SONO IO - Max Paradiso

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SONO IO - Max Paradiso
9 771594 123000
50007
Settimanale left avvenimenti
Poste italiane spa Sped. abb. post. d.l. 353/2003
(conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 Dcb
Roma anno xxvi - issn 1594-123x
7 MARZO 2015 | NUMERO 8 | SETTIMANALE € 2,00 | 84 PAGINE
«SONO IO»
Art. 18, Italicum e Giustizia.
Berlusconi lo diceva. Renzi lo fa
di Giulio Cavalli, Giorgia Furlan, Luca Sappino
BANDO
DI
CONCORSO
DELL’ASSOCIAZIONE LUCA COSCIONI
BORSA DI STUDIO
LIBERTÀ DI RICERCA
E DEMOCRAZIA
Art. 1 L’Associazione Luca Coscioni per la
Libertà di Ricerca Scientifica bandisce un
concorso per l’assegnazione di una borsa
di studio per ricerche su “il rapporto tra libertà della ricerca scientifica e democrazia”.
Art. 2 La borsa sarà assegnata, mediante
concorso per titoli, a cittadini italiani e
stranieri in possesso del titolo di laurea;
sarà valutato prioritariamente il titolo di
dottore di ricerca, soprattutto se conseguito con tesi di dottorato attinente alle
tematiche della borsa.
Art. 3 La durata della borsa è di 12 mesi
non rinnovabili. La ricerca potrà essere svolta per una durata massima di tre
mesi all’estero; per il rimanente periodo
dovrà essere condotta in Italia. L’importo
della borsa ammonta a Euro 1.000 netti
mensili. La borsa sarà sospesa in caso di
inadempimento da parte del beneficiario,
a insindacabile giudizio dell’Associazione
Luca Coscioni.
Art. 4 La borsa non è cumulabile con
altre borse di studio, con retribuzioni di
qualunque natura derivanti dal rapporto di
impiego pubblico o privato, né con assegni
o sovvenzioni.
Art. 5 Per partecipare al concorso i
candidati dovranno far pervenire improrogabilmente pena l’esclusione, entro il
31 marzo 2015 alla Associazione Luca
Coscioni, via di Torre Argentina 76, Roma
a mezzo plico o posta elettronica a info@
associazionelucacoscioni.it; 1) domanda,
con firma autografa, in cui siano chiara-
mente indicati nome, cognome, indirizzo,
codice fiscale, recapito telefonico, indirizzo
di posta elettronica del candidato, data e
luogo di conseguimento del diploma di
laurea ed eventualmente del diploma di
dottore di ricerca o titolo equipollente,
conseguito in Italia o all’estero, entro la
data di scadenza del termine ultimo per la
presentazione delle domande di ammissione; 2) curriculum vitae et studiorum; 3)
progetto di ricerca che il candidato intende
svolgere, con eventuale indicazione di
sedi presso cui verrà svolto, del nome e
del recapito dei referenti per tali sedi. Il
programma di ricerca dovrà eventualmente essere corredato dell’approvazione del
responsabile della struttura presso la quale
il candidato intende svolgere l’attività.
Il vincitore dovrà intrattenere costanti
rapporti di comunicazione sullo stato di
avanzamento della ricerca con ricercatori ed esponenti dell’Associazione Luca
Coscioni indicati dall’Associazione, anche
attraverso l’organizzazione di eventi aventi
per oggetto il tema della ricerca.
Art. 6 La selezione sarà effettuata da una
commissione nominata dal Segretario
dell’Associazione Luca Coscioni, sentiti il
Tesoriere e i Co-Presidenti, e composta da
almeno tre esperti. La valutazione avverrà
sulla base dei titoli presentati e della congruità del programma di ricerca; i candidati selezionati, ove ritenuto necessario,
saranno convocati per colloqui di approfondimento. La commissione stilerà quindi
una graduatoria degli idonei. Il giudizio
della commissione è insindacabile.
Art. 7 Al vincitore sarà data comunicazione del conferimento della borsa di studio
a mezzo posta elettronica e telegramma.
Entro il termine perentorio di dieci giorni
dalla data di ricevimento della comunicazione l’assegnatario dovrà far pervenire alla
Associazione Luca Coscioni una dichiarazione di accettazione della borsa di studio
senza riserve alle condizioni indicate
nell’articolo 4. In caso di rinuncia da parte
del vincitore, la borsa di studio potrà essere
assegnata al candidato risultato idoneo
secondo l’ordine della graduatoria. La
borsa di studio dovrà iniziare entro il mese
di aprile 2015, salvo diverso accordo tra
l’associazione e il vincitore. Il pagamento
della borsa sarà effettuato in rate mensili
anticipate.
Art. 8 Entro 7 mesi dall’inizio della borsa, il
beneficiario dovrà trasmettere alla Associazione Luca Coscioni una prima relazione
sintetica sui primi 6 mesi di ricerca. Entro
sessanta giorni dal termine della borsa il
beneficiario dovrà trasmettere alla Associazione Luca Coscioni una particolareggiata
relazione sulle ricerche e sulle attività
compiute.
Art. 9 Le pubblicazioni relative a ricerche
svolte nel periodo di fruizione della borsa
dovranno indicare chiaramente che il ricercatore disponeva di una Borsa di Studio
della Associazione Luca Coscioni
IL BANDO SCADE IL 31 MARZO 2015. PER MAGGIORI INFORMAZIONI.
www.associazionelucacoscioni.it - www.freedomofresearch.org
IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti
7 marzo 2015
3
SOMMARIO
COPERTINA
22 Il Cavaliere Matteo
Jobs act, Italicum, responsabilità civile dei
magistrati: ma se l’avesse fatto Berlusconi?
di Luca Sappino
27 Eccitato da Sergio
C’è grande feeling tra Renzi e Marchionne.
di Checchino Antonini
28 Lasciate lavorare il bullo
Arriva Renzi: il linguaggio diventa pop.
di Giulio Cavalli e Giorgia Furlan
L’intervista
32 In sella contro la mafia
Giuseppe Cimarosa, nipote di Messina
Denaro: «Vivo di teatro».
di Giulio Cavalli
CRIMINALITà
36 La bufala è servita. Dai clan
La mozzarella fra truffe e camorra.
Il punto sulle agromafie con Caselli.
di Francesco Maria Borrelli
e Raffaele Lupoli
POLITICA
42 Alternativa cercasi
I fuoriusciti 5Stelle in cerca di un partito.
di Ilaria Giupponi
InGHILTERRA
46 Elezioni, dizionario sintetico
Guida pratica prima del voto di maggio.
di Massimo Paradiso
48 Il candidato che sfotte Farage
Il comico Al Murray sfida il leader Ukip.
di Virginia C.Grieco
4
NUMERO 8
L’ANALISI
50 Iran in fumo
Consumo record di droghe e pene severe.
di Maziyar Ghiabi
SIRIA
54 Damasco ignorata
Parla il capo dei non jihadisti Khoja.
di Umberto De Giovannangeli
NIGERIA
56 Tratti di corruzione
La storia di Dotun Oloko, che denuncia
i traffici illegali.
di Giacomo Zandonini
e tavole di Claudia Giuliani
SESSUALITà
62 Pillola libera tutti
Storia dell’inventore dell’anticoncezionale
più famoso del mondo.
di Pietro Greco
66 Ribelli alla natura
I nuovi orizzonti della fecondazione assistita
raccontati da Edoardo Boncinelli.
di Simona Maggiorelli
68 Il sesso delle millennial
Le serie tv che formano le ragazze.
di Giorgia Furlan
LETTERATURA
70 A lezione da Pinocchio
I maestri irregolari da Collodi a Bergson.
di Filippo La Porta
Musica
72 A tempo di libertà
Incontro con Jovica Jovic.
di Tiziana Barillà
03 IN FONDO A SINISTRA
di Fabio Magnasciutti
04 LETTERE
05 EDITORIALE
di Ilaria Bonaccorsi
07 BREVI
08 PICCOLE RIVOLUZIONI
di Paolo Cacciari
08 IL BUON VIGNAIOLO
di Fulvio Fontana
10 #ITALIAVIVA
12 FOTONOTIZIE
16 La maggioranza invisibile
di Emanuele Ferragina
17 IL taccuino
di Adriano Prosperi
18 il commento
di Elisabetta Amalfitano
19 il commento
di Giulia Sarti
20 il monologo
di Giulio Cavalli e Emmanouil Glezos
44 scuola
di Giuseppe Benedetti
45 calcio mancino
di Emanuele Santi
74 libri
di Filippo La Porta
74 cinema
di Daniela Ceselli
75 arte
di Simona Maggiorelli
76 buonvivere
di Francesco Maria Borrelli
76 Tendenze
di Sara Fanelli
77 musica
di Ilaria Giupponi
77 startup
di Massimo Panico
80 trasformazione
di Massimo Fagioli
82 un’altra storia
di Monica Catalano
7 marzo 2015
EDITORIALE
fatte le dovute precisazioni,
direi che è meglio migrare altrove
ilaria bonaccorsi
Io mi rifiuto di continuare a parlare di uno che fino
a qualche giorno fa urlava “chi non salta clandestino è”. Anche perché, dolorosamente, mi ricorda un
altro che su un palco simile ma di diversa parte politica, alla fine di una campagna elettorale impegnativa, urlava con la stessa leggerezza “chi non salta
bianconero è”. Senza voler fare nessun paragone (di
“gravità”) penso però che non ne valga più la pena.
Se facciamo il riassunto dell’ennesima settimana in
Italia passiamo dall’incubo/rituale delle primarie in
Campania alla piazza fascista di Salvini. Con al centro, la richiesta di 44 deputati della nostra Repubblica (molti del Pd) al nostro premier, di agevolare
fiscalmente l’accesso alle scuole paritarie (in larga
maggioranza cattoliche).
Il quadro non è roseo, anzi il quadro non ha colori. È tutto uguale. Perché tutto deve essere uguale.
Personalmente non colgo alcun trasformismo, non
avevo mai creduto nella forza innovatrice né di Renzi né, più in generale, di questa ondata cattodem,
deformazione del vecchio e caro cattocomunismo.
L’irriducibile contraddizione di “chi pensa di trasformare il mondo” con “chi crede che il mondo ce l’abbia regalato qualcuno che vive lassù”, non è sanabile
e produce mostri. Lo scriveva l’antropologa Amalia
Signorelli qualche tempo fa, se si ha l’idea di una verità rivelata (o di un mondo creato e regalato) non
si trasformerà mai nulla, né il mondo né gli esseri
umani che lo popolano.
E allora va bene tutto. Va bene che scuole pubbliche
e private abbiano gli stessi diritti, va bene che Salvini e i 44 deputati (molti Pd, lo ripeto) citino insieme
sia Gramsci che don Milani, va bene che a vincere
delle primarie Pd ci sia un indagato, va bene che in
tv qualcuno possa urlare a una donna sinti che “è la
feccia della società”, va bene continuare a ingoiare
punizioni e promozioni da quest’Europa. E va bene
anche che Matteo Renzi renda felici Alfano e Sacconi agitando lo specchietto di un governo di centrosinistra. Io non colgo nessun trasformismo, sono tutti
esattamente quelli che sono.
Quindi, fatte le dovute precisazioni, direi che è
meglio accantonare il peggio. E migrare altrove.
Anche lontano.
Lunedì scorso Saverio Tommasi ha salutato Pepe
Mujica, oramai ex presidente dell’Uruguay, e ha
7 marzo 2015
scritto così: «Un giorno, caro Presidente, ho sentito dire che le belle persone come lei non nascono
più. Io non ci credo. Io credo invece che nascano di
continuo e che ogni bambino sia come lei. E mi creda, questo è il più bel complimento che mi viene in
mente. Arrivederci».
Voglio dire a Saverio Tommasi che anche a me sembra il più bel complimento che possa venire in mente. Luigi Pirandello ne I Giganti della montagna diceva: «È il libero avvento di ogni nascita necessaria. Al
più al più noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita». La nascita è necessaria. E di continuo nascono
belle persone e Pepe Mujica è come ogni bambino,
ha ragione Saverio Tommasi.
Non c’è fascista o razzista che tenga. Non c’è prassi
politica o cultura cattodem che possa impedirlo.
Sta a noi dirlo, andarcene e raccontarvi altro. Debellare il virus e farvi capire che una cattiva politica
è figlia di una cattiva cultura, quella che costringe a
credere non tanto in Tina (There Is No Alternative)
quanto che l’alternativa è semplicissima, essenziale,
e non ha bisogno della vostra partecipazione per essere realizzata. È un atteggiamento culturale che inevitabilmente diventa politico. Di prassi politica che
esclude i molti. Che ha fastidio dei tanti. Bianchi o
neri, diversi o simili. Sono sempre troppi.
Saluto anche io Pepe Mujica e i suoi cinque meravigliosi anni in cui ha, per esempio, triplicato gli
investimenti sulla scuola. Perché come ha detto
una volta: «Ci hanno educato in un mondo cristiano che diceva che questa è una valle di lacrime, e
che solo dopo incontreremo un paradiso. Ma per
favore! Il mondo non può essere una valle di lacrime, il paradiso è questo e ognuno se lo deve costruire “socialmente”. L’affermazione biblica “nato
senza camicia”, se la prendi alla lettera è un’assurdità. Bisogna vivere per le cose importanti: gli
amici, la persona che ami, i figli. Tutto il resto è
superfluo. Bisogna tenersi “il tempo” per vivere. Si
deve insegnare a vivere la vita appieno, con onestà
e facendo “comunità”, circondandosi di persone
che lo vogliono veramente». Bello no? I risultati?
L’indice di disoccupazione è sceso al 6%; i salari
sono in aumento; il Pil è cresciuto del 6%, in meno
di dieci anni e il tasso di povertà è diminuito dal
39% al 6%. In Uruguay.
5
Lettere
Direttore responsabile
Ilaria Bonaccorsi
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redazione
Tiziana Barillà
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Donatella Coccoli
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n. 357/88 del 13/6/88
Copertina:
Illustrazione di Antonio Pronostico
6
Io odio l’8 marzo
Io odio l’8 marzo. Dico sul serio, lo odio.
Profondamente. Lo odio col suo carico
di carovane di donne in libera uscita,
lo odio con le sue mimose di plastica
su scatole di cioccolatini, con quelle
comprate a prezzo folle da fiorai. Odio l’8
marzo con le sue celebrazioni settarie,
le sue omissioni legislative durante
tutto l’anno, gli organismi di partito
ghettizzanti, usati solo come bacino di voti
all’occorrenza. Odio l’8 marzo che lava la
coscienza ad uomini distanti, violenti o
solo semplicemente ignavi che lo usano
come viatico per sentirsi bravi e solidali un
giorno all’anno. Odio l’8 marzo festeggiato
solo dalle donne. Lo vorrei festeggiato
dagli uomini, da tutti gli esseri umani.
Vorrei una festa dell’Umanità, dell’essere
solidali, del non prevaricarsi, del rispetto,
dell’uguaglianza, sempre. Odio l’8 marzo
usato dal marketing di aziende che poi
sbattono cosce e tette in prima pagina gli
altri 364 giorni per vendere cose. Odio
l’8 marzo di ragazzine ormai ignare di
quello che significa, di mamme che se
ne sono dimenticate o che non l’hanno
mai saputo. Odio l’8 marzo delle donne
senza ironia, coscienza di sé, di donne
che non sanno accettarsi con indulgenza
e fuori da schemi imposti. L’8 marzo di
donne realizzate solo su tacchi 12 che si
costringono da sole in una immagine che,
alla fine, le imprigiona e frustra.
Odio l’8 marzo di “50 sfumature di grigio”
al cinema una sera , e di rosso sangue
versato di tante tutto l’anno. Odio l’8
marzo di donne ancora con sensi di colpa,
l’8 marzo di mamme che non possono
lavorare perché costa di più farlo che
stare a casa. Odio l’8 marzo del dover
scegliere ancora fra casa e famiglia, di una
economia in cui il lavoro per le donne è
un lusso in più. L’8 marzo di bambine
tutte uguali allevate a telefilm, portate
dalle estetiste anche alle elementari da
mamme cresciute con programmi che
annacquano il cervello. Odio l’8 marzo
lettere @ left.it
con mimose di cui non si sa più né la storia
né la provenienza. Lo amerei, invece, l’8
marzo, come l’amavo... e tanto. Amerei l’8
marzo del ricordo, per esempio. L’8 marzo
di una ragazza italiana, Teresa Mattei che
ha scelto lei, la mimosa, come simbolo di
questa giornata. Giornata di celebrazione,
non di “festa”. La mimosa perché fiore
semplice, spontaneo, disponibile per
tutti. Amerei l’8 marzo del ricordo di
questa ragazza degli anni Venti, che a 17
anni si fece espellere da tutte le scuole
del Regno per non assistere alle lezioni
sulla difesa della razza, per esempio.
Amerei l’8 marzo del ricordo di questa
ragazza ex partigiana che, poco più che
ventenne, scrisse l’articolo 3 della nostra
Costituzione, quello sull’Uguaglianza... di
tutti noi, di tutti i cittadini. Vorrei amarlo,
insomma, questo giorno, tornare a farlo.
Come tutte le cose amate alla follia che
quando ti deludono e vedi trasformarsi
in altro ti fanno soffrire di più, come un
amore tradito e perso. Proviamo con il 9
allora e poi con il 10, l’11 e via via andiamo
avanti ogni giorno, provando ad amare
questi giorni, uno dopo l’altro con una
consapevolezza che non celebra ma agisce
e “fa”, insieme. Magari, cosi, accade che
arriviamo ad un prossimo 8 marzo. Quello
dell’anno giusto. Quello in cui ci apparirà,
celebrandolo, prima di tutto proprio
l’immagine di questa ragazza italiana,
di Teresa Mattei che scrive a vent’anni
questa nostra bistrattata Costituzione.
L’immagine di una donna italiana
coraggiosa e appassionata che scrive
di uguaglianza e di diritti. Che ne scrive
fiduciosa, in tempi non lontani ma che
ora sembrano secoli, mentre tiene una
mimosa appena colta stretta, stretta forte
fra le mani.
Milene Mucci
Errata corrige. Nell’ultimo numero di
Left è stata pubblicata la foto di Roberto
Reggi al posto di quella di Vito De Filippo,
sottosegretario alla Salute. Ce ne scusiamo
con i diretti interessati e con i lettori.
Chiuso in tipografia il 3 marzo 2015
BREVI
UP
la data
9
MARZO
1959
Debutta nelle vite delle bimbe
Barbie, la fashion doll lanciata
dalla Mattel. È l’inizio di bambole che rappresentano donne
anziché neonati, nonché di
un’infanzia truccata da adulta.
Da allora ne sono state vendute oltre un miliardo, tre al secondo. Trucco pesante, tacchi,
senso prorompente su corpo
esile e vitino da vespa, Barbie
diventa modello nel bene e soprattutto nel male: la bambola
viene successivamente modificata nell’aspetto in quanto
istigatrice di criteri di bellezza
deviati come l’anoressia. Non
va meglio sul versante intellettuale: il suo nome diventa
sinonimo dispregiativo di ragazza di bell’aspetto ma priva
di spessore e sostanzialmente
stupida. Non solo: viene anche
accusata di contenere sostanze
tossiche - accusa che molti uomini riservano alle loro mogli
anche nella vita reale. Proprio
per avvicinarla alla realtà, Mattel inventa una biografia, che
porterà nel 2004 Barbara Stefania Roberts a candidarsi alle
presidenziali col Partito delle
Ragazze con tanto di programma elettorale. Barbie è stata inventata da una donna.
7 marzo 2015
La “tana” dell'Hiv
Scoperte le tane dove si nasconde l’Hiv, i bunker genetici in cui il virus dell’aids
può rimanere indisturbato.
A farlo sono stati i ricercatori dell’Icgeb (International
Centre for Genetic Engineering and Biotechnology)
di Trieste, guidati da Mauro
Giacca. Su Nature si spiega
come il virus “entri” nella
cellula e si nasconda nella
membrana esterna al nucleo confondendo il proprio
Dna con quello delle cellule
che infetta. Ma adesso, una
volta “smascherato”, sarà
più facile colpirlo con la terapia farmacologica.
DOWN
Formigli e il ring in tv
«Rom feccia della società»,
grida Gianluca Buonanno.
