. Ciampi era uno fragile, perennemente incazzato, dal vaffanculo facile. Uno che sembrava rincorrere la sorte beffarda. Quando l’occasione buona bussava alla sua porta, Piero era sempre chissà dove, non lo si trovava mai. Poteva essere ovunque, a Parigi o in Spagna, a Genova o a Milano, in Giappone o ubriaco sul muretto di un vicolo qualsiasi di Livorno. Uno di quei vicoli che ancor oggi portano il nome delle donne che lì professavano il mestiere. Nella sua vita, Ciampi amò Livorno, due donne e il vino. Litigava con tutti. Spesso non finiva neanche la prima canzone che aveva litigato con il gestore o con il pubblico del baraccio di turno. Questo lo portò ad autodefinirsi «il cantante più pagato di sempre: Duemilafranchi per mezza canzone!». Ma il rissoso Piero aveva «tutte le 7 marzo 2015 carte in regola per essere un artista», e lo sapeva al punto da autocelebrarsi in una canzone. Le donne lo abbandonarono, la poesia non gli permise mai di sostentarsi. Alla Rai erano costretti a passare le sue apparizioni in orari improponibili a causa del suo evidente stato di ebrezza. Storica la sua rissa con Califano, colpevole di non avergli offerto da bere nel suo club romano. Piero era evitato da quasi tutti i suoi colleghi e a lui questa cosa sembra non dispiacesse troppo. Piero Ciampi, va detto, non era un codardo, era un coraggioso disposto a salire su un palco e mettersi in discussione ogni volta un po’ di più. Noi epici filatelici millantastorie lo vogliamo ricordare in modo semplice ed estroso come la sua ultima apparizione al Premio Tenco, quando arrivò barcollando gonfio di vino sul palco, litigò col pubblico che lo fischiò e lui lo zittì a modo suo, con un misto di compostezza e violenza. Poi, portò a termine la sua interpretazione: fece un passo indietro, un sorriso e un inchino. L’anno dopo non si presentò, mandando un telegramma lapidario: «Non sono potuto venire». Piero Ciampi lo ricordiamo con la stessa semplicità che si trova in un buon bicchiere di vino. illustrazione di Antonio Pronostico e testo di Saro “Poppy” Lanucara 9 #ITALIAVIVA di RAFFAELE LUPOLI «Subito lo “scatto libero” in archivi e biblioteche» Queste pagine di Left ospitano le proposte dei lettori dai territori. Segnalateci vertenze, iniziative, foto e soprattutto buone notizie a [email protected] o condividetele sui social network con l’hashtag #italiaviva. 10 Il selfie al museo con l’opera d’arte o il reperto antico sì, ma la foto al libro per scopi di studio e ricerca non la puoi fare. Sono le stranezze della recente legislazione italiana sui beni culturali: il decreto “Art bonus”, in vigore da giugno 2014 e adesso in sede di conversione in legge - complice l’intervento della solita “manina” - ha escluso dalla sua applicazione la libera riproduzione di beni archivistici e bibliografici (cioè i documenti d’archivio e i volumi storici). Un archeologo e archivista 31enne, Mirco Modolo, ha deciso di mettersi di traverso e sottoporre la questione al mondo accademico e della cultura in generale. «Dopo l’approvazione dell’emendamento restrittivo - racconta - assieme ad Andrea Brugnoli, medievista che ha reso disponibile online tutta la documentazione veronese tra VIII e XII secolo, ci è parso necessario attivarci per ottenere il ripristino del dettato originario dell’Art bonus». Così è nato “Fotografie libere per i beni culturali”, movimento a favore della riproduzione libera e gratuita delle fonti documentarie in archivi e biblioteche per finalità di ricerca, ed è partita un lento ma costante lavoro di coinvolgimento di personalità di spicco e semplici cittadini, un coro di oltre 1.500 voci che «chiede di mettere una toppa a quello che alcuni degli stessi deputati del Pd firmatari dell’emendamento in questione hanno definito “uno scivolone da superare”». Per Modolo è una battaglia allo stesso tempo di principio e di svecchiamento del concetto di conservazione, che deve essere aperta alla libera ricerca e alla valorizzazione scientifica del patrimonio documentario. «Chi si oppone alla libera riproduzione con mezzi propri deve spiegarci perché un documento accessibile in via ordinaria alla consultazione, quindi non parliamo di testi di particolare rarità e pregio, dovrebbe correre maggiori rischi se fotografato a distanza con smartphone o fotocamera», aggiunge l'archeologo. «Semmai è vero il contrario: effettuate le riproduzioni, i ricercatori non dovranno più manipolare il testo, che correrà così meno rischi». Il dubbio è che questo sistema possa mettere in discussione il monopolio delle riproduzioni in mano a pochi privati. L’appello si può sottoscrivere su fotoliberebbcc.wordpress.com. Enzo.Infantino - Probabilmente unico caso in Italia: da oggi a Palmi ci sono due assessori ai lavori pubblici. Uno, Melara, ha la delega per lavori per un importo fino a 100mila euro; l’altro, Pace, ha la delega per lavori superiori a 100mila euro. Un altro “capolavoro” del sindaco pro tempore. Un “grande”. @elmorisco - Vince il candidato condannato. Come negli ultimi 20 anni. #hashtagradio1 #DeLuca 7 marzo 2015 #ITALIAVIVA RAGUSA Trekking “no triv” per salvare il fiume Il primo marzo, a Ragusa, 500 persone hanno partecipato al trekking contro le trivellazioni della società Irminio lungo il fiume omonimo. Percorrendo diversi chilometri lungo le strade e i sentieri della valle, attraversando l’area in cui sono previste le trivellazioni e costeggiando il fiume Irminio. Un modo creativo per denunciare lo scempio che causerebbe un ipotetico sversamento di petrolio alla riserva naturale che circonda il corso d’acqua. SALINE JONICHE La centrale a carbone non piace (anche) al Tar MILANO Territori reattivi a Fa’ la cosa giusta La centrale a carbone di Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria, non si farà perché l’iter autorizzativo era viziato da irregolarità e forzature. Lo dicono le associazioni ambientaliste riferendo della decisione del Tar del Lazio che ha accettato il ricorso contro il decreto della presidenza del Consiglio e la Valutazione d’impatto ambientale. Il ricorso era stato presentato a fine 2012 da Legambiente, Greenpeace, Wwf, Lipu, e poi unificato a quello di Regione e altre associazioni. Ora l’invito al ministero dello Sviluppo economico: prenda atto della sentenza e chiuda con un “no” definitivo la conferenza dei servizi. Dal 13 al 15 marzo, a Fa’ la cosa giusta!, la fiera milanese del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, si parlerà anche di iniziative di tutela del territorio. Cittadini Reattivi organizza l’incontro “Re-Action! Azioni d’impatto civiche e civili per il cambiamento”, che metterà a confronto le iniziative organizzate da alcuni comitati di cittadini che vivono nelle aree più contaminate della Lombardia e che si sono battuti per la partecipazione civica e costruttiva a tutela del diritto alla salute e a un ambiente pulito: www.falacosagiusta.it TARANTO TRIESTE Solidarietà all’attivista Olio capitale sfida la crisi gay aggredito Alla faccia della crisi del settore e della produzione praticamente dimezzata, l’extravergine italiano si ritrova dal 7 al 10 marzo a Trieste per la fiera Olio Capitale, salone degli oli tipici e di qualità. Giunta alla nona edizione, l’unica manifestazione in Italia dedicata interamente all’olio vedrà presenti espositori da tutta Italie e da Paesi produttori come Spagna, Portogallo, Croazia e Israele. 7 marzo 2015 Luigi Pignatelli, presidente di Arcigay Taranto, è stato aggredito da un gruppo di giovani nel pomeriggio del 28 febbraio, a margine di un incontro presso il Cantiere Maggese sulla cprevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. «Mi era già accaduto, ma stavolta mi hanno accusato di essere pedofilo perché facevo attività con i ragazzi», ha spiegato Pignatelli a Gay.it. 11 FOTONOTIZIA RUSSIA/UCCISA L’OPPOSIZIONE «Ogni volta che le telefono, mia madre mi rimprovera: “Quando la smetterai di parlare male di Putin? Guarda che quello ti ammazza!”» Sapeva di rischiare, facendo continua e fervente opposizione, l’ex vicepremier di Boris Eltsin Boris Nemtsov, assassinato a colpi di pistola nei pressi del Cremlino la notte del 27 febbraio. Migliaia e migliaia di persone hanno marciato per le strade di Mosca in sua memoria Cordoglio di massa anche durante i funerali, in cui l’amico e compagno di opposizione al Cremlino, Gennady Gudkov, ha ribadito: «I colpi non sono stati sparati solo contro Nemtsov, ma contro tutti noi, contro la democrazia in Russia». Nemtsov sarà sepolto al cimitero Troyekurovskoye, dove riposa anche Anna Politkovskaya, a sua volta assassinata il 7 ottobre del 2006. Assenti ai funerali Vladimir Putin e il premier Dmitri Medvedev. FOTO Di: SERGEI ILNITSKY/EPA FOTONOTIZIA INDIA/ COLORI SACRI Uomini hindu nel villaggio di Nandgaon si spruzzano a vicenda polvere colorata come vuole il gioco sacro, durante i festeggiamenti per l’Holi, la Festa dei colori che celebra la fine dell’inverno e la vittoria del Bene sul Male. Il sacro festival di Lathmar Holi, ha luogo nel leggendario villaggio di Barsana (115 chilometri da Nuova Delhi), madrepatria della dea Radha, sposa del dio hindù, Krishna (India, 27 febbraio 2015). Durante la festività, le donne colpiscono gli uomini con dei bastoni di legno, i lathis, per emulare e rievocare la difesa dall’oltraggio recato, secondo la tradizione, alla dea. FOTO Di: Saurabh Das/AP Photo EDITORIALI La maggioranza invisibile Abbiamo raschiato il barile Per una modernità compressa DI EManuele Ferragina «Abbiamo speso 30 anni con l’ossessione di diventare come i Paesi occidentali, ora siamo ricchi anche più di voi, ma non sappiamo che farcene». Fa un certo effetto ascoltare queste parole a Seoul, mentre cammini lungo i sentieri di una montagna, un’oasi in una metropoli con oltre venti milioni di abitanti. Chang Kyung-Sup è un uomo sulla sessantina, professore di sociologia all’Università Nazionale di Seoul, dopo un dottorato a Brown negli Stati Uniti. Uno che invece che enfatizzare le classifiche scalate dal suo Paese, ha speso l’intera carriera a interrogarsi sugli effetti di quella che ha definito “modernità compressa”, il percorso della Corea verso la modernità in solo trent’anni. Il mio incontro con la modernità compressa precede questo viaggio. Era il 2008 e avevo da poco iniziato il mio dottorato, quando leggendo Ulrick Beck mi ero imbattuto in una menzione del lavoro di Chang Kyung-Sup: Compressed Modernity and its Discontents. La sua teoria parlava a tutto il mondo sviluppato e non solo a quel Paese assurdamente diviso. Diedi l’articolo alla mia compagna di dottorato coreana. E così, sette anni dopo, Sophia dopo avermi invitato a parlare della Maggioranza invisibile nell’università di Seoul mi dice che ha un regalo per me. Un pomeriggio con l’accademico più interessante del suo Paese. Mentre i grattaceli di Seoul si fanno sempre più piccoli, Chang Kyung-Sup mi parla del legame indissolubile tra sviluppo e confucianesimo e di quanto crescere senza un obiettivo, e così in fretta, possa ledere le fondamenta di una società. Una cosa mi ha colpito: l’attore principale nella sua teoria è sempre la famiglia, unica ricchezza per i coreani, che non hanno però sostenuto con politiche sociali adeguate. La famiglia con donne impegnate prima nel lavoro di cura e l’educazione dei figli e poi, quando questi raggiungevano un’età adeguata, il loro ritorno al lavoro, prima in 16 fabbrica e poi nei servizi, oggi è esausta. Da questa stanchezza deriverebbero secondo Chang Kyung-Sup i bassissimi tassi di fertilità e i più alti tassi di suicidio nel mondo sviluppato. Tornando da Seoul, mi appare chiaro come anche noi abbiamo vissuto una storia per molti versi analoga. Durante il processo di modernizzazione, e ora nella crisi, è sempre la famiglia ad ammortizzare i costi. Il lavoro di cura delle donne mentre l’uomo andava in fabbrica nel dopoguerra, e oggi i risparmi che tengono in piedi i figli, che non hanno uno straccio di lavoro. Ci siamo confrontati con una modernità “meno compressa” di quella coreana, ma una crescita pur sempre veloce, ha mostrato tutte le sue falle. Benessere materiale senza idea di sviluppo. Dopo aver esaurito tutte le energie della famiglia, e averla messa al centro di ogni interazione sociale, ci troviamo spaesati da una progressiva “perdita di valori”. Difficile riconoscere che mentre questo accadeva ci siamo appoggiati all’unica istituzione solida del nostro Paese, perché Stato e mercato non hanno mai funzionato. Non è “la funzione naturale” della famiglia che abbiamo tutelato in questi anni, ma su di essa, e sulle donne in particolare, abbiamo scaricato i costi della corsa verso la modernità. Per questa ragione, è solo andando alla ricerca di una nuova visione di sviluppo che ridaremo dignità alla famiglia. La famiglia come nucleo costituito da due o più persone che vivono insieme, non certo quella “naturale”. Così la vista di Seoul si trasforma in una panoramica sul futuro del capitalismo e del nostro Paese. Abbiamo raschiato il barile, lo abbiamo fatto per una modernità compressa fatta di consumo e benessere materiale. Viene da chiedersi se il futuro non stia proprio nella capacità di decostruire quest’equazione perversa, e di riabbracciare una visione di sviluppo compatibile con i ritmi di tutti gli individui. Il futuro sta nel riabbracciare una visione di sviluppo compatibile con i ritmi di tutti gli individui 7 marzo 2015 EDITORIALI Il dato evidente della crisi? Il frammentarsi della Ue Il taccuino Quando Yanis Varoufakis si recò in Germania nelle sue vesti di ministro greco delle Finanze, il quotidiano Die Welt lo presentò così: «Varoufakis, il comunista libertario, viene in Germania come per un combattimento di cani. Con la camicia fuori dai calzoni, il colletto della camicia aperto... Cerca la vittoria - soprattutto sulla Germania. Nessuno se la farà addosso a causa di questo ruffiano accademico». A poche ore dall’incontro di Bruxelles, sui giornali tedeschi si sono lette messe in guardia dal “cavallo di Troia” e dall’ “inganno greco”. Nemmeno ai mondiali di calcio l’aggressività tedesca ha mai trovato toni così forti. Lo scontro era tra il campione tedesco, Schäuble, e il ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis. Un esempio “Così Schåuble metterà in ginocchio Tsipras” sulla Welt del 20 febbraio. O anche: «Schåuble sa quale sia la lingua che Atene capisce». E la Bild si poneva una domanda significativa: Sono più pericolosi i russi o i greci? Passa la giornata di venerdì e Die Welt diventa il pollice verso dell’imperatore sullo schiavo vinto nell’arena: quel ministro delle Finanze a cui piace recitare la parte del ribelle, con la sua giacca di cuoio e la camicia fuori dai calzoni ora è vinto, indebolito. La sua frase “Da oggi siamo padroni del nostro destino” è citata con ironia. Sarebbe lungo elencare gli insulti che i media tedeschi hanno rovesciato sui diversi partners per poter capire di quanti e quali veleni si sia caricata l’atmosfera europea. Del resto, si tratta di insulti scambievoli. Tutti hanno visto di recente anche su giornali italiani la vignetta greca di Schåuble in divisa di SS nazista. E l’Italia non sfugge a questo gioco al massacro. Intanto assistiamo al generalizzarsi di uno scontro che ha al centro il caso della Grecia. Se Tsipras accusa Portogallo e Spagna di mancata alleanza in Europa (e sullo sfondo c’è l’ombra dell’Italia di I media tedeschi scatenati contro Varoufakis. Si vive come in un condominio: il vicino cessa di essere visto come un essere umano appena si deve fare il conto delle spese 7 marzo 2015 Renzi), Mariano Rajoy reagisce pubblicamente con grande violenza per la paura dell’avanzata di Podemos. Si vive come in un condominio: il vicino cessa di essere visto come un essere umano appena si deve fare il conto delle spese. Ma c’è una conclusione politica da ricavare dallo stato delle cose. L’Europa dell’euro e delle banche non è diventata una realtà unitaria nella formazione di una sua volontà politica. La guerra che vi si combatte col rubinetto delle finanze non è meno micidiale di quella delle bombe. E questo è il segno evidente del fallimento in cui la vittoria del liberismo selvaggio e dell’Europa delle banche ha trascinato quella rinascita di un’Europa pacifica e solidale che fu sognata sulle rovine della Seconda guerra mondiale. Dietro questa tempesta di parolacce c’è il dramma della disoccupazione giovanile e della devastazione dei rapporti sociali che ha raggiunto in Grecia la sua punta massima ma che non risparmia l’Italia. Da noi i dati Istat parlano di quasi metà della popolazione giovanile senza lavoro (41%). Ma non dicono quanto sia precaria e senza diritti la qualità del lavoro che viene offerto alla cosiddetta “generazione Y”, i primi esseri umani a non aver mai vissuto in un mondo senza internet: se ci riescono, avranno quei contratti a tempo definito o quelle “esperienze lavorative” che sono, ha scritto Zygmunt Bauman, «scaltri espedienti di evasione e di crudele, spietato sfruttamento» (Z.Bauman C.Bordoni, Stato di crisi, Einaudi). Così, mentre l’Italia di Renzi riscuote l’approvazione di quella troika che Yanis Varoufakis ha messo alla porta in Grecia, sarebbe importante cominciare a riflettere anche da noi sulla “Modesta proposta” di Yanis Varoufakis, Stuart Holland e James K. Galbraith, una riflessione che parte proprio dal dato più evidente della crisi, il frammentarsi dell’Unione europea. di adriano prosperi 17 EDITORIALI Scuole private e pubbliche? Fondamentale distinguere è ormai chiaro che la scuola pubblica è sotto pesante attacco nel nostro Paese. Se la riforma della “buona scuola” non aveva affatto un sapore di “buono” per chi la scuola la vive, la conosce e la ama, con le ultime notizie, che hanno bloccato l’iter della riforma, l’amaro in bocca aumenta e i mal di pancia pure. Il decreto legge sulla scuola si è trasformato nel giro di una notte in un disegno di legge, lasciando “basita” la stessa ministra Giannini. L’assenza di trasparenza e chiarezza caratterizzava una riforma così importante e ora la offusca in un clima da giallo poliziesco. E la preoccupazione sale. Sale perché, oltre a esserci in ballo quei famosi 160mila posti che i precari stanno aspettando ormai da anni - anche se ancora nessuno ha davvero capito come e dove saranno reclutati e che cosa saranno chiamati a fare -, si moltiplicano le voci dell’ennesimo regalo che verrà offerto alle scuole private cattoliche. Già sapevamo che la “buona scuola” avrebbe contenuto sgravi fiscali per le famiglie che iscrivano i propri figli alle scuole private, ma evidentemente non è bastato. «Vogliamo coinvolgere maggioranza e opposizioni nello spirito delle recenti dichiarazioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella», ha detto Matteo Renzi spiegando il motivo della retromarcia. E allora forse cominciamo ad assemblare i pezzi e a far chiarezza nel thriller. Un folto gruppo di parlamentari, che sostengono il governo, ha infatti scritto una lettera al Presidente del Consiglio chiedendo che si cessi di discriminare le scuole private e di pensare che “scuola pubblica” sia sinonimo di “scuola statale”. L’obiettivo allora non è più soltanto quello di eliminare 18 il precariato - cosa che è imposta all’Italia dal Parlamento di Strasburgo -, ma di eliminare la stessa distinzione scuola privata/scuola pubblica. Luigi Berlinguer, sì il ministro a cui dobbiamo il primo colpo inferto a questa distinzione, sulle pagine di Repubblica di martedì scorso afferma che ciò significa allineare l’Italia al resto d’Europa. Ma in un Paese mono religioso come il nostro, dove il peso del Vaticano e della Chiesa cattolica si fanno sentire fin nelle nostre camere da letto e di ospedale, è di una gravità inaudita lasciare l’istruzione, l’educazione, la formazione degli individui nelle mani dei religiosi. La Francia e l’Olanda sono Paesi assolutamente laici. Come si può pensare che i luoghi dove si formano le menti dei giovani, dove si forma lo spirito critico, dove si vivono i rapporti con gli altri, dove si apprendono la storia e le identità di altre civiltà e di altre culture, possano essere gestiti da chi che crede nei dogma e nella verità assoluta? Tutto ciò, oltre a essere anti costituzionale, è fatto in nome di un “sano antagonismo” da cui trarrebbero vantaggio le stesse scuole pubbliche. Bambini, giovani e adolescenti lanciati e lasciati nell’eterna lotta dove vige la legge del più forte/ricco (come nel mercato). Quei parlamentari, autori della lettera, citano il pluralismo (sic!) e il pensiero di Antonio Gramsci. Rispondiamo loro che il pluralismo non sta dalla parte di chi crede, ma di chi pensa e che Antonio Gramsci voleva sì le scuole private, ma per fondare scuole socialiste anti massoniche, e disprezzava come un’assoluta violenza «lasciare che la coscienza dei bambini fosse manipolata dai preti». Il commento di elisabetta amalfitano* Gramsci riteneva un’assoluta violenza «lasciare che la coscienza dei bambini fosse manipolata dai preti» *Docente di Storia e filosofia, autrice di Le gambe della sinistra (2014) 7 marzo 2015 no* EDITORIALI La responsabilità incivile del governo Renzi La modifica della responsabilità civile dei magistrati è legge da martedi scorso. Approvata di sera, lontano dall’attenzione dei media che a quell’ora non hanno dato gran rilevanza al dibattito parlamentare. Renzi, Alfano e Orlando fanno festa. Si è detto che la riforma era necessaria a causa della procedura di infrazione che pendeva sull’Italia da parte dell Unione europea. Vero. Ma l’Europa ci chiedeva di modificare la legge laddove non prevedeva che il magistrato dovesse pagare nel caso di violazione della normativa comunitaria. Il governo invece ha preso questa scusa per fare ulteriori modifiche che nessuno imponeva. Per esempio hanno esteso i parametri per giustificare i ricorsi: sono stati aggiunti il travisamento dei fatti e delle prove come colpa grave. Ora, qual è la persona che dopo aver subito una qualunque sentenza non ritenga che il giudice abbia travisato i fatti? Diciamo la verità: queste semplici paroline provocheranno un aumento esponenziale dei ricorsi. Perché qualunque avvocato lo consiglierà al proprio cliente. Ci dicono che questo pericolo non ci sarà perché il magistrato che travisa i fatti o le prove pagherà solo in caso di dolo o colpa inescusabile. E allora per quale motivo, se sono così sicuri di aver fatto una buona legge, Orlando si è detto disposto a correggerla, quindi a metterci di nuovo mano, se nei prossimi mesi si verificheranno problemi? È il solito meccanismo del “rinvio ad altra data” ma intanto la porcata l’hanno fatta, bocciando tutti gli emendamenti del M5S che chiedevano di togliere i nuovi parametri o perlomeno di aggiungere che il travisamento deve essere “manifesto”. Questa materia non si dovrebbe mai e poi mai prestare a “sperimentazioni legislative”. Il Csm si sta organizzando per monitorare la situazione e riportare al Parlamento i dati che 7 marzo 2015 Il commento di Giulia Sarti* acquisiranno sulle conseguenze della nuova Hanno dato disciplina. Il punto è che ci sono degli aspetti ai potenti impossibili da monitorare. La legge si applica e ai soggetti in caso di misure cautelari personali, reali e in economici ogni stato e grado del processo. Questo significa che un qualsiasi colletto bianco, un mafioso forti coinvolti o il politico di turno che subiscano ad esempio in questioni un sequestro di 500.000 euro ai loro beni, po- di giustizia, trebbero fare ricorso per responsabilità civile uno strumento del magistrato che ha disposto quel sequestro. in più di Hanno dato ai potenti e ai soggetti economi- intimidazione nei ci forti coinvolti in questioni di giustizia, uno confronti della strumento in più di intimidazione nei confronti della magistratura che fa il suo dovere a 360 gra- magistratura di, che si tratti di perseguire l’azione penale nei confronti del semplice ladro di polli o del Presidente del Consiglio. Chi ci rimetterà? Sempre le persone oneste. Ve lo immaginate un cittadino che inizia una causa contro una banca? Secondo voi, il giudice con il rischio di una possibile azione di responsabilità civile nei suoi confronti che gli toglierà, in caso di accoglimento, metà dello stipendio annuo e gli macchierà per sempre la carriera, condannerà la banca o il cittadino? Le priorità del governo sono completamente sballate. Abbiamo regioni da nord a sud dilaniate dagli scandali, criminalità organizzata infilata perfettamente nel tessuto economico sano che fa affari con le amministrazioni locali oppure prende appalti e costruisce le scuole e gli ospedali nelle nostre città, politici condannati per mafia che continuano a prendere il vitalizio. Eppure in Parlamento si vota e si gioisce per la responsabilità civile dei magistrati. L’unico a votare contro e battersi per far capire le conseguenze nefaste delle modifiche volute da Pd *Deputata Movimento 5 e compagnia, il M5s. Questa legge non è una Stelle, membro Commistutela nei confronti dei cittadini ma soltanto resione Giustizia e Antimafia sponsabilità incivile nei loro confronti. 