Che l’eurodeputato leghista
non fosse un liberal con un
pensiero rispettoso dei diritti civili si sapeva. Ma stupisce che un giornalista come
Corrado Formigli abbia permesso che Piazzapulita si
trasformasse in un ring con
una unica vittima sacrificale. Diana Pavlovic, attrice,
rappresentante della cultura
Rom, è stata attaccata più volte dall’esponente padano, tra
gli applausi del pubblico. Non
basta che Formigli si sia dissociato. Forse avrebbe dovuto
invitare Buonanno ad andarsene, perché di sicuro quella
non era informazione.
IL NUMERO
100
È il numero dei detenuti
che per sei mesi lavoreranno all’Expo di Milano. Nello
specifico: 35 del carcere di
Opera, 35 da quello di Bollate, 10 da Monza e altre 20
persone attualmente affidate agli Uffici di esecuzione penale esterna. Grazie
a un accordo fra il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria (Prap)
di Milano e la società Expo
spa, i 100 uomini verranno assunti per svolgere le
mansioni più disparate, dal
facchinaggio all’accoglienza, durante tutto il periodo
della fiera. E, come previsto dalla legge 354 del 1975,
verranno pagati un terzo
rispetto ai contratti collettivi nazionali. In programma
anche l’organizzazione di
un convegno, sempre nella
vetrina dell’Expo, sul tema
dell’inclusione sociale a cui
parteciperà il ministro della
Giustizia Andrea Orlando.
Dunque, cibo da tutte le
parti del mondo ma anche,
possibilmente, «pari diritti
per tutti», ha dichiarato la
presidente del Tribunale di
Milano Livia Pomodoro.
LA
PAROLA
GIUSTA
Serietà
Necessaria dopo le primarie di Liguria e Campania.
Denunce, accuse di brogli, spostamenti di pacchetti di voti, ricorsi alle
commissioni di garanzia e
soprattutto disincanto di
moltissimi cittadini. A 10
anni dall’introduzione di
questo strumento partecipativo, occorre una riflessione sui meccanismi del
suo utilizzo. Le primarie,
da grande occasione di
confronto politico, di partecipazione e scelta dal
basso, stanno diventando
sempre più fenomeno
con cui i grandi interessi
riescono a intervenire nei
partiti, condizionandoli.
La vita democratica interna ai partiti va regolata
attraverso
un’apposita
norma che introduca elementi di garanzia nei criteri per le candidature, nella
fase di accreditamento dei
votanti come nello scrutinio. Senza regole, primarie e congressi diventano
prove di forza che non
hanno nulla a che vedere
con quella delle proposte e
del confronto. Garantire ai
cittadini spazi partecipativi sempre più ampi è questione fondamentale e allo
stesso tempo delicata che
non può essere affrontata
con superficialità. Ecco
perché, aldilà di vincitori
e sconfitti, occorre indubbiamente serietà.
Filippo Treiani
7
PICCOLE RIVOLUZIONI
Popolo di alluvionati
di PAOLO CACCIARI
Sono i cittadini
che vediamo
apparire
in televisione
con pale, stivali
e sacchetti di sabbia
il giorno
delle esondazioni
e di cui poi nessuno
si occupa più
È ufficiale: Nasa e Noaa hanno confermato che
il 2014 è stato l’anno più caldo da quando sono
iniziate le misurazioni scientifiche globali. E
non poteva essere diversamente. Le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera
continuano a crescere; quest’anno raggiungeranno la soglia media globale delle 400 parti
per milione. Per trovare una composizione
chimica simile bisogna risalire a 4 o 5 milioni
di anni fa, quando le temperature erano molto più elevate e i mari almeno 20 metri più alti.
La mappa dell’agenzia americana Noaa indica
l’Europa e il Mediterraneo tra le aree più calde
del pianeta. Conseguenza ovvia la tropicalizzazione del clima. La maggiore energia accelera il ciclo dell’acqua provocando sempre più
frequenti nubifragi, bufere, tempeste, trombe
d’aria e le devastanti “bombe d’acqua”. A ciò
aggiungiamo abbandono rurale, incuria, impermeabilizzazione dei terreni e otteniamo il
generalizzato dissesto idrogeologico italiano:
alluvioni e frane. Maltempo e malpaese alleati
provocano ad ogni cambio di stagione vittime
e danni enormi. In attesa dell’unica “grande
opera” che servirebbe all’Italia – un piano organico e dettagliato per bacini fluviali di messa
in sicurezza degli argini, dei dirupi e delle coste – le popolazioni colpite dai ricorrenti disastri ambientali, riunite in svariati comitati e
associazioni, non si sono scoraggiate e hanno
avuto la forza di mettersi assieme e dare vita ad
una Rete nazionale delle comunità dei fiumi
denominata: “Mai più bombe d’acqua e disastri ambientali nelle aree a rischio idrogeologico” (http://maipiu.eu/).
Sono i cittadini che vediamo apparire in televisione con pale, stivali e sacchetti di sabbia il
giorno delle esondazioni e di cui poi nessuno
si occupa più. Sono i plurialluvionati del fiume
Magra a Spezia e Massa Carrara, del Calore in
Irpinia, del fiume Secchia nel modenese, delle Terre Joniche, dell’Isola d’Elba, di Genova,
della Sardegna, della Sicilia, dell’Emilia Romagna, del Veneto. Devono battersi per ottenere
le opere di presidio più urgenti, per riscuotere
qualche euro di risarcimento, per dare la sveglia a Comuni, Autorità di bacino, Regioni, Governo per la applicazione della Direttiva europea 2007/60 sui rischi idraulici. Ad essi si sono
aggiunti anche i Cittadini per la memoria del
Vajont. La più grande testimonianza di ciò a
cui conduce l’avidità umana.
IL BUON VIGNAIOLO di Fulvio Fontana
8
7 marzo 2015
IO SONO BASTARDO
Il vecchio e il Palazzo
Seduto sopra un muretto su
un'isola, in vista del mare più
in basso, un vecchio marinaio sta, col coltello, affilando
un pezzo di legno.
Il sole è quello del tardo inverno. E le parole borbottate
sono quelle della fine della
sua vita. L'incazzatura quella di sempre. Ne ha viste di
cose. Ottantotto anni e le
mani ancora non tremano,
il passo è deciso e diritto lo
sterno. La schiena non si è
mai piegata. Ne ha viste di
cose. Ducetti del cazzo appesi e sopravvissuti. Parvenu e
lacché di mestiere. Gente che
poi si compra un'azienda, ce
la regalano, o un giornale e
“sdottora sta minchia!”, come
dicono certi amici.
Quanto ha riso alle battute
all'osteria con quegli amici di
sempre, mentre le carte che
battono sul tavolo lo striscio
e il busso e il rumore del mare
si confondono.
“C'ha talmente la lingua infilata nel culo del premier che
ci titilla le tonsille!”, minchia
le risate. “È talmente zocchina che le ginocchia piatte si
sono fatte!” e intanto quegli
amici se ne sono andati.
Chi di malattie troppo co-
stose per essere curate. Chi
di pensione corta perché, a
rovistare nella spazzatura, la
vita si fa insopportabile. Chi
perché ha dovuto chiudere
l'azienda. Francesco, il nipotino che va in una scuola che
i muri cadono a pezzi. Mentre
quelli a Roma mangiano. Per
lui lo fa. Piglia il traghetto, poi
il treno, poi arriva al Palazzo.
E quel paletto appuntito che
prepara con tanto amore,
nel cuore ce lo pianta a quei
vampiri. Perché un uomo
deve onorare il nome che
porta. Bresci mi chiamarono.
E Bresci sono.
di Bebo Storti
EPICA FILATELICA
Questa settimana dedichiamo il francobollo a un
personaggio fuori contesto della storia della canzone italiana: Piero Ciampi, livornese, comunista,
anarchico. Uno che non si considerava ricco perché
non poteva avere contemporaneamente una frittata di cipolla, un bicchiere di vino, un caffè caldo e
un taxi alla porta. E non si sentiva
povero perché rispetto all’ultimo
dei miserabili aveva qualcosa in più:
la poesia. Ciampi era uno fragile,
perennemente incazzato, dal vaffanculo facile. Uno che sembrava
rincorrere la sorte beffarda. Quando
l’occasione buona bussava alla sua
porta, Piero era sempre chissà dove,
non lo si trovava mai. Poteva essere ovunque, a Parigi o in Spagna, a
Genova o a Milano, in Giappone
o ubriaco sul muretto di un vicolo
qualsiasi di Livorno. Uno di quei vicoli che ancor oggi portano il nome delle donne che
lì professavano il mestiere. Nella sua vita, Ciampi
amò Livorno, due donne e il vino. Litigava con tutti.
Spesso non finiva neanche la prima canzone che
aveva litigato con il gestore o con il pubblico del baraccio di turno. Questo lo portò ad autodefinirsi «il
cantante più pagato di sempre: Duemilafranchi per
mezza canzone!». Ma il rissoso Piero aveva «tutte le
7 marzo 2015
carte in regola per essere un artista», e lo sapeva al
punto da autocelebrarsi in una canzone. Le donne
lo abbandonarono, la poesia non gli permise mai di
sostentarsi. Alla Rai erano costretti a passare le sue
apparizioni in orari improponibili a causa del suo
evidente stato di ebrezza. Storica la sua rissa con
Califano, colpevole di non avergli
offerto da bere nel suo club romano.
Piero era evitato da quasi tutti i suoi
colleghi e a lui questa cosa sembra
non dispiacesse troppo. Piero Ciampi, va detto, non era un codardo, era
un coraggioso disposto a salire su un
palco e mettersi in discussione ogni
volta un po’ di più. Noi epici filatelici
millantastorie lo vogliamo ricordare
in modo semplice ed estroso come
la sua ultima apparizione al Premio
Tenco, quando arrivò barcollando
gonfio di vino sul palco, litigò col
pubblico che lo fischiò e lui lo zittì a modo suo,
con un misto di compostezza e violenza. Poi, portò a termine la sua interpretazione: fece un passo
indietro, un sorriso e un inchino. L’anno dopo non
si presentò, mandando un telegramma lapidario:
«Non sono potuto venire». Piero Ciampi lo ricordiamo con la stessa semplicità che si trova in un buon
bicchiere di vino.
illustrazione
di Antonio Pronostico
e testo
di Saro “Poppy” Lanucara
9
#ITALIAVIVA
di RAFFAELE LUPOLI
«Subito lo “scatto libero”
in archivi e biblioteche»
Queste pagine
di Left ospitano
le proposte
dei lettori
dai territori.
Segnalateci
vertenze,
iniziative, foto
e soprattutto
buone notizie a
[email protected]
o condividetele
sui social
network
con l’hashtag
#italiaviva.
10
Il selfie al museo con l’opera d’arte o il reperto antico sì, ma la foto al libro per scopi
di studio e ricerca non la puoi fare. Sono le
stranezze della recente legislazione italiana sui beni culturali: il decreto “Art bonus”,
in vigore da giugno 2014 e adesso in sede di
conversione in legge - complice l’intervento
della solita “manina” - ha escluso dalla sua
applicazione la libera riproduzione di beni
archivistici e bibliografici (cioè i documenti d’archivio e i volumi storici). Un archeologo e archivista 31enne, Mirco Modolo, ha
deciso di mettersi di traverso e sottoporre
la questione al mondo accademico e della
cultura in generale. «Dopo l’approvazione
dell’emendamento restrittivo - racconta
- assieme ad Andrea Brugnoli, medievista
che ha reso disponibile online tutta la documentazione veronese tra VIII e XII secolo,
ci è parso necessario attivarci per ottenere il
ripristino del dettato originario dell’Art bonus». Così è nato “Fotografie libere per i beni
culturali”, movimento a favore della riproduzione libera e gratuita delle fonti documentarie in archivi e biblioteche per finalità
di ricerca, ed è partita un lento ma costante
lavoro di coinvolgimento di personalità di
spicco e semplici cittadini, un coro di oltre
1.500 voci che «chiede di mettere una toppa
a quello che alcuni degli stessi deputati del
Pd firmatari dell’emendamento in questione hanno definito “uno scivolone da superare”». Per Modolo è una battaglia allo stesso
tempo di principio e di svecchiamento del
concetto di conservazione, che deve essere
aperta alla libera ricerca e alla valorizzazione scientifica del patrimonio documentario. «Chi si oppone alla libera riproduzione
con mezzi propri deve spiegarci perché un
documento accessibile in via ordinaria alla
consultazione, quindi non parliamo di testi
di particolare rarità e pregio, dovrebbe correre maggiori rischi se fotografato a distanza
con smartphone o fotocamera», aggiunge
l'archeologo. «Semmai è vero il contrario:
effettuate le riproduzioni, i ricercatori non
dovranno più manipolare il testo, che correrà così meno rischi». Il dubbio è che questo
sistema possa mettere in discussione il monopolio delle riproduzioni in mano a pochi
privati. L’appello si può sottoscrivere su
fotoliberebbcc.wordpress.com.
Enzo.Infantino - Probabilmente
unico caso in Italia: da oggi a Palmi
ci sono due assessori ai lavori pubblici. Uno, Melara, ha la delega per
lavori per un importo fino a 100mila
euro; l’altro, Pace, ha la delega per lavori superiori a 100mila euro.
Un altro “capolavoro” del sindaco
pro tempore. Un “grande”.
@elmorisco - Vince il
candidato
condannato.
Come negli ultimi 20 anni.
#hashtagradio1 #DeLuca
7 marzo 2015
#ITALIAVIVA
RAGUSA
Trekking “no triv”
per salvare il fiume
Il primo marzo, a Ragusa, 500 persone hanno
partecipato al trekking contro le trivellazioni
della società Irminio lungo il fiume omonimo. Percorrendo diversi chilometri lungo le
strade e i sentieri della valle, attraversando
l’area in cui sono previste le trivellazioni e costeggiando il fiume Irminio. Un modo creativo per denunciare lo scempio che causerebbe
un ipotetico sversamento di petrolio alla riserva naturale che circonda il corso d’acqua.
SALINE JONICHE
La centrale a carbone
non piace (anche) al Tar
MILANO
Territori reattivi
a Fa’ la cosa giusta
La centrale a carbone di Saline Joniche, in
provincia di Reggio Calabria, non si farà perché l’iter autorizzativo era viziato da irregolarità e forzature. Lo dicono le associazioni ambientaliste riferendo della decisione del Tar
del Lazio che ha accettato il ricorso contro il
decreto della presidenza del Consiglio e la Valutazione d’impatto ambientale. Il ricorso era
stato presentato a fine 2012 da Legambiente, Greenpeace, Wwf, Lipu, e poi unificato
a quello di Regione e altre associazioni. Ora
l’invito al ministero dello Sviluppo economico: prenda atto della sentenza e chiuda con
un “no” definitivo la conferenza dei servizi.
Dal 13 al 15 marzo, a Fa’ la cosa giusta!, la fiera
milanese del consumo critico e degli stili di
vita sostenibili, si parlerà anche di iniziative
di tutela del territorio. Cittadini Reattivi organizza l’incontro “Re-Action! Azioni d’impatto
civiche e civili per il cambiamento”, che metterà a confronto le iniziative organizzate da
alcuni comitati di cittadini che vivono nelle
aree più contaminate della Lombardia e che
si sono battuti per la partecipazione civica e
costruttiva a tutela del diritto alla salute e a
un ambiente pulito: www.falacosagiusta.it
TARANTO
TRIESTE
Solidarietà all’attivista
Olio capitale sfida la crisi gay aggredito
Alla faccia della crisi del settore e della produzione praticamente dimezzata, l’extravergine
italiano si ritrova dal 7 al 10 marzo a Trieste
per la fiera Olio Capitale, salone degli oli tipici e di qualità. Giunta alla nona edizione,
l’unica manifestazione in Italia dedicata interamente all’olio vedrà presenti espositori da
tutta Italie e da Paesi produttori come Spagna, Portogallo, Croazia e Israele.
7 marzo 2015
Luigi Pignatelli, presidente di Arcigay Taranto, è stato aggredito da un gruppo di giovani
nel pomeriggio del 28 febbraio, a margine di
un incontro presso il Cantiere Maggese sulla cprevenzione delle malattie sessualmente
trasmissibili. «Mi era già accaduto, ma stavolta mi hanno accusato di essere pedofilo perché facevo attività con i ragazzi», ha spiegato
Pignatelli a Gay.it.
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FOTONOTIZIA
RUSSIA/UCCISA
L’OPPOSIZIONE
«Ogni volta che le telefono, mia madre mi
rimprovera: “Quando
la smetterai di parlare
male di Putin? Guarda che quello ti ammazza!”»
Sapeva di rischiare,
facendo continua e
fervente opposizione, l’ex vicepremier
di Boris Eltsin Boris
Nemtsov, assassinato a colpi di pistola
nei pressi del Cremlino la notte del 27
febbraio. Migliaia e
migliaia di persone
hanno marciato per
le strade di Mosca in
sua memoria Cordoglio di massa anche
durante i funerali, in
cui l’amico e compagno di opposizione al
Cremlino, Gennady
Gudkov, ha ribadito:
«I colpi non sono stati sparati solo contro
Nemtsov, ma contro
tutti noi, contro la democrazia in Russia».
Nemtsov sarà sepolto
al cimitero Troyekurovskoye, dove riposa
anche Anna Politkovskaya, a sua volta assassinata il 7 ottobre
del 2006. Assenti ai
funerali Vladimir Putin e il premier Dmitri
Medvedev.
FOTO Di:
SERGEI ILNITSKY/EPA
FOTONOTIZIA
INDIA/
COLORI SACRI
Uomini hindu nel villaggio di Nandgaon si
spruzzano a vicenda
polvere colorata come
vuole il gioco sacro,
durante i festeggiamenti per l’Holi, la
Festa dei colori che
celebra la fine dell’inverno e la vit­to­ria del
Bene sul Male.
Il sacro festival di Lathmar Holi, ha luogo
nel leggendario villaggio di Barsana (115
chilometri da Nuova
Delhi), madrepatria
della dea Radha, sposa del dio hindù, Krishna (India, 27 febbraio 2015).
Durante la festività,
le donne colpiscono gli uomini con
dei bastoni di legno,
i lathis, per emulare
e rievocare la difesa
dall’oltraggio recato,
secondo la tradizione, alla dea.
FOTO Di:
Saurabh Das/AP Photo
EDITORIALI
La maggioranza invisibile
Abbiamo raschiato il barile
Per una modernità compressa
DI EManuele Ferragina
«Abbiamo speso 30 anni con l’ossessione di diventare come i Paesi occidentali, ora siamo ricchi anche più di voi, ma non sappiamo che farcene». Fa un certo effetto ascoltare queste parole
a Seoul, mentre cammini lungo i sentieri di una
montagna, un’oasi in una metropoli con oltre
venti milioni di abitanti. Chang Kyung-Sup è un
uomo sulla sessantina, professore di sociologia
all’Università Nazionale di Seoul, dopo un dottorato a Brown negli Stati Uniti. Uno che invece che
enfatizzare le classifiche scalate dal suo Paese, ha
speso l’intera carriera a interrogarsi sugli effetti
di quella che ha definito “modernità compressa”,
il percorso della Corea verso la modernità in solo
trent’anni.
Il mio incontro con la modernità compressa precede questo viaggio. Era il 2008 e avevo da poco
iniziato il mio dottorato, quando leggendo Ulrick
Beck mi ero imbattuto in una menzione del lavoro di Chang Kyung-Sup: Compressed Modernity
and its Discontents. La sua teoria parlava a tutto
il mondo sviluppato e non solo a quel Paese assurdamente diviso. Diedi l’articolo alla mia compagna di dottorato coreana. E così, sette anni
dopo, Sophia dopo avermi invitato a parlare della Maggioranza invisibile nell’università di Seoul
mi dice che ha un regalo per me. Un pomeriggio
con l’accademico più interessante del suo Paese.
Mentre i grattaceli di Seoul si fanno sempre più
piccoli, Chang Kyung-Sup mi parla del legame
indissolubile tra sviluppo e confucianesimo e
di quanto crescere senza un obiettivo, e così in
fretta, possa ledere le fondamenta di una società.
Una cosa mi ha colpito: l’attore principale nella
sua teoria è sempre la famiglia, unica ricchezza
per i coreani, che non hanno però sostenuto con
politiche sociali adeguate. La famiglia con donne
impegnate prima nel lavoro di cura e l’educazione dei figli e poi, quando questi raggiungevano
un’età adeguata, il loro ritorno al lavoro, prima in
16
fabbrica e poi nei servizi, oggi è esausta. Da questa stanchezza deriverebbero secondo Chang
Kyung-Sup i bassissimi tassi di fertilità e i più alti
tassi di suicidio nel mondo sviluppato. Tornando
da Seoul, mi appare chiaro come anche noi abbiamo vissuto una storia per molti versi analoga.
Durante il processo di modernizzazione, e ora
nella crisi, è sempre la famiglia ad ammortizzare
i costi. Il lavoro di cura delle donne mentre l’uomo andava in fabbrica nel dopoguerra, e oggi i risparmi che tengono in piedi i figli, che non hanno uno straccio di lavoro. Ci siamo confrontati
con una modernità “meno compressa” di quella
coreana, ma una crescita pur sempre veloce, ha
mostrato tutte le sue falle. Benessere materiale
senza idea di sviluppo. Dopo aver esaurito tutte
le energie della famiglia, e averla messa al centro
di ogni interazione sociale, ci troviamo spaesati
da una progressiva “perdita di valori”. Difficile riconoscere che mentre questo accadeva ci siamo
appoggiati all’unica istituzione solida del nostro
Paese, perché Stato e mercato non hanno mai
funzionato. Non è “la funzione naturale” della
famiglia che abbiamo tutelato in questi anni, ma
su di essa, e sulle donne in particolare, abbiamo
scaricato i costi della corsa verso la modernità.
Per questa ragione, è solo andando alla ricerca di
una nuova visione di sviluppo che ridaremo dignità alla famiglia. La famiglia come nucleo costituito da due o più persone che vivono insieme,
non certo quella “naturale”.
Così la vista di Seoul si trasforma in una panoramica sul futuro del capitalismo e del nostro Paese. Abbiamo raschiato il barile, lo abbiamo fatto
per una modernità compressa fatta di consumo
e benessere materiale. Viene da chiedersi se il futuro non stia proprio nella capacità di decostruire quest’equazione perversa, e di riabbracciare
una visione di sviluppo compatibile con i ritmi
di tutti gli individui.
Il futuro sta
nel riabbracciare
una visione
di sviluppo
compatibile
con i ritmi di
tutti gli individui
7 marzo 2015
EDITORIALI
Il dato evidente della crisi?
Il frammentarsi della Ue
Il taccuino
Quando Yanis Varoufakis si recò in Germania
nelle sue vesti di ministro greco delle Finanze,
il quotidiano Die Welt lo presentò così: «Varoufakis, il comunista libertario, viene in Germania come per un combattimento di cani. Con
la camicia fuori dai calzoni, il colletto della
camicia aperto... Cerca la vittoria - soprattutto
sulla Germania. Nessuno se la farà addosso a
causa di questo ruffiano accademico». A poche
ore dall’incontro di Bruxelles, sui giornali tedeschi si sono lette messe in guardia dal “cavallo
di Troia” e dall’ “inganno greco”. Nemmeno
ai mondiali di calcio l’aggressività tedesca ha
mai trovato toni così forti. Lo scontro era tra il
campione tedesco, Schäuble, e il ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis. Un esempio
“Così Schåuble metterà in ginocchio Tsipras”
sulla Welt del 20 febbraio. O anche: «Schåuble
sa quale sia la lingua che Atene capisce». E la
Bild si poneva una domanda significativa: Sono
più pericolosi i russi o i greci? Passa la giornata di venerdì e Die Welt diventa il pollice verso
dell’imperatore sullo schiavo vinto nell’arena:
quel ministro delle Finanze a cui piace recitare
la parte del ribelle, con la sua giacca di cuoio e la
camicia fuori dai calzoni ora è vinto, indebolito.
La sua frase “Da oggi siamo padroni del nostro
destino” è citata con ironia.
Sarebbe lungo elencare gli insulti che i media
tedeschi hanno rovesciato sui diversi partners
per poter capire di quanti e quali veleni si sia
caricata l’atmosfera europea. Del resto, si tratta
di insulti scambievoli. Tutti hanno visto di recente anche su giornali italiani la vignetta greca di Schåuble in divisa di SS nazista. E l’Italia
non sfugge a questo gioco al massacro. Intanto
assistiamo al generalizzarsi di uno scontro che
ha al centro il caso della Grecia. Se Tsipras accusa Portogallo e Spagna di mancata alleanza in
Europa (e sullo sfondo c’è l’ombra dell’Italia di
I media tedeschi
scatenati contro
Varoufakis.
Si vive come in
un condominio:
il vicino cessa
di essere visto
come un essere
umano appena si
deve fare il conto
delle spese
7 marzo 2015
Renzi), Mariano Rajoy reagisce pubblicamente
con grande violenza per la paura dell’avanzata
di Podemos.
Si vive come in un condominio: il vicino cessa
di essere visto come un essere umano appena si
deve fare il conto delle spese. Ma c’è una conclusione politica da ricavare dallo stato delle cose.
L’Europa dell’euro e delle banche non è diventata una realtà unitaria nella formazione di una
sua volontà politica. La guerra che vi si combatte col rubinetto delle finanze non è meno micidiale di quella delle bombe. E questo è il segno
evidente del fallimento in cui la vittoria del liberismo selvaggio e dell’Europa delle banche ha
trascinato quella rinascita di un’Europa pacifica
e solidale che fu sognata sulle rovine della Seconda guerra mondiale. Dietro questa tempesta
di parolacce c’è il dramma della disoccupazione giovanile e della devastazione dei rapporti
sociali che ha raggiunto in Grecia la sua punta
massima ma che non risparmia l’Italia. Da noi i
dati Istat parlano di quasi metà della popolazione giovanile senza lavoro (41%). Ma non dicono
quanto sia precaria e senza diritti la qualità del
lavoro che viene offerto alla cosiddetta “generazione Y”, i primi esseri umani a non aver mai vissuto in un mondo senza internet: se ci riescono,
avranno quei contratti a tempo definito o quelle
“esperienze lavorative” che sono, ha scritto Zygmunt Bauman, «scaltri espedienti di evasione e
di crudele, spietato sfruttamento» (Z.Bauman C.Bordoni, Stato di crisi, Einaudi). Così, mentre
l’Italia di Renzi riscuote l’approvazione di quella
troika che Yanis Varoufakis ha messo alla porta
in Grecia, sarebbe importante cominciare a riflettere anche da noi sulla “Modesta proposta”
di Yanis Varoufakis, Stuart Holland e James K.
Galbraith, una riflessione che parte proprio dal
dato più evidente della crisi, il frammentarsi
dell’Unione europea.
di adriano prosperi
17
EDITORIALI
Scuole private e pubbliche?
Fondamentale distinguere
è ormai chiaro che la scuola pubblica è sotto pesante attacco nel nostro Paese. Se la
riforma della “buona scuola” non aveva affatto un sapore di “buono” per chi la scuola
la vive, la conosce e la ama, con le ultime
notizie, che hanno bloccato l’iter della riforma, l’amaro in bocca aumenta e i mal di
pancia pure. Il decreto legge sulla scuola si
è trasformato nel giro di una notte in un disegno di legge, lasciando “basita” la stessa
ministra Giannini. L’assenza di trasparenza
e chiarezza caratterizzava una riforma così
importante e ora la offusca in un clima da
giallo poliziesco. E la preoccupazione sale.
Sale perché, oltre a esserci in ballo quei
famosi 160mila posti che i precari stanno
aspettando ormai da anni - anche se ancora
nessuno ha davvero capito come e dove saranno reclutati e che cosa saranno chiamati
a fare -, si moltiplicano le voci dell’ennesimo regalo che verrà offerto alle scuole private cattoliche.
Già sapevamo che la “buona scuola” avrebbe contenuto sgravi fiscali per le famiglie
che iscrivano i propri figli alle scuole private,
ma evidentemente non è bastato. «Vogliamo
coinvolgere maggioranza e opposizioni nello spirito delle recenti dichiarazioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella»,
ha detto Matteo Renzi spiegando il motivo
della retromarcia. E allora forse cominciamo ad assemblare i pezzi e a far chiarezza
nel thriller. Un folto gruppo di parlamentari,
che sostengono il governo, ha infatti scritto
una lettera al Presidente del Consiglio chiedendo che si cessi di discriminare le scuole
private e di pensare che “scuola pubblica”
sia sinonimo di “scuola statale”. L’obiettivo
allora non è più soltanto quello di eliminare
18
il precariato - cosa che è imposta all’Italia dal Parlamento di Strasburgo -, ma di
eliminare la stessa distinzione scuola privata/scuola pubblica. Luigi Berlinguer, sì
il ministro a cui dobbiamo il primo colpo
inferto a questa distinzione, sulle pagine
di Repubblica di martedì scorso afferma
che ciò significa allineare l’Italia al resto
d’Europa. Ma in un Paese mono religioso
come il nostro, dove il peso del Vaticano e
della Chiesa cattolica si fanno sentire fin
nelle nostre camere da letto e di ospedale,
è di una gravità inaudita lasciare l’istruzione, l’educazione, la formazione degli individui nelle mani dei religiosi. La Francia e
l’Olanda sono Paesi assolutamente laici.
Come si può pensare che i luoghi dove si
formano le menti dei giovani, dove si forma
lo spirito critico, dove si vivono i rapporti
con gli altri, dove si apprendono la storia
e le identità di altre civiltà e di altre culture, possano essere gestiti da chi che crede
nei dogma e nella verità assoluta? Tutto
ciò, oltre a essere anti costituzionale, è fatto in nome di un “sano antagonismo” da
cui trarrebbero vantaggio le stesse scuole
pubbliche. Bambini, giovani e adolescenti lanciati e lasciati nell’eterna lotta dove
vige la legge del più forte/ricco (come nel
mercato). Quei parlamentari, autori della
lettera, citano il pluralismo (sic!) e il pensiero di Antonio Gramsci. Rispondiamo
loro che il pluralismo non sta dalla parte di
chi crede, ma di chi pensa e che Antonio
Gramsci voleva sì le scuole private, ma per
fondare scuole socialiste anti massoniche,
e disprezzava come un’assoluta violenza
«lasciare che la coscienza dei bambini fosse manipolata dai preti».
Il commento
di elisabetta amalfitano*
Gramsci
riteneva
un’assoluta
violenza
«lasciare
che la coscienza
dei bambini
fosse
manipolata
dai preti»
*Docente di Storia
e filosofia, autrice di
Le gambe della sinistra
(2014)
7 marzo 2015
no*
EDITORIALI
La responsabilità incivile
del governo Renzi
La modifica della responsabilità civile dei magistrati è legge da martedi scorso. Approvata di
sera, lontano dall’attenzione dei media che a
quell’ora non hanno dato gran rilevanza al dibattito parlamentare. Renzi, Alfano e Orlando
fanno festa.
Si è detto che la riforma era necessaria a causa della procedura di infrazione che pendeva
sull’Italia da parte dell Unione europea. Vero.
Ma l’Europa ci chiedeva di modificare la legge
laddove non prevedeva che il magistrato dovesse pagare nel caso di violazione della normativa
comunitaria. Il governo invece ha preso questa
scusa per fare ulteriori modifiche che nessuno
imponeva. Per esempio hanno esteso i parametri per giustificare i ricorsi: sono stati aggiunti il
travisamento dei fatti e delle prove come colpa
grave. Ora, qual è la persona che dopo aver subito una qualunque sentenza non ritenga che il
giudice abbia travisato i fatti?
Diciamo la verità: queste semplici paroline
provocheranno un aumento esponenziale dei
ricorsi. Perché qualunque avvocato lo consiglierà al proprio cliente. Ci dicono che questo pericolo non ci sarà perché il magistrato che travisa
i fatti o le prove pagherà solo in caso di dolo o
colpa inescusabile. E allora per quale motivo, se
sono così sicuri di aver fatto una buona legge,
Orlando si è detto disposto a correggerla, quindi
a metterci di nuovo mano, se nei prossimi mesi
si verificheranno problemi?
È il solito meccanismo del “rinvio ad altra data”
ma intanto la porcata l’hanno fatta, bocciando
tutti gli emendamenti del M5S che chiedevano
di togliere i nuovi parametri o perlomeno di aggiungere che il travisamento deve essere “manifesto”. Questa materia non si dovrebbe mai e
poi mai prestare a “sperimentazioni legislative”.
Il Csm si sta organizzando per monitorare la
situazione e riportare al Parlamento i dati che
7 marzo 2015
Il commento
di Giulia Sarti*
acquisiranno sulle conseguenze della nuova Hanno dato
disciplina. Il punto è che ci sono degli aspetti ai potenti
impossibili da monitorare. La legge si applica e ai soggetti
in caso di misure cautelari personali, reali e in
economici
ogni stato e grado del processo. Questo significa che un qualsiasi colletto bianco, un mafioso forti coinvolti
o il politico di turno che subiscano ad esempio in questioni
un sequestro di 500.000 euro ai loro beni, po- di giustizia,
trebbero fare ricorso per responsabilità civile uno strumento
del magistrato che ha disposto quel sequestro. in più di
Hanno dato ai potenti e ai soggetti economi- intimidazione nei
ci forti coinvolti in questioni di giustizia, uno
confronti della
strumento in più di intimidazione nei confronti
della magistratura che fa il suo dovere a 360 gra- magistratura
di, che si tratti di perseguire l’azione penale nei
confronti del semplice ladro di polli o del Presidente del Consiglio. Chi ci rimetterà? Sempre le
persone oneste. Ve lo immaginate un cittadino
che inizia una causa contro una banca?
Secondo voi, il giudice con il rischio di una possibile azione di responsabilità civile nei suoi
confronti che gli toglierà, in caso di accoglimento, metà dello stipendio annuo e gli macchierà
per sempre la carriera, condannerà la banca o
il cittadino?
Le priorità del governo sono completamente
sballate. Abbiamo regioni da nord a sud dilaniate dagli scandali, criminalità organizzata
infilata perfettamente nel tessuto economico
sano che fa affari con le amministrazioni locali
oppure prende appalti e costruisce le scuole e
gli ospedali nelle nostre città, politici condannati per mafia che continuano a prendere il vitalizio. Eppure in Parlamento si vota e si gioisce per
la responsabilità civile dei magistrati. L’unico
a votare contro e battersi per far capire le conseguenze nefaste delle modifiche volute da Pd
*Deputata Movimento 5
e compagnia, il M5s. Questa legge non è una
Stelle, membro Commistutela nei confronti dei cittadini ma soltanto resione Giustizia e Antimafia
sponsabilità incivile nei loro confronti.
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© AP Photo/Petros Giannakouris (1)
IL MONOLOGO
di Emmanouil Glezos e Giulio Cavalli
L’avevamo
sognata
bellissima
L’
avevamo sognata bellissima; con il sorriso mite di chi sta in pace
e i capelli sciolti della libertà. Qualcuno di noi aveva anche provato a disegnarla, e poi passarsi i fogli di nascosto come partigiani di
un’unità figlia maggiore dell’uguaglianza. I più arditi di noi l’hanno
pensata come compagna, come le donne con le ali delle coppe attiche a figure rosse. Quando ne parlavamo, eccitati e in penombra alcuni dicevano che
avrebbe avuto un cuore cucito con le fette di tutti i cuori che potevano starci
e avrebbe consolato, custodito, accompagnato, combattuto addirittura se ce
ne fosse stato bisogno, sempre al fianco del più debole che davvero grazie a lei
che avevamo sognato bellissima davvero il più debole poteva sentirsi uguale,
come un guarito, come una meraviglia bambina che scioglie i nodi in gola e
rende tutto più facile, più vivibile, abitabile. L’Europa, noi, in Grecia, noi l’Europa l’abbiamo costruita con le mani callose di chi ha lavorato duramente
ma è capace di abbracci dolcissimi. Se ci avessero chiesto come la volevamo,
che voce avesse, ecco noi avremmo urlato che avremmo voluto sposarla tutti,
questa Europa che ci insegna a preoccuparsi dei fili più sottili, che ci educa
allo spirito del padre di famiglia con una famiglia larga quanto è larga l’Europa. Per questo in Grecia, da noi, l’elezione è stata uno schizzo, un disegno
20
7 marzo 2015
contornato di quella donna che avevamo solo incrociato di sfuggita, come gli
adolescenti nelle stazioni, per questo da noi, in Grecia, queste ultime elezioni
avevano il viso condiviso della prosperità a forma degli auspici antichi. Poi
un giorno ci hanno detto di andare in piazza, che avremmo visto l’Europa,
che sarebbe arrivata, che era finalmente l’ora e la piazza sembrava un’attesa
consolatrice a forma di piazza. Abbiamo voluto aspettare tutti, i mendicanti e
gli ammalati, la lentezza degli anziani e il passo incerto degli appena giovani.
Tutti in piazza, che è arrivata l’Europa ci dicevano, ed era tutto un «silenzio
per favore», un «non fate rumore» tutti lì appesi come rimangono appesi gli
uomini quando hanno la speranza così forte che gli sanguina dal naso. Niente
palco, niente microfoni, solo le luci della piazza quando è vestita da piazza
infrasettimanale, e tutti a chiedersi di che colore avrà gli occhi un’Europa madre e padre, confidente e amante, questa donna per cui tutti ci eravamo messi
a martellare le democrazie più perfettamente curve e gli aggettivi che avevamo al massimo potuto sperare. Chissà che forma ha, bisbigliava qualcuno e
intanto gli altri zitto! Che non sentiamo! Che ci perdiamo il primo istante! Il
palazzo è una casa popolare. Prima era una casa del centro, borghese, quando
la città non era ancora diventata un buco e adesso era un palazzo occupato
appena dietro il campanile. C’è qualcuno? Chiese un vecchio. Non è già tardi?
Un altro che stava per andare. Lei avrà avuto sessantatre anni o giù di lì, «vedi
come se li porta male» si sentiva mormorare. I capelli raccolti come si raccolgono i capelli quando non c’è più nessuno da incontrare e la mano pallida.
Gli occhi, poi. Giuro che la piazza si è fermata davanti agli occhi liquidi, due
lampioni consumati e nemmeno più le lampadine da cambiare. Per mano
aveva suo figlio, dell’età in cui i figli dovrebbero lavorare e invece stava lì per
mano come un bambino. Mica un bambino, suo figlio, no. Un giovane. Un
giovane dell’età buona per lavorare ma con la bocca disperata di chi non ha
più voglia di cercare. Vedessi come invecchiano e come si ringriziscono i giovani qui quando gli si secca la speranza. Vedessi. Dal quinto piano. Saranno
stati cinque o sei piani, di volo diritto, due sacchi per mano, due corpi di iuta.
Lei, si diceva nel tempo che ancora non erano arrivati per terra, lei, dicevano
mentre sibilava già vuota come un sacco e il sacco figlio giù per mano, lei ha
perso oggi la pensione, una lettera raccomandata, un tocco di citofono. E ci
sono fili che una volta rotti non si riescono più a riannodare. Per terra erano
due macchie. La gente intorno si scioglieva come appena finita la messa. I
mendicanti si sono rimessi a mendicare, i poveri a povertare e i ricchi, i ricchi
al solito a ricchire. Per terra erano due macchie. L’avevamo sognata bellissima, disse qualcuno. Silenzio, lo interruppero. Silenzio. Non disturbare.
7 marzo 2015
˜
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STORIA DI COPERTINA
Il cavaliere matteo
Jobs act, Italicum, responsabilità civile per i giudici. Se la mano
fosse stata di Berlusconi saremmo sulle barricate. E invece niente
di Luca Sappino
Dite la verità: ve lo siete chiesto anche voi. Anche voi avete pensato di scriverlo su facebook,
almeno una volta. «Ma se questa cosa l’avesse
fatta o detta Berlusconi, come avremmo reagito?». Avremmo reagito male, lo sapete. Solo che
al governo di Matteo Renzi si concede ciò che
non era concesso al centrodestra, e questo è il
punto da cui oggi parte Left nel provare a raccontare quello che solo in parte è il risultato di
uno slittamento culturale, un progressivo avvicinarsi alle tesi liberiste non solo dei dirigenti del
centrosinistra ma anche degli elettori del Pd. Per
il resto è il risultato della narrazione del premier
(condotta con la retorica da bullo, come spiegano, Giulio Cavalli e Giorgia Furlan a pagina 28),
che ha permesso di spacciare il terzo consecutivo governo di larghe intese, per un governo invece politico e monocolore. Color Renzi. E invece
non è così, e basterebbe contare i ministri di origine berlusconiana, i centristi, i confindustriali, per accorgersene. Angelino Alfano, ministro
dell’Interno, Beatrice Lorenzin, alla Salute, con
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nel cassetto, chiusa, la nuova legge sulla fecondazione assistita, Maurizio Lupi, alle Infrastrutture. L’Udc Gian Luca Galletti, all’ambiente, l’ex
montiana Stefania Giannini alla Scuola (e chissà perché si parla sempre di aumentare i contribuiti alle scuole private). Federica Guidi, già
vicepresidente di Confindustria, allo Sviluppo
economico. Potremmo proseguire con i sottosegretari, ma sarebbe lunga. Poi basterebbe fare
il punto sulle cose fatte, i risultati di un primo
anno di Renzi a Roma. Vediamoli.