19 © AP Photo/Petros Giannakouris (1) IL MONOLOGO di Emmanouil Glezos e Giulio Cavalli L’avevamo sognata bellissima L’ avevamo sognata bellissima; con il sorriso mite di chi sta in pace e i capelli sciolti della libertà. Qualcuno di noi aveva anche provato a disegnarla, e poi passarsi i fogli di nascosto come partigiani di un’unità figlia maggiore dell’uguaglianza. I più arditi di noi l’hanno pensata come compagna, come le donne con le ali delle coppe attiche a figure rosse. Quando ne parlavamo, eccitati e in penombra alcuni dicevano che avrebbe avuto un cuore cucito con le fette di tutti i cuori che potevano starci e avrebbe consolato, custodito, accompagnato, combattuto addirittura se ce ne fosse stato bisogno, sempre al fianco del più debole che davvero grazie a lei che avevamo sognato bellissima davvero il più debole poteva sentirsi uguale, come un guarito, come una meraviglia bambina che scioglie i nodi in gola e rende tutto più facile, più vivibile, abitabile. L’Europa, noi, in Grecia, noi l’Europa l’abbiamo costruita con le mani callose di chi ha lavorato duramente ma è capace di abbracci dolcissimi. Se ci avessero chiesto come la volevamo, che voce avesse, ecco noi avremmo urlato che avremmo voluto sposarla tutti, questa Europa che ci insegna a preoccuparsi dei fili più sottili, che ci educa allo spirito del padre di famiglia con una famiglia larga quanto è larga l’Europa. Per questo in Grecia, da noi, l’elezione è stata uno schizzo, un disegno 20 7 marzo 2015 contornato di quella donna che avevamo solo incrociato di sfuggita, come gli adolescenti nelle stazioni, per questo da noi, in Grecia, queste ultime elezioni avevano il viso condiviso della prosperità a forma degli auspici antichi. Poi un giorno ci hanno detto di andare in piazza, che avremmo visto l’Europa, che sarebbe arrivata, che era finalmente l’ora e la piazza sembrava un’attesa consolatrice a forma di piazza. Abbiamo voluto aspettare tutti, i mendicanti e gli ammalati, la lentezza degli anziani e il passo incerto degli appena giovani. Tutti in piazza, che è arrivata l’Europa ci dicevano, ed era tutto un «silenzio per favore», un «non fate rumore» tutti lì appesi come rimangono appesi gli uomini quando hanno la speranza così forte che gli sanguina dal naso. Niente palco, niente microfoni, solo le luci della piazza quando è vestita da piazza infrasettimanale, e tutti a chiedersi di che colore avrà gli occhi un’Europa madre e padre, confidente e amante, questa donna per cui tutti ci eravamo messi a martellare le democrazie più perfettamente curve e gli aggettivi che avevamo al massimo potuto sperare. Chissà che forma ha, bisbigliava qualcuno e intanto gli altri zitto! Che non sentiamo! Che ci perdiamo il primo istante! Il palazzo è una casa popolare. Prima era una casa del centro, borghese, quando la città non era ancora diventata un buco e adesso era un palazzo occupato appena dietro il campanile. C’è qualcuno? Chiese un vecchio. Non è già tardi? Un altro che stava per andare. Lei avrà avuto sessantatre anni o giù di lì, «vedi come se li porta male» si sentiva mormorare. I capelli raccolti come si raccolgono i capelli quando non c’è più nessuno da incontrare e la mano pallida. Gli occhi, poi. Giuro che la piazza si è fermata davanti agli occhi liquidi, due lampioni consumati e nemmeno più le lampadine da cambiare. Per mano aveva suo figlio, dell’età in cui i figli dovrebbero lavorare e invece stava lì per mano come un bambino. Mica un bambino, suo figlio, no. Un giovane. Un giovane dell’età buona per lavorare ma con la bocca disperata di chi non ha più voglia di cercare. Vedessi come invecchiano e come si ringriziscono i giovani qui quando gli si secca la speranza. Vedessi. Dal quinto piano. Saranno stati cinque o sei piani, di volo diritto, due sacchi per mano, due corpi di iuta. Lei, si diceva nel tempo che ancora non erano arrivati per terra, lei, dicevano mentre sibilava già vuota come un sacco e il sacco figlio giù per mano, lei ha perso oggi la pensione, una lettera raccomandata, un tocco di citofono. E ci sono fili che una volta rotti non si riescono più a riannodare. Per terra erano due macchie. La gente intorno si scioglieva come appena finita la messa. I mendicanti si sono rimessi a mendicare, i poveri a povertare e i ricchi, i ricchi al solito a ricchire. Per terra erano due macchie. L’avevamo sognata bellissima, disse qualcuno. Silenzio, lo interruppero. Silenzio. Non disturbare. 7 marzo 2015 ˜ 21 STORIA DI COPERTINA Il cavaliere matteo Jobs act, Italicum, responsabilità civile per i giudici. Se la mano fosse stata di Berlusconi saremmo sulle barricate. E invece niente di Luca Sappino Dite la verità: ve lo siete chiesto anche voi. Anche voi avete pensato di scriverlo su facebook, almeno una volta. «Ma se questa cosa l’avesse fatta o detta Berlusconi, come avremmo reagito?». Avremmo reagito male, lo sapete. Solo che al governo di Matteo Renzi si concede ciò che non era concesso al centrodestra, e questo è il punto da cui oggi parte Left nel provare a raccontare quello che solo in parte è il risultato di uno slittamento culturale, un progressivo avvicinarsi alle tesi liberiste non solo dei dirigenti del centrosinistra ma anche degli elettori del Pd. Per il resto è il risultato della narrazione del premier (condotta con la retorica da bullo, come spiegano, Giulio Cavalli e Giorgia Furlan a pagina 28), che ha permesso di spacciare il terzo consecutivo governo di larghe intese, per un governo invece politico e monocolore. Color Renzi. E invece non è così, e basterebbe contare i ministri di origine berlusconiana, i centristi, i confindustriali, per accorgersene. Angelino Alfano, ministro dell’Interno, Beatrice Lorenzin, alla Salute, con 22 nel cassetto, chiusa, la nuova legge sulla fecondazione assistita, Maurizio Lupi, alle Infrastrutture. L’Udc Gian Luca Galletti, all’ambiente, l’ex montiana Stefania Giannini alla Scuola (e chissà perché si parla sempre di aumentare i contribuiti alle scuole private). Federica Guidi, già vicepresidente di Confindustria, allo Sviluppo economico. Potremmo proseguire con i sottosegretari, ma sarebbe lunga. Poi basterebbe fare il punto sulle cose fatte, i risultati di un primo anno di Renzi a Roma. Vediamoli. La cosa più facile è cominciare dal Jobs act. Basterebbe prendere la dichiarazione di Angelino Alfano, immortalata dalle telecamere quando il parlamento approvò definitivamente la delega al governo, per doversi fermare a riflettere. È una di quelle dichiarazioni che verrano citate per anni: «Stiamo facendo una riforma di centrodestra con un governo di centrosinistra». Come logica fa acqua da tutte le parti - perché mai questo dovrebbe essere un governo di centrosinistra, se 7 marzo 2015 7 marzo 2015 23 © Illustrazione Antonio Pronostico © Ansa/Giuseppe Lami STORIA DI COPERTINA Paul Ginsborg: «Abbiamo vissuto con Berlusconi una spinta autoritaria. Renzi resta in quella stessa tradizione» c’è Alfano, resta un mistero - ma il punto politico rivendicato dal ministro dell’Interno è chiarissimo. Dietro gli slogan di Matteo Renzi, sul lavoro, non c’è solo il maglioncino di Sergio Marchionne, c’è il sorriso di Maurizio Sacconi. Susanna Camusso, segretaria della Cgil, sta provando senza troppo successo a disinnescare le parole chiave del premier: lei il contratto a tutele crescenti lo chiama «contratto a monetizzazione crescente», cercando di spiegare che alla fine, stringi stringi, la principale innovazione introdotta è l’abolizione dell’articolo 18. Abolito, è l’ironia, anche con i voti di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil. Ricordate la piazza del circo Massimo, il mare rosso ai piedi di Sergio Cofferati? Era il 2002 e c’era anche Epifani, all’epoca numero due di quella Cgil. «L’articolo 18 non si tocca» dicevano insieme. «Non lo tocchi Berlusconi» era il senso, abbiamo scoperto adesso. Non è stato però il solo, Epifani, ad aver cambiato idea. Si può fare un rapido elenco con gli ex sindacalisti Cgil che hanno votato la riforma che 24 fa felice Maurizio Sacconi: Cesare Damiano, Teresa Bellanova, Luisella Albanella, Patrizia Maestri, Cinzia Maria Fontana, Marco Miccoli. Poi c’è anche l’ex operaio Antonio Boccuzzi, simbolo della tragedia dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino. Potremmo continuare, anche qui. Poi, certo, Cesare Damiano, insieme ad altri della minoranza dem, oggi si lamenta, e condanna l’estensione del meccanismo della monetizzazione anche ai licenziamenti collettivi mascherati da individuali: «È eccesso di delega» ripete. Renzi, comunque, ha preferito ascoltare ancora Sacconi: «Chiediamo al Consiglio dei ministri di disattendere il parere contrario sui licenziamenti collettivi delle commissioni Lavoro» ha chiesto l’alfaniano. Accontentato. Anche l’idea di aprire alla possibilità di demansionare un lavoratore pure se non ci sono licenziamenti da evitare è di Sacconi. Accontentato nuovamente. «Vedrete funzionerà» ripetono comunque a Left tutti i renziani interpellati (per tutti la domanda è: «Non vi fa venire qualche dubbio fare una riforma che piace a Maurizio Sacconi?»). «Anche le recenti assunzioni della Fiat e i dati dell’Istat», dice una dirigente del Pd, «sono lì a dimostrare che può funzionare, che si può tornare ad assumere». Vedremo. Intanto sappiamo che dei tan7 marzo 2015 to sbandierati 88.000 posti di lavoro in più nel 2014, solo 18.000 sono a tempo indeterminato e 79.000 sono invece a termine. Comunque a fare una rapida sintesi della riforma, a partire dai decreti già approvati dal governo, si capisce molto bene perché Renzi ai più ricordi la Thatcher. Il nuovo meccanismo che sostituisce il diritto al reintegro in caso di licenziamento giudicato illegittimo, stabilisce che al lavoratore licenziato senza giusta causa spettino due mensilità l’anno di indennizzo con un minimo di quattro mensilità. Come detto, il principio, che è valido solo per chi sarà assunto con il nuovo contratto, è applicato anche ai licenziamenti giudicati illegittimi perché in realtà collettivi, e cioè se un’azienda invece di aprire le procedura per la mobilità, licenzi più di cinque lavoratori in 120 giorni. Ci sono gli incentivi per le assunzioni, è vero, ma il rischio - ha denunciato la Uil - è che a un certo punto possa convenire assumere e licenziare giusto al termine degli sgravi. Matteo Renzi ha approvato la riforma del lavoro in meno di un anno. Questo non gli impedisce però di cavalcare un altro cavallo tipicamente berlusconiano, il fastidio per il parlamento. Quando Berlusconi andò ospite da Michele Santoro, in una delle sue ultime apparizioni da nemico pubblico numero uno, ero nelle prime file, tra il pubblico. Anche lì Berlusconi, prima della messa in onda, tentando di ingraziarsi il pubblico, sfoderò la sua più classica delle scuse: «Sapete quanto ci vuole in Italia per approvare una legge? È per quello che governare è impossibile». Per Renzi, come per Berlusconi, ogni giorno è buono per lamentarsi delle lungaggini parlamentari. Ecco allora le riforme costituzionali. L’abolizione del Senato che non è un’abolizione, ma che trasforma la camera alta del parlamento in un’assise di eletti di secondo livello, consiglieri regionali in gita. Forse esagera Barbara Spinelli, a evocare il piano di Licio Gelli e la P2. Forse, però. «L’efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti» dice l’eurodeputata dell’Altraeuropa, «gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli è stato fatto da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi». Bene: perché non convochiamo allora un girotondo? D’altronde siamo ancora lì, alla gestione autoritaria del potere. Lo dice proprio lo storico Paul Ginsborg, con Francesco Pardi protagonista di quella stagione: «Abbiamo 7 marzo 2015 vissuto con Berlusconi una spinta autoritaria. Renzi resta in quella stessa tradizione». Una tradizione di promesse e sogni. «Di decisionismo contro rappresentanza». Come nota Lorenza Carlassare, costituzionalista di Padova. Carlassare si sofferma sulla legge elettorale. Quella figlia del patto del Nazareno, della storica visita di Berlusconi nella sede del Pd. Secondo la costituzionalista, la legge truffa del 1953 «era molto più democratica dell’Italicum perché il premio di maggioranza si otteneva avendo almeno il 50 per cento. Se non si raggiungeva questa soglia, non scattava». «Questo Italicum» continua la professoressa, «è più legato alla legge Acerbo del 1923», quella che assegnava due terzi dei seggi con il solo 25 per cento dei consensi. E l’aver abbassato le soglie di sbarramento, non può funzionare da contropartita: «Perché è vero», conclude la costituzionalista, «che la soglia di sbarramento è stata abbassata, ma il pluralismo è comunque impedito visto il premio di maggioranza». Soprattutto considerando la passione (e qui Renzi ha superato tutti, anche Berlusconi) per i voti di fiducia: 31 in un solo anno. Mentre aspettiamo che la Corte costituzionale si pronunci su questo nuovo porcellum, possiamo fare il punto di come dovrebbe funzionare. Gelmini: «Per anni ci hanno dato contro. Oggi ci danno ragione. Le nostre parole entrano nella scuola» La legge, dopo innumerevoli cambiamenti, ha il doppio turno. Il ballottaggio tra i primi due si convoca se nessun partito riesce a conquistare il premio di maggioranza, che scatta con il 40 per cento dei voti, e assicura il 55 per cento dei seggi: 340 su 618. Nei 100 collegi, i partiti si presenteranno con un capolista bloccato e poi una breve lista composta da tre a sei nomi. Le preferenze si potranno quindi esprimere, per questi, ma le opposizioni hanno più volte e inutilmente fatto notare che quasi esclusivamente il partito che prenderà il premio di maggioranza, eleggerà qualche altro deputato oltre ai capolista bloccati. Come nel Porcellum ci sono poi le candidature multiple. Un candidato potrà essere capolista contemporaneamente fino in dieci circoscrizioni: elezione assicurata e libero arbitrio nel decidere chi far scattare al tuo posto. Effettivamente, la soglia di sbarramentento è più bassa di quanto inizialmente proposto: era all’otto per cento, perché il fastidio che Renzi prova per i piccoli partiti è forse anche maggiore di quello da sempre dichiarato da Berlusconi. Sarà al tre. 25 STORIA DI COPERTINA Punti di contatto ci sono anche sulla scuola pubblica, l’unica riforma su cui Renzi ha prima annunciato corse senza sosta, e poi si è limitato a un disegno di legge, riscoprendo la centralità del parlamento, per coprire la carenza di fondi e l’impossibilità di procedere rapidamente alle 150.000 assunzioni promesse. I soliti sindacati sostengono che Renzi mutui molte parole dai bei tempi della riforma Gelmini. Ricordate le tre “i” berlusconiane? La prima era inglese, e Renzi vorrebbe alcune materie insegnate direttamente in inglese, la seconda impresa, e Renzi vuole l’apprendistato anche per gli studenti delle superiori, la terza informatica, e per mesi Renzi è andato in giro dicendo che bisognava aggiungere un insegnamento: il coding. Potremmo notare che lo stesso ex ministro Maria Stella Gelmini ha salutato con una certa eccitazione le intenzioni dichiarate da Renzi con la Buona scuola. «Alla fine il tempo ci ha dato ragione» diceva a settembre, «dopo anni di batta glie per risollevare un sistema educativo intor bidito dalla coda del ’68, ora anche la sinistra finalmente ha dovuto dare atto ai governi Ber lusconi di aver agito nella direzione giusta per riportare la scuola italiana ai fasti che merita. Parole quali merito, carriera dei docenti, valu tazione, premialità, raccordo scuole-impresa, «Se sbagliano, è giusto che paghino» lo diceva sempre Berlusconi dei Pm. L’ha fatto il governo Renzi modifica degli organi collegiali della scuola, sono state portate alla ribalta dal centrodestra, seppur subendo le censure e le aspre critiche da parte di sinistra e sindacati». Vogliamo parlare dello Sblocca Italia? Sicuri non vi ricordi la Legge obiettivo di Berlusconi? Cosa c’è di nuovo nel puntare ancora sulle grandi opere, che sostengono un’industria tecnologicamente “matura”, con scarso tasso di innovazione e alto tasso di corruzione, e concentrano gli introiti nelle mani di pochi big player (quindi a parte gli spiccioli per gli operai, niente ricchezza diffusa)? Cosa c’è di nuovo nel ricorso ai commissariamenti, che consentono di aggirare le procedure di impatto ambientale? Cosa c’è di nuovo nell’inserire «la non responsabilità penale e amministrativa per il commissario» nel decreto sull’Ilva? Salvatore Settis nel libro collettivo Rottama Italia, si sofferma sull’articolo 6 dello Sblocca-Italia che «cancella del tutto l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per 26 ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni». «L’articolo 25 invece» continua l’archeologo, «“semplifica”, cioè di fatto rimuove, ogni autorizzazione per “interventi minori privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso. L’articolo 17, poi, è un inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire convenzionato”, che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali». È così, a un certo punto l’antipatia un po’ futurista di Matteo Renzi per i professoroni si è trasformata in un’antipatia per le soprintendenze che - è parola di premier - «incatenano» il Paese. Settis analizza poi «il trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da anni». Lupi Maurizio, il ministro che fate finta di non vedere. È però la responsabilità civile dei giudici il successo postumo più significativo di Silvio Berlusconi. «Se sbagliano, è giusto che paghino» diceva ad ogni comizio l’ex cavaliere. Quando Montecitorio approva definitivamente la legge, Renzi twitta: «Anni di rinvii e polemiche, ma oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!». Punto esclamativo. Rimettendo mano alla legge Vassalli del 1988, la nuova legge amplia la possibilità per il cittadino di fare ricorso, innalza la soglia economica di rivalsa del danno, fino alla metà stipendio del magistrato; elimina soprattutto il filtro di ammissibilità dei ricorsi. La responsabilità scatta in caso di negligenza grave e travisamento del fatto e delle prove. «La giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati», dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, uno che viene dalla sinistra Pd. Dall’Associazione nazionale magistrati replica Rodolfo Sabelli: «Non è stata ancora approvata una riforma sulla corruzione, sul falso in bilancio, ma ci si precipita a votare una legge contro i magistrati che combattono la corruzione», accusa, spiegando poi che così, «si intacca il profilo dell’indipendenza dei magistrati. Vi è un rischio di azioni strumentali dando la possibilità alla parte processuale più forte economicamente di liberarsi di un giudice scomodo. È una strada pericolosa verso una giustizia di classe». 7 marzo 2015 Eccitato da sergio «A Melfi avrei assunto lo stesso» dice Marchionne, che ringrazia comunque per il Jobs act. Tra i due è sempre amore di Checchino Antonini «Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne», esclamava tra un selfie e l’altro Matteo Renzi, a Torino, uscendo dal Centro Stile Fiat. Renzi era «eccitato» dopo aver visto qualche bozzetto dell’Alfa Romeo Giulia, la berlina biturbo che sarà presentata a giugno, ma soprattutto perché pare che Marchionne gli abbia promesso il primo esemplare del Maserati Levante, grosso Suv, competitor della Porsche Cayenne, costo tra i 70mila e i 140mila euro. La blindatura sarà a carico di Palazzo Chigi. Gasatura a parte, anche Davide Bubbico, ricercatore dell’università di Salerno che studia la Fiat da una ventina d’anni, è convinto che il nuovo piano industriale sia un po’ più concreto del vecchio “Fabbrica Italia”, ma avverte: «Tutte le fasi di lancio produttivo hanno un picco occupazionale. Che sarà fra un anno o due? In Italia, la Fiat sembra attestarsi su organici ridotti ma più produttivi e impegnati su modelli di lusso». A Mirafiori non c’è ancora la ressa di 2.500 gasatissime tute blu per la Levante. Altri 2.500 operai sono a Grugliasco e altrettanti a Pomigliano, ma 1.500 sono in contratto di solidarietà e 300 in cassa integrazione da cinque anni. Cassino è ferma, Termini Imerese è chiusa. È a Melfi che si starebbero materializzando i progetti di Marchionne che gasano Renzi con un migliaio di nuovi assunti, per ora selezionati dalle agenzie interinali, poi arriverà l’onda di quelli a “tutele crescenti” partoriti dal Jobs act. Ottomila euro l’anno, per ciascun assunto, di sgravi fiscali per ben tre anni e una penale di un paio di mensilità se verrà licenziato. Ecco perché anche Marchionne non fa mistero dell’eccitazione che gli procurano i progetti di Renzi e mostra dal telefonino il famoso video dei lavoratori di Melfi che ballano tra le linee sulle note del tormentone “Happy”. Un delegato Fiom, Dino Miniscalchi, insinua che a ballare sarebbero stati solo capi e impiegati, nessuno che sta alla catena. Già una ventina di operai, sul primo scaglione di 300 neoassunti, ha rinunciato a partecipare al progetto di Marchionne. Tuttavia, almeno 6.000 tute blu sono così gasate da puntare la sveglia alle tre del mattino e sorbirsi tre ore di torpedone per presentarsi ai cancelli di Melfi dove si lavora - per produrre, Jeep Renegade, 7 marzo 2015 © Ansa/Rena Laverty Grande Punto e Fiat 500X - su venti turni con riposi a scorrimento e secondo le regole di Ergo Uas, una metrica che plasma gesti e posture per spremere il lavoratore fino all’ultimo secondo del turno. L’accordo è appena stato firmato dai sindacati concertativi e le assemblee di fabbrica lo hanno contestato come non succedeva dai 21 giorni di sciopero del 2004. A Melfi non sembra “happy” più nessuno. Le milleduecento operaie, in assemblea, erano così gasate da sembrare incazzate, a uno sguardo non gasato, per i progetti di Marchionne. E, giustamente, i sindacati firmatari, senza nemmeno mostrare il cartaceo dell’accordo, hanno negato il referendum tra i lavoratori dicendo che è sufficiente il mandato ricevuto alle elezioni delle rappresentanze. La Fiom è stata esclusa in partenza. Intanto domenica scorsa l’azienda non ha trovato nemmeno un volontario per gli straordinari. Ma nei talk show c’è la fila per esprimere gasatissimi apprezzamenti per la ripresa. Merito di Renzi, dice Renzi. Merito nostro, dicono Cisl e Uil che firmano ogni accordo al ribasso. Ma la Fiom ricorda che i progetti per Melfi risalgono almeno a tre anni fa quando scese l’amato leader Monti a inaugurare la ristrutturazione delle linee. Dal Salone dell’auto di Ginevra, Marchionne conferma: «I mille di Melfi li avrei assunti lo stesso, ma il Jobs act ha creato le condizioni per altri, per venire a investire in Italia». A pensarci, il Jobs act è una riscrittura “gasatissima” dello Statuto dei lavoratori: via l’articolo 18, chi farà ricorso contro il licenziamento non sarà reintegrato. Sarà disintegrato. 27 STORIA DI COPERTINA Renzology Tutti gli stili del presidente del Consiglio. Tra marketing e oggetti di culto di Giorgia Furlan Tutto scorre. L’universo politico e comunicativo di Matteo Renzi è fluido, scivola via veloce, inafferrabile, cambia forma a seconda del recipiente da riempire, sa travolgere gli avversari con la violenza di uno tsunami. Soprattutto, nel grande mare renziano, tutto si mescola in un magma unico, una grande poltiglia che, come un prodotto di marketing, tenta di accontentare il più vasto pubblico possibile. Almeno a parole. Da Barack Obama a Lorenzo il Magnifico, dai boy scout a Twitter, da Google a Steve Jobs, Matteo è il nuovo premier contemporaneo. Nel Brand Renzi, come spiega Nello Barile, professore di Comunicazione e Pubblicità allo Iulm, «prosegue il progetto comunicativo berlusconiano nel suo essere un mix dirompente tra spontaneismo e pianificazione, concretezza e speranza, tra vita quotidiana e marketing». Il mondo incantato di Matteo, infarcito di futuri dove tutto cambia e presenti costellati da svolte buone e traguardi storici - perché il rottamatore arriva sempre primus, non troppo inter pares -, è caratterizzato da luoghi comuni che gli permettono di fare breccia nel cuore dell’italiano medio. Oltre che in quello di finanzieri e imprenditori pronti a investire, in Leopolde e cene da 1.000 euro, ora che con l’ex sindaco di Firenze hanno trovato il prodotto vincente. Parola di boy scout. L’attuale presidente del Consiglio ci tiene molto a ricordare il suo passato Illustrazione Dario Calì 28 7 marzo 2015 in bermuda e fazzolettone. «Il mito del boy scout rappresenta un immaginario pop facilmente comprensibile da gran parte del suo elettorato» spiega ancora Barile, quello di un mondo cattolico lontano dai giochi di potere che Renzi ama chiamare, con un tono da Piccolo mondo antico: «L’Italia per bene». «Lascia il mondo migliore di come lo hai trovato», «dare un calcio all’impossibile», sono solo alcune delle massime da retorica motivazionale dello scoutismo. Il premier le riutilizza spesso per dare forza ai suoi discorsi e connotarsi come l’outsider, rottamatore genuino e dunque affidabile. L’altra faccia dell’Agesci è però quella di un’organizzazione dove esiste una rigida gerarchia di comando e si insegna a diventare leader di un gruppo. Un gruppo chiuso però. Chi non rispetta le regole è invitato a uscire. Insomma quelli che non la pensano come te sono per forza gufi. Firenze culla dell’Italia. Da sindaco di Firenze a sindaco d’Italia, Renzi gioca sullo stereotipo del Bel Paese di cui il capoluogo toscano è un simbolo indiscusso. Dalla Merkel in Germania arriva con una maglia della Fiorentina, a Digital Venice parla un inglese maccheronico ed è sempre il momento buono per sfoderare un orgoglio patriottico da cartolina, o da piccolo amministratore, che lo rende provinciale. D’altronde l’Italia è per la maggior parte provincia e la retorica di Matteo fatta di «abbiamo la grande occasione di cambiare il paese più bello del mondo» è il corollario perfetto del teorema dell’elettore mediano con cui si acchiappano la maggior parte dei voti. Non è strano dunque che ci ricordi il Berlusconi del 1994 con il leit motiv «L’Italia è il Paese che amo». O che The Economist l’abbia raffigurato con in mano un cono gelato, gelato che poi “il Renzi”, per rispondere alla testata inglese, ha ben pensato di offrire, rigorosamente brandizzato, ai giornalisti riuniti a Chigi in conferenza stampa. Tutto cambia. La cifra del renzismo è il mutamento, «il tempo del cambiamento». Il premier è “il più giovane della storia repubblicana”, si fa chiamare Matteo e si rivolge a tutti per nome, twitta alle 6.45 del mattino, corre e, sempre twit- 7 marzo 2015 tando, ci dice #arrivoarrivo. Inoltre è cool, un “fico” che si veste come Fonzie - giubbotto di pelle e wayfarer in bocca - o completi griffati Scervino. In quasi tutti i suoi discorsi utilizza la parola futuro o afferma che «per l’Italia è un momento storico». Per dirla con Bauman è un premier “liquido” e, come tale, per natura fisica privo di una forma politica univoca. Le larghe, larghissime, intese diventano la logica conseguenza di una natura dilagante alla ricerca del consenso. Il cambiamento renziano ha come guida la Speranza, spesso personalizzata. «Il principio della speranza professato da Renzi ha in sé qualcosa di paradossale e per questo forse di ancor più convincente. Si tratta di un principio estremamente utopico che intende scagliarsi contro i mulini a vento di uno stato tendenzialmente non riformabile» spiega sempre Barile e continua: «La speranza che irrora la vision renziana è un’operazione di time design. Mira a ridisegnare il presente attraverso l’invenzione continua del suo cronoprogramma». Diventare pop guardando la tv. Se Berlusconi con le sue tv ha costruito la carriera di un ventennio politico, interpretando e plasmando come editore i gusti degli italiani, Renzi si avvicina ancora di più al pubblico generalista perché, mentre il Cavaliere popolava i talkshow dietro le telecamere, lui era seduto con noi sul divano davanti allo schermo a guardare Happy day, Drive in e La ruota della fortuna in cui ha anche assaporato i suoi primi 15 wharoliani minuti di celebrità. Il premier è pop perché gioca sul background culturale della maggior parte degli italiani - tanto andare da Maria De Filippi ad Amici - e parla con lo stesso linguaggio, fatto di stereotipi e opposizioni, dei programmi tv. Ci sono i buoni e i cattivi, i brutti e i belli. Se per Berlusconi l’uso delle televisioni era associato all’abuso dei sondaggi, Renzi al piccolo schermo unisce i social. E rompe la quarta parete della propaganda interagendo con noi su Twitter con l’immancabile hashtag #matteorisponde. 29 STORIA DI COPERTINA Lasciate lavorare il “bullo” di Giulio Cavalli Dicevano che la sinistra non era capace di essere “pop”. Poi è arrivato Matteo Renzi ed è rimasto solo il pop Eppure siamo quel Paese che con il neorealismo ha fatto dalle nostre viziate debolezze cinema e poesia, siamo il Paese che ha raccontato le armi, gli amori e gli eroi con la delicatezza di una letteratura che è stata maestra del cuore tenero senza smancerie, della povertà dignitosa ed etica. Noi siamo stati quel Paese lì, noi. Poi c’è stato il conato del berlusconismo e della televisione come bancarella di carne nuda al chilo, ci siamo perduti nel machismo necessario per primeggiare e ci siamo affezionati alla sbruffoneria esibita come privilegio. Ricordo bene quando su, al nord, abbiamo cominciato a temere la solidarietà: ci dicevano fosse una debolezza da omosessuali e comunisti, ci hanno gridato nelle orecchie che essere solidali significava mettere a rischio la nostra sicurezza e quella dei nostri figli, che fosse sinonimo di smidollaggine ed è così che la volgarità leghista si è trasformata nell’unico credibile cane da guardia, nella maleducazione obbligatoria contro la barbara invasione. E mentre credevamo di difenderci dai barbari, alla fine siamo diventati barbari anche noi. Davvero. Sono stati in molti negli anni scorsi ad avvisarci che una volta finito Berlusconi avremmo dovuto disintossicarci dal berlusconismo: quella poltiglia di scampagnate sulle regole e tra le istituzioni 30 con l’isteria sniffata di un aperitivo milanese, trasformare il Parlamento in una gabbia di cani fedeli con la lingua sul palmo del padrone, e vivere le debolezze e le fragilità come fastidiosi rallentamenti di un’epica cavalcata sociale verso un’Italia tutta sicumera e libertà, fronzoli e belle donne: la retorica del berlusconismo era la rottamazione degli indecisi, dei perdenti per natura, degli sfortunati e dei più deboli, significava rendere più forti i forti perché così sarebbe avanzato sicuramente anche qualcosa per tutti gli altri, un craxismo con meno remore. E la sinistra? Hanno detto che aveva perso le parole, che diceva il giusto ma non riusciva ad essere capita, non era capace di essere “pop”. Dicevano. E poi è arrivato lui: Matteo Renzi, il rottamatore dei rottamatori, la terza repubblica dopo quella seconda che alla fine aveva finito per puzzare come la prima, Renzi il nuovo, il giovane, il mago della comunicazione orizzontale che sembra verticale, dove tutti hanno la sensazione di partecipare pur avendo solo la libertà di applaudire. Odia le puntualizzazioni, Matteo Renzi, crede di avere già in mano la migliore sintesi possibile e probabilmente anche per questo vive il Parlamento (come quell’altro) come tappa obbligatoria per licenziare decisioni già prese e non emendabili. Matteo 7 marzo 2015 © Aansa/Maurizio Degl’ Innocenti Renzi ha spento la dialettica (come quell’altro) nel modo più semplice possibile: o con lui o contro di lui, o sei un innovatore che vuole andarsi a prendere il futuro oppure sei solo un nemico, un attentatore al cambiamento, un gufo. Lo spirito degli scout vissuto con una curiosa e pericolosa deviazione: il Presidente favoleggia la meravigliosa solidarietà che (però) si applica solo ai suoi sodali e non a quegli altri e così la discussione politica diventa solo cronaca di iniziative o reazioni dei propri uomini e dei propri ambienti, il resto nulla, gli altri solo rumore di fondo. Ma Matteo Renzi è riuscito ad andare oltre ai suoi peggiori predecessori: ha travestito d’umiltà il proprio protagonismo e lo porge tutti i giorni come dolcificante inimitabile e unico dell’amaro sciroppo della democrazia. Berlusconi ci diceva che gli avversari erano dei coglioni e invece il Matteo nazionale sottolinea come i suoi avversari hanno comunque il privilegio di perdere contro uno come lui, che per buon cuore comunque alla fine penserà anche a loro, senza fare prigionieri. C’è una foto di Renzi molto rappresentativa: arriva di notte a Montecitorio dopo una scazzottata tra alcuni deputati di Sel e i colleghi del Pd, ha la testa dritta e il mento in alto e affronta a muso duro le opposizioni, camicia bianca d’ordinanza e 7 marzo 2015 senza cravatta (il solito bullismo bisbigliato nei particolari) e ringhia: «Noi andiamo avanti, votiamo le riforme. E se non ce la facciamo, non c’è problema: tutti a casa e andiamo a votare. Tanto io ho con me le tv e l’elettorato e stravinco comunque. Così facciamo anche un po’ di pulizia». Qualcuno gli dà una bella pacca sulla spalla, dicono che a casa finalmente Renzi lo capiscono tutti, altro che il politichese della sinistra che perdeva, e poi dicono che non fa niente se ogni tanto Renzi mostra i muscoli con un bullismo lessicale da capoclasse strafottente, non è mica come Berlusconi questo, ci dicono, Renzi ha riformato il mondo del lavoro con l’accento emiliano dei compagni, e non importa che abbia esultato anche Sacconi, mette mano alla Costituzione ma lasciatelo stare, «vuoi mettere con Silvio?» Mi dicono, «ma sei matto?». Quello era uno sbruffone invece questo, dicono, questo deve fare al massimo un po’ l’arrogante perché altrimenti non lo lasciano fare, non lo Per Berlusconi gli lasciano lavorare, non gli avversari erano dei permettono di cambiare il Paese. Adesso la sinistra coglioni, per Renzi è “pop”, finalmente. Dicohanno il privilegio no. Era facile. Bastava non di perdere contro di lui essere di sinistra. 31 © Laura Santelli L’INTERVISTA in SELLA contro la mafia «Io sono e voglio essere Giuseppe Cimarosa. Vivo di teatro, equitazione e mito, ma non quello di Cosa nostra». Il nipote di Messina Denaro si racconta a Left di Giulio Cavalli 32 7 marzo 2015 È travolto da tanta e improvvisa attenzione Giuseppe Cimarosa, il giovane parente del latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro che ha infiammato la “Leopolda siciliana” disconoscendo pubblicamente il boss e la sua famiglia davanti all’applauso commosso di un migliaio di persone. Travolto come si viene travolti in questo Paese quando il marketing antimafioso si butta su un nuovo simbolo ma Giuseppe ha molto di più da dire, al di là degli stereotipi o i falsi miti. «Non è normale - mi dice - tutta questa attenzione all’improvviso, no. Anche se non so esattamente quale sia la causa. Posso dire però che per fortuna la “Leopolda” ha reso pubblica una vicenda che sembrava appesa nel nulla. Io ci ho partecipato per caso senza nessuno spirito di appartenenza politica perché non è questo che voglio fare nella vita». Hai fatto più politica con un piccolo intervento tu che molti dei politici presenti, però... Sì. Ma diciamo che la mia è stata politica molto “spirituale”. La definirei così. Non sapevo nemmeno esattamente cose fosse una “Leopolda” ma il mio unico pensiero era ed è fare sentire la mia voce a più gente possibile. E ci sei riuscito. È da un anno che ci provo. All’inizio ho contattato le cosiddette “associazioni antimafia” che mi giravano attorno a Castelvetrano (il luogo dove Giuseppe vive con la sua famiglia nonché paese natale di Matteo Messina Denaro, ndr) e dintorni ma mi hanno snobbato, ignorato e a volte addirittura osteggiato. Osteggiato? Addirittura? Certo. Sotterraneamente, ovvio, perché pubblicamente non potrebbero farlo. All’inizio avevo pensato che i loro dubbi derivassero dal fatto che qui non è mai successo che un membro di una famiglia così “pesante” prendesse pubblicamente le distanze dalla mafia. Poi invece mi sono convinto della cattiva fede. Quindi possiamo dire che la politica della Leopolda ha antenne più allenate del mondo dell’antimafia? Credo che anche quelli del Pd siano rimasti sorpresi. Avevano in mente di affrontare anche il tema dell’antimafia e un amico di Castelvetrano mi ha chiesto se avessi voluto intervenire. Anzi, mi ha detto “hai cinque minuti” e io mi ero preparato anche il discorso bello scritto ed ordinato. Quando è stato il mio turno però non ho letto nulla, il discor7 marzo 2015 Non vivo una situazione facile. Una volta deciso di mettermi contro un mafioso non posso più tornare indietro so ce l’avevo nello stomaco ed è successo qualcosa di incredibile. Cioè? Un silenzio. Assordante. Il silenzio assordante. Gente in piedi che piangeva. In quel momento credo che tutti si siano dimenticati del partito e della “politica”. Ne sono stato felice. E poi mi vuoi dire che non c’è stato il tentativo prevedibile di “mettere il cappello” sulla tua storia? Beh, certo. Anche se in realtà sono stati più quelli degli altri partiti che, accusando il Pd di volermi strumentalizzare, hanno finito per farlo loro stessi. Possiamo dire che, comunque, è stata una buona occasione per te. Avevo bisogno di parlare. Di urlare. E meno male che è successo. Io non vivo una situazione facile: una volta che decido di mettermi contro un mafioso, tra l’altro ancora libero, non posso più tornare indietro. Mica posso dirgli “scusa Matteo Messina Denaro mi sono sbagliato, ti chiedo perdono, torno al mio posto”. Mi sono lanciato nel vuoto e devo andare fino in fondo. Riannodiamo i fili della tua storia. Quando nella tua vita ti rendi conto di essere il “parente” di un boss? Da piccolo. Considera però che mia madre questo parente l’ha visto per l’ultima volta al suo matrimonio. Malgrado mia madre fosse cugina con la famiglia Messina Denaro, la mia famiglia non ha avuto rapporti con loro per venticinque anni. Fino a circa tre anni fa quando c’è stato questo maledetto avvicinamento da parte loro, ovviamente perché avevano bisogno di qualcosa. Fin da piccolo si respirava questa figura misteriosa con questo fascino nero. Quindi quasi positivo? In casa si preferiva non parlarne ma a scuola, con i ragazzi, molti sicuramente lo vedevano come un mito perché imprendibile, nascosto bene e tutte queste storie... Finché, quando avevo quattordici o quindici anni, mio padre venne arrestato per la prima volta per collusione e favoreggiamento nei confronti della famiglia Messina Denaro. Ovviamente per la parentela che li accomunava mio padre non avrebbe potuto facilmente dire di no. Sbagliando, mio padre ha pensato che quello sarebbe stato il male minore. 33 Mia nonna mi disse: «Se non la smetti ti ammazzano». E sono cresciuto con la voglia di ribellarmi e la frustrazione di non poterlo fare Pensi che l’abbia fatto per difendervi, per mettere al riparo la vostra famiglia? Certo. A volte non hai scelta. Chi non vive qui non può capirlo. Se non nasci e ci vivi in questo contesto non puoi capire. So che sembra paradossale. Quando è stato arrestato tuo padre per la prima volta come hai reagito? Ho colpevolizzato subito questa nostra parentela. Intimamente ho cominciato a esserne avverso. A quei tempi ero molto più impulsivo, quello che potevo fare era cercare di convincere mia nonna, mia madre, mia zia che Messina Denaro è un criminale che ha ammazzato persone. E loro? Loro sapevano bene che le cose stavano così. Ma erano preoccupate per me. Si dicevano “se questo cresce così rischia”. Un giorno mia nonna mi disse: «Vedi che se non la smetti ti ammazzano». E così sono cresciuto con la voglia di ribellarmi e con la frustrazione di non poterlo fare. Una storia che assomiglia molto a quella di Peppino Impastato... Sì, quando vidi il film I cento passi mi dissi “vedi che si può fare, ci si può ribellare” ma non avrei mai avuto la forza senza il “lancio” di mio padre. Dopo il suo secondo arresto? Sì, dopo il suo secondo arresto (nel dicembre 2013, ndr) mio padre ha capito che l’unico modo per salvare me e mio fratello era dare un taglio netto. Per questo ha deciso di confessare ai magistrati? Certo. Mio padre ha pensato che prima o poi io e mio fratello ci saremmo ritrovati al suo posto. Sicuramente avrebbero domandato e non avremmo potuto rifiutare. Questi se ti chiedono un braccio glielo devi dare, altrimenti te lo tagliano. Io invece ho costruito da solo il mio sogno e sicuramente prima o poi mi sarebbe stato scippato. A proposito del tuo lavoro, appunto. Sei passato semplicemente come il parente del boss ma c’è molto di più. Sì. Io sono e voglio essere Giuseppe Cimarosa. Nasco come cavaliere perché la mia passione per i cavalli è cosa antica. Ho sempre fatto equitazione ed è diventato il mio mestiere. Parallelamente adoravo il teatro e mi dilettavo a fare qualcosa. E oltre a questo adoro l’archeologia a cui ho dedicato 34 i miei studi. Archeologia soprattutto come amore dei miti ed essendo cresciuto qui a Selinunte ovviamente sono “imbevuto” dal mito. A un certo punto mi sono trasferito a Roma e ho frequentato diversi artisti (ogni tanto penso che forse solo un “artista” possa ribellarsi come mi sono ribellato io) e ho deciso di mettere insieme il teatro, l’equitazione e il mito con una forma di “teatro equestre” che non esisteva. Quindi studiando i miti hai sfatato il falso mito del boss Matteo Messina Denaro? Assolutamente. Il vero mito per me è Ettore. Appunto. E come ti mantenevi a Roma? Facevo un po’ di tutto. Per un paio di anni ho lavorato anche per il cinema come stuntman a cavallo ma il mio sogno era unire in un unico atto le mie passioni. Il Teatro equestre non l’ho certo inventato io, in Francia è una realtà da molti anni, curata tra gli altri da Bartabas che è stato anche mio maestro, la mia musa. Questo concetto di comunicare un’immagine anche attraverso l’animale, basato sull’idea di centauro come simbiosi tra l’animale e uomo, secondo me è la più alta espressione di teatro. Il mio è un teatro di immagine con una fortissima componente estetica e dipende molto dallo stomaco, dallo spirito, ogni volta diverso, ogni volta con qualche nuovo imprevisto, l’imbroglio mai provato prima. E quando sei tornato in Sicilia? Tre anni fa. Sentivo il bisogno di tornare. Io non sono mai scappato ma me n’ero andato perché il conflitto con mio padre era troppo forte. Quando sono tornato infatti sapevo tutto, sapevo che eravamo sorvegliati e seguiti dalle forze dell’ordine e probabilmente anche ascoltati. Sapevo tutto. Quando mio padre è stato arrestato per la seconda volta ho provato rabbia. Fortissima rabbia. Io me l’aspettavo e a mio padre molti anni prima avevo fatto una promessa: «Se ti arrestano di nuovo mi perdi per sempre». Quando lo arrestarono in piena notte mi diede la collana che si era tolto dal collo ma io caddi su una sedia, immobile, non avevo nemmeno la forza di parlare. C’erano cinquanta agenti e io ebbi uno sfogo con alcuni di loro. Incredibilmente loro mi capivano, mi hanno quasi abbracciato perché seguendoci e ascoltandoci da molti anni sapevano benissimo chi ero e quale fosse il mio comportamento, la mia essenza. Mi dissero «Giuseppe tu stai tran7 marzo 2015 quillo, vivi la tua vita, fatti i tuoi spettacoli. Noi sappiamo chi sei». E qui succede l’imprevisto. Come se fosse un tuo spettacolo. Sì. Decido di andare in carcere a trovare mio padre per dirgli “basta, sparisci, hai rotto il cazzo”. E invece al primo colloquio si presenta in lacrime e ci dice che stava collaborando con i magistrati, stava dicendo tutto quello che sapeva. Lì è cambiata la nostra vita. A quel punto non ho lasciato più mio padre. Ho gestito l’imprevisto con l’istinto: appoggiare mio padre. Anzi, mi sono chiesto: “Cosa posso fare?”. E mi è venuto naturale urlare a tutti che io non ci sto, che i mafiosi sono loro. E così siamo ad oggi. Questa è la mia storia. Bellissima. Ma paura? La paura c’è. Noi abbiamo deciso di non rientrare nel programma di protezione nonostante lo stupore dei magistrati, perché avrebbe significato sparire e cambiare nome. E secondo te dopo tutto quello che ho fatto per tutelare la dignità del mio cognome avrei potuto fare una cosa del genere? Per Matteo Messina Denaro? Per me significherebbe morire. Tanto vale che mi ammazzino. Io continuo a fare quello che facevo. Ma dopo il pentimento di tuo padre è cambiato qualcosa a Castelvetrano? Certo, il mio maneggio era frequentatissimo e piano piano sono spariti tutti i clienti. Sono rimasto con tre allievi. Ho dovuto ricominciare tutto da capo e ora ho degli allievi che hanno abbracciato la mia scelta. Ora io e gli allievi giusti e un gruppo di lavoro che mi sostiene. Perché il “Teatro equestre Cimarosa” non sono solo io così come non sono solo in questa lotta che porto avanti. Sono tante le persone stanche della mafia. Sono tante le persone che galleggiano a metà. Già questi che stanno nel grigio sono quelli che mi interessano di più. Come mai l’antimafia ha bisogno di eroi, mentre non riusciamo spesso a raccontare le fragilità, come quelle che ha vissuto tuo padre? Io non credo all’antimafia di questi ultimi anni. Le associazioni antimafia mi hanno isolato e hanno tentato di distruggermi. L’antimafia è fatta dalle persone, io credo che non dovrebbero nemmeno esistere le associazioni: nel 2015 non possiamo pensare di creare sottogruppi, dobbiamo impegnarci tutti. Insieme. Rieducare tutte le persone che non hanno le basi, la preparazione e le condi7 marzo 2015 zioni per potere capire dove c’è mafia. Una sorta di conversione. Non è mafia contro antimafia. Stato contro Antistato? No, preferirei “popolo contro la mafia”. Il popolo deve smettere di avere paura. Hai qualcosa da dire a Matteo Messina Denaro? Nulla. Non mi riguarda. Non mi interessa. I magistrati stanno già facendo un ottimo lavoro. La mia scelta è anche frutto dell’impegno che stanno mettendo magistrati come Teresa Principato (che sta indagando sulla latitanza del boss, ndr). Cosa pensi dei figli di Riina e Provenzano protagonisti di interviste su giornali nazionali? Credo serva a fare una differenza tra le parentele come la mia, alla lontana, e i veri e propri figli... Qualcuno dice che andrebbero tolti ai mafiosi e fatti crescere in un ambiente protetto. Sono d’accordo. Assolutamente d’accordo. Toglierei la patria potestà ai mafiosi. Sconfiggeremo mai la mafia? Io dico a ognuno di fare il proprio. Soprattutto a chi è parente di mafiosi: ogni suo gesto può assumere un’importanza particolare. Ma noi diventeremo mai un Paese in cui seguire le regole non sia un atto eroico? Credo di no. Questione di natura degli italiani. Siamo al declino. Guarda cosa siamo noi ora rispetto all’Italia del Rinascimento. E come racconterai tutta questa storia a tuo figlio? Così com’è. E come lo terrai lontano dal pantano in cui ti sei ritrovato tu? Credo che ognuno abbia la possibilità di scegliere. Anche mio padre poteva scegliere: ha fatto la scelta sbagliata. Si può stare in Sicilia anche scegliendo la parte giusta. Non credo L’intervista è finita, e mi viene in mente quanto siano pericolose le semplificazioni in una storia di cui lo scheletro è fatto di penombre, scelte quasi invisibili che si prendono in un secondo e segnano una vita. Come un volteggio a cavallo, sperando, come dice Giuseppe, di «superare l’imbroglio». all’antimafia degli ultimi anni. Le associazioni mi hanno isolato e hanno tentato di distruggermi 35 Illustrazione e infografica Dario Calì CRIMINALITÀ 36 7 marzo 2015 La bUfala è servita. dai clan Le sofisticazioni alimentari e gli interessi “storici” della camorra. Viaggio nella faccia sporca della mozzarella. Una minaccia per l’intero comparto di Raffaele Lupoli Gennaro è appena rientrato nel suo negozio di alimentari in provincia di Napoli. Oggi la mozzarella è andata a ritirarla direttamente nel caseificio. «Ogni tanto lo faccio - racconta - per tenere i rapporti con il fornitore. Prima di individuarlo ho visitato l’azienda e i pascoli, ho visto le certificazioni, le analisi e ho valutato il prodotto confrontandolo con altri. Poi c’è il rapporto di fiducia... Di più non posso fare». Come Gennaro sono tanti i rivenditori, e ancor più i consumatori, che restano disorientati di fronte a notizie come quella dello scorso 29 gennaio, quando i Nas dei Carabinieri hanno sequestrato in un caseificio di Caserta 5.000 litri di latte di bufala congelato in maniera irregolare e di provenienza ignota. Soltanto sette giorni prima a Serre, nel salernitano, è stato sequestrato un caseificio che produceva mozzarella senza latte. Nei locali i Nas hanno trovato una grande quantità di cagliata, semilavorato proveniente dall’est Europa che consente di ridurre costi e tempi di produzione. Eppure la mozzarella di bufala è tra i prodotti agroalimentari che vantano il maggior numero di controlli: oltre 15.000 l’anno. E il Consorzio di tutela è l’unico a prevedere nel proprio codice etico l’espulsione per chi non rispetta le regole. La truffa o, peggio, l’affare che coinvolge clan camorristici e gruppi criminali, con il costante sostegno dei “colletti bianchi”, è sempre in agguato. «Non so nulla di queste cose - commenta il negoziante -, ma qui si vende tanta di quella mozzarella che mi chiedo dove siano tutte le bufale di cui c’è bisogno». Proprio sulla provenienza e sui presunti traffici di latte da Paesi stranieri, in 7 marzo 2015 particolare dalla Romania, dove gli affari dei Casalesi sono fiorenti in diversi settori, si è spesso appuntata l’attenzione degli investigatori. Già dieci anni fa il pm di Napoli Antonello Ardituro aveva segnalato come gli affari della camorra si “diversificano” su fronti che comportano meno rischi: rifiuti e agroalimentare. Del latte e della cagliata provenienti dall’Est Europa Francesco (Romania, Polonia, Lituania, Lettonia) e importato illegalmente dai clan “Sandokan” si è interessata già nel 2010 la procuSchiavone era ra di Napoli nell’ambito dell’operalatitante zione “Oro bianco”. È il collaboratore di giustizia Domenico Bidognetti a in Francia e raccontare come alcuni imprenditori si informava del casertano acquistassero bufale in sul suo Romania per sostituire i loro capi ammalati di brucellosi, mentre Francesco allevamento “Sandokan” Schiavone dalla latitanza in Francia si preoccupava del foraggio e delle bufale della sua azienda agricola in località Ferrandelle, poi diventata discarica di rifiuti dopo la confisca, ai tempi della cosiddetta “emergenza”. Insomma, quando ci si mettono di mezzo i clan è l’intera filiera a farne le spese: dagli incendi dei depositi di foraggio agli sversamenti illegali di siero nel fiume Sele, passando per l’uso di latte vaccino o comunque “fuori controllo” per un prodotto che si fregia della Denominazione di origine protetta. Un business che si intreccia anche con quello “storico” del traffico di rifiuti speciali e delle discariche abusive. Ancora Domenico Bidognetti, racconta di una discarica illegale sorta all’inizio degli anni Novanta nel37 CRIMINALITÀ le campagne di Casal di Principe, in un punto dov’era stata estratta terra da impiegare nella realizzazione della superstrada Nola-Villa Literno. Coperto di terra, l’invaso si trasformò in azienda di allevamento di bufale. Nel luglio 2012 aziende di allevamento di bufale, fondi agricoli e immobili per un valore di oltre 2 milioni di euro sono stati sequestrati a Paolo Schiavone, figlio di Francesco detto “Cicciariello” e nipote di “Sandokan”. Risale al 2009, invece, l’arresto di 19 persone, tra cui un veterinario, con l’accusa di aver “dopato” le bufale per aumentare la produzione di latte. Usavano la somatotropina, un ormone della crescita vietato nell’Unione Europea e rintracciato in 25 allevamenti in provincia di Caserta per un totale di circa 2.000 capi. Pochi chilometri più in là si estende invece l’impero del re della mozzarella di bufala, Giuseppe Mandara, arrestato due volte per il suo presunto legame con il clan La Torre di Mondragone ed entrambe Nel 2009 le volte rilasciato. Il 21 dicembre 2014 arrestati alcuni la Cassazione ha respinto il ricorso dei pm di Napoli contro il Riesame, che allevatori aveva annullato la richiesta dei domie un veterinario ciliari. Mandara era già stato arrestato il 17 luglio 2012 con le stesse accuse che dopavano ma la misura cautelare a suo carico gli animali era stata revocata. Per la Dda di Napoper avere li Mandara ha costruito il suo impero avvalendosi dell’appoggio del clan La più latte Torre, che ha investito milioni di euro nelle sue attività. Ma la Cassazione ritiene che le accuse mosse nel 2014 non aggiungono niente di sostanziale rispetto all’impianto del 2012. Dal clan La Torre di Mondragone, ormai disciolto, deriva la famiglia Perfetto, che nel 2013 aveva provato a coinvolgere Renato Vallanzasca. “Voleva portare a Milano la mozzarella della camorre” titolavano i giornali all’epoca. Italo Zona, che per conto del clan Perfetto si occupava delle estorsioni, così gli diceva al telefono: «Rena’ mettiamo una cosa in piedi insieme lassù... Mettiamo un grosso centro di smistamento di mozzarelle... una bella piattaforma... io ti mando tutti i giorni le mozzarelle!». E poi: «Metto tutto io... tu trovami solo il punto e poi te lo gestisci tu... e poi lo facciamo in società... tu non devi investire niente». Vallanzasca sembra bene intenzionato e da una frase lascia trapelare che probabilmente eludendo i domiciliari è stato dalle parti di Mondragone: «Se è come quella che mi avete fatto magiare giù...». Poi gli 38 viene revocato il permesso di lavoro e l’affare non si fa. Anzi, si fa in maniera diversa, perché è la moglie di Vallanzasca, Antonella D’Agostino, a mettere in piedi la commercializzazione assieme al capoclan Giuseppe Prefetto. Ma l’affare si blocca con l’intervento della magistratura, che a dicembre 2013 ordina l’arresto di entrambi. Storie, queste, che unite al danno di immagine derivante dal fenimeno “Terra dei fuochi” 2013 il calo di fatturato è stato enorme) rischiano di mettere in ginocchio un intero comparto produttivo, tra i più solidi dell’economia campana dal momento che fattura ogni anno 300 milioni circa. Sono più di 1.900 gli allevamenti di bufale che danno vita a questo giro d’affari, tremila imprenditori che gestiscono 250mila capi di bestiame, 370 caseifici, 130mila bufale in lattazione, 33mila tonnellate di produzione annua (il 90% in Campania, il 10% nel basso Lazio e in Puglia). «È una situazione paradossale - commenta Domenico Raimondo, presidente del Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana Dop - che vede noi, i veri danneggiati, spesso sul banco degli imputati. Proprio noi che non solo peroriamo la causa di un sistema di controlli sempre più capillare ma che da tempo chiediamo alle autorità di inasprire le pene nei confronti dei truffatori». Truffatori che assieme alle sorti di un’eccellenza del made in Italy (il 16 per cento è esportato) minacciano anche la salute dei conumatori. È dello scorso dicembre il sequestro del caseificio Marrandino, tra Castel Volturno e Carinola, sempre nel casertano, noto “ambasciatore” del marchio. Agli arresti i titolari, padre e figlio, e un veterinario della Asl, padre di un dipendente dell’azienda, anch’egli arrestato. L’inchiesta è uno sviluppo di quella che nel 2012 portò al sequestro e successivo dissequestro di capi. Per l’accusa «allevatori, produttori caseari e veterinari, avevano messo in piedi un sistema illecito fraudolento, finalizzato a nascondere, per mere ragioni di guadagno, i casi di brucellosi presenti all’interno degli allevamenti». Allevatori e veterinari sono accusati di aver somministrato sostanze vietate come il vaccino RB51 ai capi adulti, provocando la diffusione della malattia e del batterio vivo RB 51, pericolosi per gli animali ma non per la salute umana se il latte viene pastorizzato. «Ne va della nostra salute», commenta un commerciante campano. «Oltre ai controlli serve prevenzione e trasparenza della filiera: solo così ci meriteremo la fiducia dei consumatori». 