La cosa più facile è cominciare dal Jobs act.
Basterebbe prendere la dichiarazione di Angelino Alfano, immortalata dalle telecamere quando
il parlamento approvò definitivamente la delega
al governo, per doversi fermare a riflettere. È una
di quelle dichiarazioni che verrano citate per
anni: «Stiamo facendo una riforma di centrodestra con un governo di centrosinistra». Come logica fa acqua da tutte le parti - perché mai questo
dovrebbe essere un governo di centrosinistra, se
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© Illustrazione Antonio Pronostico
© Ansa/Giuseppe Lami
STORIA DI COPERTINA
Paul Ginsborg: «Abbiamo vissuto con
Berlusconi una spinta autoritaria.
Renzi resta in quella stessa tradizione»
c’è Alfano, resta un mistero - ma il punto politico
rivendicato dal ministro dell’Interno è chiarissimo. Dietro gli slogan di Matteo Renzi, sul lavoro,
non c’è solo il maglioncino di Sergio Marchionne, c’è il sorriso di Maurizio Sacconi.
Susanna Camusso, segretaria della Cgil, sta provando senza troppo successo a disinnescare le
parole chiave del premier: lei il contratto a tutele
crescenti lo chiama «contratto a monetizzazione crescente», cercando di spiegare che alla fine,
stringi stringi, la principale innovazione introdotta è l’abolizione dell’articolo 18. Abolito, è
l’ironia, anche con i voti di Guglielmo Epifani, ex
segretario della Cgil. Ricordate la piazza del circo
Massimo, il mare rosso ai piedi di Sergio Cofferati? Era il 2002 e c’era anche Epifani, all’epoca
numero due di quella Cgil. «L’articolo 18 non si
tocca» dicevano insieme. «Non lo tocchi Berlusconi» era il senso, abbiamo scoperto adesso.
Non è stato però il solo, Epifani, ad aver cambiato idea. Si può fare un rapido elenco con gli ex
sindacalisti Cgil che hanno votato la riforma che
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fa felice Maurizio Sacconi: Cesare Damiano, Teresa Bellanova, Luisella Albanella, Patrizia Maestri, Cinzia Maria Fontana, Marco Miccoli. Poi c’è
anche l’ex operaio Antonio Boccuzzi, simbolo
della tragedia dello stabilimento ThyssenKrupp
di Torino. Potremmo continuare, anche qui. Poi,
certo, Cesare Damiano, insieme ad altri della
minoranza dem, oggi si lamenta, e condanna
l’estensione del meccanismo della monetizzazione anche ai licenziamenti collettivi mascherati da individuali: «È eccesso di delega» ripete.
Renzi, comunque, ha preferito ascoltare ancora
Sacconi: «Chiediamo al Consiglio dei ministri di
disattendere il parere contrario sui licenziamenti collettivi delle commissioni Lavoro» ha chiesto
l’alfaniano. Accontentato. Anche l’idea di aprire
alla possibilità di demansionare un lavoratore
pure se non ci sono licenziamenti da evitare è di
Sacconi. Accontentato nuovamente.
«Vedrete funzionerà» ripetono comunque a Left
tutti i renziani interpellati (per tutti la domanda
è: «Non vi fa venire qualche dubbio fare una riforma che piace a Maurizio Sacconi?»). «Anche
le recenti assunzioni della Fiat e i dati dell’Istat»,
dice una dirigente del Pd, «sono lì a dimostrare
che può funzionare, che si può tornare ad assumere». Vedremo. Intanto sappiamo che dei tan7 marzo 2015
to sbandierati 88.000 posti di lavoro in più nel
2014, solo 18.000 sono a tempo indeterminato e
79.000 sono invece a termine.
Comunque a fare una rapida sintesi della riforma, a partire dai decreti già approvati dal governo, si capisce molto bene perché Renzi ai più
ricordi la Thatcher. Il nuovo meccanismo che
sostituisce il diritto al reintegro in caso di licenziamento giudicato illegittimo, stabilisce che al
lavoratore licenziato senza giusta causa spettino
due mensilità l’anno di indennizzo con un minimo di quattro mensilità. Come detto, il principio,
che è valido solo per chi sarà assunto con il nuovo contratto, è applicato anche ai licenziamenti
giudicati illegittimi perché in realtà collettivi, e
cioè se un’azienda invece di aprire le procedura
per la mobilità, licenzi più di cinque lavoratori in
120 giorni. Ci sono gli incentivi per le assunzioni,
è vero, ma il rischio - ha denunciato la Uil - è che
a un certo punto possa convenire assumere e licenziare giusto al termine degli sgravi.
Matteo Renzi ha approvato la riforma del lavoro
in meno di un anno. Questo non gli impedisce
però di cavalcare un altro cavallo tipicamente berlusconiano, il fastidio per il parlamento.
Quando Berlusconi andò ospite da Michele Santoro, in una delle sue ultime apparizioni da nemico pubblico numero uno, ero nelle prime file,
tra il pubblico. Anche lì Berlusconi, prima della
messa in onda, tentando di ingraziarsi il pubblico, sfoderò la sua più classica delle scuse: «Sapete quanto ci vuole in Italia per approvare una
legge? È per quello che governare è impossibile». Per Renzi, come per Berlusconi, ogni giorno
è buono per lamentarsi delle lungaggini parlamentari.
Ecco allora le riforme costituzionali. L’abolizione del Senato che non è un’abolizione, ma
che trasforma la camera alta del parlamento in
un’assise di eletti di secondo livello, consiglieri
regionali in gita. Forse esagera Barbara Spinelli, a evocare il piano di Licio Gelli e la P2. Forse,
però. «L’efficienza e la rapidità delle decisioni
economiche prevalgono su processi democratici
ritenuti troppo lenti e incompetenti» dice l’eurodeputata dell’Altraeuropa, «gli effetti di questa
decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano
in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli
è stato fatto da Craxi, poi da Berlusconi, infine
da Matteo Renzi». Bene: perché non convochiamo allora un girotondo? D’altronde siamo ancora lì, alla gestione autoritaria del potere. Lo dice
proprio lo storico Paul Ginsborg, con Francesco
Pardi protagonista di quella stagione: «Abbiamo
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vissuto con Berlusconi una spinta autoritaria.
Renzi resta in quella stessa tradizione». Una tradizione di promesse e sogni. «Di decisionismo
contro rappresentanza». Come nota Lorenza
Carlassare, costituzionalista di Padova.
Carlassare si sofferma sulla legge elettorale.
Quella figlia del patto del Nazareno, della storica
visita di Berlusconi nella sede del Pd. Secondo
la costituzionalista, la legge truffa del 1953 «era
molto più democratica dell’Italicum perché il
premio di maggioranza si otteneva avendo almeno il 50 per cento. Se non si raggiungeva questa soglia, non scattava». «Questo Italicum» continua la professoressa, «è più legato alla legge
Acerbo del 1923», quella che assegnava due terzi
dei seggi con il solo 25 per cento dei consensi. E l’aver abbassato le soglie di sbarramento,
non può funzionare da contropartita: «Perché è
vero», conclude la costituzionalista, «che la soglia di sbarramento è stata abbassata, ma il pluralismo è comunque impedito visto il premio di
maggioranza». Soprattutto considerando la passione (e qui Renzi ha superato tutti, anche Berlusconi) per i voti di fiducia: 31 in un solo anno.
Mentre aspettiamo che la Corte costituzionale
si pronunci su questo nuovo porcellum, possiamo fare il punto di come dovrebbe funzionare.
Gelmini: «Per anni ci hanno dato
contro. Oggi ci danno ragione. Le
nostre parole entrano nella scuola»
La legge, dopo innumerevoli cambiamenti, ha
il doppio turno. Il ballottaggio tra i primi due si
convoca se nessun partito riesce a conquistare
il premio di maggioranza, che scatta con il 40
per cento dei voti, e assicura il 55 per cento dei
seggi: 340 su 618. Nei 100 collegi, i partiti si presenteranno con un capolista bloccato e poi una
breve lista composta da tre a sei nomi. Le preferenze si potranno quindi esprimere, per questi,
ma le opposizioni hanno più volte e inutilmente
fatto notare che quasi esclusivamente il partito
che prenderà il premio di maggioranza, eleggerà
qualche altro deputato oltre ai capolista bloccati. Come nel Porcellum ci sono poi le candidature multiple. Un candidato potrà essere capolista
contemporaneamente fino in dieci circoscrizioni: elezione assicurata e libero arbitrio nel decidere chi far scattare al tuo posto. Effettivamente,
la soglia di sbarramentento è più bassa di quanto inizialmente proposto: era all’otto per cento,
perché il fastidio che Renzi prova per i piccoli
partiti è forse anche maggiore di quello da sempre dichiarato da Berlusconi. Sarà al tre.
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STORIA DI COPERTINA
Punti di contatto ci sono anche sulla scuola
pubblica, l’unica riforma su cui Renzi ha prima
annunciato corse senza sosta, e poi si è limitato
a un disegno di legge, riscoprendo la centralità
del parlamento, per coprire la carenza di fondi
e l’impossibilità di procedere rapidamente alle
150.000 assunzioni promesse. I soliti sindacati
sostengono che Renzi mutui molte parole dai
bei tempi della riforma Gelmini. Ricordate le
tre “i” berlusconiane? La prima era inglese, e
Renzi vorrebbe alcune materie insegnate direttamente in inglese, la seconda impresa, e Renzi vuole l’apprendistato anche per gli studenti
delle superiori, la terza informatica, e per mesi
Renzi è andato in giro dicendo che bisognava
aggiungere un insegnamento: il coding. Potremmo notare che lo stesso ex ministro Maria
Stella Gelmini ha salutato con una certa eccitazione le intenzioni dichiarate da Renzi con la
Buona scuola. «Alla fine il tempo ci ha dato ragione» diceva a settembre, «dopo anni di bat­ta­
glie per risol­le­vare un sistema edu­ca­tivo intor­
bi­dito dalla coda del ’68, ora anche la sini­stra
final­mente ha dovuto dare atto ai governi Ber­
lu­sconi di aver agito nella dire­zione giu­sta per
ripor­tare la scuola ita­liana ai fasti che merita.
Parole quali merito, car­riera dei docenti, valu­
ta­zione, pre­mia­lità, rac­cordo scuole-impresa,
«Se sbagliano, è giusto che paghino»
lo diceva sempre Berlusconi dei Pm.
L’ha fatto il governo Renzi
modi­fica degli organi col­le­giali della scuola,
sono state por­tate alla ribalta dal cen­tro­de­stra,
sep­pur subendo le cen­sure e le aspre cri­ti­che da
parte di sini­stra e sindacati».
Vogliamo parlare dello Sblocca Italia? Sicuri
non vi ricordi la Legge obiettivo di Berlusconi? Cosa c’è di nuovo nel puntare ancora sulle grandi opere, che sostengono un’industria
tecnologicamente “matura”, con scarso tasso di innovazione e alto tasso di corruzione,
e concentrano gli introiti nelle mani di pochi
big player (quindi a parte gli spiccioli per gli
operai, niente ricchezza diffusa)? Cosa c’è di
nuovo nel ricorso ai commissariamenti, che
consentono di aggirare le procedure di impatto ambientale? Cosa c’è di nuovo nell’inserire
«la non responsabilità penale e amministrativa
per il commissario» nel decreto sull’Ilva? Salvatore Settis nel libro collettivo Rottama Italia, si
sofferma sull’articolo 6 dello Sblocca-Italia che
«cancella del tutto l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per
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ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni». «L’articolo 25 invece» continua
l’archeologo, «“semplifica”, cioè di fatto rimuove, ogni autorizzazione per “interventi minori
privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso. L’articolo 17, poi, è un
inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo
paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di
inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione
certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire
convenzionato”, che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di
urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”,
cioè di fatto opzionali». È così, a un certo punto
l’antipatia un po’ futurista di Matteo Renzi per
i professoroni si è trasformata in un’antipatia
per le soprintendenze che - è parola di premier
- «incatenano» il Paese. Settis analizza poi «il
trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da
anni». Lupi Maurizio, il ministro che fate finta
di non vedere.
È però la responsabilità civile dei giudici il
successo postumo più significativo di Silvio
Berlusconi. «Se sbagliano, è giusto che paghino» diceva ad ogni comizio l’ex cavaliere.
Quando Montecitorio approva definitivamente
la legge, Renzi twitta: «Anni di rinvii e polemiche, ma oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!». Punto esclamativo. Rimettendo
mano alla legge Vassalli del 1988, la nuova legge
amplia la possibilità per il cittadino di fare ricorso, innalza la soglia economica di rivalsa del
danno, fino alla metà stipendio del magistrato; elimina soprattutto il filtro di ammissibilità dei ricorsi. La responsabilità scatta in caso
di negligenza grave e travisamento del fatto e
delle prove. «La giustizia sarà meno ingiusta e
i cittadini saranno più tutelati», dice il ministro
della Giustizia Andrea Orlando, uno che viene
dalla sinistra Pd. Dall’Associazione nazionale
magistrati replica Rodolfo Sabelli: «Non è stata
ancora approvata una riforma sulla corruzione,
sul falso in bilancio, ma ci si precipita a votare
una legge contro i magistrati che combattono
la corruzione», accusa, spiegando poi che così,
«si intacca il profilo dell’indipendenza dei magistrati. Vi è un rischio di azioni strumentali
dando la possibilità alla parte processuale più
forte economicamente di liberarsi di un giudice scomodo. È una strada pericolosa verso una
giustizia di classe».
7 marzo 2015
Eccitato da sergio
«A Melfi avrei assunto lo stesso» dice Marchionne, che
ringrazia comunque per il Jobs act. Tra i due è sempre amore
di Checchino Antonini
«Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne», esclamava tra un selfie e l’altro Matteo Renzi, a Torino,
uscendo dal Centro Stile Fiat. Renzi era «eccitato»
dopo aver visto qualche bozzetto dell’Alfa Romeo Giulia, la berlina biturbo che sarà presentata a giugno, ma
soprattutto perché pare che Marchionne gli abbia promesso il primo esemplare del Maserati Levante, grosso Suv, competitor della Porsche Cayenne, costo tra i
70mila e i 140mila euro. La blindatura sarà a carico di
Palazzo Chigi.
Gasatura a parte, anche Davide Bubbico, ricercatore
dell’università di Salerno che studia la Fiat da una ventina d’anni, è convinto che il nuovo piano industriale
sia un po’ più concreto del vecchio “Fabbrica Italia”,
ma avverte: «Tutte le fasi di lancio produttivo hanno
un picco occupazionale. Che sarà fra un anno o due?
In Italia, la Fiat sembra attestarsi su organici ridotti ma
più produttivi e impegnati su modelli di lusso».
A Mirafiori non c’è ancora la ressa di 2.500 gasatissime tute blu per la Levante. Altri 2.500 operai sono a
Grugliasco e altrettanti a Pomigliano, ma 1.500 sono
in contratto di solidarietà e 300 in cassa integrazione
da cinque anni. Cassino è ferma, Termini Imerese è
chiusa. È a Melfi che si starebbero materializzando i
progetti di Marchionne che gasano Renzi con un migliaio di nuovi assunti, per ora selezionati dalle agenzie interinali, poi arriverà l’onda di quelli a “tutele crescenti” partoriti dal Jobs act. Ottomila euro l’anno, per
ciascun assunto, di sgravi fiscali per ben tre anni e una
penale di un paio di mensilità se verrà licenziato. Ecco
perché anche Marchionne non fa mistero dell’eccitazione che gli procurano i progetti di Renzi e mostra dal
telefonino il famoso video dei lavoratori di Melfi che
ballano tra le linee sulle note del tormentone “Happy”.
Un delegato Fiom, Dino Miniscalchi, insinua che a
ballare sarebbero stati solo capi e impiegati, nessuno
che sta alla catena.
Già una ventina di operai, sul primo scaglione di 300
neoassunti, ha rinunciato a partecipare al progetto
di Marchionne. Tuttavia, almeno 6.000 tute blu sono
così gasate da puntare la sveglia alle tre del mattino e
sorbirsi tre ore di torpedone per presentarsi ai cancelli
di Melfi dove si lavora - per produrre, Jeep Renegade,
7 marzo 2015
© Ansa/Rena Laverty
Grande Punto e Fiat 500X - su venti turni con riposi
a scorrimento e secondo le regole di Ergo Uas, una
metrica che plasma gesti e posture per spremere il lavoratore fino all’ultimo secondo del turno. L’accordo
è appena stato firmato dai sindacati concertativi e le
assemblee di fabbrica lo hanno contestato come non
succedeva dai 21 giorni di sciopero del 2004. A Melfi
non sembra “happy” più nessuno. Le milleduecento
operaie, in assemblea, erano così gasate da sembrare
incazzate, a uno sguardo non gasato, per i progetti di
Marchionne. E, giustamente, i sindacati firmatari, senza nemmeno mostrare il cartaceo dell’accordo, hanno
negato il referendum tra i lavoratori dicendo che è sufficiente il mandato ricevuto alle elezioni delle rappresentanze. La Fiom è stata esclusa in partenza. Intanto
domenica scorsa l’azienda non ha trovato nemmeno
un volontario per gli straordinari.
Ma nei talk show c’è la fila per esprimere gasatissimi
apprezzamenti per la ripresa. Merito di Renzi, dice
Renzi. Merito nostro, dicono Cisl e Uil che firmano
ogni accordo al ribasso. Ma la Fiom ricorda che i progetti per Melfi risalgono almeno a tre anni fa quando
scese l’amato leader Monti a inaugurare la ristrutturazione delle linee. Dal Salone dell’auto di Ginevra, Marchionne conferma: «I mille di Melfi li avrei assunti lo
stesso, ma il Jobs act ha creato le condizioni per altri,
per venire a investire in Italia». A pensarci, il Jobs act è
una riscrittura “gasatissima” dello Statuto dei lavoratori: via l’articolo 18, chi farà ricorso contro il licenziamento non sarà reintegrato. Sarà disintegrato.
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STORIA DI COPERTINA
Renzology
Tutti gli stili del presidente
del Consiglio. Tra marketing
e oggetti di culto
di Giorgia Furlan
Tutto scorre. L’universo politico e comunicativo
di Matteo Renzi è fluido, scivola via veloce, inafferrabile, cambia forma a seconda del recipiente da riempire, sa travolgere gli avversari con la
violenza di uno tsunami. Soprattutto, nel grande mare renziano, tutto si mescola in un magma
unico, una grande poltiglia che, come un prodotto di marketing, tenta di accontentare il più
vasto pubblico possibile. Almeno a parole. Da
Barack Obama a Lorenzo il Magnifico, dai boy
scout a Twitter, da Google a Steve Jobs, Matteo
è il nuovo premier contemporaneo. Nel Brand
Renzi, come spiega Nello Barile, professore di
Comunicazione e Pubblicità allo Iulm, «prosegue il progetto comunicativo berlusconiano nel
suo essere un mix dirompente tra spontaneismo
e pianificazione, concretezza e speranza, tra vita
quotidiana e marketing». Il mondo incantato di
Matteo, infarcito di futuri dove tutto cambia e
presenti costellati da svolte buone e traguardi storici - perché il rottamatore arriva sempre
primus, non troppo inter pares -, è caratterizzato da luoghi comuni che gli permettono di
fare breccia nel cuore dell’italiano medio. Oltre che in quello di finanzieri e imprenditori
pronti a investire, in Leopolde e cene da 1.000
euro, ora che con l’ex sindaco di Firenze hanno trovato il prodotto vincente.