7 marzo 2015 IL GIRO D’AFFARI AGROMAFIE no limits 15,4 miliardi il fatturato nel 2014 +10% rispetto al 2013 Salta la barriera tra l’economia sana e quella illegale. L’assalto di mafie e truffatori all’agroalimentare italiano di Francesco Maria Borrelli La frontiera tra economia sana e interessi criminali è saltata anche nel settore agroalimentare. E il business degli illeciti attorno alla tavola aumenta del 10% in un anno, raggiungendo quota 15,4 miliardi nel 2014. Con un miliardo e mezzo almeno transitati dall’economia sana a quella illegale. Il dossier annuale di Coldiretti ed Eurispes traccia uno spaccato fatto di traffici, truffe e interessi dei clan, in un’annata in cui anche il meteo ha fatto la sua parte per affossare l’agricoltura italiana. Pensiamo al settore oleario, con le problematiche relative alla tracciabilità e alla miscelazione che si aggiungono al drastico calo di produzione dovuto alle piogge estive e ai parassiti. I trafficanti di alimenti made in Italy o presunti tali prosperano anche in Rete: secondo l’Osservatorio E-commerce BtoC del Politecnico di Milano, nel 2014 l’incremento del commercio elettronico in Italia è del 17 per cento rispetto al 2013, per un volume economico pari a 13,2 miliardi di euro. Qui il settore agroalimentare si attesta al secondo posto con il 12 per cento del traffico totale; basta pensare che i Nuclei antifrode dei carabinieri hanno individuato 70 diverse tipologie di prodotti alimentari contraffatti fruibili sul web. Le mafie, poi, hanno un menù ricco anche nel settore della ristorazione, con oltre cinquemila attività controllate (a volte veri e propri franchising) che servono come co7 marzo 2015 60 miliardi il valore del falso Made in Italy 5.000 locali nelle mani della criminalità organizzata Fonte: Rapporto Agromafie 2015 CRIMINALITÀ SEQUESTRI Valore dei sequestri effettuati nel 2013 dalle forze dell’ordine pertura ai clan e permettono di tute- vali” e degli sviluppi che ha avuto nel lare i patrimoni finanziari accumulati corso degli anni. La gigantesca truffa con le attività illecite. L’elenco è molto condotta dalla Guardia di finanza che più lungo e si estende in tutti i settori, tra il 2010 e il 2012 ha accertato 200 compresi l’import-export, il circuito milioni di false fatturazioni. «L’indaillegale degli agrofarmaci contraffatti gine – spiega la Ggf - ha riguardato e il business del traffico di rifiuti tos- oltre quaranta imprese localizzate in sici, il cui effetto ricade sugli alleva- Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, menti e sulla produzione agricola. Toscana, Lazio, Marche, Abruzzo, PuAll’ombra dei capitali occulti, il mer- glia e Sardegna. Oltre duecento micato finanziario era abituato al rici- lioni di euro di fatture per operazioni claggio dei soldi sporchi, da qualche inesistenti, più di duemilacinquecentempo però ha preso piede il fenome- to tonnellate di merce falsamente no del money dirtying, capitali puli- biologica sequestrata e oltre 700 mila ti che vanno a finire nell’economia tonnellate di falsi prodotti alimentari nera per un mero ritorno economico. dichiarati bio commercializzati. Così, complici le strettoie del credit Ma come avviene il controllo a froncrunch, un imprendite di decine di migliaia tore può trovare con- Nel 2014 di operatori registraveniente infilarsi nella le imprese ti su Data Bio? «Nel ragnatela delle organizmomento in cui c’è zazioni criminali, la cui agricole un’allerta perché si sostrategia d’azione pre- in difficoltà spetta che un prodotto vede la ricerca di nuovi erano oltre non sia conforme, gli canali di riciclaggio. «Le organismi di controlimprese agricole in dif- 18.000: il 6% lo sospendono in via ficoltà economica sono più dell’anno cautelativa la certificasalite ad oltre 18.000 precedente zione – precisa Paolo unità, con un increCarnemolla, presidenmento del 6 per cento rispetto all’an- te di Federbio -. Subito questa inforno precedente e con l’ammontare mazione viene trasmessa su Data Bio dei finanziamenti a sofferenza pari a che segnala che l’operatore o il lotto 4,9 miliardi di euro, circa 600 milioni in questione in quel momento non in più rispetto al 2013» fanno sapere è agibile. In sostanza si tratta di uno da Coldiretti. strumento di lavoro per gli organismi di certificazione e per le imprese che Un business, quello delle agromafie, acquistano, le quali sono informate se che non risparmia filiera corta e bio- il venditore sta agendo correttamenlogico. Il settore bio si è dotato di re- te». cente di un nuovo strumento di tracciabilità di produzioni e transazioni: La banca dati è costituita da tre aree: si chiama Data Bio ed è una banca una pubblica dove c’è l’anagrafica dati a disposizione di cittadini e im- degli operatori e i relativi certificati prese in grado di raccogliere e map- di conformità, una seconda riservata pare le informazioni relative alla qua- agli addetti ai lavori, in cui verransi totalità degli operatori del biologico no caricate tutte le non conformità italiano, oltre 48mila imprese. Tutto emesse dagli organismi di controllo è partito su iniziativa di Accredia Ac- ai loro operatori, e una terza parte credia (l’ente che attesta che gli or- comporta il caricamento nell’area ganismi di certificazione e ispezione riservata dei programmi annuali di abbiano le competenze per valutare produzione. Un software verifica se la la conformità dei prodotti) e Federbio quantità immessa sul mercato da un (Federazione italiana agricoltura bio- soggetto è compatibile con la sua calogica e biodinamica) all’indomani pacità produttiva e, anche in questo dell’ennesima frode sui prodotti bio- caso, se si riscontra un’anomalia scatlogici denominata “Gatto con gli sti- terà un “campanello d’allarme”. 40 447,1 milioni beni alimentari 112,2 milioni carne e allevamenti 80,8 milioni ristorazione 65,1 milioni farine, pane e pasta Fonte: Rapporto Ecomafia 2014 I la crisi ingrassa l’ecocrimine «Fattori climatici e stretta creditizia spianano la strada all’illegalità». Intervista a Gian Carlo Caselli L’economia illegale è fatta di cifre da capogiro, cui corrisponde un impoverimento altrettanto da capogiro della collettività 7 marzo 2015 «È un fenomeno liquido, capace di insinuarsi dappertutto e ledere gli interessi di produttori e consumatori». L’ex procuratore capo del tribunale di Torino Gian Carlo Caselli è ora presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. E ha già registrato «la naturale propensione della mafia a cercare nuove strade, nuovi mercati, a non stare mai ferma pur di moltiplicare profitti e potere economico». Gli abbiamo chiesto di tracciare una fotografia del fenomeno agromafie. Dottor Caselli, criminalità e agroalimentare vanno sempre più a braccetto. Cosa sta accedendo? La crescita del fenomeno delle agromafie è legata a diversi fattori: uno di carattere fisiologico dovuto al fatto che gli affari delle mafie sono in espansione in tutti i settori e quindi anche in quello agroalimentare. Poi ci sono stati fattori climatici non prevedibili che hanno colpito pesantemente la produzione che perciò si è trovata in difficoltà a far fronte alla domanda, per cui si sono aperti spazi a fenomeni di illegalità. Infine ci sono fattori dovuti alla restrizione del credito alle imprese. A quanto pare non è soltanto questione di clan. Perché tante imprese si buttano nel business delle agromafie? Anche qui centrano la crisi economica, le limitazioni per quanto riguarda l’erogazione del credito, l’incertezza e spesso perfino la paura che immobilizzano presso le banche quote sempre più consistenti di risparmio dei privati. Tutti questi ingredienti contribuiscono al money dirtying. Nel senso che molti di coloro che dispongono di liquidità prodotta all’interno di settori attivi nonostante la crisi, trovano conveniente, e perciò praticano, forme di investimenti borderline non ortodosse, illegali, con l’obiettivo del profitto massimo possibile. Se l’economia pulita offre di meno, ci sono altri circuiti di investimento che offrono di più e ci si rivolge a questi senza guardar troppo per il sottile. Tanto più che i referenti mafiosi sanno dove e come mimetizzarsi. Cosa potrebbe fare la politica per arginare il fenomeno? Le stesse cose che dovrebbe fare, e purtroppo fa in misura non sufficiente, per arginare altri aspetti dell’illegalità economica. Che non è soltanto economia mafiosa, agromafia compresa (con un giro d’affari rispettivamente di 160 e 15,4 miliardi di euro l’anno), ma è anche evasione fiscale (business di 120 miliardi di euro l’anno; siamo il terzo Paese al mondo dopo Messico e Turchia) e corruzione (60 miliardi di euro l’anno). L’economia illegale considerata in tutte le sue articolazioni, è caratterizzata da cifre semplicemente da capogiro cui corrisponde un impoverimento altrettanto da capogiro della collettività. Perché l’evasione fiscale, la corruzione e la mafia rapinano alla collettività risorse che potrebbero consentirle di viverle meglio. Allora bisogna reagire con più determinazione e forza contro ogni forma di illegalità economica, nella certezza che il recupero di legalità è un recupero di reddito e che la legalità è la chiave per affrontare la crisi economica sociale che ancora ci affligge. f.m.b. 41 POLITICA ALTERNATIVA CERCASI A Firenze si è svolto il primo incontro nazionale dei fuoriusciti del M5S. A trainare gruppi territoriali e attivisti sperduti, i parlamentari di Alternativa Libera di Ilaria Giupponi È uno spaccato d’Italia amaro, quello che si è riunito al Palacongressi di Firenze il 28 febbraio: ritrae persone in cerca di un’identità politica. Condivisa o calata dall’alto poco importa. Ciò che conta è che serva a traghettare la voglia di partecipazione dei cittadini ormai lontanissimi dai partiti di massa. È un pezzo d’Italia orfana che cerca un contenitore che organizzi il loro impegno e che lo convalidi a livello nazionale e istituzionale. Come se avessero la netta percezione, a volte anche dichiarata, di non valere niente per il main-stream della politica, senza un partito. Loro, gli oltre 200 partecipanti alla prima prova nazionale di una Costituente di Alternativa Libera, il gruppo dei parlamentari fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle esattamente un mese fa, un partito lo avevano. Poi sono stati cacciati, delusi, frustrati. Soprattutto, sono stati ignorati. Oltre ai parlamentari, ci sono consiglieri comunali e quelli che un tempo erano sacri: i militanti che loro chiamano “attivisti”, uno status civico. La Casaleggio Associati si è dimenticata di una parte costitutiva del M5S: il territorio. Un territorio - da Sesto Fiorentino a Cinisello Balsamo, dalla Calabria passando per l’Appennino bolognese fino ai picchi del Friuli Venezia Giulia - che non ci sta: all’assise ci sono arrivati da tutta Italia, verso nuove vecchie Grandi Speranze. Collaborerà col Pd? No, dicono: «Continuiamo a essere opposizione intransigente a questo governo che non significa che non ci possa essere un dialogo» quasi si giustifica Tancredi Turco, deputato fra “i dieci dell’Apocalisse”. Si presenteranno alle prossime elezioni regionali? Forse in Veneto, pare. Intanto si danno appuntamento a Milano per il 27 marzo. Ma non è questo il dato colto in una dimensione che colpisce più per la sua componente umana che politica, ben più fiacca. Ognuno porta con sé il risentimento, la delusione, 42 e il ricordo di un’idea di politica fatta dal basso, condivisa, discussa e trasparente. Ma purtroppo, niente di più. Parole come “trasparenza”, “partecipazione”, pietre miliari di un’identità espropriata, riecheggiano nel vuoto organizzativo di una grossa fetta di cittadini senza una guida. Ma un partito lo vogliono, e vogliono dei leader. Che siano il friulano Walter Rizzetto, l’imolese Mara Mucci o l’autoctono Massimo Artini fa nulla, purché si prendano la loro rivincita. Una rivincita che non può però essere una mission politica, come fu in passato per il primo pentastellato, giovane promessa e delfino di Beppe Grillo Giovanni Favia, che ha fatto dell’anti-M5s il suo stancante leitmotiv. Anzi, non ne vorrebbero proprio parlare. E soprattutto non vogliono essere chiamati ex: «Nessuno di noi vuole essere chiamato ex», esordisce Rizzetto leader dei dissidenti e ora capogruppo di AL alla Camera. «Chi sta sui temi non potrà permettersi di chiamarsi “ex”: i principi sono nostri più che mai». Eppure, quel “non più M5s” pesa come un macigno, e ritorna sempre, in ogni intervento, come un peccato originario di cui non si sente però la colpa, ma il rancore per esserne stati estromessi e non averlo potuto compiere fino Cos’è: formazione interna al Gruppo Misto di 10 parlamentari usciti in blocco dal M5S il 27 gennaio 2015 Chi sono: Capogruppo Walter Rizzeto, i deputati Tacredi Turco, Massimo Artini, Marco Baldassarre, Sebastiano Barbanti, Samuele Segoni, Gessica Rostellato, Eleonora Bechis e Aris Prodani, ai quali si è aggiunto il senatore Maurizio Romani Struttura: in attesa di uno statuto condiviso, punta a una federazione di associazioni con delegati regionali e comunali Adesioni: presente in tutte le regioni con oltre 3000 attivisti, provenienti da liste civiche indipendenti o gruppi locali ex-M5s. Si attendono le mosse degli altri senatori fuoriusciti e di dissidenti pentastellati 7 marzo 2015 © Ansa/Maurizio Degl’innocenti Divisi fra delusi, idealisti e rancorosi: una grossa fetta di ex grillini cerca un partito senza padrone 7 marzo 2015 in fondo. Un “peccato originario” di cui anzi si rivendica la paternità: «Beppe, riprenditi l’odore dei tuoi soldi, noi ci teniamo il nostro senso civico che nessun post può strapparci», chiarisce uno dei sei consiglieri comunali eletti a Montelupo Fiorentino. E il suo collega pisano ribadisce: «Noi siamo stati eletti grazie al Movimento 5 Stelle? O sono gli eletti del Movimento che sono tali grazie ai cittadini?». C’è una base in cerca di un riferimento politico, ma c’è anche un gruppo politico in cerca di una base: «Vorremmo essere il vostro terminale e portare la vostra voce in Parlamento», annuncia Turco dal pulpito. «Voi avete bisogno di noi per far sentire la vostra voce in Parlamento, ma noi abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno di una base». È una base senza identità, gli si potrebbe far notare. Tuttavia, nel Movimento 5 Stelle, l’identità è diventata un logo che sacrifica contenuto e adepti, quindi forse fuoriusciti e non hanno molto più in comune di quello che non dicano. «Proviamo a scalzare il marketing e mettere al suo posto l’onestà», è il ritorno alle origini proposto da Rizzetto e colleghi. La libertà di espressione è il filo comune, «mai frustrata da nessuno e in nessuna maniera se non dal buon senso personale», dicono da una lista civica della Lombardia (ex-amici di Beppe Grillo). Si ricomincia - in che modo ancora non si sa, ma quello che conta è: «Senza più paura delle parole», colpisce il senatore aretino Romani. Per essere come i ragazzi di Percorso Comune, Alternativa libera, gli ex-amici di Beppe Grillo e tutte le città “in Movimento”, ancora non lo sanno, mentre è chiarissimo il dictat di come non essere: «Non ci sentirete urlare allo scandalo, non ci sentirete offendere l’avversario, non perché figli di una nuova rivoluzione gandhiana, ma perché intimamente convinti che la rivoluzione culturale debba passa- re attraverso messaggi positivi, il dialogo e la proposta», è la presentazione della giornata. Durante la quale si è parlato di Costituzione, in un tenero e inconsapevole scimmiottamento “dal basso” della due giorni di Libertà e Giustizia che aveva luogo a pochi metri da li. Si è parlato di ambiente, acqua pubblica, legalità, lavoratori autonomi: «In due anni di istituzioni non possiamo aver dimenticato questi temi», sempre Rizzetto all’apertura dei lavori. Raccontano le loro esperienze e le loro aspirazioni in quello che troppo spesso è sembrato essere uno sfogatoio, in altre la quintessenza della democrazia partecipata. E di fatto questo è quello che cercano: lo spazio per partecipare. È quell’Italia che si era riversata con entusiasmo in quello che successivamente diventò il Movimento 5 Stelle: il brand delle liste civiche. Beppe Grillo aveva intercettato il discontento trasversale, la frustrazione, la violenza dell’idealismo. Gianroberto Casaleggio, aveva capito il valore commerciale della stupidità e del fanatismo, immobilizzando con un marchio depositato la libertà d’iniziativa e d’espressione. Le liste civiche erano preesistenti, e non a caso, molti di loro venuti in rappresentanza di altrettanti, non sono (ex)grillini dell’ultima ora, che nascevano dal nulla a ogni tornata elettorale dopo il boom delle politiche. Sono movimentisti idealisti ma frustrati, che rivendicano la propria dignità alcuni, la propria originalità e autonomia altri, altri ancora, tradiscono solo ed esclusivamente il rancore verso le ingiustizie subite. Alcuni stanno attenti perfino ad alzare la testa, figli del trauma di quell’uno vale uno che doveva servire a sedare i protagonisti, ma il più delle volte ha mortificato gli impegni, diventando “uno vale l’altro”. Una mortificazione che ha generato rancore che oggi cerca nuovamente una guida. Altri invece la alzano: è arrivato il loro momento. Credono. 43 di Giuseppe Benedetti LA SCUOLA Tentazioni private L’istruzione come bene pubblico e garanzia di uguaglianza appare sempre più a rischio sotto il governo Renzi. Lo provano la “lettera dei 44” e il ruolo dato alle famiglie 44 ferenze tra pubblico e privato) potrebbero beneficiare di un sistema di finanziamento simile a quello del 5 per mille, con una distribuzione delle risorse delegata alle famiglie. I guasti prodotti dall’autonomia, con una forbice sempre più larga tra le scuole delle aree più ricche e quelle delle zone più arretrate del Paese, si moltiplicherebbero. Inoltre si introdurrebbe surrettiziamente il principio che non esistono beni pubblici in quanto tutto è subordinato al consenso individuale. Sulla base di questo principio non esisterebbe più una scuola pubblica, garanzia di uguaglianza di diritti e coesione socile, ma esisterebbero tante scuole quante sono le famiglie. I nostri rottamatori vogliono condannare i giovani a rimanere dentro l’angusto circuito familiare, come avviene nelle società più arcaiche e retrive. E sotto questa ingannevole idea della “libertà di scelta educativa” ci sono due convinzioni: che i docenti della scuola pubblica siano orientati politicamente a senso unico e che il processo di insegnamentoapprendimento sia tutt’altro che libero, ma naturalmente portato a “inculcare” convinzioni negli allievi. Così si cambia verso alla realtà: la scuola pubblica viene infangata con l’accusa di essere una fabbrica del consenso, mentre la scuola privata diventa, secondo questa fantastica ricostruzione, il sistema in cui ad una libertà di scelta educativa da parte delle famiglie corrisponderebbe la libertà di insegnamento. C’è un’altra grande bugia anche dietro la richiesta di ulteriori fondi alle scuole private. Cioè quella del risparmio per lo Stato di 6 miliardi di euro l’anno. Un recente studio della Fondazione Agnelli (dicembre 2014) ha mostrato che è una menzogna perché 200mila sono i fruitori delle scuole comunali dell’infanzia (quindi, indirettamente, dello Stato) e perché l’assorbimento dei 400mila studenti di primaria e secondaria delle private avverrebbe senza un incremento significativo di aule e insegnanti nel pubblico, con un aggravio di spesa molto distante da quello sbandierato. Non è vero che lo Stato risparmia con gli istituti paritari. Parola della Fondazione Agnelli © Ansa/ Alessandro Di Marco Con un’evasione fiscale che dissangua le casse dello Stato e con un livello di corruzione superiore a qualunque altro Paese europeo, una priorità del governo Renzi è umiliare la scuola pubblica, con l’ennesimo taglio reclamizzato come riforma. Riforma va detto, che slitta, visto che il decreto è saltato. Ma rimane inalterata la filosofia che ne è alla base. Già il documento della Buona scuola, ispirato dai burocrati di Bruxelles, dichiarava l’impossibilità dello Stato di rispondere integralmente alla domanda di istruzione nel nostro Paese. Ora, con un altro cambiamento di verso delle priorità, diversi esponenti del governo (a cominciare dal ministro Giannini) e del Pd (in testa i parlamentari Malpezzi, Patriarca e Rubinato nella lettera dei 44 inviata a Avvenire) si preoccupano di incrementare il finanziamento delle scuole private. Non bastano i 700 milioni di euro versati ogni anno agli istituti privati dallo Stato (500 dal Miur e 200 dagli enti locali). È stata proposta - e lo stesso ex ministro Luigi Berlinguer la sollecita - una defiscalizzazione delle rette, per cui la transazione da privato (la famiglia) a privato (la scuola privata) godrebbe di uno sconto fiscale pubblico. Lo stesso premier ha annunciato che i singoli istituti (senza dif- 7 marzo 2015 di Emanuele Santi CALCIO MANCINO C’era una volta il Parma Nel 1993, la squadra allenata da Nevio Scala vince il suo primo trofeo europeo: la Coppa delle Coppe. La finale nel “tempio” di Wembley contro i belgi dell’Anversa Tra i giocatori, Faustino Asprilla genio colombiano del pallone La formazione del Parma alla finale di Wembley 7 marzo 2015 Nella stagione ’92-’93, il vecchio continente è in pieno sconvolgimento geopolitico. La Jugoslavia, bandita dal campionato europeo vinto in estate dalla sorprendente Danimarca, si ritrova con i club estromessi da: coppa Campioni, coppa Uefa e coppa delle Coppe, a cui partecipano invece le formazioni della Slovenia, risparmiata dalla guerra civile. L’ex Unione sovietica, scesa in campo come Csi tanto agli Europei di Svezia quanto alle Olimpiadi di Barcellona, manda le squadre di Russia, Ucraina, Lettonia, Estonia e Lituania a riempire oltremisura le stesse urne da sorteggio nelle quali confluiscono i club di altri Paesi altrettanto recenti quali Liechtenstein e Far Oer. L’aumento delle squadre è con- tenuto dal ritardo organizzativo di Belorussia, Georgia e Moldavia; dalla persistenza della Cecoslovacchia e da una Germania riunificata che ha congelato i club dell’Est. L’Italia, una e indivisibile, schiera il Milan in coppa Campioni; Juve, Toro, Napoli e Roma in coppa Uefa e il Parma in coppa delle Coppe. La squadra della Parmalat è una splendida realtà. Promossa in serie A nell’estate del ’90, ha centrato la qualificazione in coppa Uefa nel campionato d’esordio ’90-’91 e ha vinto la coppa Italia edizione ’91-’92. Taffarel, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin. L’allenatore è Nevio Scala, colui il quale, dopo ogni partita, obbliga i suoi ragazzi a correre intorno al campo per favorire il riassorbimento dell’acido lattico. La rosa si è arricchita con Sergio Berti e Faustino Asprilla, portati a Collecchio dalle manovre di mercato operate in Sudamerica dalla multinazionale di Calisto Tanzi. E mentre l’argentino fatica a trovare spazio, il colombiano si impone come arma irrinunciabile. I primi a cadere sotto i suoi colpi, a settembre, sono gli ungheresi dell’Ujpest nello stesso “mercoledì nero” che porta la sterlina fuori dallo Sme e il Parma agli ottavi. A metà ottobre, tocca ai portoghesi del Boavista proprio mentre il mondo celebra i cinque secoli del viaggio di Colombo e mentre la Chiesa annuncia la tempestiva riabilitazione di Galileo. Dopodichè le coppe vanno in letargo fino a marzo, mese perfetto per una bella gita a Praga: capitale della neonata Repubblica Ceca e città del vecchio Sparta. 0-0 al Letnà Stadion e 2-0 al Tardini con reti di Sandro Melli e del solito Asprilla, protagonista assoluto anche nella semifinale d’andata al Vicente Calderon di Madrid, tana dell’Atletico. Una doppietta della freccia colombiana vale la vittoria per 1-2 in trasferta. Al ritorno, i madrileni sfiorano l’impresa, ma lo 0-1 non basta. Finale a Londra il 12 maggio contro i belgi dell’Anversa guidati in attacco da Alex Czernyatinski. In un tempio di Wembley pieno soltanto a metà, i gialloblù non si fanno emozionare. Vincono 3-1 e sollevano il primo trofeo europeo della loro storia nonostante Asprilla rimasto in panchina per chissà quale mistero disciplinare. Ad eccezione del portiere Taffarel, sacrificato in tribuna come quarto straniero, la formazione è la stessa della finale di coppa Italia dell’anno precedente: Ballotta, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin. Allenatore Nevio Scala. 45 INGHILTERRA Dizionario sintetico DELle elezioni inglesi A maggio il Regno Unito va al voto. Il risultato non è scontato e ci riguarda da vicino. La nostra guida pratica di Massimo Paradiso Londra è la settima città d’Italia per popolazione. Con i suoi 500.000 cittadini italiani che sono andati a cercare fortuna oltre Manica, l’Inghilterra rimane uno dei poli d’attrazione per gli immigrati del Belpaese, che siano “cervelli in fuga” o no. Con le elezioni alle porte, il 7 maggio, la Gran Bretagna potrebbe cambiare drasticamente. Il Regno Unito infatti rischia di farsi conquistare dalla propaganda anti Europa e dai toni imposti dal leader dell’Ukip Nigel Farage, chiudere le frontiere all’immigrazione e puntare su una politica autarchica, assecondando la crescente fascia più conservatrice dell’elettorato. Sono le elezioni più imprevedibili dalla Seconda Guerra Mondiale per la varietà di partiti che si presenteranno. L’unico risultato che sembra certo è lo scardinamento del bipartitismo conservatori-laburisti consolidato da decenni. È allora utile una guida pratica per chi volesse orientarsi all’ombra del Big Ben. A come Altra Europa © AP Photo/Kirsty Wigglesworth Jean-Claude Juncker è avvisato. Chiunque risulti vincitore alle prossime elezioni inglesi, è molto probabile che nei primi cento giorni di governo proponga un referendum per l’uscita dall’Europa. È il noto “Brexit” che spaventa Bruxelles. Questo non perché la maggioranza degli inglesi sia per un’uscita tout court dall’Europa (gli inglesi sono euroscettici per natura, sì, ma a tutto c’è un limite). Semplicemente è probabile che il prossimo governo voglia strizzare l’occhio alla “pancia” del Paese più che alla “testa”, dimostrando di volersi giocare il tutto per tutto con Bruxelles. C come Cameron, David Il primo ministro uscente è forte di una ripresa economica senza precedenti e ha incassato, 46 7 marzo 2015 anche se risicata, una vittoria sul fronte dell’indipendenza scozzese, bocciata dal referendum dello scorso autunno. D’altro canto, Cameron sta pagando in termini elettorali un innalzamento impressionante del costo della vita - Londra, come noto, è la città più costosa al mondo - e, sull’elettorato moderato, le spinte sempre più estremiste di alcuni componenti del partito conservatore, che seguono Farage, sul fronte dell’immigrazione e dell’euroscetticismo. È probabile che il primo ministro vinca di nuovo le chiavi del numero 10 di Downing street ma è anche molto probabile che sia costretto a scendere a patti con un partito di coalizione. F come Farage, Nigel L’eurodeputato Nigel Farage, leader incontrastato del partito populista Ukip, è forse il politico più attenzionato dai media britannici, anche se ultimamente è in flessione nei sondaggi. Farage sposa l’euroscetticismo, la politica del «padroni a casa nostra» ed è protagonista delle uscite più xenofobe e sessiste che l’Inghilterra ricordi. Che l’Ukip se la prenda con immigrati e omosessuali, e che dica espressamente di non aver «nessun problema se non con i negri», non impedisce però che l’elettorato sia trasversale. G come Gentlemen’s club Ci si riferisce così al parlamento inglese. Un club di gentiluomini, per lo più anziani e navigati politici, a cui le quote rosa fanno venire l’orticaria. Cameron ha tentato con il rimpasto della primavera scorsa, ma le donne, sia al governo che all’interno del parlamento, hanno un ruolo marginale. Lo ha raccontato bene il più stagionato dei corrispondenti politici della Bbc, Michael Cockerell, in un recente documentario: «I parlametari inglesi sono un gruppo di vecchi amici, sciovinisti, tutti maschi. Le donne, secondo loro, vanno bene per preparare i drink. O per stirare le camicie». I come Immigrazione Lo sostiene l’Ukip. Lo hanno ripreso i conservatori. Il prossimo governo inglese potrebbe mettere una stretta all’immigrazione europea in Gran Bretagna. Se prima si temeva l’invasione polacca e rumena, ora i partiti di centro e di destra hanno come obiettivo quello di dare un 7 marzo 2015 taglio all’immigrazione «in centinaia di migliaia di unità». Vale anche per noi. I laburisti tacciono con la paura di perdere ancora più consensi ma il timore generalizzato è che, con una possibile uscita dall’Europa, il Regno Unito possa mettere un tetto all’immigrazione e forzare molti europei al rimpatrio. Anche se gli emigrati in Inghilterra, così come in Italia, pagano in realtà più tasse rispetto al welfare di cui beneficiano. L come Laburisti I sondaggi li danno testa a testa con i conservatori. A guardare bene i numeri, nessuno dei due partiti avrebbe una maggioranza ed entrambi sarebbero costretti a governi di coalizione. Il punto di forza del centrosinistra inglese è l’opposizione al programma di privatizzazione messo in atto dai conservatori e l’euroscetticismo che pervade le aule di Westminster. Il punto debole è il leader: Ed Miliband. M come Miliband, Ed Giovane, determinato, chi lo conosce ne parla come di un politico di spessore. Ma il leader dei laburisti in televisione non funziona. Ed Miliband sta allenando i muscoli per poter guidare anche un governo di coalizione già dall’8 maggio ma non appare carismatico, non dà emozioni. Alla fine della scorsa estate si pensava di sostituirlo a capo del partito con qualche figura più incisiva, ma l’operazione è naufragata nel mare d’agosto. E i laburisti si trovano a dover rendere appealing un leader che cerca di non sembrare un politico di professione. Ma che, puntualmente, ne incarna tutti i pregi e i difetti. P come Parlamento Bloccato L’opzione più quotata è quella di un parlamento in impasse all’indomani del voto. Laburisti che dovranno trovare la quadra con l’Snp, il partito nazionalista scozzese, e i conservatori che dovranno raggranellare voti all’estrema destra dello Ukip. Z come Zen all’Inglese Nonostante la fibrillazione politica, gli inglesi stanno a guardare con filosofia Zen. E se alle ultime elezioni i non votanti sono stati quasi 18 milioni di cittadini, l’apatia regnante potrebbe rimpinguare il partito dell’astensionismo, soprattutto tra i giovani e la middle class. 47 INGHILTERRA IL CANDIDATO CHE SFOTTE FARAGE Ha fondato un partito e scritto un programma. Al Murray è un comico ma, pinta alla mano, vuole sfidare lo xenofobo leader dell’Ukip di Virginia C. Grieco 48 7 marzo 2015 In Inghilterra c’è un comico che, invece di allearsi con Nigel Farage, xenofobo leader dell’Ukip, ha deciso di prendersi grandemente gioco di lui. «Gli altri partiti offrono la luna, noi faremo meglio: offriremo una luna britannica». Al Murray, noto stand up comedian, su Farage non la pensa come Beppe Grillo. Se il capo del Movimento 5 stelle l’ha voluto alleato in Europa, Al Murray nei panni del Pub Landlord (il proprietario del Pub) ha fondato un partito parodia e si prepara a una surreale campagna elettorale. «Mi sembra che il Regno Unito sia pronto per un uomo che agiti in giro una pinta e proponga soluzioni di buonsenso. Salute!». La pinta è ovviamente una Ale, come la beve Farage e accompagna il battesimo del Fukp, Free United Kingdom party. La corsa è iniziata a gennaio, con un video su youtube. Al Murray, o meglio Pub Landlord, annuncia così la sua discesa in campo. In palio c’è il seggio del Sud Thanet, distretto elettorale storicamente conservatore, dove però l’Ukip sembra destinato a una marcia trionfale. Era al 6 per cento nel 2010, oggi i sondaggi pubblicati dal Guardian danno Farage al 38,6. I conservatori, invece, dovrebbero finire poco dietro ai labour, con quasi la metà dei voti rispetto alle ultime elezioni: 26,6 per cento. La contesa, con il vento del populismo che ingrossa Farage, è dunque impari, ma sarà almeno divertente. Al Murray non ha reali chance di vittoria, ma sta facendo tutto come si deve: ha presentato un manifesto articolato in tredici punti, ha creato un sito web e una pagina twitter. Qualche giorno fa ha ritirato le carte da compilare per ufficializzare la sua corsa. I moduli sono pronti e Murray a oggi sembra essere deciso ad andare fino in fondo. Anche se dovremo aspettare il 9 aprile, data di scadenza per la presentazione delle candidature, per capire se lo scherzo diventerà cosa seria. Contro Farage, ma con il sorriso. «Grazie Al Murray, mi hai rallegrato la giornata. Fukp renderà i prossimi mesi molto più divertenti del previsto», ha dichiarato il deputato conservatore Nick Boles. Anche lo stesso Farage si è mostrato contento: «Più siamo meglio è», ha scritto in un tweet indirizzato al comico. E all’Independent ha detto: «Sembra che in Thanet ci saranno più candidati della solita corsa a due. Bene, almeno c’è un’opposizione seria». Non è certo preoccupato dal sondaggio, Farage, che dà Al Murray all’1,4 per cento. Il padrone del Pub ha rilasciato dei brevi comunicati video in cui spiega la linea d’azione del Fukp. Inutile dire che si parla spesso di immigrazione, tema prediletto dall’Ukip: anche il Pub Landlord può cavalcare le paure. Lui sa bene che i flussi mi- gratori sono la vera causa delle calamità naturali abbattutesi sull’Inghilterra. «L’alluvione nel Somerset», per dire, «è stata causata dall’ondata di romeni che si sono presentati in anticipo per la vendemmia delle mele e sono stati la causa dello sprofondamento della contea nel canale di Bristol». E bisogna sicuramente porre rimedio: «Il peso dei romeni in questo Paese l’ha portato ad affondare causando diffuse inondazioni». Qualcosa va fatto per fermare queste ondate di immigrati: «Se Ukip minaccia di distruggere il tunnel sotto la Manica, noi faremo di meglio. Tutte le spiagge saranno minate. A tutti i cittadini britannici, alla nascita, verrà data un codice che provi che sono di fatto britannici». E non solo le spiagge saranno minate e i veri “Brits” marchiati. Verrà anche portata avanti un’azione di tutela nei confronti della minoranza dei britannici purosangue: i rosci. «Il principe Harry sarà elevato a re dei rosci. L’ isola di Wight», che ospita una delle più numerose colonie di scoiattoli rossi, «con i suoi scoiattoli coordinati, sarà eletta a regno dei rosci». Murray sembra avere le idee chiare anche sul fronte della politica estera, annunciando «una guerra con i tedeschi, se loro ci stanno», e la leva sarà obbligatoria, sì, ma «solo per quelli che non vogliono». Sulla disoccupazione: «La disoccupazione aumenta il crimine. Io propongo di chiudere a chiave i disoccupati». E ancora, sempre su un altro dei temi prediletti da Farage, l’euro, promette: «L’Inghilterra lascerà l’Europa entro il 2025 e il sistema solare entro il 2050», mentre la «Grecia verrà presa in gestione dall’amministrazione del Kent, così almeno qualcuno svuoterà le pattumiere». Per quanto riguarda l’economia, il piano sarebbe di «rivalutare la sterlina a una sterlina e dieci centesimi. Così vale dieci centesimi in più». Inoltre, per stimolare l’economia inglese, promette di «aumentare le temperature di cinque gradi centigradi entro il termine della legislatura. Cosicché le località marittime, cui i passati governi hanno distribuito cattivo tempo anno dopo anno, vengano avvantaggiate nella loro crescita». Per quanto paradossali, gli slogan di Al Murray assomigliano così tanto a quelli di Farage che è difficile attribuirne la paternità al comico o al politico, come invita a fare un test del Telegraph. Provate. «Gli immigrati devono mantenersi da soli per cinque anni. Ciò significa assicurazione sanitaria privata, educazione privata e alloggio privato. Dovrebbero versare qualcosa nella pentola prima di prendere la propria porzione». Farage o Al Murray? I sondaggi danno il partito parodia Fukip all’1,4 per cento 7 marzo 2015 49 L’ANALISI Iran in fumo Oppio, cannabis, metanfetamine e anche Lsd. La Republica degli ayatollah ha 5 milioni di tossicodipendenti. Che si drogano per un motivo: cambiare la percezione del mondo di Maziyar Ghiabi* Con livelli di mortalità comparabili a quelli di un conflitto bellico di medie dimensioni e uno dei tassi di tossicodipendenza fra i più alti al mondo, la Repubblica islamica dell’Iran è sulla linea di fuoco in quella battaglia, poco donchisciottesca, nota come guerra alla droga. L’Iran ci è noto per altre immagini e altre preoccupazioni. Con la crisi del “dossier nucleare” che ormai si protrae da un decennio, il Paese sembra aver acquisito agli occhi del mondo una dimensione, per così dire, irreale. Nonostante le caute indiscrezioni riguardo a una possibile risoluzione dei negoziati nucleari 5+1 (Usa, Russia, Cina Francia, Gb e Germania), l’Iran rimane un Paese incompreso sulla scena globale, le cui caratteristiche distintive nel vedere comune sono il nero del chador e della barba, ormai brizzolata, dei suoi leader. Eppure, per chi si è recato in Iran nell’ultimo decennio, i colori non mancano, talora anche psichedelici. Le donne iraniane hanno rinegoziato uso ed estetica del velo, fino a trasformarlo in accessorio ornamentale che poco o nulla, ha in comune con la tradizione islamica. Allo stesso modo, l’austerità rivoluzionaria è stata progressivamente sostituita da un consumismo frenetico, a tratti patologico, che contraddistingue ogni classe sociale del Paese. Sembra così che le stesse dinamiche che caratterizzano 50 7 marzo 2015 © Nicola Zolin 7 marzo 2015 51 la post-modernità dell’Occidente, si manifestino, forse con più forza ed esasperazione, in Iran. Il senso di smarrimento, la relatività dei valori, vanno di pari passo con la mercantilizzazione del tutto, in cui chi può, compra, chi non può, anela a comprare. Parte integrante di questa modernità iraniana, è la droga che, non a caso, è oggetto consumistico par excellence. Secondo le statistiche dell’Unodoc (United Nations office Drugs and Crime), in Iran si conterebbero più di due milioni di consumatori di droga, ovvero il 2-3% dell’intera popolazione. Dichiarazioni ufficiose all’interno delle istituzioni autoctone arrotondano la cifra a 4-5 milioni, indicando che il fenomeno coinvolge anche le famiglie di chi ne fa uso, ovvero quasi dieci milioni di persone. Durante le mie ricerche etnografiche nel Paese, ho avuto modo di scomporre i dati numerici sulla droga. Qui non si tratta solo di una questione di quantità, ma di qualità. È bene sapere che il mercato della Le leggi droga in Iran è fecondo di prodotti di ogni tipo. L’oppio è stato parte inteiraniane sono grante della vita sociale, economica e severissime: culturale dei suoi abitanti per almeno per il traffico gli ultimi centocinquant’anni. Nell’attraversare grandi cambiamenti stodi droga si può rici, quali due rivoluzioni (1906-11 e arrivare fino 1979), una guerra contro l’Iraq (1980alla pena 88), sanzioni internazionali dal 1979, minacce di bombardamenti (da parte di morte statunitense e israeliana), gli iraniani hanno anche cambiato gusti in fatto di droga. Fra giovani e meno giovani è la metamfetamina (shisheh, “vetro” in farsi) che spopola, segno che nonostante le idiosincrasie ideologiche con gli Stati Uniti, i due Paesi hanno gusti in comune in fatto di “sballo”, e di come fare soldi. Con un tasso di educazione universitaria fra i più alti al mondo e livelli di sottoccupazione giovanile altrettanto da record, non è un caso che si trovino in giro novelli Walter White e Jessy Pinkman, come nella serie americana Breaking Bad. Giovani laureati con lavori malpagati e pressioni socio-economiche sempre più forti possono considerare l’affare shisheh alquanto lucrativo, anche fosse a breve termine. Nei giornali iraniani si trovano segnali in questo senso: piccoli laboratori nelle periferie delle città; gruppi di ragazzi che gestiscono giri di affari tanto grandi quanto instabili. Le leggi iraniane in materia di narcotraffico non sono misericordiose. Pesanti pene di carcere e la pena di morte per recidività sono previste per chi viene colto in fragranza di reato. Infatti, diversamente da come viene 52 riportato spesso dalle agenzie internazionali, la pena di morte in Iran è soprattutto usata per reati di traffico di droga (e meno per reati di tipo religioso, politico o altro). Il consumo di droga non è indice solamente di un dato economico e sociale del Paese: rivela processi culturali più profondi. Ne è un esempio lampante l’uso di allucinogeni. Durante una gita in montagna nell’Iran centrale, ho incontrato un ragazzo di nome Ayin. Per molti iraniani, i deserti, le radure steppose che ricoprono gran parte del paese, sono luoghi dove rigenerarsi. Con il suo fare cordiale e rilassato mentre fuma erba - e solo erba, «perché il tabacco nuoce gravemente alla salute», mi dice -, Ayin rivela che una volta ogni due mesi si reca con gli amici qui, o nei dintorni, per «avere un’altra percezione della vita, del mondo». Dopo alcuni anni di ricerca etnografica sul mondo della droga, non mi ci vuole molto a decifrare il suo messaggio. Con due amiche ingeriscono ognuno secondo le proprie inclinazioni, da 1 a mezzo cartoncino di Lsd. Il cartoncino, mi mostra la ragazza, Arezoo, ha la mano della dea hindu Shiva disegnata sopra, segno di generosità, ma anche di un brand riconoscibile internazionalmente. La cultura dell’acido in Iran è in piena espansione, tanto che le autorità, con la grande confusione mentale che contraddistingue ogni autorità in ogni parte del mondo, hanno dichiarato circa un anno fa, «la crisi dell’Lsd». La verità è che, in quanto droghe fondamentalmente spirituali, gli psichedelici da un lato sopperiscono a quel vuoto che la religione - che nella Repubblica islamica è sinonimo di “Stato” e “politica” - non può colmare; dall’altro, l’Lsd - ma anche il peyote, i “funghetti magici”, ecc. - hanno una forte funzione terapeutica, e in questo caso fanno parte di una terapia del sé, auto-medicamento che è un altro tratto peculiare della cultura iraniana. La storia di Mahmud ne è la conferma. Dopo esserci incontrati a una festa fuori città (tipico ritrovo per chi evade i controlli polizieschi), spiegai a Mahmud del mio interesse nel mondo della droga in Iran. Facendo un ghigno da chi la sa lunga, Mahmud mi invita nella casa dove vive con il padre. Il mio sesto senso mi suggeriva che avrei trovato un giardino di piantine di shahduneh (cannabis), che è pianta indigena (e illegale) del Paese. Invece Mahmud aveva una collezione di cactus allucinogeni nel giardino. «San Pedro e Peyote - dice sorridendo - entrambi usati nei riti religiosi dagli indigeni andini e dei nativi 7 marzo 2015 americani in Texas e Messico». Dopo aver passato diversi anni fumando shisheh - un periodo costellato da incidenti stradali, morti familiari e di amici, nonché guai giudiziari -, Mahmud ha deciso di dedicarsi alla coltivazione di allucinogeni. A suo dire, da quando usa solo quelli naturali, la sua vita ha un ritmo meno ansioso e lui è in armonia con ciò che lo circonda. Mi conferma che sono molte le persone che lo contattano per essere iniziati alla coltura dei cactus. «È una terapia dell’anima», ripete. In un recente articolo del New York Times, intitolato “The Trip Treatment”, Michael Pollan svela le potenzialità, riconosciute oggi da parte della comunità scientifica, degli allucinogeni. Le terapie a base di allucinogeni come l’Lsd possono avere successo nel curare l’alcolismo, sindromi ossessivo-compulsive, ansie e la paura della morte nei pazienti terminali. Mahmud mi spiega che quando fumava shisheh non dormiva per tre giorni di fila, mangiava poco o nulla, riusciva a lavorare, avere una vita sessuale e uscire con gli amici senza sentirsi stanco. Non a caso in Iran la metamfetamina è usata da giovani e adulti in contesti tanto divergenti quanto emblematici. Nei saloni di bellezza femminili circolano storie di ragazze che prendono shisheh per dimagrire; nelle università gli studenti la fumano per aumentare le loro prestazioni di studio; per non parlare degli uomini in carriera che ne fanno uso per aumentare la libido. In altre parole, sesso, lavoro e apparenza sono le regole del gioco sociale nel Paese, con livelli sempre crescenti di stress, depressione e disturbi mentali. La ricerca di una spiritualità alternativa attraverso gli allucinogeni è segno paradigmatico di un tentativo di percepire il mondo diversamente; d’altro canto, la frenesia della società contemporanea, con la sua ossessione carrieristica e il senso di inadeguatezza che inculca negli individui, genera una relazione compulsiva, che si manifesta spesso nelle dipendenza dal gioco, dal porno, dal cibo, da internet o dallo shopping. In ciò, la dipendenza è epifenomeno di una modernità che transita e destabilizza gli individui. Non a caso l’Iran è il primo Paese al mondo per numero di iscritti a Narcotici anonimi (l’equivalente degli Alcolisti anonimi per le droghe), e fra i Paesi all’avanguardia nella ricerca sulla dipendenza dal sesso e dal cibo. Il governo iraniano è intervenuto con grande attivismo per curare le tossicodipendenze del Paese. Agli inizi del 2000, l’aumento vertiginoso del prezzo dell’oppio - causato da un programma di 7 marzo 2015 eradicazione delle coltivazioni di papavero dei talebani afghani - ha portato molti consumatori di oppio a passare all’eroina. Con alti tassi di infezione da Hiv/Aids dovuti all’uso di siringhe usate e condivise, la legittimità del potere del clero e di tutto lo Stato era messa sotto accusa. Fu così che nell’arco di pochi anni, e attraverso la collaborazione dell’ufficio dell’Unodoc a Teheran - ufficio in cui l’Italia ha giocato per anni un ruolo strategico -, la società civile iraniana attivava alcuni fra i programmi di riduzione del danno più progressisti al mondo. Fornendo siringhe pulite, profilattici e programmi di somministrazione del metadone, anche nelle prigioni e alle lavoratrici del sesso, la tossicodipendenza è oggi concepita come problema medico, e non semplicemente come un crimine. Non è la prima volta che l’Iran si riscopre Paese dai grandi paradossi. Gli ayatollah negli ultimi decenni hanno introdotto assistenMahmud za di Stato a coloro che decidono di cambiare sesso, di fatto trasformancoltiva cactus do il Paese in un uno dei poli di queallucinogeni, sto genere di chirurgia. Altro esempio gli stessi usati è la formula del matrimonio temporaneo, per cui un uomo e una donna dagli indigeni possono contrarre matrimonio per andini. un tempo definito (che sia un’ora o «È una terapia quarant’anni), in cambio di un corrispettivo materiale (soldi, oro, ma dell’anima» anche un bouquet di fiori). Si tratta, a detta di molti, di una legalizzazione della prostituzione. Infine, le autorità hanno introdotto dal 2012 cliniche per le “dipendenze alcoliche”, sostanza che è haram (proibita) nella religione islamica. L’uso della droga rende possibile una dimensione spirituale e individuale alternativa, per quanto lacunosa e destrutturata. Nella celebre frase di Marx, la religione è l’oppio dei popoli, si omette maldestramente l’affermazione che la precede: «La sofferenza religiosa è, allo stesso tempo, l’espressione della sofferenza reale e una protesta contro la sofferenza reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo senza cuore, e l’anima di condizioni senza anima. Essa è l’oppio dei popoli». Nel diciannovesimo secolo, in assenza di anti-dolorifici farmaceutici, la gente comune vedeva nell’oppio non una droga di perdizione, ma un rimedio, spesso vitale, al dolore. Forse non in maniera diversa la droga materializza l’anima di condizioni umane senza anima. *Università di Oxford 53 © Epa/Sedat Suna SIRIA damasco ignorata Il capo dei non jihadisti, Khoja: «Assad e il Califfo sono due facce della stessa medaglia. L’Onu ci ascolti» di Umberto De Giovannangeli «Ho ormai perso il conto delle volte in cui, di fronte ai crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati dal regime di Bashar al-Assad, ci siamo rivolti alle Nazioni Unite, chiedendo di agire per porre fine alla mattanza di civili, all’uso delle armi chimiche da parte del dittatore e del suo clan». A parlare è Khaled Khoja, presidente della Coalizione nazionale siriana (Cns), l’organismo rappresentativo delle forze non jihadiste che si oppongono al regime siriano. «Ci siamo sempre scontrati con il veto posto in Consiglio di Sicurezza dai membri che sostengono il regime: la Russia in primo luogo. Hanno bloccato risoluzioni e impedito di applicare in Siria ciò che hanno in54 vece deciso di fare in Libia ai tempi di Gheddafi. Certo, hanno inviato ispettori, nominato non so più quanti “inviati speciali”, l’ultimo in ordine di tempo Staffan de Mistura, ma il popolo siriano non guarda più all’Onu con speranza. Questa speranza è seppellita sotto le macerie di un Paese lasciato in balìa di dittatori sanguinari e Califfi criminali. Al segretario generale, Ban Ki-Moon, ho ripetuto più volte - sottolinea Khoja - che Assad non è la soluzione, ma il problema». Quattro anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti, oltre 5 milioni di profughi, il 30% dei villaggi rasi al suolo, e ora l’avanzata dei tagliagole dello Stato islamico. La Siria è in mace7 marzo 2015 rie. Cosa resta della legalità internazionale della quale l’Onu dovrebbe farsi garante? Della legalità nulla, ma ciò che è ancor più grave è che l’Onu ha accompagnato nella sostanziale inerzia quattro anni di guerra che hanno provocato oltre 200mila morti, milioni di sfollati, decine di migliaia di persone scomparse nelle carceri del regime. Gli appelli alle Nazioni Unite perché intervenissero quanto meno per realizzare corridoi umanitari nelle città assediate dall’esercito di Assad, sono puntualmente caduti nel vuoto, o si sono infranti contro i veti reiterati in Consiglio di Sicurezza da parte del grande protettore del dittatore di Damasco... A chi si riferisce? A Vladimir Putin. E, fuori dal Consiglio, all’Iran. Senza il sostegno politico, militare e finanziario, ricevuto da Mosca e Teheran, Assad sarebbe caduto da tempo. Il suo potere si regge per la gran parte su questo sostegno che garantisce a lui e al suo clan una sostanziale impunità. Assad si erge a paladino della lotta contro lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Al-Baghdadi è anche un “prodotto” di Assad. Dopo tutti i crimini contro il popolo siriano, il regime aveva bisogno di un bagno di credibilità internazionale, di riconquistare punti. Per questo, Assad ha favorito la crescita della presenza jihadista in Siria, per dimostrare al mondo che se lui cade, a sostituirlo sarebbe un folle intenzionato a trasformare la Siria in uno Stato della Jihad, retto dalla ferrea dittatura della “sharia”. Per questo, Assad ha concentrato le sue forze nelle aree dove opera l’Esercito libero siriano (legato alla Cns, ndr), evitando scontri aperti con le milizie dell’Is. Oggi il popolo siriano è ostaggio di due criminali: Assad e al-Baghdadi. La Siria potrà davvero voltar pagina solo quando si libererà di tutte e due. Ma per costruire cosa? Una Siria aperta, con la piena sovranità sul proprio territorio nazionale. Una Siria che non discrimina per appartenenza etnica o religiosa. Le persone che agli inizi del 2011 scesero nelle strade sfidando i carri armati del regime, lo fecero perché si sentivano in sintonia con quanto stava accadendo in Tunisia o in Egitto. Si chiedevano elezioni davvero libere, si invocavano libertà e giustizia. La risposta fu un bagno di sangue. Il regime puntava alla militarizzazione della resistenza, perché l’unico linguaggio che conosce e pratica è quello della violenza. E l’Onu, al di là delle condanne di facciata, ha coperto questa pratica, assumendosi una responsabilità storica. Ma l’Onu ha anche operato per lo smantellamento dell’arsenale chimico in mano all’esercito di Assad. 