Parola di boy scout. L’attuale presidente del
Consiglio ci tiene molto a ricordare il suo passato
Illustrazione Dario Calì
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7 marzo 2015
in bermuda e fazzolettone. «Il mito del boy scout
rappresenta un immaginario pop facilmente
comprensibile da gran parte del suo elettorato»
spiega ancora Barile, quello di un mondo cattolico lontano dai giochi di potere che Renzi ama
chiamare, con un tono da Piccolo mondo antico:
«L’Italia per bene». «Lascia il mondo migliore di
come lo hai trovato», «dare un calcio all’impossibile», sono solo alcune delle massime da retorica motivazionale dello scoutismo. Il premier le
riutilizza spesso per dare forza ai suoi discorsi e
connotarsi come l’outsider, rottamatore genuino
e dunque affidabile. L’altra faccia dell’Agesci è
però quella di un’organizzazione dove esiste una
rigida gerarchia di comando e si insegna a diventare leader di un gruppo. Un gruppo chiuso però.
Chi non rispetta le regole è invitato a uscire. Insomma quelli che non la pensano come te sono
per forza gufi.
Firenze culla dell’Italia. Da sindaco di Firenze a sindaco d’Italia, Renzi gioca sullo stereotipo
del Bel Paese di cui il capoluogo toscano è un
simbolo indiscusso. Dalla Merkel in Germania
arriva con una maglia della Fiorentina, a Digital
Venice parla un inglese maccheronico ed è sempre il momento buono per sfoderare un orgoglio
patriottico da cartolina, o da piccolo amministratore, che lo rende provinciale. D’altronde
l’Italia è per la maggior parte provincia e la retorica di Matteo fatta di «abbiamo la grande occasione di cambiare il paese più bello del mondo»
è il corollario perfetto del teorema dell’elettore
mediano con cui si acchiappano la maggior parte dei voti. Non è strano dunque che ci ricordi
il Berlusconi del 1994 con il leit motiv «L’Italia è
il Paese che amo». O che The Economist l’abbia
raffigurato con in mano un cono gelato, gelato
che poi “il Renzi”, per rispondere alla testata inglese, ha ben pensato di offrire, rigorosamente
brandizzato, ai giornalisti riuniti a Chigi in conferenza stampa.
Tutto cambia. La cifra del renzismo è il mutamento, «il tempo del cambiamento». Il premier
è “il più giovane della storia repubblicana”, si fa
chiamare Matteo e si rivolge a tutti per nome,
twitta alle 6.45 del mattino, corre e, sempre twit-
7 marzo 2015
tando, ci dice #arrivoarrivo. Inoltre è cool, un “fico”
che si veste come Fonzie
- giubbotto di pelle e wayfarer in bocca - o completi
griffati Scervino. In quasi
tutti i suoi discorsi utilizza
la parola futuro o afferma
che «per l’Italia è un momento storico». Per dirla con Bauman è un premier “liquido”
e, come tale, per natura fisica privo di una forma
politica univoca. Le larghe, larghissime, intese diventano la logica conseguenza di una natura dilagante alla ricerca del consenso. Il cambiamento
renziano ha come guida la Speranza, spesso personalizzata. «Il principio della speranza professato da Renzi ha in sé qualcosa di paradossale
e per questo forse di ancor più convincente. Si
tratta di un principio estremamente utopico che
intende scagliarsi contro i mulini a vento di uno
stato tendenzialmente non riformabile» spiega
sempre Barile e continua: «La speranza che irrora
la vision renziana è un’operazione di time design.
Mira a ridisegnare il presente attraverso l’invenzione continua del suo cronoprogramma».
Diventare pop guardando la tv. Se Berlusconi con le sue tv ha costruito la carriera di un
ventennio politico, interpretando e plasmando come editore i gusti degli italiani, Renzi si
avvicina ancora di più al pubblico generalista
perché, mentre il Cavaliere popolava i talkshow
dietro le telecamere, lui era seduto con noi sul
divano davanti allo schermo a guardare Happy day, Drive in e La ruota della fortuna in cui
ha anche assaporato i suoi primi 15 wharoliani minuti di celebrità. Il premier è pop perché
gioca sul background culturale della maggior
parte degli italiani - tanto andare da Maria De
Filippi ad Amici - e parla con lo stesso linguaggio, fatto di stereotipi e opposizioni, dei programmi tv. Ci sono i buoni e i cattivi, i brutti
e i belli. Se per Berlusconi l’uso delle televisioni era associato all’abuso dei sondaggi, Renzi
al piccolo schermo unisce i social. E rompe la
quarta parete della propaganda interagendo
con noi su Twitter con l’immancabile hashtag
#matteorisponde.
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STORIA DI COPERTINA
Lasciate lavorare
il “bullo”
di Giulio Cavalli
Dicevano che la sinistra non era capace di essere “pop”.
Poi è arrivato Matteo Renzi ed è rimasto solo il pop
Eppure siamo quel Paese che con il neorealismo ha fatto dalle nostre viziate debolezze cinema e poesia, siamo il Paese che ha raccontato le armi, gli amori e gli eroi con la delicatezza
di una letteratura che è stata maestra del cuore
tenero senza smancerie, della povertà dignitosa ed etica. Noi siamo stati quel Paese lì, noi.
Poi c’è stato il conato del berlusconismo e della
televisione come bancarella di carne nuda al
chilo, ci siamo perduti nel machismo necessario per primeggiare e ci siamo affezionati alla
sbruffoneria esibita come privilegio. Ricordo
bene quando su, al nord, abbiamo cominciato
a temere la solidarietà: ci dicevano fosse una
debolezza da omosessuali e comunisti, ci hanno gridato nelle orecchie che essere solidali significava mettere a rischio la nostra sicurezza
e quella dei nostri figli, che fosse sinonimo di
smidollaggine ed è così che la volgarità leghista si è trasformata nell’unico credibile cane
da guardia, nella maleducazione obbligatoria
contro la barbara invasione. E mentre credevamo di difenderci dai barbari, alla fine siamo diventati barbari anche noi. Davvero. Sono stati
in molti negli anni scorsi ad avvisarci che una
volta finito Berlusconi avremmo dovuto disintossicarci dal berlusconismo: quella poltiglia
di scampagnate sulle regole e tra le istituzioni
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con l’isteria sniffata di un aperitivo milanese,
trasformare il Parlamento in una gabbia di cani
fedeli con la lingua sul palmo del padrone, e vivere le debolezze e le fragilità come fastidiosi
rallentamenti di un’epica cavalcata sociale verso un’Italia tutta sicumera e libertà, fronzoli e
belle donne: la retorica del berlusconismo era
la rottamazione degli indecisi, dei perdenti per
natura, degli sfortunati e dei più deboli, significava rendere più forti i forti perché così sarebbe
avanzato sicuramente anche qualcosa per tutti
gli altri, un craxismo con meno remore. E la sinistra? Hanno detto che aveva perso le parole,
che diceva il giusto ma non riusciva ad essere
capita, non era capace di essere “pop”. Dicevano. E poi è arrivato lui: Matteo Renzi, il rottamatore dei rottamatori, la terza repubblica
dopo quella seconda che alla fine aveva finito
per puzzare come la prima, Renzi il nuovo, il
giovane, il mago della comunicazione orizzontale che sembra verticale, dove tutti hanno la
sensazione di partecipare pur avendo solo la
libertà di applaudire. Odia le puntualizzazioni,
Matteo Renzi, crede di avere già in mano la migliore sintesi possibile e probabilmente anche
per questo vive il Parlamento (come quell’altro) come tappa obbligatoria per licenziare
decisioni già prese e non emendabili. Matteo
7 marzo 2015
© Aansa/Maurizio Degl’ Innocenti
Renzi ha spento la dialettica (come quell’altro)
nel modo più semplice possibile: o con lui o
contro di lui, o sei un innovatore che vuole andarsi a prendere il futuro oppure sei solo un nemico, un attentatore al cambiamento, un gufo.
Lo spirito degli scout vissuto con una curiosa e
pericolosa deviazione: il Presidente favoleggia
la meravigliosa solidarietà che (però) si applica
solo ai suoi sodali e non a quegli altri e così la
discussione politica diventa solo cronaca di iniziative o reazioni dei propri uomini e dei propri
ambienti, il resto nulla, gli altri solo rumore di
fondo. Ma Matteo Renzi è riuscito ad andare
oltre ai suoi peggiori predecessori: ha travestito d’umiltà il proprio protagonismo e lo porge
tutti i giorni come dolcificante inimitabile e
unico dell’amaro sciroppo della democrazia.
Berlusconi ci diceva che gli avversari erano dei
coglioni e invece il Matteo nazionale sottolinea
come i suoi avversari hanno comunque il privilegio di perdere contro uno come lui, che per
buon cuore comunque alla fine penserà anche
a loro, senza fare prigionieri. C’è una foto di
Renzi molto rappresentativa: arriva di notte a
Montecitorio dopo una scazzottata tra alcuni
deputati di Sel e i colleghi del Pd, ha la testa
dritta e il mento in alto e affronta a muso duro
le opposizioni, camicia bianca d’ordinanza e
7 marzo 2015
senza cravatta (il solito bullismo bisbigliato nei
particolari) e ringhia: «Noi andiamo avanti, votiamo le riforme. E se non ce la facciamo, non
c’è problema: tutti a casa e andiamo a votare.
Tanto io ho con me le tv e l’elettorato e stravinco
comunque. Così facciamo anche un po’ di pulizia». Qualcuno gli dà una bella pacca sulla spalla, dicono che a casa finalmente Renzi lo capiscono tutti, altro che il politichese della sinistra
che perdeva, e poi dicono che non fa niente se
ogni tanto Renzi mostra i muscoli con un bullismo lessicale da capoclasse strafottente, non è
mica come Berlusconi questo, ci dicono, Renzi
ha riformato il mondo del lavoro con l’accento emiliano dei compagni, e non importa che
abbia esultato anche Sacconi, mette mano alla
Costituzione ma lasciatelo stare, «vuoi mettere
con Silvio?» Mi dicono, «ma sei matto?». Quello era uno sbruffone invece questo, dicono,
questo deve fare al massimo un po’ l’arrogante perché altrimenti non
lo lasciano fare, non lo
Per Berlusconi gli
lasciano lavorare, non gli
avversari
erano dei
permettono di cambiare
il Paese. Adesso la sinistra
coglioni, per Renzi
è “pop”, finalmente. Dicohanno il privilegio
no. Era facile. Bastava non
di perdere contro di lui
essere di sinistra.
31
© Laura Santelli
L’INTERVISTA
in SELLA
contro la mafia
«Io sono e voglio essere Giuseppe Cimarosa. Vivo
di teatro, equitazione e mito, ma non quello di Cosa
nostra». Il nipote di Messina Denaro si racconta a Left
di Giulio Cavalli
32
7 marzo 2015
È travolto da tanta e improvvisa attenzione Giuseppe Cimarosa, il giovane parente del latitante di Cosa
nostra Matteo Messina Denaro che ha infiammato
la “Leopolda siciliana” disconoscendo pubblicamente il boss e la sua famiglia davanti all’applauso commosso di un migliaio di persone. Travolto
come si viene travolti in questo Paese quando il
marketing antimafioso si butta su un nuovo simbolo ma Giuseppe ha molto di più da dire, al di là degli
stereotipi o i falsi miti. «Non è normale - mi dice
- tutta questa attenzione all’improvviso, no. Anche
se non so esattamente quale sia la causa. Posso dire
però che per fortuna la “Leopolda” ha reso pubblica una vicenda che sembrava appesa nel nulla. Io
ci ho partecipato per caso senza nessuno spirito di
appartenenza politica perché non è questo che voglio fare nella vita».
Hai fatto più politica con un piccolo intervento tu
che molti dei politici presenti, però...
Sì. Ma diciamo che la mia è stata politica molto
“spirituale”. La definirei così. Non sapevo nemmeno esattamente cose fosse una “Leopolda” ma il
mio unico pensiero era ed è fare sentire la mia voce
a più gente possibile.
E ci sei riuscito.
È da un anno che ci provo. All’inizio ho contattato
le cosiddette “associazioni antimafia” che mi giravano attorno a Castelvetrano (il luogo dove Giuseppe vive con la sua famiglia nonché paese natale di Matteo Messina Denaro, ndr) e dintorni ma
mi hanno snobbato, ignorato e a volte addirittura
osteggiato.
Osteggiato? Addirittura?
Certo. Sotterraneamente, ovvio, perché pubblicamente non potrebbero farlo. All’inizio avevo pensato che i loro dubbi derivassero dal fatto che qui
non è mai successo che un membro di una famiglia
così “pesante” prendesse pubblicamente le distanze dalla mafia. Poi invece mi sono convinto della
cattiva fede.
Quindi possiamo dire che la politica della Leopolda ha antenne più allenate del mondo dell’antimafia?
Credo che anche quelli del Pd siano rimasti sorpresi. Avevano in mente di affrontare anche il tema
dell’antimafia e un amico di Castelvetrano mi ha
chiesto se avessi voluto intervenire. Anzi, mi ha
detto “hai cinque minuti” e io mi ero preparato anche il discorso bello scritto ed ordinato. Quando è
stato il mio turno però non ho letto nulla, il discor7 marzo 2015
Non vivo una
situazione facile.
Una volta deciso
di mettermi
contro un mafioso
non posso più
tornare indietro
so ce l’avevo nello stomaco
ed è successo qualcosa di
incredibile.
Cioè?
Un silenzio. Assordante. Il
silenzio assordante. Gente in
piedi che piangeva. In quel
momento credo che tutti si
siano dimenticati del partito e della “politica”. Ne
sono stato felice.
E poi mi vuoi dire che non c’è stato il tentativo prevedibile di “mettere il cappello” sulla tua storia?
Beh, certo. Anche se in realtà sono stati più quelli degli altri partiti che, accusando il Pd di volermi
strumentalizzare, hanno finito per farlo loro stessi.
Possiamo dire che, comunque, è stata una buona
occasione per te.
Avevo bisogno di parlare. Di urlare. E meno male
che è successo. Io non vivo una situazione facile:
una volta che decido di mettermi contro un mafioso, tra l’altro ancora libero, non posso più tornare
indietro. Mica posso dirgli “scusa Matteo Messina
Denaro mi sono sbagliato, ti chiedo perdono, torno al mio posto”. Mi sono lanciato nel vuoto e devo
andare fino in fondo.
Riannodiamo i fili della tua storia. Quando nella
tua vita ti rendi conto di essere il “parente” di un
boss?
Da piccolo. Considera però che mia madre questo
parente l’ha visto per l’ultima volta al suo matrimonio. Malgrado mia madre fosse cugina con la
famiglia Messina Denaro, la mia famiglia non ha
avuto rapporti con loro per venticinque anni. Fino
a circa tre anni fa quando c’è stato questo maledetto avvicinamento da parte loro, ovviamente
perché avevano bisogno di qualcosa. Fin da piccolo si respirava questa figura misteriosa con questo fascino nero.
Quindi quasi positivo?
In casa si preferiva non parlarne ma a scuola, con
i ragazzi, molti sicuramente lo vedevano come un
mito perché imprendibile, nascosto bene e tutte
queste storie... Finché, quando avevo quattordici o
quindici anni, mio padre venne arrestato per la prima volta per collusione e favoreggiamento nei confronti della famiglia Messina Denaro. Ovviamente
per la parentela che li accomunava mio padre non
avrebbe potuto facilmente dire di no. Sbagliando,
mio padre ha pensato che quello sarebbe stato il
male minore.
33
Mia nonna mi
disse: «Se non
la smetti ti
ammazzano».
E sono cresciuto
con la voglia di
ribellarmi e la
frustrazione di
non poterlo fare
Pensi che l’abbia fatto per
difendervi, per mettere al riparo la vostra famiglia?
Certo. A volte non hai scelta. Chi non vive qui non può
capirlo. Se non nasci e ci vivi
in questo contesto non puoi
capire. So che sembra paradossale.
Quando è stato arrestato tuo padre per la prima
volta come hai reagito?
Ho colpevolizzato subito questa nostra parentela.
Intimamente ho cominciato a esserne avverso. A
quei tempi ero molto più impulsivo, quello che potevo fare era cercare di convincere mia nonna, mia
madre, mia zia che Messina Denaro è un criminale
che ha ammazzato persone.
E loro?
Loro sapevano bene che le cose stavano così. Ma
erano preoccupate per me. Si dicevano “se questo
cresce così rischia”. Un giorno mia nonna mi disse:
«Vedi che se non la smetti ti ammazzano». E così
sono cresciuto con la voglia di ribellarmi e con la
frustrazione di non poterlo fare.
Una storia che assomiglia molto a quella di Peppino Impastato...
Sì, quando vidi il film I cento passi mi dissi “vedi
che si può fare, ci si può ribellare” ma non avrei mai
avuto la forza senza il “lancio” di mio padre.
Dopo il suo secondo arresto?
Sì, dopo il suo secondo arresto (nel dicembre 2013,
ndr) mio padre ha capito che l’unico modo per salvare me e mio fratello era dare un taglio netto.
Per questo ha deciso di confessare ai magistrati?
Certo. Mio padre ha pensato che prima o poi io e
mio fratello ci saremmo ritrovati al suo posto. Sicuramente avrebbero domandato e non avremmo
potuto rifiutare. Questi se ti chiedono un braccio
glielo devi dare, altrimenti te lo tagliano. Io invece
ho costruito da solo il mio sogno e sicuramente prima o poi mi sarebbe stato scippato.
A proposito del tuo lavoro, appunto. Sei passato
semplicemente come il parente del boss ma c’è
molto di più.
Sì. Io sono e voglio essere Giuseppe Cimarosa.
Nasco come cavaliere perché la mia passione per
i cavalli è cosa antica. Ho sempre fatto equitazione ed è diventato il mio mestiere. Parallelamente
adoravo il teatro e mi dilettavo a fare qualcosa. E
oltre a questo adoro l’archeologia a cui ho dedicato
34
i miei studi. Archeologia soprattutto come amore
dei miti ed essendo cresciuto qui a Selinunte ovviamente sono “imbevuto” dal mito. A un certo punto
mi sono trasferito a Roma e ho frequentato diversi
artisti (ogni tanto penso che forse solo un “artista”
possa ribellarsi come mi sono ribellato io) e ho deciso di mettere insieme il teatro, l’equitazione e il
mito con una forma di “teatro equestre” che non
esisteva.
Quindi studiando i miti hai sfatato il falso mito
del boss Matteo Messina Denaro?
Assolutamente. Il vero mito per me è Ettore.
Appunto. E come ti mantenevi a Roma?
Facevo un po’ di tutto. Per un paio di anni ho
lavorato anche per il cinema come stuntman
a cavallo ma il mio sogno era unire in un unico atto le mie passioni. Il Teatro equestre non
l’ho certo inventato io, in Francia è una realtà da
molti anni, curata tra gli altri da Bartabas che è
stato anche mio maestro, la mia musa. Questo
concetto di comunicare un’immagine anche attraverso l’animale, basato sull’idea di centauro
come simbiosi tra l’animale e uomo, secondo
me è la più alta espressione di teatro. Il mio è un
teatro di immagine con una fortissima componente estetica e dipende molto dallo stomaco,
dallo spirito, ogni volta diverso, ogni volta con
qualche nuovo imprevisto, l’imbroglio mai provato prima.
E quando sei tornato in Sicilia?
Tre anni fa. Sentivo il bisogno di tornare. Io non
sono mai scappato ma me n’ero andato perché il
conflitto con mio padre era troppo forte. Quando sono tornato infatti sapevo tutto, sapevo che
eravamo sorvegliati e seguiti dalle forze dell’ordine e probabilmente anche ascoltati. Sapevo
tutto. Quando mio padre è stato arrestato per la
seconda volta ho provato rabbia. Fortissima rabbia. Io me l’aspettavo e a mio padre molti anni
prima avevo fatto una promessa: «Se ti arrestano
di nuovo mi perdi per sempre». Quando lo arrestarono in piena notte mi diede la collana che si
era tolto dal collo ma io caddi su una sedia, immobile, non avevo nemmeno la forza di parlare.
C’erano cinquanta agenti e io ebbi uno sfogo con
alcuni di loro. Incredibilmente loro mi capivano,
mi hanno quasi abbracciato perché seguendoci e
ascoltandoci da molti anni sapevano benissimo
chi ero e quale fosse il mio comportamento, la
mia essenza. Mi dissero «Giuseppe tu stai tran7 marzo 2015
quillo, vivi la tua vita, fatti i tuoi spettacoli. Noi
sappiamo chi sei».