7 marzo 2015 È la classica foglia di fico che serve a coprire silenzi e inerzia. Ancora oggi le forze di Assad usano gas nervini contro le località controllate dall’Els, provocando centinaia di morti tra la popolazione civile. Assad continua a essere rifornito di armi dai suoi protettori russi e iraniani. Dei corridoi umanitari da noi richiesti più volte, continuano a non esserci traccia. Ciò significa che all’orizzonte non esiste la possibilità, su cui sta lavorando l’inviato dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, di costituire un tavolo negoziale? Non abbiamo escluso questa possibilità, ma abbiamo ribadito che alla base di un negoziato di riconciliazione deve esserci la Dichiarazione di Ginevra, e dunque l’uscita di scena di Bashar al-Assad. Con lui al potere, la Siria non sarà mai pacificata. Insisto su questo punto: la proposta avanzata da de Mistura deve garantire la fine di tutte le uccisioni e le forme di terrorismo, compreso quello praticato dal regime di Assad. E questo perché il regime di Assad è la prima forma di terrorismo in Siria e la minaccia del terrorismo non abbandonerà la regione fino a quando il suo sponsor principale, ovvero gli apparati di sicurezza del regime di Assad, verrà meno. Quanto è forte il rischio che la Siria possa cadere in mano alle milizie del Califfato? Non sottovalutiamo questo pericolo, ed è per questo che le nostre forze sul campo sono impegnate a contrastare l’avanzata dell’Isis. Ma questo spauracchio a volte viene ingigantito dalla propaganda del regime per spostare l’attenzione internazionale sui crimini che continuano a essere commessi ad Aleppo, Homs, nei sobborghi di Damasco dove più forte è la resistenza. Assad e alBaghdadi sono le due facce di una stessa medaglia: quella marchiata dal sangue del popolo siriano. Il regime baathista ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere le organizzazioni terroristiche, Hezbollah compreso, che continua a perpetrare crimini contro il popolo siriano. Il regime siriano ha anche favorito la crescita delle organizzazioni terroristiche, evitando di bombardare i campi di addestramento usati dai gruppi jihadisti e insistendo invece a colpire le postazioni dell’Els”. Cosa si sente di chiedere oggi all’Europa? Il coraggio di una scelta: tra i tagliagole dell’Isis e gli squadroni della morte di Assad, c’è chi si batte per una Siria democratica, pluralista. All’Europa non chiediamo soldati ma di metterci in condizione di vincere questa battaglia di libertà. Senza il sostegno di Mosca e Teheran, il regime siriano sarebbe caduto da tempo 55 GRAPHIC JOURNALISM 56 7 marzo 2015 tratti di corruzione «L’Occidente sa, ma quando fa comodo chiude un occhio». Parla Dotun Oloko, l’uomo che denuncia i traffici illegali in Nigeria. Rischiando la vita di Giacomo Zandonini tavole di Claudia Giuliani Intricata come i mille rivoli del Delta del Niger. E inquinata da milioni di barili di petrolio, come la sua foce. La politica nigeriana è, come la definisce The Economist, un «caos oleoso»: conflitti locali, concessioni incontrollate per l’estrazione del greggio, dinastie politiche in lotta e pesanti ingerenze occidentali. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 28 marzo la casa editrice Round Robin dà alle stampe un graphic novel su uno dei più grossi casi di corruzione degli ultimi anni. E sulle relazioni fra lo Stato più popoloso d’Africa e un’Europa affamata di energia. Al centro, un fondo di investimenti occidentale (il private equity di Emerging capital partners con sede a New York), utilizzato dalla Banca europea degli investimenti e dal dipartimento per la Cooperazione internazionale del Regno Unito per contribuire allo sviluppo d’impresa in Nigeria. L’imprenditore nigeriano Dotun Oloko, però, scopre che James Ibori, governatore dello Stato del Delta, usa il fondo per riciclare i proventi di attività illegali. La storia di Oloko è diventata un fumetto grazie all’associazione Re:Common e alla disegnatrice Claudia Giuliani. L’eroe di Soldi sporchi. Corruzione, riciclaggio e abuso di potere fra Europa e Delta del Niger, racconta a Left come è inciampato in questa vicenda, rischiando la vita. Il caso di corruzione legato a Emerging capital partners le ha cambiato la vita. Com’è iniziato tutto? Era il 2006 e vivevo in Nigeria. Indagavo sulla criminalità economica e finanziaria per la commissione anti corruzione del governo. Uno dei casi in esame era quello di James Ibori, politico potente quanto corrotto, originario come me della zona del Delta. Durante il processo a carico di Ibori, emerse che un fondo di private equity statunitense aveva investito in società a lui legate. Decisi di scavare e scoprii che c’erano di mezzo fondi della cooperazione internazionale americana e inglese, che confluivano nello stesso fondo usato per ripulire il denaro di Ibori. Era così evidente che pensai: quando i governi occidentali sapranno, sicuramente faranno qualcosa. Così non è stato... Ho segnalato la questione a governi e istituzioni europee. Però ho capito che non è solo una questione di élites africane corrotte, ma anche di chi le sostiente in Occidente. L’Occidente sa, ma quando fa comodo chiude un occhio. Infatti, 7 marzo 2015 invece di indagare sulle transazioni, hanno indagato su di me. Hanno rivelato la mia identità al private equity, che l’ha rivelata a società collegate a Ibori, costringendomi a scappare. Nulla è stato fatto per indagare sulle mie segnalazioni. Solo dopo alcuni anni l’ufficio Antifrode dell’Ue mi disse che non c’era interesse nel caso, perché non risultavano perdite di fondi comunitari. Quando si è trasferito nel Regno Unito ha continuato a seguire il caso? Certo. Nel frattempo Ibori era stato processato e condannato a Londra per riciclaggio di denaro. La polizia e la procura londinese avevano messo in evidenza i suoi legami con le compagnie di Ecp e stavano cercando di bloccarne i fondi. Ma il dipartimento inglese continuava a negare un suo coinvolgimento e anzi manteneva investimenti in fondi evidentemente legati alla corruzione. Com’è cambiata la sua vita? Sospettavo che la mia identità fosse stata rivelata, anche se non ne avevo le prove. Persone legate a Ibori mi stavano cercando. Grazie al supporto di organizzazioni come Re:Common e Cornerhouse ho scoperto che il mio dossier era stato passato dal dipartimento per la Cooperazione internazionale a Ecp. Non sono potuto tornare in Nigeria. Mia moglie e i miei figli erano sotto controllo e ancora oggi viviamo guardandoci le spalle. Aspetto il momento in cui Ibori e i suoi sodali si vendicheranno. Ma il suo impegno non è diminuito. Per cosa si batte? Grazie a questa esperienza ho scoperto il caso dell’impianto OPL 245, che vede coinvolte compagnie internazionali come Eni e Shell. Hanno comprato licenze per lo sfruttamento delle piattaforme petrolifere da persone che le avevano acquisite illegalmente, cosa che avrebbero dovuto sapere. Abbiamo presentato un esposto alle autorità italiane nel 2014 e già alcuni fondi sono stati bloccati. Che ruolo ha il petrolio nelle elezioni presidenziali? La campagna elettorale è polarizzata, tra l’attuale presidente corrotto, Goodluck Jonathan, e un noto politico anti corruzione, Muhammadu Buhari. Se vincerà il secondo molte compagnie saranno chiamate a rispondere. Chi usa la corruzione per fare profitto sulla pelle dei nigeriani e dei contribuenti europei non potrà più contare sul “business as usual”. 57 GRAPHIC JOURNALISM queste tre tavole sono estratte dal graphic novel soldi sporchi 58 7 marzo 2015 7 marzo 2015 59 CULTURA Roma capitale della street art Jam session di diciotto writers a Roma il 9 marzo. A partire dalle 12 prende 7 marzo 2015 vita Big City Life, il progetto di arte di strada a Tor Marancia, grazie agli abitanti del lotto 1. Fra gli street artist che partecipano all’evento ci sono nomi importanti come il francese Seth (autore dell’opera qui riprodotta). Ma la cosa più interessante sarà vedere come si dipana il rapporto tra gli artisti e le persone a cui dipingono case e palazzi. Si aggiunge così un nuovo capitolo alla storia d’amore fra la Capitale e i writers di tutto il mondo. 61 © ANSA/AP Photo/Joerg Sarbach il personaggio 62 7 marzo 2015 pillola libera tutti La molecola di Carl Djerassi ha prodotto la più grande rivoluzione del XX secolo. Rompendo ogni vincolo biologico tra sesso e riproduzione, ha permesso a tutti di realizzare la propria sessualità di Pietro Greco Il 30 gennaio scorso, nella sua casa di San Francisco, negli Stati Uniti, all’età di 91 anni, è morto Carl Djerassi. Professore emerito dell’università di Stanford, chimico valente, amava la scrittura e il teatro, ma conosciuto al grande pubblico soprattutto come il “padre della pillola”. E, di conseguenza, come lo scienziato che ha contribuito in maniera decisiva alla più grande rivoluzione del XX secolo, la rivoluzione sessuale. Di origine ebraiche, Carl Djerassi era nato a Vienna il 29 ottobre 1923. Suo padre, Samuel, era un dermatologo, specialista di malattie sessuali. La madre, Alice Friedmann, era medico e dentista. Il ragazzo fu costretto a lasciare l’Austria nel 1938, quando Adolf Hitler impose l’Anschluss: l’annessione. E con essa le leggi razziali. Insieme con la madre, Carl 7 marzo 2015 raggiunse gli Stati Uniti, dove, nell’anno 1945, conseguì il PhD in chimica presso l’Università del Wisconsin. Iniziò poi a lavorare con la Ciba nel New Jersey. Quattro anni dopo si trasferì presso un’altra azienda, la Syntex, come direttore associato per la ricerca medica nei laboratori di Città del Messico. E proprio nella capitale messicana mise a punto quella che il settimanale The Economist ha definito “l’invenzione del secolo”. In realtà, i primi lavori a Città del Messico riguardano la sintesi del cortisone. Ma ben presto, con i suoi collaboratori, Carl Djerassi sintetizza il norethisterone, un progestinico che, insieme all’etinilestradiolo, è in grado di diminuire fin quasi ad annullare la fertilità femminile in maniera reversibile. 63 il personaggio È il 1951 e l’austriaco ha messo a punto il primo contraccettivo orale. In realtà occorre del tempo prima che la molecola messa a punto da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and George Rosengkranz, diventi “la pillola”. Verrà sperimentata clinicamente nel 1954 a Puerto Rico dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus. Occorre attendere il 1957 perché la Food and Drug Administration autorizzi la vendita del nuovo farmaco per scopi limitati e poi, nel 1960, come anticoncezionale con il nome di Enovid. È solo a partire da questa data che la pillola inizia a essere distribuita negli Stati Uniti e in tutto il mondo, con effetti culturali e sociali molteplici e senza precedenti: sui costumi sessuali, sulla emancipazione femminile, sul controllo delle nascite. E già perché la combined oral contraceptive pill (Cocp) di Djerassi, più semplicemente “la pillola”, se assunta regolarmente da una donna - come spiega Carlo Flamigni in un suo libro, Il controllo della fertilità - ne inibisce l’ovulazione; modifica il muco cervicale, rendendolo ostile alla risalita dei nemaspermi; induce mutamenti endometriali rendendo più difficile l’impianto dell’embrione; altera il trasporto nelle tube dell’ovocita e dell’embrione. In pratica riduce drasticamente la fertilità della donna con diversi meccanismi indipendenti, il che rende “la pillola” un contraccettivo molto sicuro, molto più di ogni altro sistema usato in precedenza. Inoltre costa poco, è facile da assumere ed è sganciata dal rapporto sessuale. È proprio quanto molte donne si aspettano, in un periodo, gli anni 60 del secolo scorso, in cui le società occidentali si accingono a profonde trasformazioni negli stili di vita e nella domanda di nuovi diritti di cittadinanza. È per tutto questo che la Cocp ha un immediato e clamoroso successo e diventa “la pillola”: nel 1961 negli Usa la assumono già 400.000 donne; che salgono 1,2 milioni nel 1962 e a oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo la assumono oltre 100 milioni di donne. In realtà Carl Djerassi e molti degli scienziati che hanno contribuito alla sintesi della molecola e poi ai test clinici, guardano alla pillola come a uno strumento per il controllo delle nascite. Da molto tempo è attivo negli Stati Uniti un movimento decisamente preoccupato per la crescita della popolazione mondiale. Molti temono quella che definiscono, senza mezzi termini, “the population bomb” : una crescita demografica incontrollata che porterà al rapido esaurimento delle risorse sul pianeta. Una bomba che è già causa, pensano, di povertà e di miseria. E si danno da fare per disinnescarla, questa bomba. Tra i più attivi ci sono i membri dell’International Planned Parenthood Federation, presieduta da una signora molto attiva: Margaret 64 Higgins Sanger. Ed ecco cosa scrive Margaret Sanger alla biologa Katharine Dexter McCormick: «Penso che nei prossimi venticinque anni il mondo o almeno la nostra civiltà dipenderanno da un contraccettivo semplice, economico e sicuro utilizzabile nei quartieri più provati dalla povertà, nella giungla, dalle persone più ignoranti». Ecco, la pillola di Djerassi - come ha ricordato Elaine Tyler May in un libro del 2011: America and the Pill: A History of Promise, Peril, and Liberation - risponde esattamente a questa domanda presente nella società americana: il controllo delle nascite. La pillola corrisponde a pieno a queste aspettative. Contribuendo a un netto calo della natalità. In Europa, per esempio, il numero di figli per donna nel 1960 è di 2,6. Quarant’anni dopo è sceso a 1,5. Non è stata certo solo la molecola di Djerassi ha determinare questo cambiamento demografico, ma certo “la pillola” ha dato il suo contributo. Certo, né Djerassi né gli altri scienziati e medici avrebbero mai pensato che la pillola sarebbe diventata un fattore importante di emancipazione femminile. Ben presto - e anche superando una certa diffidenza dei movimenti femministi - la pillola si rivela, infatti, un fattore di liberazione. Un duplice fattore di liberazione. Un fattore di liberazione e di auto-determinazione della donna. Per la prima volta nella storia dell’umanità, le donne possono controllare in maniera piena la propria sessualità e la propria disponibilità alla riproduzione. Ne deriva, come conseguenza, non solo una maternità più responsabile - i figli sono voluti, e non giungono indesiderati - ma la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di impegnarsi nel lavoro, nella carriera, nella società. la pillola contribuisce ad aumentare gli spazi di libertà delle donne e, di conseguenza, contribuisce ad aumentare la consapevolezza dei propri diritti. La molecola di Djerasssi accompagna, così, la più grande rivoluzione del XX secolo, quella femminile, appunto. Ebbe un successo clamoroso. Nel 1961, negli Usa, la assumono già in 400mila; che salgono a 1,2 milioni nel 1962 e a oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi, sono oltre 100 milioni le donne che ne fanno uso Non c’è determinismo, nelle faccende umane. Possiamo dire, tuttavia, che la pillola è un co-fattore di liberazione. E questa sua caratteristica emerge con buona evidenza nell’altra rivoluzione che accompagna quella demografica e quella femminile e, in parte almeno, si sovrappone loro: la rivoluzione sessuale. La molecola di Djerassi, infatti, consente di disaccoppiare completamente il sesso dalla riproduzione. E consente, così, di rendere attuale quella tensione potenziale che già animava, negli anni 60 del secolo scorso, le società occidentale. La domanda, non solo femminile ma soprattutto femminile, di vivere con gioia e in libertà la propria sessualità, rompendo i vincoli biologici. Molti sono stati i co-fattori che hanno contribuito alla rivoluzione sessuale. Ma sarebbe un errore trascurare il ruolo, per molti versi decisivo, del contraccettivo semplice, economico e sicuro messo a punto nel lontano 1951 da Carl Djerassi. Mai il chimico si sarebbe aspettato che quella sua molecola avrebbe avuto così vasti e clamorosi ef- fetti. Lui non amava essere definito “il padre della pillola”. Ma la pillola ha cambiato anche lui. Lo ha costretto a ripensare la scienza e il ruolo sociale degli scienziati. Lo ha in qualche modo indotto a dedicarsi non solo alla chimica e alla carriera universitaria, ma anche alle lettere e al teatro. Giudicati strumenti essenziali per restituire gli scienziati e la scienza stessa al mondo. Non è un caso se in una delle sue numerose opere, An Immaculate Misconception, analizza tutti gli effetti sociali della contraccezione orale, lui che l’aveva presa in considerazione solo come antitodo alla “population bomb”. In un altro dei suoi lavori, per così dire umanistici, è il caso di Oxygen, scritto con il collega chimico Roald Hoffmann, Djerassi propone il teatro come una forma avvincente di vera e propria didattica della scienza. Non capita tutti i giorni che un grande scienziato diventi anche un grande scrittore e uomo di teatro. Né capita tutti i giorni che un rivoluzionario rappresenti in teatro la sua rivoluzione. Nella prefazione della sua autobiografia, del 1992, Carl Djerassi scrive: «Gli scienziati non devono essere necessariamente degli specialisti in senso stretto, che comunicano in un linguaggio incomprensibile nel chiuso dei loro laboratori alle prese con soggetti lontani dalle preoccupazioni quotidiane». Al contrario, gli scienziati «possono mostrare curiosità a tutto campo, ed essere ricercatori e pensatori in ogni dimensione intellettuale e, nel medesimo tempo, essere coinvolti sui temi sociali più caldi». © Getty Images/ Fox Photos/H. William Tetlow Non è una molecola taumaturgica, naturalmente, quella di Djerassi. Non basta assumere la pillola per liberare la donna. Per molti anni le donne occidentali l’hanno presa di nascosto, per tema dello stigma che accompagna chi tra loro rivendica esplicitamente il diritto a una piena e consapevole e libera sessualità. E tuttora in molti Paesi sparsi per il mondo le donne assumono la pillola, ma restano in una condizione di subordinazione. 65 Ribelli alla natura Embrioni ottenuti per partenogenesi. O da tre Dna. Gameti prodotti in laboratorio. Boncinelli parla dei nuovi orizzonti della fecondazione assistita di Simona Maggiorelli «L’invenzione della pillola anticoncezionale ha avuto un impatto enorme. E non è certo finita. Anzi, il bello deve ancora venire... Oggi si parla di gameti e di riproduzione, con l’apertura di orizzonti prima inimmaginabili» ha scritto il genetista Edoardo Boncinelli sul Corsera commentando la notizia del via libera, a larga maggioranza, da parte Parlamento inglese a un tipo di fecondazione assistita che permette di evitare la trasmissione di malattie genetiche gravi da madre a figlio. Una tecnica ideata da un gruppo di scienziati dell’Università di Newcastle, che prevede la sostituzione del Dna mitocondriale difettoso della madre con quello di una donatrice sana. Ma questa non è la sua innovazione più interessante in questo ambito». Professor Boncinelli, nuove tecniche di fecondazione in vitro fanno a meno dell’intervento dello spermatozoo. Viene stimolato l’ovocita per provocare una partenogenesi. Di che si tratta? In alcune specie la partenogenesi è un fenomeno naturale. Non ha bisogno dell’intervento dei cromosomi maschili per dar vita a nuovo organismo. Negli animali superiori, compreso l’uomo, di solito non avviene. O meglio non avviene spontaneamente. Ma si può attivare la cellula uovo. Nei conigli, per esempio, è piuttosto comune, s’inietta una gocciolina di iodio e l’uovo comincia a svilupparsi anche senza l’intervento del gamete maschile. In linea teorica nel caso dell’essere umano è possibilissimo ottenere tutto questo. In linea teorica, ripeto, perché poi il processo viene fermato. Per esempio, si può stimolare la cellula uovo attraverso degli ioni calcio. In questo caso non c’è traccia di cromosomi maschili, fa tutto la parte femminile. E comunque si ottiene un organismo completo. O per meglio dire si otterrebbe visto che non è ancora mai stato portato a termine. 66 Si possono anche produrre gameti maschili e femminili in laboratorio? Questa è l’ultima notizia. Anche se per noi scienziati non è del tutto nuova, perché se ne era parlato nella comunità scientifica. Le cellule staminali, come sappiamo, possono produrre vari tipi di tessuti e anche i gameti. Certo, vanno indirizzate in questa direzione. Un domani potremmo ottenere da una parte cellule uovo e dall’altra spermatozoi, semplicemente partendo da cellule staminali. Il che porta un vantaggio in medicina: si potrebbe sapere esattamente che patrimonio genetico hanno perché discendono da una cellula specifica. Se si aggiunge anche la fecondazione da tre Dna diversi... Il quadro si fa piuttosto articolato. Con la differenza che quest’ultima strada è già pienamente realizzabile. Ed è abbastanza facile. Con questa tecnica si aggira la minaccia di avere un bambino con malattie gravi di tipo mitocondriale perché la donatrice ha i mitocondri sani. La medicina più avanzata “libera” la sessualità umana dalla procreazione? Sì, sempre di più. Ma permette anche di poter avere un figlio sano. Naturalmente se si ricorre alla tecnica come puro gioco, non ha molto senso, ma se avere un figlio per una coppia è sentito come una realizzazione e poi si è in grado di dargli affetto, sostegno, istruzione ecc. questo è sicuramente un vantaggio per il neonato, perché lo libera da difetti genetici per i quali ad oggi non c’è una cura. Parlando di tecniche che sono già a disposizione di tutti, dovremmo anche citare la diagnosi preimpianto: le ha dedicato ampio spazio nel libro Einaudi, Guarire con la genetica, uscito l’anno scorso Certo, perché la diagnosi pre-impianto è la punta di diamante di tutta la genetica moderna. In Italia 7 marzo 2015 Per la Chiesa l’embrione è persona perché ha cromosomi umani. Quindi anche un bulbo di capello è un essere umano è proibita dalla legge, anche se poi si chiude un occhio e c’è chi l’ha utilizza. Ci sono state sentenze di tribunali che hanno riconosciuto il diritto di coppie sterili ad accedere a questa tecnica. Ma crudelmente è ancora vietata dalla Legge 40 alle coppie fertili anche se portatrici di malattie genetiche. La questione non è stata chiarita del tutto, purtroppo. E in assenza di un quadro definito c’è chi in Italia preferisce non usarla. Ma come scienziato dico che la diagnosi pre-impianto offre degli enormi vantaggi per la salute. Sarebbe assurdo rinunciarci. Nel saggio Homo Faber, da poco uscito per Baldini & Castoldi, parla dell’ingegneria genetica come di una grande avventura umana. Ma nel nostro Paese incontra la forte opposizione della Chiesa. Il Papa dice che le donne devono fare più figli ma poi condanna la fecondazione assistita. Come si spiega? Loro adducono tanti motivi, ma il fatto è che la Chiesa è sessuofobica, vede di malocchio la donna e la sessualità. E poi sostiene che queste tecniche non siano naturali. Ma cosa c’è di naturale, per esempio, in un’iniezione che introduce nei muscoli un ago di ferro per far passare delle sostanze? Non per questo si rinuncia a curarsi. Il Papa si schiera in difesa dell’anima ma poi difende l’embrione come fosse sacro. Non c’è una sorta di feticismo, una forma estrema di materialismo? Lo è. Addirittura sostengono che l’embrione è persona in quanto ha i cromosomi umani. Questo vuol dire che anche una cellula della lingua o un bulbo di capello è un essere umano. Il che è inaccettabile. Nei dibattiti lei ha detto: «Appena compare la parola “sacro” si smette di ragionare». Annunciando di voler scrivere un libro contro il sacro. Fuor di battuta lo farà? Spero davvero di riuscire a farlo! 7 marzo 2015 La parola donna non c’È nella legge 40 Diagnosi pre impianto, nuove tecniche di fecondazione assistita, utero “in affitto”, ricerca sulle staminali embrionali. Nei Paesi più avanzati le tecniche mediche vengono in aiuto alle donne, permettendo ad avere figli liberi da malattie genetiche oggi incurabili. Ma non solo. La pillola Ru486 è un metodo sicuro, secondo l’Oms, di interrompere una gravidanza senza andare in sala operatoria, mentre la pillola del giorno dopo, ovvero la contraccezione di emergenza, in Inghilterra come in Francia è acquistabile senza ricetta medica. Dalla pillola contraccettiva in poi, sempre più, le donne hanno la possibilità di decidere se e quando fare figli, ma soprattutto posso vivere la sessualità in modo più profondo, libero, consapevole. Ma in Italia, diversamente da gran parte d’Europa, queste conquiste - come è noto - non hanno vita facile, a causa della forte ingerenza della Chiesa nelle decisioni politiche che riguardano la vita pubblica. Basta pensare ai divieti antiscientifici e crudeli contenuti nella legge 40/2004. Aboliti, almeno in parte, grazie al coraggioso ricorso ai tribunali da parte di cittadini che da questa norma si sono visti negare diritti fondamentali. Come ricostruiscono in un bel libro, appassionato e incisivo, la sociologa Maria Mengarelli e gli avvocati Maria Paola Costantini e Marilisa D’Amico. Con il titolo Diritti traditi, la legge 40 cambiata dai cittadini (L’Asino d’oro edizioni) questo volume punta il dito contro la politica baciapile che ha sacrificato i diritti della persona sull’altare della convenienze elettorali. Da questo incontro fra interessi vaticani e del ceto politico italiano e cattolico, infatti, è nata una legge che nega l’ideantità della donna. E anche quella del medico. Non a caso, come fa notare Marina Mengarelli queste due parole, donna e medico, non compaiono nel testo di legge che preferisce parlare astrattamente di “soggetti”. s.m. 67 MEDIA Il sesso delle m Le serie tv come Sex and The City e Girls hanno formato le ultime generazioni di ragazze. Ma Carrie è ormai un ricordo di Giorgia Furlan In principio fu Sex and The City. E fu una vera e propria rivoluzione. C’erano solo New York, gli accessori fashion e i locali altrettanto alla moda. Soprattutto c’era il sesso, raccontato per la prima volta in tv in modo schietto e diretto. È il 1998 e sul piccolo schermo, grazie alla serie lanciata da HBO, i personaggi femminili assumono un’altra dimensione: sono donne libere, emancipate e in carriera. Diventano reali, accattivanti, media friends e, in fondo, non sono poi così diverse da noi che stiamo a casa sedute sul divano a guardarle. Le quattro protagoniste - Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha - lavorano, amano, sperimentano, piangono, si confidano, si consolano. Tra mille peripezie mostrano cose che, alla fine degli anni Novanta, evidentemente ancora non erano tanto ovvie: essere single non significa essere delle zitelle sfigate; una donna può non saper cucinare, lavare, pulire e stirare; parlare di autoerotismo, vibratori, ménage à trois non è un tabù; fare sesso può essere qualcosa che va al di là dell’amore romantico e, soprattutto: essere scaricate può essere un dramma, ma non è mai una tragedia. «Benvenuti nell’era 68 dell’anti-innocenza: nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha relazioni da ricordare; facciamo colazione alle sette e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare il più in fretta possibile. Cupido ha preso il volo dal condominio», è con queste parole che Carrie Bradshaw, ci accoglie nella sua scintillante Manhattan. Nei primi anni Duemila Sex and The City, con le sue morali antiromantiche e le sue, altrettanto “ciniche” pillole di saggezza, è diventato un manuale di educazione sentimentale per le ragazze moderne e un galateo sessuale anche per le generazioni successive. Dopo il successo delle avventure di Carrie & co i palinsesti hanno cominciato a popolarsi di serie tutte al femminile, meno fortunate e graffianti dell’originale, ma sempre intenzionate a parlare con la stessa schiettezza di cosa significa essere donne. Ci sono stati Cashmere Mafia e Lipstik jungle, dove le protagoniste, che qualcuno definirebbe scabrosamente “con le palle”, tentano di coniugare vita sentimentale e carriera senza rinunciare a nulla; poi sono arrivati Mistress, Carrie’s diaries, il prequel che racconta la 7 marzo 2015 e millennial vita della Bradshaw ventenne, e finalmente Girls. A quasi vent’anni dalla messa in onda del primo episodio di Sex and The City, le cose sono molto cambiate. O meglio, sono le ragazze, con le loro vite sentimentali, a essere cambiate. Nel 2012 con Girls, sempre prodotto da HBO, irrompe sulla scena un’altra generazione, quella delle millennials, che vive l’emancipazione come un dato scontato. Al centro della storia sempre quattro amiche e sullo sfondo sempre New York, ma questa volta non Manhattan, bensì Brooklyn, diventata nel frattempo dimora cool per ogni hipster (ovvero ogni ventenne narcisista e anarchico, bene educato al punto da risultare decadente ndr) giunto in città con velleità artistiche. In Girls, a differenza di Sex and The City, non c’è traccia di quell’identità collettiva femminile che aveva lottato per l’affermazione di uno stile di vita diverso e manca totalmente il confronto fra identità maschile e femminile. La protagonista Hannah Horvath - interpretata da Lena Dunham una specie di enfant prodige che a soli 25 anni è sceneggiatrice, attrice, regista della serie e scrittrice di culto - non ha niente a che vedere con Carrie. È goffa, in sovrappeso, concentrata su se stessa, veste solo abiti vintage da mercatino dell’usato, non frequenta posti alla moda e il più delle volte la vediamo bighellonare per casa sciatta mentre mangia junk food in pigiama o mentre balla in mutande per casa. Ad Hannah e alle sue amiche capita di incontrare dei “Mr. Big”, ma non li trovano interessanti e li catalogano immediatamente come non attraenti. I Mr. Big infatti sono il prodotto di un’altra generazione, parlano un lin7 marzo 2015 guaggio diverso, e con “le ragazze” si capiscono a fatica. Se per Carrie erano scapoli d’oro, capaci di far innamorare anche la single più accanita, in Girls diventano semplicemente degli sfigati con un bel appartamento. L’educazione sentimentale di Hannah oscilla tra continui dubbi e incertezze, tra l’impegno e la fuga, tra l’amorale e il bigotto. Si mostra un mondo fatto di individualità e stranezze, irregolare e non convenzionale anche quando si parla di sesso e emozioni, al punto che per le protagoniste, a differenza di Carrie, è impossibile razionalizzare e trovare una qualche massima o un qualsivoglia galateo amoroso a cui aggrapparsi per definire la situazione e sapere come agire. A guidare le millenials nell’intricato groviglio dei sentimenti è l’istinto del momento e, se bisogna riconquistare il ragazzo che in quell’istante si è convinte di amare, ogni remora o pudore si cancella in un attimo. Tanto il tempo scorre veloce e le cose si dimenticano in fretta. Tutto passa e allora chi se ne frega se si manda un messaggio di troppo, ci si trasforma in stalker o ci si rende ridicole (vedi ad esempio Hannah che, nel cuore della notte, corre sotto casa di Adam vestita con un orrendo costume da coniglio). In Girls le protagoniste sono costantemente in preda al caos, alla paura di essere soli e di non essere più libere. Come se le ragazze del nuovo millennio avessero studiato e imparato le regole sui volumi della Bradshaw e ora si trovassero scisse tra la teoria e la pratica. Costrette a viversi giorno per giorno quello che accade, magari trovandosi a specificare «Non sono quel tipo di ragazza!», che, non a caso, è anche il titolo dell’ultimo libro della Dhunam. 69 LETTERATURA A lezione da Pinocchio Da Foscolo a Collodi, da Bergson agli azionisti. Antidogmatici, libertari, controcorrente. Sono i maestri irregolari riscoperti dalla collana Civitas di Filippo La Porta Sembra quasi un paradosso, diciamo di aver bisogno di maestri, ma non siamo disposti a riconoscere l’autorità di nessuno. Peraltro in democrazia, in un mondo di uguali - nel Web uno vale uno - qualsiasi autorità viene frantumata, non solo quella istituzionale, legittimata dal privilegio, ma anche quella intellettuale e morale. Né la crisi dell’autorità implica rilancio della pubblica discussione e diffusione del senso critico. Piuttosto porta alla sostituzione dell’autorità con la competenza. Al posto dei maestri abbiamo gli specialisti, in qualche giornale o canale tv. Ormai anche per cucinare abbiamo bisogno di qualche esperto, sancito come tale dai media. Ma i “maestri” sono altro, né la competenza può surrogare la saggezza. Solo che dipende da noi averli, dipende da un nostro gesto di umiltà e di apertura. In particolare nel nostro Paese, privo di salde tradizioni morali e senso civico, sarebbe utile rimeditare la lezione di alcuni maestri, anche involontari, che pure appartengono alla nostra storia. Le Edizioni di storia e letteratura hanno ideato una splendida collana - “Civitas” - con il compito di riscoprire e riproporre alcuni testi autorevoli, diciamo di valore etico o Illustrazione Antonio Pronostico 70 7 marzo 2015 sità non elimina mai una fondamentale fiducia nell’uomo, nella possibilità che la giustizia trionfi sulla forza. Tutto il contrario dell’infame motto andreottiano - che a pensar male degli altri ci si azzecca - e che ha ispirato la storia delle nostre classi dirigenti. Se dovessi indicare un solo maestro del secolo scorso, avrei certamente l’imbarazzo della scelta. Ma se dovessi limitarmi all’Italia, e in particolare a qualcuno che aveva una spiccata disposizione pedagogico-filosofica, penserei a Guido Calogero, estensore del manifesto liberalsocialista nel 1940, studioso insigne e intellettuale impegnato in grandi battaglie civili. civile, di autori degli ultimi due secoli. Una piccola biblioteca colorata di maestri. Apparentemente niente lega Collodi, Foscolo, Bergson, o Cattaneo allo scrittore yiddish Peretz, Croce a Brandeis (un classico del pensiero americano antitrust). Eppure in questi libretti, eterogenei e appartenenti a epoche e contesti diversissimi, circola un pensiero dialogico, irregolare, antidogmatico. E forse nel progetto generale della collana possiamo individuare una qualche eredità del pensiero azionista, quel pensiero eretico che fu sconfitto nel dopoguerra e che, pur con i suoi limiti moralistici, avrebbe potuto creare un’altra storia d’Italia (forse una sua rivincita postuma si può individuare nelle vittorie sul divorzio e sull’aborto, mentre La Repubblica di Scalfari ne costituisce un risarcimento postumo e un parziale tradimento). Uno dei libretti più belli è proprio un discorso stupendo alla Costituente di Piero Calamandrei, il quale pure fece pubblicare nel 1947 la Costituzione per il Mondo di Borgese, utopia concreta di una federazione mondiale. C’è un’attitudine comune a tutti questi autori: il senso della comples7 marzo 2015 Un autore tra l’altro vicino allo spirito e alla cultura che ispira la collana Civitas. Da poco è uscita una selezione degli articoli che scriveva per una rubrica sul Mondo nei primi anni 60 (Quaderno laico. Un’antologia, a cura di Guido Vitiello, Liberlibri), un insegnamento di filosofia che parte dal quotidiano. I dialoghi di Socrate immessi dentro la cronaca. Ne segnalo solo due. La critica al famoso saggio crociano Non possiamo non dirci cristiani, sbagliato perfino nel titolo: «quando mai un filosofo può parlare al plurale?» e fuorviante nel contenuto (l’etica evangelica è in buona parte già contenuta in quella socratica del dialogo). E poi una riflessione che interessa direttamente il nostro tema: «il vero maestro non cela e non impone nulla». Già il vero maestro non impone mai il suo punto di vista come l’unica verità (vietandosi di imparare lui qualcosa dall’altro), né si arroga il diritto di nascondere qualcosa per non turbare le coscienze negando così la possibilità di scegliere. A Calogero sarebbe piaciuta la serie dei cartoni animati South Park, la migliore applicazione dell’idea di Hannah Arendt che il “male” nasce non da profondità abissali ma dalla stupidità, dal non mettersi dal punto di vista degli altri. Questo almeno dobbiamo chiedere oggi a un maestro (sia egli Amartya Sen o Bob Dylan, Alice Munro o Woody Allen): mostrarci la nostra stupidità, anticamera del male. A Libri Come maestri dal vivo: De Mauro, Camilleri e gli altri Della collana Civitas pubblicata dalle Edizioni di storia e letteratura si parlerà il 15 marzo alle 12 a Libri Come. E il tema innerva tutta l’edizione 2015 della rassegna in programma dal 12 al 15 marzo all’Auditorium di Roma. Proprio il direttore di Radio3 e ideatore del Festival Marino Sinibaldi seguendo questo filo rosso intervisterà studiosi come Tullio De Mauro e scrittori noir come Andrea Camilleri, ma ci saranno anche Luis Sepulveda, James Ellroy e Emmanuel Carrère (in dialogo con Nicola Lagioia). Molto spazio hanno anche originali voci femminili come Jhumpa Lahiri e Zadie Smith e Melania Mazzucco che parlerà del suo Museo del mondo (Einaudi), in cui raccoglie affascinanti articoli di arte. E ancora il 15 marzo Point Sur. Letterature dall’America Latina con Ilide Carmignani e Vittorio Giacopini, che il 14 marzo alle 20, presenta il suo nuovo romanzo La mappa, edito da Il Saggiatore. Spazio anche a nuovi talenti fra poesia e critica: il poeta Paolo Febbraro a Libri Come parla del suo Leggere Seamus Heaney (Fazi) mentre Andrea Caterini presenta Giordano (Fazi) in dialogo con Paolo Fallai del Corsera che il 12 marzo, con le Edizioni e/o, continua ad indagare il mistero Elena Ferrante dopo lo speciale di Terzapagina su Raiscuola, smascherando le interviste bufala alla scrittrice apparse di recente. Ma da segnalare è anche l’iniziativa di @Stoleggendo. Se l’editoria si affida sempre più ai social media per arrivare ai lettori, il giornalista Francesco Musolino su twitter coniuga informazione di qualità e immediatezza. Insieme a lui parlano del successo di @Stoleggendo Piero Boitani, Annarita Briganti, Florinda Fiamma, Antonella Lattanzi, Stefano Petrocchi e molti altri. 71 © Alessio Costantini MUSICA A tempo di libertà «La mia gente ha la musica nel dna. Ma non ne sa l’importanza, perché è costretta a sopravvivere». Parla il maestro Jovica Jovic di Tiziana Barillà 72 «La musica tzigana non si studia sugli spartiti, ce l’hai dentro fin dalla nascita, la ascolti in casa fin da piccolo e la impari a orecchio, sapendo che poi la tramanderai ai tuoi figli. È una musica che senti con il cuore e con l’anima. Prima piangi tu che la suoni, poi gli altri che la ascoltano. E questo ce l’ha lasciato Auschwitz». Sono le parole del maestro Jovica Jovic, fisarmonicista rom nato 61 anni fa a Mali Mokri Lug, vicino Belgrado, in Serbia. Da anni Jovic insegna la fisarmonica cromatica con il suo particolare metodo: a orecchio, senza teoria, basandosi sulla memoria visiva e sulla capacità d’ascolto. Il 14 marzo sarà al Nuovo Cinema Aquila per concludere con le sue note il “Roma Sinti Fest”, un evento 7 marzo 2015 Roma Sinti Fest Il 14 marzo, dalle 15 alle 24, il nuovo Cinema Aquila di Roma ospiterà la prima edizione del Sinti Roma Fest, organizzato da ZaLab, il collettivo di fim maker e operatori sociali che promuove integrazione, multiculturalità e coscienza civile attraverso la produzione e distribuzione di film e documentari sociali. Nel pomeriggio, alla presenza degli autori, saranno proiettati film e documentari tra cui Container 158 di Stefano Liberti ed Enrico Parenti, FuoriCampo di Sergio Panariello, Lo sterminio dei Popoli Zingari di Andrea Segre, Rom Tour di Silvio Soldini e Giorgio Garini, Terrapromessa di Marco Leombruno e Luca Romano. Non solo cinema, ma anche musica con i videoclip di Mannarino e Nuove Tribù Zulu girati nei campi o in collaborazione con musicisti rom. Nel foyer si svolgerà invece il dibattito “oltre i campi attrezzati - buone pratiche per il superamento della segregazione abitativa”, a cui parteciperanno il sindaco di Alghero Mario Bruno, il consigliere del Comune di Roma Riccardo Magi, Manuele Hadzovic, abitante nel campo di Alghero, gli attivisti Sabrina Milanovic, Nedzad Husovic e Roberto Mazzoli, ricercatore sociale. A moderare Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 Luglio. L’iniziativa è stata realizzata con la collaborazione di Associazione 21 luglio, Amnesty Italia, MyMovies, OsservAzione, Asgi, Arci Roma, Left, Redattore sociale, Radio città aperta, Alice nella città, Popìca, Sàr San, il patrocinio di Consiglio d’Europa - ufficio di Venezia, Comune di Roma, Biblioteche di Roma e il sostegno di Open Society Foundations, Premio Lux e Banca Etica. E sostiene la petizione “Oltre I Mega-Campi” per il superamento della politica ghettizzante e dei Campi attrezzati. www.zalab.org/romasintifest dedicato alla cultura, alla storia e alla condizione sociale di rom, sinti e caminanti. Un festival che arriva nella Capitale all’indomani delle esternazioni dell’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno in tv: «I rom sono la feccia della società». Maestro Jovic, ha iniziato a suonare da bambino. E proviene da una famiglia di musicisti, che ricordo ha della sua infanzia? Ricordi belli e brutti, come tutti del resto. Belli per quanto riguarda la musica e non basterebbe un libro per raccontarli. Brutti per le difficoltà, i miei erano poveri, eravamo cinque figli, ma ce l’abbiamo sempre fatta onestamente e questo mi rende orgoglioso. Ho iniziato a suonare fin da piccolo, quando avevo 6-7 anni, ricordo che mio padre vendette una mucca per comprarmi la mia prima fisa, e la gioia provata non me la dimenticherò mai. Tutti in famiglia suonavano, mio nonno, lo racconto sempre, è morto a 106 anni suonando il violino. Ricorda la prima nota che ha suonato? Non è possibile ricordare la prima nota... noi rom suoniamo a orecchio! 7 marzo 2015 E viaggiate tanto anche. A 18 anni ha lasciato la Serbia ed è andato in giro per l’Europa, giusto? Sì, ho girato e suonato nei locali di Austria, Germania, Francia, Belgio, Svizzera, Ungheria, Polonia… Fino ad arrivare in Italia, da cui vado e vengo da 30 anni, e dove ormai vivo. Come tratta il suo popolo il nostro Paese? Malissimo. Siamo gli ultimi degli ultimi, considerati peggio degli animali. E non vedo miglioramenti: impossibile avere i documenti, lavorare e vivere onestamente. Non voglio giustificare chi ruba, ma penso a quelli delle cooperative... tutti più o meno, e non solo a Roma, sono anni che rubano i fondi che avrebbero potuto aiutare il mio popolo ad avere una vita migliore. Qual è l’importanza della musica e dell’arte per la sua cultura e la sua gente? La mia gente ha la musica nel dna, forti tradizioni, racconti tramandati oralmente. Ma non ne percepisce l’importanza perché sono costretti a sopravvivere e hanno altro a cui pensare. Perciò sono felice se posso contribuire a diffondere i nostri valori. 73 LIBRI Civati e la citazione radical chic Il ritorno inesorabile del trasformista. Analizzato nel libro del politico Pd Filippo La Porta D el libro di Giuseppe Civati Il trasformista (Indiana) non amo l’uso decorativo della letteratura. (Possibile che occorra appellarsi a Musil e Borges, autori fondamentali ma estranei a qualsiasi “narrazione” anche vagamente progressista, per dire che ci sono sempre altri modi possibili di agire?), non amo gli ammiccamenti e le citazioni chic. Né contrapporrei, come fa Bartezzaghi nella prefazione, passione e ragione. La sinistra riformista, benché ispirata da una visione razionale, deve anche saper riscaldare i cuori attraverso miti “buoni” (Kennedy riuscì a rendere affascinante una cosa noiosa come la democrazia). Però il libro individua un problema reale: l’inesorabile riproporsi della figura del trasformista nella nostra politica. Che deriva da una tradizione retorica tutta italiana: l’uso deresponsabilizzato della parola. All’inizio di Nell’intimità di Kureishi il protagonista, che si accinge a lasciare la moglie e i due figli, scrive una lettera, sapendo di dover 74 fare attenzione alle parole che usa. Per la ragione che «le parole sono azioni e fanno accadere le cose» e una volta uscite non possiamo più ricacciarle dentro. Ma gli italiani ne sono specialisti! L’abitudine a smentire, la civetteria del contraddirsi platealmente (strizzando l’occhio), l’invito a non prendere mai nulla alla lettera, rende tutto reversibile, revocabile e dunque destituito di senso. Il celebre «stai sereno» di Renzi, poi contraddetto, tendenzialmente vanifica ogni patto, dissolve quel giuramento che fonda la convivenza civile. Solo che la replica a tutto questo non è una conferma ideologica identitaria. Invece è accettare entro certi limiti l’incoerenza, lo scarto (“fisiologico”) tra principi e comportamento, però non assumendo euforicamente come obiettivo l’incoerenza. Infine: ogni politico vuole soprattutto “vincere”, e così tende a manipolare le parole a tale fine. Con questo libro Civati si impegna ad avere una concezione della politica capace di abbracciare anche le ragioni dell’etica. cinema mali di fede Timbuktu, l'arma dell'arte, contro il fondamentalismo Daniela Ceselli Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako è un film di rara bellezza e sospeso incanto, pur trattando il tema dell’orrore jihadista in terra d’Africa. Lascia senza respiro per le qualità estetiche e la raffinata semplicità del linguaggio, per i temi che affronta con limpida chiarezza e rigore morale, per la narrazione, scevra da retorica, che alla consequenzialità logica preferisce una frammentarietà liricamente avvolgente, dolorosamente profonda. Nel 2012 ad Aguelok, nel nord del Mali i genitori di due bambini, vengono giustiziati con la lapidazione. La loro unica colpa era quella di non essere sposati. Prendendo spunto da questo fatto realmente accaduto, Sissako racconta una città presa d’assedio dai fondamentalisti islamici e le regole da loro imposte. Non si può cantare, né fare musica. Non si può fumare, né giocare a calcio. Le donne hanno l’obbligo di portare il velo e i guanti, anche se vendono pesce. Vietato decidere chi amare e con chi stare. La vita di tutti è perimetrata da ordini e divieti, schiacciata da proclami al megafono e sorveglianza continua, annichilita dalle armi e un regime opportunista, i cui militanti risultano così ipocriti e meschini nell’esercizio dei loro compiti da risultare ferocemente ridicoli. Al regime non sfugge neanche il pastore che vive tranquillo con la moglie 7 marzo 2015 7 marzo 2015 © National Galleries of Scotland, photography A Reeve e la figlia tra le dune. Reo di aver ucciso un pescatore che lo ha privato della sua mucca, accetta la pena capitale, versando lacrime di dolore per chi resta sola di fronte al suo destino e pronunciando parole, che il suo improvvisato giudice non comprende. Il regista si muove tra le contraddizioni con leggerezza di tocco e sottile ironia: i ragazzi giocano una splendida partita, senza pallone ai piedi; la donna, punita a colpi di frusta, grida il suo dolore con un canto straziante; i jihadisti comunicano con i cellulari in inglese; diversamente non riescono a capirsi; il rapper, chiamato a pronunciare di fronte alla videocamera la sharia contro gli infedeli, non riesce più a parlare; il miliziano importuna la donna sposata, accusandola di indecenza, quando il marito non c’è; l’imam cerca di ammorbidire l’ottusità del fanatismo religioso, spiegando in nome di Allah il suo dissenso; le teste degli idoli pagani vengono crivellate di colpi. Sullo sfondo resta la fuga di una gazzella, inseguita da una jeep, mentre gli uomini fuori campo gridano di non ucciderla, ma sfiancarla, e poi la corsa di un giovane in moto, di un adolescente e di una bimba. Non è importante la meta, visivamente solo la tensione elastica del movimento vitale acquista senso e con esso le corde degli strumenti musicali pizzicate sommessamente, le voci sensuali che sussurrano un canto, gli sguardi delle donne, i colori sgargianti che tagliano la campitura monocroma del deserto, tracce di una resistenza e di una bellezza che non vuole morire. A RT E Quel selvaggio Di Gauguin In fuga dall'Europa. Ma anche da se stesso. I mille volti dell'artista francese Simona Maggiorelli La paura che la propria vena creativa potesse esaurirsi, l'attrazione verso culture lontane, (anche se percepite attraverso la lente deformante dell'esotismo) e poi la ricerca di temi visionari, di tonalità calde e di una luce nuova spinsero il pittore Paul Gauguin ad abbandonare la Francia per trasferirsi prima a Tahiti e in seguito, dal 1901, nelle isole marchesi. Il frutto di quella scelta radicale furono marine abbaglianti, paesaggi rigogliosi e soprattutto una seducente serie di nudi di fanciulle in fiore, incontrate in poveri villaggi di pescatori. Come racconta la mostra monografica che la Fondation Beyeler di Basilea dedica, fino al 28 giugno, all'artista francese. Un'esposizione che ai dipinti del periodo bretone affianca opere realizzate a Tahiti, in cui appare la quotidianità idealizzata delle comunità indigene attraverso la raffigurazione di giovani corpi dai colori ambrati e dall'evidenza plastica, quasi scultorea, nonostante siano rigidamente bidimensionali. Ma se la ricerca di una pittura sintetica affidata soprattutto alla forza del colore caratterizzava già la pittura di Gauguin fin dai tempi di Pont Aven, la passione per le stampe giapponesi, condivisa con Van Gogh, gli permise di arrivare a un'originale definizione dei contorni realizzati con il solo colore. La seduzione delle stampe orientali incontrava così la forza dei primitivi francesi che Gauguin studiò assiduamente in Britannia, come testimonia Paul Sérusier nel libro I segreti della pittura, scritto dopo la fine dell'esperienza di Pont Aven e che ci permette di sapere come lo sfuggente Gauguin veniva percepito dai giovani artisti che fecero di lui un maestro, per superare definitivamente l'impressionismo e poter poi prendere la strada di una ricerca visionaria e intimista, come quella del movi- mento Nabis. Castelvecchi ha di recente riproposto in edizione italiana il saggio di Sérusier. E ancor più utilmente ha pubblicato il testo-testamento che Gauguin scrisse nel 1902, quando ormai l'aggravarsi di problemi alle gambe e l'assenza di risorse finanziarie per un viaggio a Parigi avevano reso impossibile ogni eventuale progetto di ritorno in Europa. Lucidamente Gauguin pensò di approfittare dell'aura di mistero che ormai circondava lui e la sua opera e si mise a scrivere un libro, Avant et aprés, come autoritratto per i posteri. Ma da quelle 241 pagine, pubblicate da Castelvecchi con il titolo Prima e Dopo, non emerge solo ciò che Gauguin avrebbe voluto tramandare di sé. Accanto alla rivendicazione di un animus selvaggio e ai discorsi in difesa degli indigeni vittime del pregiudizio occidentale e del colonialismo, emergono in filigrana i nodi affettivi irrisolti e il modo cinico e paternalistico con cui ricordava Van Gogh, con il quale aveva condiviso burrascosamente la casa di Arles. Una "amicizia" che questo «non libro», indirettamente, suggerisce di tornare ad esplorare. 