E qui succede l’imprevisto. Come se fosse un tuo
spettacolo.
Sì. Decido di andare in carcere a trovare mio padre
per dirgli “basta, sparisci, hai rotto il cazzo”. E invece al primo colloquio si presenta in lacrime e ci
dice che stava collaborando con i magistrati, stava
dicendo tutto quello che sapeva. Lì è cambiata la
nostra vita. A quel punto non ho lasciato più mio
padre. Ho gestito l’imprevisto con l’istinto: appoggiare mio padre. Anzi, mi sono chiesto: “Cosa posso
fare?”. E mi è venuto naturale urlare a tutti che io
non ci sto, che i mafiosi sono loro. E così siamo ad
oggi. Questa è la mia storia.
Bellissima. Ma paura?
La paura c’è. Noi abbiamo deciso di non rientrare nel programma di protezione nonostante lo
stupore dei magistrati, perché avrebbe significato
sparire e cambiare nome. E secondo te dopo tutto
quello che ho fatto per tutelare la dignità del mio
cognome avrei potuto fare una cosa del genere? Per
Matteo Messina Denaro? Per me significherebbe
morire. Tanto vale che mi ammazzino. Io continuo
a fare quello che facevo.
Ma dopo il pentimento di tuo padre è cambiato
qualcosa a Castelvetrano?
Certo, il mio maneggio era frequentatissimo e piano piano sono spariti tutti i clienti. Sono rimasto
con tre allievi. Ho dovuto ricominciare tutto da
capo e ora ho degli allievi che hanno abbracciato la
mia scelta. Ora io e gli allievi giusti e un gruppo di
lavoro che mi sostiene. Perché il “Teatro equestre
Cimarosa” non sono solo io così come non sono
solo in questa lotta che porto avanti. Sono tante le
persone stanche della mafia. Sono tante le persone
che galleggiano a metà.
Già questi che stanno nel grigio sono quelli che
mi interessano di più. Come mai l’antimafia ha
bisogno di eroi, mentre non riusciamo spesso a
raccontare le fragilità, come quelle che ha vissuto
tuo padre?
Io non credo all’antimafia di questi ultimi anni. Le
associazioni antimafia mi hanno isolato e hanno
tentato di distruggermi. L’antimafia è fatta dalle
persone, io credo che non dovrebbero nemmeno
esistere le associazioni: nel 2015 non possiamo
pensare di creare sottogruppi, dobbiamo impegnarci tutti. Insieme. Rieducare tutte le persone
che non hanno le basi, la preparazione e le condi7 marzo 2015
zioni per potere capire dove c’è mafia. Una sorta di
conversione. Non è mafia contro antimafia.
Stato contro Antistato?
No, preferirei “popolo contro la mafia”. Il popolo
deve smettere di avere paura.
Hai qualcosa da dire a Matteo Messina Denaro?
Nulla. Non mi riguarda. Non mi interessa. I magistrati stanno già facendo un ottimo lavoro. La mia
scelta è anche frutto dell’impegno che stanno mettendo magistrati come Teresa Principato (che sta
indagando sulla latitanza del boss, ndr).
Cosa pensi dei figli di Riina e Provenzano protagonisti di interviste su giornali nazionali?
Credo serva a fare una differenza tra le parentele
come la mia, alla lontana, e i veri e propri figli...
Qualcuno dice che andrebbero tolti ai mafiosi e
fatti crescere in un ambiente protetto.
Sono d’accordo. Assolutamente d’accordo. Toglierei la patria potestà ai mafiosi.
Sconfiggeremo mai la mafia?
Io dico a ognuno di fare il proprio. Soprattutto a chi
è parente di mafiosi: ogni suo gesto può assumere
un’importanza particolare.
Ma noi diventeremo mai un Paese in cui seguire le
regole non sia un atto eroico?
Credo di no. Questione di natura degli italiani. Siamo al declino. Guarda cosa siamo noi ora rispetto
all’Italia del Rinascimento.
E come racconterai tutta questa storia a tuo figlio?
Così com’è.
E come lo terrai lontano dal pantano in cui ti sei
ritrovato tu?
Credo che ognuno abbia la possibilità di scegliere.
Anche mio padre poteva scegliere: ha fatto la scelta
sbagliata. Si può stare in Sicilia anche scegliendo la parte
giusta.
Non credo
L’intervista è finita, e mi viene in mente quanto siano
pericolose le semplificazioni
in una storia di cui lo scheletro è fatto di penombre,
scelte quasi invisibili che si
prendono in un secondo e
segnano una vita. Come un
volteggio a cavallo, sperando, come dice Giuseppe, di
«superare l’imbroglio».
all’antimafia
degli ultimi anni.
Le associazioni
mi hanno isolato
e hanno tentato
di distruggermi
35
Illustrazione e infografica Dario Calì
CRIMINALITÀ
36
7 marzo 2015
La bUfala è servita.
dai clan
Le sofisticazioni alimentari e gli interessi “storici”
della camorra. Viaggio nella faccia sporca della
mozzarella. Una minaccia per l’intero comparto
di Raffaele Lupoli
Gennaro è appena rientrato nel suo negozio di
alimentari in provincia di Napoli. Oggi la mozzarella è andata a ritirarla direttamente nel caseificio. «Ogni tanto lo faccio - racconta - per tenere i
rapporti con il fornitore. Prima di individuarlo ho
visitato l’azienda e i pascoli, ho visto le certificazioni, le analisi e ho valutato il prodotto confrontandolo con altri. Poi c’è il rapporto di fiducia...
Di più non posso fare». Come Gennaro sono tanti
i rivenditori, e ancor più i consumatori, che restano disorientati di fronte a notizie come quella
dello scorso 29 gennaio, quando i Nas dei Carabinieri hanno sequestrato in un caseificio di
Caserta 5.000 litri di latte di bufala congelato in
maniera irregolare e di provenienza ignota. Soltanto sette giorni prima a Serre, nel salernitano,
è stato sequestrato un caseificio che produceva
mozzarella senza latte. Nei locali i Nas hanno
trovato una grande quantità di cagliata, semilavorato proveniente dall’est Europa che consente
di ridurre costi e tempi di produzione.
Eppure la mozzarella di bufala è tra i prodotti
agroalimentari che vantano il maggior numero
di controlli: oltre 15.000 l’anno. E il Consorzio di
tutela è l’unico a prevedere nel proprio codice
etico l’espulsione per chi non rispetta le regole.
La truffa o, peggio, l’affare che coinvolge clan camorristici e gruppi criminali, con il costante sostegno dei “colletti bianchi”, è sempre in agguato.
«Non so nulla di queste cose - commenta il negoziante -, ma qui si vende tanta di quella mozzarella che mi chiedo dove siano tutte le bufale
di cui c’è bisogno». Proprio sulla provenienza e
sui presunti traffici di latte da Paesi stranieri, in
7 marzo 2015
particolare dalla Romania, dove gli affari dei Casalesi sono fiorenti in diversi settori, si è spesso
appuntata l’attenzione degli investigatori. Già
dieci anni fa il pm di Napoli Antonello Ardituro
aveva segnalato come gli affari della camorra si
“diversificano” su fronti che comportano meno
rischi: rifiuti e agroalimentare. Del latte e della
cagliata provenienti dall’Est Europa
Francesco
(Romania, Polonia, Lituania, Lettonia) e importato illegalmente dai clan
“Sandokan”
si è interessata già nel 2010 la procuSchiavone era
ra di Napoli nell’ambito dell’operalatitante
zione “Oro bianco”. È il collaboratore
di giustizia Domenico Bidognetti a
in Francia e
raccontare come alcuni imprenditori
si informava
del casertano acquistassero bufale in
sul suo
Romania per sostituire i loro capi ammalati di brucellosi, mentre Francesco
allevamento
“Sandokan” Schiavone dalla latitanza
in Francia si preoccupava del foraggio e delle
bufale della sua azienda agricola in località Ferrandelle, poi diventata discarica di rifiuti dopo la
confisca, ai tempi della cosiddetta “emergenza”.
Insomma, quando ci si mettono di mezzo i
clan è l’intera filiera a farne le spese: dagli incendi dei depositi di foraggio agli sversamenti illegali di siero nel fiume Sele, passando per l’uso di
latte vaccino o comunque “fuori controllo” per
un prodotto che si fregia della Denominazione
di origine protetta. Un business che si intreccia
anche con quello “storico” del traffico di rifiuti
speciali e delle discariche abusive. Ancora Domenico Bidognetti, racconta di una discarica
illegale sorta all’inizio degli anni Novanta nel37
CRIMINALITÀ
le campagne di Casal di Principe, in un punto
dov’era stata estratta terra da impiegare nella
realizzazione della superstrada Nola-Villa Literno. Coperto di terra, l’invaso si trasformò in
azienda di allevamento di bufale. Nel luglio 2012
aziende di allevamento di bufale, fondi agricoli e immobili per un valore di oltre 2 milioni di
euro sono stati sequestrati a Paolo Schiavone,
figlio di Francesco detto “Cicciariello” e nipote
di “Sandokan”.
Risale al 2009, invece, l’arresto di 19 persone,
tra cui un veterinario, con l’accusa di aver “dopato” le bufale per aumentare la produzione di latte. Usavano la somatotropina, un ormone della
crescita vietato nell’Unione Europea e rintracciato in 25 allevamenti in provincia di Caserta per
un totale di circa 2.000 capi. Pochi chilometri più
in là si estende invece l’impero del re della mozzarella di bufala, Giuseppe Mandara, arrestato
due volte per il suo presunto legame con il clan
La Torre di Mondragone ed entrambe
Nel 2009
le volte rilasciato. Il 21 dicembre 2014
arrestati alcuni la Cassazione ha respinto il ricorso dei
pm di Napoli contro il Riesame, che
allevatori
aveva annullato la richiesta dei domie un veterinario ciliari. Mandara era già stato arrestato
il 17 luglio 2012 con le stesse accuse
che dopavano
ma la misura cautelare a suo carico
gli animali
era stata revocata. Per la Dda di Napoper avere
li Mandara ha costruito il suo impero
avvalendosi dell’appoggio del clan La
più latte
Torre, che ha investito milioni di euro
nelle sue attività. Ma la Cassazione ritiene che le
accuse mosse nel 2014 non aggiungono niente di
sostanziale rispetto all’impianto del 2012.
Dal clan La Torre di Mondragone, ormai disciolto, deriva la famiglia Perfetto, che nel 2013
aveva provato a coinvolgere Renato Vallanzasca.
“Voleva portare a Milano la mozzarella della
camorre” titolavano i giornali all’epoca. Italo
Zona, che per conto del clan Perfetto si occupava delle estorsioni, così gli diceva al telefono: «Rena’ mettiamo una cosa in piedi insieme
lassù... Mettiamo un grosso centro di smistamento di mozzarelle... una bella piattaforma...
io ti mando tutti i giorni le mozzarelle!». E poi:
«Metto tutto io... tu trovami solo il punto e poi te
lo gestisci tu... e poi lo facciamo in società... tu
non devi investire niente». Vallanzasca sembra
bene intenzionato e da una frase lascia trapelare che probabilmente eludendo i domiciliari
è stato dalle parti di Mondragone: «Se è come
quella che mi avete fatto magiare giù...». Poi gli
38
viene revocato il permesso di lavoro e l’affare
non si fa. Anzi, si fa in maniera diversa, perché è
la moglie di Vallanzasca, Antonella D’Agostino,
a mettere in piedi la commercializzazione assieme al capoclan Giuseppe Prefetto. Ma l’affare si
blocca con l’intervento della magistratura, che a
dicembre 2013 ordina l’arresto di entrambi.
Storie, queste, che unite al danno di immagine
derivante dal fenimeno “Terra dei fuochi” 2013
il calo di fatturato è stato enorme) rischiano di
mettere in ginocchio un intero comparto produttivo, tra i più solidi dell’economia campana
dal momento che fattura ogni anno 300 milioni
circa. Sono più di 1.900 gli allevamenti di bufale che danno vita a questo giro d’affari, tremila
imprenditori che gestiscono 250mila capi di
bestiame, 370 caseifici, 130mila bufale in lattazione, 33mila tonnellate di produzione annua
(il 90% in Campania, il 10% nel basso Lazio e in
Puglia). «È una situazione paradossale - commenta Domenico Raimondo, presidente del
Consorzio di tutela della mozzarella di bufala
campana Dop - che vede noi, i veri danneggiati,
spesso sul banco degli imputati. Proprio noi che
non solo peroriamo la causa di un sistema di
controlli sempre più capillare ma che da tempo
chiediamo alle autorità di inasprire le pene nei
confronti dei truffatori».
Truffatori che assieme alle sorti di un’eccellenza del made in Italy (il 16 per cento è esportato) minacciano anche la salute dei conumatori.
È dello scorso dicembre il sequestro del caseificio Marrandino, tra Castel Volturno e Carinola,
sempre nel casertano, noto “ambasciatore” del
marchio. Agli arresti i titolari, padre e figlio, e
un veterinario della Asl, padre di un dipendente dell’azienda, anch’egli arrestato. L’inchiesta
è uno sviluppo di quella che nel 2012 portò al
sequestro e successivo dissequestro di capi. Per
l’accusa «allevatori, produttori caseari e veterinari, avevano messo in piedi un sistema illecito
fraudolento, finalizzato a nascondere, per mere
ragioni di guadagno, i casi di brucellosi presenti
all’interno degli allevamenti». Allevatori e veterinari sono accusati di aver somministrato sostanze vietate come il vaccino RB51 ai capi adulti, provocando la diffusione della malattia e del
batterio vivo RB 51, pericolosi per gli animali ma
non per la salute umana se il latte viene pastorizzato. «Ne va della nostra salute», commenta un
commerciante campano. «Oltre ai controlli serve prevenzione e trasparenza della filiera: solo
così ci meriteremo la fiducia dei consumatori».
7 marzo 2015
IL GIRO
D’AFFARI
AGROMAFIE
no limits
15,4 miliardi
il fatturato nel 2014
+10% rispetto al 2013
Salta la barriera tra l’economia sana
e quella illegale. L’assalto di mafie
e truffatori all’agroalimentare italiano
di Francesco Maria Borrelli
La frontiera tra economia sana e interessi criminali è saltata anche nel settore agroalimentare.
E il business degli illeciti attorno alla tavola aumenta del 10% in un anno, raggiungendo quota
15,4 miliardi nel 2014. Con un miliardo e mezzo
almeno transitati dall’economia sana a quella
illegale. Il dossier annuale di Coldiretti ed Eurispes traccia uno spaccato fatto di traffici, truffe
e interessi dei clan, in un’annata in cui anche il
meteo ha fatto la sua parte per affossare l’agricoltura italiana. Pensiamo al settore oleario, con
le problematiche relative alla tracciabilità e alla
miscelazione che si aggiungono al drastico calo
di produzione dovuto alle piogge estive e ai parassiti. I trafficanti di alimenti made in Italy o
presunti tali prosperano anche in Rete: secondo
l’Osservatorio E-commerce BtoC del Politecnico di Milano, nel 2014 l’incremento del commercio elettronico in Italia è del 17 per cento
rispetto al 2013, per un volume economico pari
a 13,2 miliardi di euro. Qui il settore agroalimentare si attesta al secondo posto con il 12 per cento del traffico totale; basta pensare che i Nuclei
antifrode dei carabinieri hanno individuato 70
diverse tipologie di prodotti alimentari contraffatti fruibili sul web. Le mafie, poi, hanno un
menù ricco anche nel settore della ristorazione,
con oltre cinquemila attività controllate (a volte
veri e propri franchising) che servono come co7 marzo 2015
60 miliardi il valore
del falso Made in Italy
5.000 locali
nelle mani della
criminalità
organizzata
Fonte: Rapporto Agromafie 2015
CRIMINALITÀ
SEQUESTRI
Valore dei sequestri effettuati
nel 2013 dalle forze dell’ordine
pertura ai clan e permettono di tute- vali” e degli sviluppi che ha avuto nel
lare i patrimoni finanziari accumulati corso degli anni. La gigantesca truffa
con le attività illecite. L’elenco è molto condotta dalla Guardia di finanza che
più lungo e si estende in tutti i settori, tra il 2010 e il 2012 ha accertato 200
compresi l’import-export, il circuito milioni di false fatturazioni. «L’indaillegale degli agrofarmaci contraffatti gine – spiega la Ggf - ha riguardato
e il business del traffico di rifiuti tos- oltre quaranta imprese localizzate in
sici, il cui effetto ricade sugli alleva- Veneto, Emilia Romagna, Lombardia,
menti e sulla produzione agricola.
Toscana, Lazio, Marche, Abruzzo, PuAll’ombra dei capitali occulti, il mer- glia e Sardegna. Oltre duecento micato finanziario era abituato al rici- lioni di euro di fatture per operazioni
claggio dei soldi sporchi, da qualche inesistenti, più di duemilacinquecentempo però ha preso piede il fenome- to tonnellate di merce falsamente
no del money dirtying, capitali puli- biologica sequestrata e oltre 700 mila
ti che vanno a finire nell’economia tonnellate di falsi prodotti alimentari
nera per un mero ritorno economico. dichiarati bio commercializzati.
Così, complici le strettoie del credit Ma come avviene il controllo a froncrunch, un imprendite di decine di migliaia
tore può trovare con- Nel 2014
di operatori registraveniente infilarsi nella le imprese
ti su Data Bio? «Nel
ragnatela delle organizmomento in cui c’è
zazioni criminali, la cui agricole
un’allerta perché si sostrategia d’azione pre- in difficoltà
spetta che un prodotto
vede la ricerca di nuovi erano oltre
non sia conforme, gli
canali di riciclaggio. «Le
organismi di controlimprese agricole in dif- 18.000: il 6%
lo sospendono in via
ficoltà economica sono più dell’anno
cautelativa la certificasalite ad oltre 18.000 precedente
zione – precisa Paolo
unità, con un increCarnemolla, presidenmento del 6 per cento rispetto all’an- te di Federbio -. Subito questa inforno precedente e con l’ammontare mazione viene trasmessa su Data Bio
dei finanziamenti a sofferenza pari a che segnala che l’operatore o il lotto
4,9 miliardi di euro, circa 600 milioni in questione in quel momento non
in più rispetto al 2013» fanno sapere è agibile. In sostanza si tratta di uno
da Coldiretti.
strumento di lavoro per gli organismi
di certificazione e per le imprese che
Un business, quello delle agromafie, acquistano, le quali sono informate se
che non risparmia filiera corta e bio- il venditore sta agendo correttamenlogico. Il settore bio si è dotato di re- te».
cente di un nuovo strumento di tracciabilità di produzioni e transazioni: La banca dati è costituita da tre aree:
si chiama Data Bio ed è una banca una pubblica dove c’è l’anagrafica
dati a disposizione di cittadini e im- degli operatori e i relativi certificati
prese in grado di raccogliere e map- di conformità, una seconda riservata
pare le informazioni relative alla qua- agli addetti ai lavori, in cui verransi totalità degli operatori del biologico no caricate tutte le non conformità
italiano, oltre 48mila imprese. Tutto emesse dagli organismi di controllo
è partito su iniziativa di Accredia Ac- ai loro operatori, e una terza parte
credia (l’ente che attesta che gli or- comporta il caricamento nell’area
ganismi di certificazione e ispezione riservata dei programmi annuali di
abbiano le competenze per valutare produzione. Un software verifica se la
la conformità dei prodotti) e Federbio quantità immessa sul mercato da un
(Federazione italiana agricoltura bio- soggetto è compatibile con la sua calogica e biodinamica) all’indomani pacità produttiva e, anche in questo
dell’ennesima frode sui prodotti bio- caso, se si riscontra un’anomalia scatlogici denominata “Gatto con gli sti- terà un “campanello d’allarme”.
40
447,1 milioni
beni alimentari
112,2 milioni
carne e allevamenti
80,8 milioni
ristorazione
65,1 milioni
farine, pane e pasta
Fonte: Rapporto Ecomafia 2014
I
la crisi ingrassa
l’ecocrimine
«Fattori climatici e stretta creditizia spianano la strada
all’illegalità». Intervista a Gian Carlo Caselli
L’economia
illegale è fatta
di cifre
da capogiro, cui
corrisponde un
impoverimento
altrettanto
da capogiro
della collettività
7 marzo 2015
«È un fenomeno liquido, capace di insinuarsi dappertutto e ledere gli interessi di produttori e consumatori». L’ex
procuratore capo del tribunale di Torino Gian Carlo Caselli è ora presidente
del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura
e sul sistema agroalimentare. E ha già
registrato «la naturale propensione
della mafia a cercare nuove strade,
nuovi mercati, a non stare mai ferma
pur di moltiplicare profitti e potere
economico». Gli abbiamo chiesto di
tracciare una fotografia del fenomeno
agromafie.