75 BUON VIVERE Lepre in salmì TENDENZE Zaino in spalla Cucinare come ai tempi di Giulio Cesare Francesco Maria Borrelli D e gustibus non disputandum est. Come cucinavano gli antichi romani? Di certo non c’erano tutti gli ingredienti disponibili oggi e alcuni, come il burro, non erano usati in cucina. Plutarco, infatti, racconta che Giulio Cesare, durante il periodo nel quale era proconsole della Cisalpina venne invitato con i suoi uomini ad un banchetto nel quale c’erano degli asparagi conditi col burro. La pietanza non piacque affatto a Cesare, né ai suoi collaboratori che la additarono come un cibo «barbaro» perché abituati al gusto dell’olio d’oliva. Fu allora che il celeberrimo generale romano avrebbe pronunciato la frase «de gustibus non disputandum est». I gusti non si discutono, specie quando si è ospiti. Proviamo ora a immaginare una pietanza dell’epoca, “la lepre”, e a realizzarla con gli ingredienti usati in quei tempi. Ingredienti: 1 lepre (compresi fegato, cuore e polmoni); vino rosso 1 l; olio extravergine d’oliva (EVO); lardo 100 gr; sedano una costa; 1 carota; 2 cipolle; aglio; alloro; pepe. Tagliate a pezzi la lepre, il sedano, la carota, le cipolle e mettete a macerare una notte in una scodella coperte 76 dal vino. Il giorno dopo colate i pezzi, asciugateli e filtrate il vino che conserverete. In una padella soffriggete le verdure recuperate dalla macerazione, finché non si saranno ammorbidite; quindi aggiungeteci le interiora tagliate a pezzetti e proseguite la cottura per qualche minuto. In una seconda padella mettete a rosolare la lepre con dell’olio EVO, aggiungete il lardo in pezzi, due spicchi d’aglio e qualche foglia di alloro (girate spesso). Unite il primo soffritto nella padella dove sta cuocendo la lepre, aggiungete un bicchiere di vino della marinatura, salate, pepate e lasciate cuocere per una ventina di minuti col coperchio. Servite il piatto ancora fumante. Vino consigliato: Chianti classico Docg, Badia a Coltibuono. Prodotto con uve biologiche, «il nostro centro di interesse è il Sangiovese con le sue caratteristiche naturali, racconta Emanuela Stucchi Prinetti, una dei proprietari dell’azienda. Cerchiamo di restare molto tipicamente chiantigiani, senza voler internazionalizzare il gusto del vino che rimane semplice ed elegante, ma non necessariamente pesante come molti hanno cercato di fare. Una particolarità? Se ne berrebbe a secchiate!». Perfetto anche la sera, è il nuovo must have della stagione Sara Fanelli D otato di tasche interne e cerniere a scomparsa in cui infilare sogni e convinzioni, coulisse da stringere di desideri e passioni, il backpack non può mancare, perfetto, per avere accanto più dello stretto indispensabile. Non si tratta di un accessorio puramente casual, ma la tendenza di stagione lo vede indossato in ogni occasione. Quello in pelle borchiata è perfetto di sera, se carico di entusiasmo abbinatelo a tacco stiloso. Abbandonato da un po’ per favorire la presenza di borse più o meno glamour, oggi lo zaino ritorna prepotentemente in spalla. È comodo e versatile, è la soluzione ideale per chi vuole avere un ufficio mobile sempre a portata di mano. Se la vostra vita si aggira tra le assemblee universitarie potete sbizzarrirvi con i modelli più originali, buttandoci dentro coraggio e incoscienza. Se coltivate l’apertura mentale e non il pregiudizio, la genialità e la cura nella scelta dei materiali di Saline Reliques di Mauro Sciascia farà al caso vostro, tra tessuti a tinta unita e pelle morbida spalmata. Nasce da Chanel la prepotente imposizione di un ritorno, lo propone in pelle nera trapuntata con il classico logo in oro a chiusura. AlexanderMcQueen va di borchie e glam. Trussardi è come sempre classico, con un color cuoio perfetto. Alexander Wang per uno stile fuori dal comune ha disegnato sacche in pelle rigida con tagli orizzontali alla Fontana. Il mood backpackers è per uno stile di vita pieno di idee e progetti, da indossare senza rinunciare però all’eleganza. Una proposta di rinnovamento, una via di mezzo tra lo streetstyle e il classico bon ton da liceali lo ritroviamo anche da H&M che applica frange, nappe, piccole borchie, un misto di sogni e convinzioni addolciti da fantasie floreali e stampe animalier. 7 marzo 2015 M U S I CA VICENTE AMIGO Venticinque anni di Tierra flamenca Ilaria Giupponi I l duende flamenco attraverserà l’Italia sulle corde di Vicente Amigo. A partire dal 9 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma passando per l’ObiHall di Firenze e il Teatro Duse di Bologna (il 10 e il 12 marzo). Il mini tour si concluderà all’Auditorium Verdi del Conservatorio di Milano il 14: quattro date per celebrare, sulle sonorità flamenque, i suoi 25 anni di carriera. Sul palco Vicente torna alla formazione originaria accompagnato da Añil Fernández (Seconda Chitarra), Paquito González (Percussioni), Rafael de Utrera (Cantaor) e Dani Navarro (Bailador). Maestosi interpreti del genere andaluso, dunque. Tuttavia la protagonista sarà indiscutibilmente lei, la sua chitarra flamenca, nota in tutto il mondo per il suo stile inconfondibile, trascinante e pulitissimo al tempo stesso, acuto ma conturbante e contemporaneamente dolcissimo: «La chitarra è un dolce tormento», racconta il maestro che intreccia le tradizione nelle trame finemente ricercate della sperimentazione. Non piacciono le etichette, al chitarrista sevillano che imbracciò “l’arma” a soli 8 anni: «La mia musica è 7 marzo 2015 come una specie di fusion senza etichette. E lo è perché il mio modo di sentire è così. Io cammino per strada e mi possono interessare le cose più differenti e dallo stile più diverso. Così è la mia musica», racconta, «cerco di trovare la mia personalità. Devi confrontarti con queste cose e rischiare con naturalezza». Questo consente l’esplorazione dei confini: «La chitarra è in un momento brillante. I chitarristi di oggi sono molto preparati. Il flamenco sta dando molto alla musica e sta avvicinando persone con culture musicali differenti. E non è perché è una musica esotica, ma perché è una musica di verità». La vita, il proprio modo di risponderle, il sentido (il “sentire”) personale: questo è il flamenco, percepibile in ogni intreccio e strisciata sulla chitarra di Amigo. Che tiene sempre in mente (e nella cassa di risonanza) un cardine: il radicamento al suolo, alla terra, alle origini del flamenco, com’è più che evidente nel titolo del suo ultimo album, Tierra: «Quando io suono, suona anche la mia terra, l’Andalucia». STA RT U P Passa a produrre Switch2Product è il concorso per prodotti e servizi hi-tech Massimo Panico P iù di 600 posti di lavoro creati e un fatturato complessivo di 197 milioni di euro per le startup presenti e passate: sono questi i numeri di PoliHub, l’incubatore gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano che, anche quest’anno, lancia il concorso S2P (Switch2Product). La competizione, giunta alla settima edizione, ha lo scopo di promuovere la creatività e far emergere idee che possono portare allo sviluppo di prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico o dal design innovativo. C’è tempo fino al 2 aprile per presentare le domande e i relativi progetti. Per i dieci finalisti selezionati dalla giuria ci sarà l’accesso gratuito allo Startup Programm del Mip, il master della School of Management del Politecnico di Milano dedicato a startupper e aspiranti imprenditori, dove si potranno sviluppare concretamen- te le idee imprenditoriali. I progetti vincitori selezionati, alla fine del programma di empowerment, vinceranno un percorso di accelerazione della durata di quattro mesi all’interno di PoliHub, la possibilità di accedere a un finanziamento da parte di investitori che fanno parte del network e l’accesso agevolato ai laboratori messi a disposizione dal Politecnico di Milano. La competizione è suddivisa in questa edizione in una Call4Ideas e in una Call4People. Le aree di interesse sono: clean-tech e greening, nuovi dispositivi innovativi, convergenza tra tecnologie digitali e hardware fisico e Ict (Information and Communication Technology). Condizione necessaria per la partecipazione all’iniziativa, pena l’esclusione, è che l’idea non abbia ricevuto finanziamenti da Business Angel, Venture Capital o piattaforme di crowdfunding al momento della presentazione della domanda. Polihub, creato nel 2000, è uno dei 19 incubatori certificati dal ministero dello Sviluppo Economico con 51 startup e aziende presenti dalla sua nascita. Nelle precedenti edizioni, le startup selezionate da S2P hanno raccolto più di un milione e trecentomila euro in crowdfunding. Per partecipare: www.s2p.it. 77 IN AGENDA Dedica porta il cile in Italia Racconta la storia di emigrazione negli Usa dall'India Vita in famiglia (Einaudi) del talentuoso Akhil Sharma (in foto). Il 12 marzo alla Libreria Bardotto, a Torino. Pittura suonata Dal 13 al 15 marzo, alla Casa della Cultura a Roma, si tiene la personale di Maurizio Fioretti: oltre alla mostra di pittura, l’artista si esibisce in due performance musicali, con installazioni musico-pittoriche eseguite live. 78 Dal 14 marzo, Luis Sepúlveda è protagonista della edizione 2015 del Festival Dedica a Pordenone. Una otto giorni densa di incontri con l’autore coordinata da Bruno Arpaia. Sarà l’occasione per presentare il suo nuovo libro L’avventurosa storia dell’uzbeko muto appena pubblicato da Guanda e per ripercorrere i maggiori successi della carriera di questo poliedrico scrittore cileno, cineasta, autore teatrale, poeta e soprattutto romanziere conosciuto in tutto il mondo, con bestseller come Storia di una gabbianella e Il vecchio che leggeva i romanzi d’amore. Prima di ripartire, il 15 marzo, lo scrittore sarà a Roma, a Libri Come per parlare dei propri maestri, intervistato da Marino Sinibaldi. La Siria difesa dagli scempi © Daniel Mordzinski Il talento di Sharma Joan BAez An evening with Joan Baez, una serata con la grande cantautrice. il 10 marzo all’Auditorium di Roma e il 12 marzo al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Sono passati più di 50 anni dalla celebre esibizione del 1958 al Club 47 di Cambridge, Massachusetts, e dal debutto del 1959 al Festival folk di Newport. Nel frattempo il lavoro creativo di Joan non ha conosciuto soste, così come i suoi tour. Coronati nel 2011 dall’ingresso nella Grammy Hall, ma anche da riconoscimenti per le sue battaglie per i Diritti umani, come quello ricevuto da Amnesty. In mostra nella città curda di Amouda i tesori riscoperti dalle missioni italiane. Trent’anni di scavi per riportare alla luce la città di Urkesh, fondata nel 4000 a.C. La memoria del passato come affermazione della propria identità culturale: è un gesto forte e coraggioso quello che vede l’Associazione Subartu e il Progetto archeologico Tell Mozan / Urkesh allestire una mostra dedicata alla civiltà hurrita ad Amouda, città del nordest della Siria minacciata dall’Isis. La mostra presenta l’esito delle ricerche e scavi condotti da studiosi italiani coordinati da Giorgio e Marilyn Buccellati. 7 marzo 2015 Milano Dai visconti agli Sforza Avanguardia Tedesca I colori acidi e gridati, la deformazione delle figure al limite del grottesco, le linee dure, spezzate, aguzze. Ma soprattutto il tono visionario delle scene, perlopiù, scorci di città in rapido mutamento, parlano di una corsa verso la modernità non senza contraddizioni. E di un modo di vivere metropolitano eccitante, ma anche punteggiato di solitarie derive. Con la forza del colore gli Espressionisti rappresentavano le inquietudini di anni che precipitavano verso la prima guerra mondiale. Genova li ricorda con una importante mostra in cui sono esposte 150 opere dei più rappresentativi artisti tedeschi dell'epoca. Dal 5 marzo al 12 luglio in Palazzo Ducale, opere di Kirchner (suo il quadro in foto), Dix, Max Beckmann, Grosz, e altri, provenienti dal Brucke Museum di Berlino. Curata da Magdalena Moeller, direttrice del museo berlinese, la mostra è accompagnata da un catalogo Skira. 7 marzo 2015 Milano al centro dell’Europa. Riallacciandosi alla grande mostra realizzata da Roberto Longhi nel 1958, si apre il 12 marzo in Palazzo Reale una rassegna dedicata al lungo periodo che va dal primo ‘300 al primo ‘500, secoli contrassegnati dalla dinastia dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. In mostra opere di Bonifacio Bembo, Pisanello, Gentile da Fabriano, Vincenzo Foppa e molti altri. Con il coraggio di Mosella Fitch Una grande attrice come Barbara Valmorin (in foto) e un drammaturgo di talento, come Stefano Massini, autore dei Taccuini di Mosella Fitch (ma anche di Lehman Trilogy diretto da Ronconi). Da non perdere al Teatro Due di Roma. Fino all’8 marzo, per la regia di Pia Di Bitonto, Valmorin si cala nei panni di una donna che di fronte alla durezza della vita ha il coraggio di spaccare il vetro dell’ipocrisia. creativi e curiosi Per i più giovani e non solo. Dal 16 al 22 marzo si anima la II edizione del Festival della Cultura Creativa, coordinata dall’Abi. Un festival diffuso su tutto il territorio nazionale che coinvolge 50 banche in diverse città d’Italia. Il tema è “L’alfabeto del mondo ” e il filo conduttore saranno le diverse modalità di narrazione della realtà che ci circonda. Dal 20 al 22 marzo, invece, ritorna a ModenaFiere il salone delle vacanze 0-14. Si parlerà di viaggi per i più piccoli, di turismo formato famiglia e di turismo scolastico: moltissime le proposte. Oltre 200 espositori e i dati dell’Osservatorio nazionale sul turismo giovanile. Senza atomica Una mostra contro le armi nucleari si apre a Roma nello Spazio Factory della Pelanda. Da oggi al 26 aprile la rassegna è promossa dall’Istituto Soka Gakkai con organizzazioni insignite del Nobel per la Pace. 79 TRASFORMAZIONE Non si riuscì mai a pensare che il neonato ha un corpo umano che, prima, non esisteva La vita del corpo è movimento e tempo C ome se fossi giunto nella terra in cui scorrono fiumi di latte e miele, leggo e seguo con lo sguardo le righe in cui si svolge il dibattito sulla filosofia di Heidegger ed il nazismo. Non ho ricordi e neppure la memoria, che crea immagini, riesce a darmi il pensiero che fa la conoscenza del tempo passato. Soltanto l’umidità della fronte, ormai troppo ampia, fa sentire al palmo della mano il ritorno della vita passata. Non ho altre parole per dirlo anche se il corpo urla di dolore alla sola astratta ipotesi che si avvicinino gli orrendi termini che non sono parole: ritorno del rimosso. Viene alla mente cosciente il ricordo nitido delle righe scritte da Heidegger. Lo dissi giorni fa: “Noi parliamo nella veglia e nel sonno”. Affascinante! Ma la memoria, che non sparisce mai e sempre si trasforma dice, con il suono che non sono parole: non è. Erano affascinanti. Come un ragazzino testardo dico: ma, forse mi spinsero a confermare quanto avevo intuito: nel sonno c’è un pensiero. E, poi, non so quando, il pensiero verbale disse: in Heidegger non esiste il pensiero umano né nella veglia né nel sonno. Il linguaggio non è realtà percepibile di suoni pronunciati, non è espressione del corpo che dà conoscenza, ma è quella cosa che hanno denominato sempre spirito, che non è realtà non materiale umana. Sempre insoddisfatto guardo l’ultima parola, umana, e mi domando se è superflua ed equivoca. Non c’è bisogno dell’aggettivo perché la realtà non materiale è soltanto umana. Non esiste al di fuori dell’essere umano. Ma poi penso che, se non scrivo umano, tutti pensano che parlo di spirito. Compare il termine linguaggio e vedo che in Heidegger non c’è nessun pensiero di rapporto con i propri simili. E si apre, nella strada della conoscenza, una spaccatura che appare come un abisso insuperabile. È evidente che nel sonno non parliamo ma pensiamo. Il pensiero del sonno, di per sé, non comunica agli altri esseri umani, è necessario trasformarlo nel linguaggio articolato della coscienza. Non volevo rievocarla, ma compare l’immagine dello psichiatra che interpreta i sogni trasformando le immagini oniriche descritte da un suo simile in pensiero ver- bale. Cosa accade nelle venti ore di ogni settimana? Un... cammino verso il linguaggio? E diamo così alla parola il significato del rapporto con i propri simili...che è reale soltanto se la voce che dice parla all’altro umano. Nel sonno non parliamo perché il pensiero è memoria dell’esperienza vissuta e non ha parola. Diventa parola quando viene trasformato in linguaggio articolato. Ed anche i gesti del sordomuto sono linguaggio articolato perché sono segni come se fossero scrittura silenziosa. Heidegger ha identificato pensare con parlare e non dice la verità. Il linguaggio senza parola è il linguaggio delle immagini oniriche. E, se non ci sono immagini, è capacità di immaginare che si ha alla stimolazione della rètina quando in essa giunge la luce. E la memoria scrive che, guardando il parlare di Heidegger, mi chiedevo quale fosse il suo pensiero. Vennero i termini verbali che dicevano: anni venti. Era finita la prima guerra mondiale e Freud scrisse: Al di là del principio del piacere. Aveva scoperto che nell’uomo esisteva l’aggressività!?? Vennero le parole che dicevano di una realtà incomprensibile. Impossibile pensare la realtà di una cecità abissale. Dopo 25 milioni di morti lo “studioso”, che aveva sempre pensato alle perversioni sessuali, scopre l’aggressività! Aveva stabilito che nell’inconscio dominava il principio del piacere ed ora doveva pensare alla coazione a ripetere. Avrebbe dovuto interpretare i sogni che rappresentavano la distruzione. Istinto di morte. Todestrieb. E la parola Trieb non volle dire: pulsione ma istinto come se gli esseri umani fossero uguali agli animali. Heidegger elaborò il Sein und Zeit e le due parole congiunte, Essere e Tempo erano seducenti. Avrebbero potuto allearsi distruggendo il divenire e la parola trasformazione. Provocavano credere che avesse pensato alla parola movimento senza spostamento di una realtà materiale nello spazio. Non era la verità e vidi l’inganno quando lessi ciò che non era scritto, ovvero che il linguaggio-spirito non era la realtà non materiale del corpo umano. Il pensiero era quello religioso di una realtà non materiale che precede e crea la realtà materiale. Il corpo si muoveva non per sua forza propria alla realtà biologica ma per “l’anima” che avrebbe dato ad esso la vita. Confronto e rifiuto con il pensiero di Heidegger. Era audace ma era impotente 80 7 marzo 2015 Massimo Fagioli psichiatra Nel movimento veglia-sonno scompare la coscienza. Il corpo diventa rilassato ed inerte ed il pensiero si trasforma. L’essere umano non parla e pensa con immagini silenziose. È ricreazione del percepito e pensato e la memoria, che non è ricordo, è ricreazione del primo momento della vita in cui si crea, con l’energia che si unisce alla materia, la fantasia di sparizione che è capacità di immaginare Nell’aria, è noto, c’è un pulviscolo che la inquina. Io vedo ombre che sono i puntini neri delle parole stampate sui giornali. Penso che l’identità umana inizia quando l’essere umano riuscì a distinguere il bene dal male. Scoprii che il male maggiore non era la distruzione ma quel modo di essere invisibile in un comportamento normale, che non distrugge le cose e non uccide, cui ho dato il nome di anaffettività e pulsione di annullamento. Avevano detto che la realtà umana era naturalmente distruttiva e perversa e che soltanto la ragione poteva controllare gli “istinti” malvagi. Heidegger, è noto, pensò di ritornare al prerazionale. Vista la lettera delle parole vorrebbe significare: tornare al selvaggio della caverna. E penso che non è giusto pensare che invitava l’uomo a ritrovare la realtà prima della formazione dell’identità razionale. In altre parole non diceva di tornare al primo anno di vita senza parole, come Freud che pensava soltanto che nel denominato preconscio c’erano, rimossi, i rapporti ed i pensieri dimenticati. Heidegger non aveva mai pensato alla nascita umana. L’essere se stessi spontaneo ed autentico, era l’espressione dell’ “istinto di morte” che era la sparizione degli altri. Eliminare, far sparire, rendere mai esistito il popolo ebraico. E non era annientamento, era annullamento oltre l’uccisione che i nazisti avevano fatto dei malati di mente fucilati e seppelliti. Non fu “fabbrica di cadaveri” ma eliminazione dei corpi. Far sparire come fece Videla in Argentina gettando i ribelli nell’oceano. Come se volessero avere la capacità di creare il nulla. E viene il pensiero: la pulsione di annullamento nei riguardi della realtà materiale è delirio di un corpo immobile, è pazzia criminale quando il corpo ha soltanto il “movimento” che lo sposta nello spazio. Quando l’essere umano perde la creazione di sé che è rendere inesistente realtà passate che non sono l’umanità possibile. E vengono le parole: prassi cieca del corpo che è distruzione di sé e degli altri. Ma i forni crematori non sono distruzione. E le parole dicono: rendere inesistente l’esistenza del corpo umano. Come se non fosse mai nato. Ma la verità dell’essere umano chiede, per essere, il pensiero non cosciente. Chiede che il linguaggio articolato non sia scissione della mente cosciente e mente senza coscienza ma sia trasformazione del vagito e la scrittura possibilità neonatale che diventa capacità di fare la linea. La mano scrive quando la memoria, che non è ricordo, parla dicendo realtà umane mai pensate, perché ricrea quel primo momento di vita che è soltanto capacità di immaginare senza immagine. E la possibilità di fare la linea diventa capacità di scrivere. Il corpo che entra nel mondo della luce si immerge nello spazio simultaneamente alla comparsa del tempo del movimento che, prima, non c’era. Il feto era soltanto realtà biologica, materiale che si modifica nello sviluppo e non va mai incontro alla non esistenza. Poi, quando l’energia che non è materia si unisce ad essa, il movimento non è più lo stesso perché la parola inizio ha, in sé, il termine fine. E la realtà non materiale creata sparisce e diventa non esistente. La realtà materiale biologica, nel disfacimento del corpo, diventa altra. Non è trasformazione perché la sparizione non è, simultaneamente, creazione di una realtà che, prima, non c’era. È, forse, esaurimento della vitalità che può ricreare le realtà non materiali dell’essere umano. È, forse, pulsione di annullamento che si libera per fare, gradualmente, la non verità dell’essere umano che era diventato esistente alla nascita. Ho creato le parole che danno un nome a realtà mentali non viste e mai pensate. Iniziò con fantasia di sparizione. Heidegger non poteva comprendere perché non poteva pensare. Non aveva le parole: nascita dell’essere umano, rifiuto che non è negazione. Non udì, come Freud, il linguaggio dei sogni. perché Geworfenheit era il termine che non parlava di nascita umana 7 marzo 2015 81 UN’ALTRA STORIA di Monica Catalano 82 7 marzo 2015 AsinoLeft Bagni-Conserva_Layout 1 26/02/15 11.03 Pagina 1 Novità L’Asino d’oro edizioni «B ello, come un film del neorealismo. Un libro fatto di vera scuola quotidiana, quando a farla sono due insegnanti colti, preparati, politicamente avvertiti. Quasi un romanzo epistolare, di viaggio e di memoria, con più piani di lettura. Un viaggio lungo un anno, che come un gomitolo si dipana tra difficoltà, dubbi, intuizioni, speranze e soprattutto, sempre, la voglia di essere consapevoli del proprio mestiere, la voglia di misurarsi, sempre, con la prospettiva del ‘non uno di meno’, anche perché ‘l’uno di meno non è un numero ma un nome e cognome’. Lettera dopo lettera si ricostruisce il puzzle dello stare a scuola, con quel clima particolare che solo chi sta in aula conosce bene: sentirsi ‘al fronte’, nella necessità e nell’urgenza continua di prendere decisioni ‘giuste’ – e con il dubbio che lo siano davvero. Nascono così, dalla lettura del libro, i fili e i nodi dell’insegnare oggi». Vittorio Cogliati Dezza dal 13 marzo in libreria www.lasinodoroedizioni.it Giuseppe Bagni insegna chimica in un Istituto professionale di Firenze. Attualmente è presidente nazionale del Cidi, Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Autore di numerosi articoli di scienze, scrive su varie riviste riguardo al sistema scolastico ed educativo. Rosalba Conserva ha insegnato italiano e storia in un Istituto tecnico di Roma. Ha dedicato molti anni allo studio del pensiero di Gregory Bateson, in particolare alle teorie relative al fondamento biologico della conoscenza. È tra i fondatori del Circolo Bateson, dove collabora a ideare e proporre incontri seminariali intorno e oltre l’epistemologia di Bateson.