Dottor Caselli, criminalità e agroalimentare vanno sempre più a braccetto. Cosa sta accedendo?
La crescita del fenomeno delle agromafie è legata a diversi fattori: uno di
carattere fisiologico dovuto al fatto che
gli affari delle mafie sono in espansione in tutti i settori e quindi anche in
quello agroalimentare. Poi ci sono stati fattori climatici non prevedibili che
hanno colpito pesantemente la produzione che perciò si è trovata in difficoltà a far fronte alla domanda, per cui
si sono aperti spazi a fenomeni di illegalità. Infine ci sono fattori dovuti alla
restrizione del credito alle imprese.
A quanto pare non è soltanto questione di clan. Perché tante imprese si
buttano nel business delle agromafie?
Anche qui centrano la crisi economica, le limitazioni per quanto riguarda
l’erogazione del credito, l’incertezza e
spesso perfino la paura che immobilizzano presso le banche quote sempre più consistenti di risparmio dei
privati. Tutti questi ingredienti contribuiscono al money dirtying. Nel senso
che molti di coloro che dispongono di
liquidità prodotta all’interno di settori
attivi nonostante la crisi, trovano conveniente, e perciò praticano, forme di
investimenti borderline non ortodosse, illegali, con l’obiettivo del profitto
massimo possibile. Se l’economia pulita offre di meno, ci sono altri circuiti di investimento che offrono di più
e ci si rivolge a questi senza guardar
troppo per il sottile. Tanto più che i
referenti mafiosi sanno dove e come
mimetizzarsi.
Cosa potrebbe fare la politica per arginare il fenomeno?
Le stesse cose che dovrebbe fare, e
purtroppo fa in misura non sufficiente,
per arginare altri aspetti dell’illegalità
economica. Che non è soltanto economia mafiosa, agromafia compresa
(con un giro d’affari rispettivamente
di 160 e 15,4 miliardi di euro l’anno),
ma è anche evasione fiscale (business
di 120 miliardi di euro l’anno; siamo il
terzo Paese al mondo dopo Messico e
Turchia) e corruzione (60 miliardi di
euro l’anno). L’economia illegale considerata in tutte le sue articolazioni, è
caratterizzata da cifre semplicemente
da capogiro cui corrisponde un impoverimento altrettanto da capogiro della collettività. Perché l’evasione fiscale, la corruzione e la mafia rapinano
alla collettività risorse che potrebbero
consentirle di viverle meglio. Allora
bisogna reagire con più determinazione e forza contro ogni forma di illegalità economica, nella certezza che
il recupero di legalità è un recupero di
reddito e che la legalità è la chiave per
affrontare la crisi economica sociale
che ancora ci affligge.
f.m.b.
41
POLITICA
ALTERNATIVA CERCASI
A Firenze si è svolto il primo incontro nazionale
dei fuoriusciti del M5S. A trainare gruppi territoriali
e attivisti sperduti, i parlamentari di Alternativa Libera
di Ilaria Giupponi
È uno spaccato d’Italia amaro, quello che si è riunito al Palacongressi di Firenze il 28 febbraio: ritrae
persone in cerca di un’identità politica. Condivisa
o calata dall’alto poco importa. Ciò che conta è che
serva a traghettare la voglia di partecipazione dei
cittadini ormai lontanissimi dai partiti di massa. È
un pezzo d’Italia orfana che cerca un contenitore
che organizzi il loro impegno e che lo convalidi a
livello nazionale e istituzionale. Come se avessero la netta percezione, a volte anche dichiarata, di
non valere niente per il main-stream della politica,
senza un partito. Loro, gli oltre 200 partecipanti alla
prima prova nazionale di una Costituente di Alternativa Libera, il gruppo dei parlamentari fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle esattamente un mese
fa, un partito lo avevano. Poi sono stati cacciati,
delusi, frustrati. Soprattutto, sono stati ignorati.
Oltre ai parlamentari, ci sono consiglieri comunali e quelli che un tempo erano sacri: i militanti
che loro chiamano “attivisti”, uno status civico. La
Casaleggio Associati si è dimenticata di una parte
costitutiva del M5S: il territorio. Un territorio - da
Sesto Fiorentino a Cinisello Balsamo, dalla Calabria
passando per l’Appennino bolognese fino ai picchi
del Friuli Venezia Giulia - che non ci sta: all’assise
ci sono arrivati da tutta Italia, verso nuove vecchie
Grandi Speranze. Collaborerà col Pd? No, dicono:
«Continuiamo a essere opposizione intransigente
a questo governo che non significa che non ci possa essere un dialogo» quasi si giustifica Tancredi
Turco, deputato fra “i dieci dell’Apocalisse”. Si presenteranno alle prossime elezioni regionali? Forse
in Veneto, pare. Intanto si danno appuntamento
a Milano per il 27 marzo. Ma non è questo il dato
colto in una dimensione che colpisce più per la sua
componente umana che politica, ben più fiacca.
Ognuno porta con sé il risentimento, la delusione,
42
e il ricordo di un’idea di politica fatta dal basso,
condivisa, discussa e trasparente. Ma purtroppo,
niente di più. Parole come “trasparenza”, “partecipazione”, pietre miliari di un’identità espropriata,
riecheggiano nel vuoto organizzativo di una grossa
fetta di cittadini senza una guida. Ma un partito lo
vogliono, e vogliono dei leader. Che siano il friulano
Walter Rizzetto, l’imolese Mara Mucci o l’autoctono
Massimo Artini fa nulla, purché si prendano la loro
rivincita. Una rivincita che non può però essere una
mission politica, come fu in passato per il primo
pentastellato, giovane promessa e delfino di Beppe
Grillo Giovanni Favia, che ha fatto dell’anti-M5s il
suo stancante leitmotiv. Anzi, non ne vorrebbero
proprio parlare. E soprattutto non vogliono essere
chiamati ex: «Nessuno di noi vuole essere chiamato ex», esordisce Rizzetto leader dei dissidenti e ora
capogruppo di AL alla Camera. «Chi sta sui temi
non potrà permettersi di chiamarsi “ex”: i principi
sono nostri più che mai». Eppure, quel “non più
M5s” pesa come un macigno, e ritorna sempre, in
ogni intervento, come un peccato originario di cui
non si sente però la colpa, ma il rancore per esserne
stati estromessi e non averlo potuto compiere fino
Cos’è: formazione interna al Gruppo Misto di 10 parlamentari usciti in
blocco dal M5S il 27 gennaio 2015
Chi sono: Capogruppo Walter Rizzeto, i deputati Tacredi Turco, Massimo
Artini, Marco Baldassarre, Sebastiano Barbanti, Samuele Segoni, Gessica
Rostellato, Eleonora Bechis e Aris Prodani, ai quali si è aggiunto il senatore
Maurizio Romani
Struttura: in attesa di uno statuto condiviso, punta a una federazione di
associazioni con delegati regionali e comunali
Adesioni: presente in tutte le regioni con oltre 3000 attivisti, provenienti
da liste civiche indipendenti o gruppi locali ex-M5s. Si attendono le mosse
degli altri senatori fuoriusciti e di dissidenti pentastellati
7 marzo 2015
© Ansa/Maurizio Degl’innocenti
Divisi
fra delusi,
idealisti e
rancorosi:
una
grossa
fetta di
ex grillini
cerca
un partito
senza
padrone
7 marzo 2015
in fondo. Un “peccato originario” di cui anzi si rivendica la paternità: «Beppe, riprenditi l’odore dei
tuoi soldi, noi ci teniamo il nostro senso civico che
nessun post può strapparci», chiarisce uno dei sei
consiglieri comunali eletti a Montelupo Fiorentino.
E il suo collega pisano ribadisce: «Noi siamo stati
eletti grazie al Movimento 5 Stelle? O sono gli eletti
del Movimento che sono tali grazie ai cittadini?».
C’è una base in cerca di un riferimento politico, ma
c’è anche un gruppo politico in cerca di una base:
«Vorremmo essere il vostro terminale e portare la
vostra voce in Parlamento», annuncia Turco dal
pulpito. «Voi avete bisogno di noi per far sentire la
vostra voce in Parlamento, ma noi abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno di una base». È una
base senza identità, gli si potrebbe far notare. Tuttavia, nel Movimento 5 Stelle, l’identità è diventata
un logo che sacrifica contenuto e adepti, quindi forse fuoriusciti e non hanno molto più in comune di
quello che non dicano.
«Proviamo a scalzare il marketing e mettere al suo
posto l’onestà», è il ritorno alle origini proposto da
Rizzetto e colleghi. La libertà di espressione è il filo
comune, «mai frustrata da nessuno e in nessuna
maniera se non dal buon senso personale», dicono da una lista civica della Lombardia (ex-amici di
Beppe Grillo). Si ricomincia - in che modo ancora
non si sa, ma quello che conta è: «Senza più paura
delle parole», colpisce il senatore aretino Romani.
Per essere come i ragazzi di Percorso Comune, Alternativa libera, gli ex-amici di Beppe Grillo e tutte
le città “in Movimento”, ancora non lo sanno, mentre è chiarissimo il dictat di come non essere: «Non
ci sentirete urlare allo scandalo, non ci sentirete offendere l’avversario, non perché figli di una nuova
rivoluzione gandhiana, ma perché intimamente
convinti che la rivoluzione culturale debba passa-
re attraverso messaggi positivi, il dialogo e la proposta», è la presentazione della giornata. Durante
la quale si è parlato di Costituzione, in un tenero e
inconsapevole scimmiottamento “dal basso” della
due giorni di Libertà e Giustizia che aveva luogo a
pochi metri da li. Si è parlato di ambiente, acqua
pubblica, legalità, lavoratori autonomi: «In due anni
di istituzioni non possiamo aver dimenticato questi temi», sempre Rizzetto all’apertura dei lavori.
Raccontano le loro esperienze e le loro aspirazioni
in quello che troppo spesso è sembrato essere uno
sfogatoio, in altre la quintessenza della democrazia
partecipata. E di fatto questo è quello che cercano:
lo spazio per partecipare. È quell’Italia che si era
riversata con entusiasmo in quello che successivamente diventò il Movimento 5 Stelle: il brand delle
liste civiche. Beppe Grillo aveva intercettato il discontento trasversale, la frustrazione, la violenza
dell’idealismo. Gianroberto Casaleggio, aveva capito il valore commerciale della stupidità e del fanatismo, immobilizzando con un marchio depositato
la libertà d’iniziativa e d’espressione. Le liste civiche
erano preesistenti, e non a caso, molti di loro venuti
in rappresentanza di altrettanti, non sono (ex)grillini dell’ultima ora, che nascevano dal nulla a ogni
tornata elettorale dopo il boom delle politiche. Sono
movimentisti idealisti ma frustrati, che rivendicano
la propria dignità alcuni, la propria originalità e autonomia altri, altri ancora, tradiscono solo ed esclusivamente il rancore verso le ingiustizie subite. Alcuni stanno attenti perfino ad alzare la testa, figli del
trauma di quell’uno vale uno che doveva servire a
sedare i protagonisti, ma il più delle volte ha mortificato gli impegni, diventando “uno vale l’altro”. Una
mortificazione che ha generato rancore che oggi
cerca nuovamente una guida. Altri invece la alzano:
è arrivato il loro momento. Credono.
43
di Giuseppe Benedetti
LA SCUOLA
Tentazioni private
L’istruzione come bene pubblico e garanzia di uguaglianza
appare sempre più a rischio sotto il governo Renzi.
Lo provano la “lettera dei 44” e il ruolo dato alle famiglie
44
ferenze tra pubblico e privato) potrebbero beneficiare di
un sistema di finanziamento
simile a quello del 5 per mille,
con una distribuzione delle
risorse delegata alle famiglie.
I guasti prodotti dall’autonomia, con una forbice sempre
più larga tra le scuole delle
aree più ricche e quelle delle
zone più arretrate del Paese,
si moltiplicherebbero. Inoltre si introdurrebbe surrettiziamente il principio che
non esistono beni pubblici
in quanto tutto è subordinato al consenso individuale.
Sulla base di questo principio non esisterebbe più una
scuola pubblica, garanzia di
uguaglianza di diritti e coesione socile, ma esisterebbero tante scuole quante sono
le famiglie. I nostri rottamatori vogliono condannare i
giovani a rimanere dentro
l’angusto circuito familiare,
come avviene nelle società
più arcaiche e retrive. E sotto
questa ingannevole idea della
“libertà di scelta educativa”
ci sono due convinzioni: che
i docenti della scuola pubblica siano orientati politicamente a senso unico e che il
processo di insegnamentoapprendimento sia tutt’altro
che libero, ma naturalmente
portato a “inculcare” convinzioni negli allievi. Così si cambia verso alla realtà: la scuola
pubblica viene infangata con
l’accusa di essere una fabbrica del consenso, mentre
la scuola privata diventa, secondo questa fantastica ricostruzione, il sistema in cui
ad una libertà di scelta educativa da parte delle famiglie
corrisponderebbe la libertà
di insegnamento. C’è un’altra
grande bugia anche dietro la
richiesta di ulteriori fondi alle
scuole private. Cioè quella
del risparmio per lo Stato di
6 miliardi di euro l’anno. Un
recente studio della Fondazione Agnelli (dicembre 2014)
ha mostrato che è una menzogna perché 200mila sono i
fruitori delle scuole comunali
dell’infanzia (quindi, indirettamente, dello Stato) e perché
l’assorbimento dei 400mila
studenti di primaria e secondaria delle private avverrebbe
senza un incremento significativo di aule e insegnanti nel
pubblico, con un aggravio di
spesa molto distante da quello sbandierato.
Non è vero
che lo Stato
risparmia
con gli istituti
paritari.
Parola della
Fondazione
Agnelli
© Ansa/ Alessandro Di Marco
Con un’evasione fiscale che
dissangua le casse dello Stato
e con un livello di corruzione
superiore a qualunque altro
Paese europeo, una priorità
del governo Renzi è umiliare
la scuola pubblica, con l’ennesimo taglio reclamizzato
come riforma. Riforma va
detto, che slitta, visto che il
decreto è saltato. Ma rimane
inalterata la filosofia che ne è
alla base.
Già il documento della Buona scuola, ispirato dai burocrati di Bruxelles, dichiarava
l’impossibilità dello Stato di
rispondere
integralmente
alla domanda di istruzione
nel nostro Paese. Ora, con un
altro cambiamento di verso
delle priorità, diversi esponenti del governo (a cominciare dal ministro Giannini) e
del Pd (in testa i parlamentari
Malpezzi, Patriarca e Rubinato nella lettera dei 44 inviata
a Avvenire) si preoccupano di
incrementare il finanziamento delle scuole private. Non
bastano i 700 milioni di euro
versati ogni anno agli istituti privati dallo Stato (500 dal
Miur e 200 dagli enti locali).
È stata proposta - e lo stesso
ex ministro Luigi Berlinguer
la sollecita - una defiscalizzazione delle rette, per cui
la transazione da privato (la
famiglia) a privato (la scuola privata) godrebbe di uno
sconto fiscale pubblico. Lo
stesso premier ha annunciato
che i singoli istituti (senza dif-
7 marzo 2015
di Emanuele Santi
CALCIO MANCINO
C’era una volta il Parma
Nel 1993, la squadra allenata da Nevio Scala vince il suo primo
trofeo europeo: la Coppa delle Coppe. La finale nel “tempio”
di Wembley contro i belgi dell’Anversa
Tra i
giocatori,
Faustino
Asprilla
genio
colombiano
del pallone
La formazione del
Parma alla finale
di Wembley
7 marzo 2015
Nella stagione ’92-’93, il vecchio continente è in pieno
sconvolgimento geopolitico.
La Jugoslavia, bandita dal
campionato europeo vinto
in estate dalla sorprendente Danimarca, si ritrova con
i club estromessi da: coppa
Campioni, coppa Uefa e coppa delle Coppe, a cui partecipano invece le formazioni
della Slovenia, risparmiata
dalla guerra civile. L’ex Unione sovietica, scesa in campo
come Csi tanto agli Europei
di Svezia quanto alle Olimpiadi di Barcellona, manda
le squadre di Russia, Ucraina,
Lettonia, Estonia e Lituania a
riempire oltremisura le stesse
urne da sorteggio nelle quali confluiscono i club di altri
Paesi altrettanto recenti quali
Liechtenstein e Far Oer. L’aumento delle squadre è con-
tenuto dal ritardo organizzativo di Belorussia, Georgia e
Moldavia; dalla persistenza
della Cecoslovacchia e da una
Germania riunificata che ha
congelato i club dell’Est. L’Italia, una e indivisibile, schiera
il Milan in coppa Campioni;
Juve, Toro, Napoli e Roma in
coppa Uefa e il Parma in coppa delle Coppe. La squadra
della Parmalat è una splendida realtà. Promossa in serie A nell’estate del ’90, ha
centrato la qualificazione in
coppa Uefa nel campionato
d’esordio ’90-’91 e ha vinto la
coppa Italia edizione ’91-’92.
Taffarel, Benarrivo, Di Chiara,
Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin. L’allenatore è Nevio Scala,
colui il quale, dopo ogni partita, obbliga i suoi ragazzi a
correre intorno al campo per
favorire il riassorbimento
dell’acido lattico. La rosa si
è arricchita con Sergio Berti
e Faustino Asprilla, portati a
Collecchio dalle manovre di
mercato operate in Sudamerica dalla multinazionale di
Calisto Tanzi. E mentre l’argentino fatica a trovare spazio, il colombiano si impone
come arma irrinunciabile. I
primi a cadere sotto i suoi colpi, a settembre, sono gli ungheresi dell’Ujpest nello stesso “mercoledì nero” che porta
la sterlina fuori dallo Sme e
il Parma agli ottavi. A metà
ottobre, tocca ai portoghesi
del Boavista proprio mentre
il mondo celebra i cinque secoli del viaggio di Colombo e
mentre la Chiesa annuncia la
tempestiva riabilitazione di
Galileo. Dopodichè le coppe
vanno in letargo fino a marzo,
mese perfetto per una bella
gita a Praga: capitale della neonata Repubblica Ceca e città
del vecchio Sparta. 0-0 al Letnà Stadion e 2-0 al Tardini con
reti di Sandro Melli e del solito Asprilla, protagonista assoluto anche nella semifinale
d’andata al Vicente Calderon
di Madrid, tana dell’Atletico.
Una doppietta della freccia
colombiana vale la vittoria
per 1-2 in trasferta. Al ritorno,
i madrileni sfiorano l’impresa, ma lo 0-1 non basta. Finale
a Londra il 12 maggio contro
i belgi dell’Anversa guidati in
attacco da Alex Czernyatinski.
In un tempio di Wembley pieno soltanto a metà, i gialloblù non si fanno emozionare.
Vincono 3-1 e sollevano il primo trofeo europeo della loro
storia nonostante Asprilla rimasto in panchina per chissà
quale mistero disciplinare.
Ad eccezione del portiere Taffarel, sacrificato in tribuna
come quarto straniero, la formazione è la stessa della finale di coppa Italia dell’anno
precedente: Ballotta, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio,
Cuoghi e Brolin. Allenatore
Nevio Scala.
45
INGHILTERRA
Dizionario sintetico
DELle elezioni inglesi
A maggio il Regno Unito va al voto. Il risultato non è scontato
e ci riguarda da vicino. La nostra guida pratica
di Massimo Paradiso
Londra è la settima città d’Italia per popolazione.
Con i suoi 500.000 cittadini italiani che sono andati a cercare fortuna oltre Manica, l’Inghilterra
rimane uno dei poli d’attrazione per gli immigrati del Belpaese, che siano “cervelli in fuga” o
no. Con le elezioni alle porte, il 7 maggio, la Gran
Bretagna potrebbe cambiare drasticamente. Il
Regno Unito infatti rischia di farsi conquistare
dalla propaganda anti Europa e dai toni imposti dal leader dell’Ukip Nigel Farage, chiudere
le frontiere all’immigrazione e puntare su una
politica autarchica, assecondando la crescente
fascia più conservatrice dell’elettorato.
Sono le elezioni più imprevedibili dalla Seconda
Guerra Mondiale per la varietà di partiti che si
presenteranno. L’unico risultato che sembra certo è lo scardinamento del bipartitismo conservatori-laburisti consolidato da decenni. È allora
utile una guida pratica per chi volesse orientarsi
all’ombra del Big Ben.
A come Altra Europa © AP Photo/Kirsty Wigglesworth
Jean-Claude Juncker è avvisato. Chiunque risulti
vincitore alle prossime elezioni inglesi, è molto
probabile che nei primi cento giorni di governo
proponga un referendum per l’uscita dall’Europa. È il noto “Brexit” che spaventa Bruxelles.
Questo non perché la maggioranza degli inglesi
sia per un’uscita tout court dall’Europa (gli inglesi sono euroscettici per natura, sì, ma a tutto
c’è un limite). Semplicemente è probabile che il
prossimo governo voglia strizzare l’occhio alla
“pancia” del Paese più che alla “testa”, dimostrando di volersi giocare il tutto per tutto con
Bruxelles.
C come Cameron, David
Il primo ministro uscente è forte di una ripresa economica senza precedenti e ha incassato,
46
7 marzo 2015
anche se risicata, una vittoria sul fronte dell’indipendenza scozzese, bocciata dal referendum
dello scorso autunno. D’altro canto, Cameron
sta pagando in termini elettorali un innalzamento impressionante del costo della vita - Londra, come noto, è la città più costosa al mondo
- e, sull’elettorato moderato, le spinte sempre
più estremiste di alcuni componenti del partito conservatore, che seguono Farage, sul fronte
dell’immigrazione e dell’euroscetticismo. È probabile che il primo ministro vinca di nuovo le
chiavi del numero 10 di Downing street ma è anche molto probabile che sia costretto a scendere
a patti con un partito di coalizione.
F come Farage, Nigel
L’eurodeputato Nigel Farage, leader incontrastato del partito populista Ukip, è forse il politico
più attenzionato dai media britannici, anche se
ultimamente è in flessione nei sondaggi. Farage
sposa l’euroscetticismo, la politica del «padroni
a casa nostra» ed è protagonista delle uscite più
xenofobe e sessiste che l’Inghilterra ricordi.
Che l’Ukip se la prenda con immigrati e omosessuali, e che dica espressamente di non aver
«nessun problema se non con i negri», non impedisce però che l’elettorato sia trasversale.
G come Gentlemen’s club
Ci si riferisce così al parlamento inglese. Un club
di gentiluomini, per lo più anziani e navigati politici, a cui le quote rosa fanno venire l’orticaria.
Cameron ha tentato con il rimpasto della primavera scorsa, ma le donne, sia al governo che
all’interno del parlamento, hanno un ruolo marginale. Lo ha raccontato bene il più stagionato
dei corrispondenti politici della Bbc, Michael
Cockerell, in un recente documentario: «I parlametari inglesi sono un gruppo di vecchi amici,
sciovinisti, tutti maschi. Le donne, secondo loro,
vanno bene per preparare i drink. O per stirare
le camicie».
I come Immigrazione
Lo sostiene l’Ukip. Lo hanno ripreso i conservatori. Il prossimo governo inglese potrebbe
mettere una stretta all’immigrazione europea
in Gran Bretagna. Se prima si temeva l’invasione polacca e rumena, ora i partiti di centro e di
destra hanno come obiettivo quello di dare un
7 marzo 2015
taglio all’immigrazione «in centinaia di migliaia
di unità». Vale anche per noi. I laburisti tacciono
con la paura di perdere ancora più consensi ma
il timore generalizzato è che, con una possibile
uscita dall’Europa, il Regno Unito possa mettere
un tetto all’immigrazione e forzare molti europei
al rimpatrio. Anche se gli emigrati in Inghilterra,
così come in Italia, pagano in realtà più tasse rispetto al welfare di cui beneficiano.
L come Laburisti
I sondaggi li danno testa a testa con i conservatori. A guardare bene i numeri, nessuno dei due
partiti avrebbe una maggioranza ed entrambi
sarebbero costretti a governi di coalizione. Il
punto di forza del centrosinistra inglese è l’opposizione al programma di privatizzazione messo in atto dai conservatori e l’euroscetticismo
che pervade le aule di Westminster. Il punto debole è il leader: Ed Miliband.
M come Miliband, Ed
Giovane, determinato, chi lo conosce ne parla
come di un politico di spessore. Ma il leader dei
laburisti in televisione non funziona. Ed Miliband sta allenando i muscoli per poter guidare
anche un governo di coalizione già dall’8 maggio
ma non appare carismatico, non dà emozioni.
Alla fine della scorsa estate si pensava di sostituirlo a capo del partito con qualche figura più
incisiva, ma l’operazione è naufragata nel mare
d’agosto. E i laburisti si trovano a dover rendere
appealing un leader che cerca di non sembrare
un politico di professione. Ma che, puntualmente, ne incarna tutti i pregi e i difetti.
P come Parlamento Bloccato
L’opzione più quotata è quella di un parlamento
in impasse all’indomani del voto. Laburisti che
dovranno trovare la quadra con l’Snp, il partito nazionalista scozzese, e i conservatori che dovranno
raggranellare voti all’estrema destra dello Ukip.
Z come Zen all’Inglese
Nonostante la fibrillazione politica, gli inglesi stanno a guardare con filosofia Zen. E se alle
ultime elezioni i non votanti sono stati quasi 18
milioni di cittadini, l’apatia regnante potrebbe
rimpinguare il partito dell’astensionismo, soprattutto tra i giovani e la middle class.
47
INGHILTERRA
IL CANDIDATO
CHE SFOTTE FARAGE
Ha fondato un partito e scritto un programma. Al Murray è un comico
ma, pinta alla mano, vuole sfidare lo xenofobo leader dell’Ukip
di Virginia C. Grieco
48
7 marzo 2015
In Inghilterra c’è un comico che, invece di allearsi
con Nigel Farage, xenofobo leader dell’Ukip, ha deciso di prendersi grandemente gioco di lui. «Gli altri
partiti offrono la luna, noi faremo meglio: offriremo
una luna britannica». Al Murray, noto stand up comedian, su Farage non la pensa come Beppe Grillo.
Se il capo del Movimento 5 stelle l’ha voluto alleato
in Europa, Al Murray nei panni del Pub Landlord (il
proprietario del Pub) ha fondato un partito parodia
e si prepara a una surreale campagna elettorale.
«Mi sembra che il Regno Unito sia pronto per un
uomo che agiti in giro una pinta e proponga soluzioni di buonsenso. Salute!». La pinta è ovviamente
una Ale, come la beve Farage e accompagna il battesimo del Fukp, Free United Kingdom party. La corsa è iniziata a gennaio, con un video su youtube. Al
Murray, o meglio Pub Landlord, annuncia
così la sua discesa in campo. In palio c’è il
seggio del Sud Thanet, distretto elettorale storicamente conservatore, dove però
l’Ukip sembra destinato a una marcia
trionfale. Era al 6 per cento nel 2010, oggi
i sondaggi pubblicati dal Guardian danno
Farage al 38,6. I conservatori, invece, dovrebbero finire poco dietro ai labour, con
quasi la metà dei voti rispetto alle ultime elezioni:
26,6 per cento. La contesa, con il vento del populismo che ingrossa Farage, è dunque impari, ma sarà
almeno divertente.
Al Murray non ha reali chance di vittoria, ma sta facendo tutto come si deve: ha presentato un manifesto articolato in tredici punti, ha creato un sito web
e una pagina twitter. Qualche giorno fa ha ritirato le
carte da compilare per ufficializzare la sua corsa. I
moduli sono pronti e Murray a oggi sembra essere
deciso ad andare fino in fondo. Anche se dovremo
aspettare il 9 aprile, data di scadenza per la presentazione delle candidature, per capire se lo scherzo
diventerà cosa seria. Contro Farage, ma con il sorriso. «Grazie Al Murray, mi hai rallegrato la giornata.
Fukp renderà i prossimi mesi molto più divertenti
del previsto», ha dichiarato il deputato conservatore Nick Boles. Anche lo stesso Farage si è mostrato
contento: «Più siamo meglio è», ha scritto in un tweet indirizzato al comico. E all’Independent ha detto:
«Sembra che in Thanet ci saranno più candidati della solita corsa a due. Bene, almeno c’è un’opposizione seria». Non è certo preoccupato dal sondaggio,
Farage, che dà Al Murray all’1,4 per cento.
Il padrone del Pub ha rilasciato dei brevi comunicati video in cui spiega la linea d’azione del Fukp.
Inutile dire che si parla spesso di immigrazione,
tema prediletto dall’Ukip: anche il Pub Landlord
può cavalcare le paure. Lui sa bene che i flussi mi-
gratori sono la vera causa delle calamità naturali
abbattutesi sull’Inghilterra. «L’alluvione nel Somerset», per dire, «è stata causata dall’ondata di
romeni che si sono presentati in anticipo per la
vendemmia delle mele e sono stati la causa dello
sprofondamento della contea nel canale di Bristol». E bisogna sicuramente porre rimedio: «Il
peso dei romeni in questo Paese l’ha portato ad
affondare causando diffuse inondazioni». Qualcosa va fatto per fermare queste ondate di immigrati: «Se Ukip minaccia di distruggere il tunnel sotto
la Manica, noi faremo di meglio. Tutte le spiagge
saranno minate. A tutti i cittadini britannici, alla
nascita, verrà data un codice che provi che sono di
fatto britannici». E non solo le spiagge saranno minate e i veri “Brits” marchiati. Verrà anche portata
avanti un’azione di tutela nei confronti
della minoranza dei britannici purosangue: i rosci. «Il principe Harry sarà elevato a re dei rosci. L’ isola di Wight», che
ospita una delle più numerose colonie di
scoiattoli rossi, «con i suoi scoiattoli coordinati, sarà eletta a regno dei rosci».
Murray sembra avere le idee chiare anche sul fronte della politica estera, annunciando «una guerra con i tedeschi, se loro ci
stanno», e la leva sarà obbligatoria, sì, ma «solo
per quelli che non vogliono». Sulla disoccupazione: «La disoccupazione aumenta il crimine. Io propongo di chiudere a chiave i disoccupati». E ancora, sempre su un altro dei temi prediletti da Farage,
l’euro, promette: «L’Inghilterra lascerà l’Europa
entro il 2025 e il sistema solare entro il 2050», mentre la «Grecia verrà presa in gestione dall’amministrazione del Kent, così almeno qualcuno svuoterà
le pattumiere».
Per quanto riguarda l’economia, il piano sarebbe
di «rivalutare la sterlina a una sterlina e dieci centesimi. Così vale dieci centesimi in più». Inoltre,
per stimolare l’economia inglese, promette di «aumentare le temperature di cinque gradi centigradi
entro il termine della legislatura. Cosicché le località marittime, cui i passati governi hanno distribuito cattivo tempo anno dopo anno, vengano avvantaggiate nella loro crescita».
Per quanto paradossali, gli slogan di Al Murray
assomigliano così tanto a quelli di Farage che è
difficile attribuirne la paternità al comico o al politico, come invita a fare un test del Telegraph. Provate. «Gli immigrati devono mantenersi da soli per
cinque anni. Ciò significa assicurazione sanitaria
privata, educazione privata e alloggio privato. Dovrebbero versare qualcosa nella pentola prima di
prendere la propria porzione». Farage o Al Murray?
I sondaggi
danno il partito
parodia Fukip
all’1,4 per cento
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L’ANALISI
Iran in fumo
Oppio, cannabis, metanfetamine
e anche Lsd. La Republica degli ayatollah
ha 5 milioni di tossicodipendenti.
Che si drogano per un motivo:
cambiare la percezione del mondo
di Maziyar Ghiabi*
Con livelli di mortalità comparabili a quelli di un conflitto
bellico di medie dimensioni e uno dei tassi di tossicodipendenza fra i più alti al mondo, la Repubblica islamica
dell’Iran è sulla linea di fuoco in quella battaglia, poco
donchisciottesca, nota come guerra alla droga. L’Iran ci
è noto per altre immagini e altre preoccupazioni. Con la
crisi del “dossier nucleare” che ormai si protrae da un decennio, il Paese sembra aver acquisito agli occhi del mondo una dimensione, per così dire, irreale. Nonostante le
caute indiscrezioni riguardo a una possibile risoluzione
dei negoziati nucleari 5+1 (Usa, Russia, Cina Francia, Gb e
Germania), l’Iran rimane un Paese incompreso sulla scena
globale, le cui caratteristiche distintive nel vedere comune
sono il nero del chador e della barba, ormai brizzolata, dei
suoi leader. Eppure, per chi si è recato in Iran nell’ultimo
decennio, i colori non mancano, talora anche psichedelici.
Le donne iraniane hanno rinegoziato uso ed estetica del
velo, fino a trasformarlo in accessorio ornamentale che
poco o nulla, ha in comune con la tradizione islamica. Allo
stesso modo, l’austerità rivoluzionaria è stata progressivamente sostituita da un consumismo frenetico, a tratti patologico, che contraddistingue ogni classe sociale del Paese. Sembra così che le stesse dinamiche che caratterizzano
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© Nicola Zolin
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la post-modernità dell’Occidente, si manifestino, forse con più forza ed esasperazione, in Iran.
Il senso di smarrimento, la relatività dei valori,
vanno di pari passo con la mercantilizzazione
del tutto, in cui chi può, compra, chi non può,
anela a comprare.
Parte integrante di questa modernità iraniana, è
la droga che, non a caso, è oggetto consumistico
par excellence. Secondo le statistiche dell’Unodoc (United Nations office Drugs and Crime), in
Iran si conterebbero più di due milioni di consumatori di droga, ovvero il 2-3% dell’intera popolazione. Dichiarazioni ufficiose all’interno delle
istituzioni autoctone arrotondano la cifra a 4-5
milioni, indicando che il fenomeno coinvolge
anche le famiglie di chi ne fa uso, ovvero quasi
dieci milioni di persone. Durante le mie ricerche
etnografiche nel Paese, ho avuto modo di scomporre i dati numerici sulla droga. Qui non si tratta solo di una questione di quantità, ma di qualità. È bene sapere che il mercato della
Le leggi
droga in Iran è fecondo di prodotti di
ogni tipo. L’oppio è stato parte inteiraniane sono
grante della vita sociale, economica e
severissime:
culturale dei suoi abitanti per almeno
per
il traffico
gli ultimi centocinquant’anni. Nell’attraversare grandi cambiamenti stodi droga si può
rici, quali due rivoluzioni (1906-11 e
arrivare fino
1979), una guerra contro l’Iraq (1980alla pena
88), sanzioni internazionali dal 1979,
minacce di bombardamenti (da parte
di morte
statunitense e israeliana), gli iraniani
hanno anche cambiato gusti in fatto di droga.
Fra giovani e meno giovani è la metamfetamina
(shisheh, “vetro” in farsi) che spopola, segno che
nonostante le idiosincrasie ideologiche con gli
Stati Uniti, i due Paesi hanno gusti in comune
in fatto di “sballo”, e di come fare soldi. Con un
tasso di educazione universitaria fra i più alti
al mondo e livelli di sottoccupazione giovanile
altrettanto da record, non è un caso che si trovino in giro novelli Walter White e Jessy Pinkman, come nella serie americana Breaking Bad.
Giovani laureati con lavori malpagati e pressioni socio-economiche sempre più forti possono
considerare l’affare shisheh alquanto lucrativo,
anche fosse a breve termine. Nei giornali iraniani si trovano segnali in questo senso: piccoli
laboratori nelle periferie delle città; gruppi di
ragazzi che gestiscono giri di affari tanto grandi
quanto instabili. Le leggi iraniane in materia di
narcotraffico non sono misericordiose. Pesanti
pene di carcere e la pena di morte per recidività sono previste per chi viene colto in fragranza di reato. Infatti, diversamente da come viene
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riportato spesso dalle agenzie internazionali, la
pena di morte in Iran è soprattutto usata per reati di traffico di droga (e meno per reati di tipo
religioso, politico o altro). Il consumo di droga
non è indice solamente di un dato economico
e sociale del Paese: rivela processi culturali più
profondi. Ne è un esempio lampante l’uso di allucinogeni.
Durante una gita in montagna nell’Iran centrale, ho incontrato un ragazzo di nome Ayin.
Per molti iraniani, i deserti, le radure steppose
che ricoprono gran parte del paese, sono luoghi
dove rigenerarsi. Con il suo fare cordiale e rilassato mentre fuma erba - e solo erba, «perché
il tabacco nuoce gravemente alla salute», mi
dice -, Ayin rivela che una volta ogni due mesi
si reca con gli amici qui, o nei dintorni, per
«avere un’altra percezione della vita, del mondo». Dopo alcuni anni di ricerca etnografica
sul mondo della droga, non mi ci vuole molto a
decifrare il suo messaggio. Con due amiche ingeriscono ognuno secondo le proprie inclinazioni, da 1 a mezzo cartoncino di Lsd. Il cartoncino, mi mostra la ragazza, Arezoo, ha la mano
della dea hindu Shiva disegnata sopra, segno
di generosità, ma anche di un brand riconoscibile internazionalmente. La cultura dell’acido
in Iran è in piena espansione, tanto che le autorità, con la grande confusione mentale che
contraddistingue ogni autorità in ogni parte del
mondo, hanno dichiarato circa un anno fa, «la
crisi dell’Lsd». La verità è che, in quanto droghe
fondamentalmente spirituali, gli psichedelici
da un lato sopperiscono a quel vuoto che la religione - che nella Repubblica islamica è sinonimo di “Stato” e “politica” - non può colmare;
dall’altro, l’Lsd - ma anche il peyote, i “funghetti
magici”, ecc. - hanno una forte funzione terapeutica, e in questo caso fanno parte di una terapia del sé, auto-medicamento che è un altro
tratto peculiare della cultura iraniana.
La storia di Mahmud ne è la conferma. Dopo
esserci incontrati a una festa fuori città (tipico ritrovo per chi evade i controlli polizieschi),
spiegai a Mahmud del mio interesse nel mondo
della droga in Iran. Facendo un ghigno da chi la
sa lunga, Mahmud mi invita nella casa dove vive
con il padre. Il mio sesto senso mi suggeriva che
avrei trovato un giardino di piantine di shahduneh (cannabis), che è pianta indigena (e illegale)
del Paese. Invece Mahmud aveva una collezione
di cactus allucinogeni nel giardino. «San Pedro
e Peyote - dice sorridendo - entrambi usati nei
riti religiosi dagli indigeni andini e dei nativi
7 marzo 2015
americani in Texas e Messico». Dopo aver passato diversi anni fumando shisheh - un periodo
costellato da incidenti stradali, morti familiari e
di amici, nonché guai giudiziari -, Mahmud ha
deciso di dedicarsi alla coltivazione di allucinogeni. A suo dire, da quando usa solo quelli naturali, la sua vita ha un ritmo meno ansioso e lui è
in armonia con ciò che lo circonda. Mi conferma che sono molte le persone che lo contattano
per essere iniziati alla coltura dei cactus. «È una
terapia dell’anima», ripete.
In un recente articolo del New York Times, intitolato “The Trip Treatment”, Michael Pollan svela
le potenzialità, riconosciute oggi da parte della
comunità scientifica, degli allucinogeni. Le terapie a base di allucinogeni come l’Lsd possono
avere successo nel curare l’alcolismo, sindromi
ossessivo-compulsive, ansie e la paura della
morte nei pazienti terminali. Mahmud mi spiega che quando fumava shisheh non dormiva per
tre giorni di fila, mangiava poco o nulla, riusciva
a lavorare, avere una vita sessuale e uscire con
gli amici senza sentirsi stanco. Non a caso in Iran
la metamfetamina è usata da giovani e adulti in
contesti tanto divergenti quanto emblematici.
Nei saloni di bellezza femminili circolano storie
di ragazze che prendono shisheh per dimagrire;
nelle università gli studenti la fumano per aumentare le loro prestazioni di studio; per non
parlare degli uomini in carriera che ne fanno
uso per aumentare la libido. In altre parole, sesso, lavoro e apparenza sono le regole del gioco
sociale nel Paese, con livelli sempre crescenti di
stress, depressione e disturbi mentali.
La ricerca di una spiritualità alternativa attraverso gli allucinogeni è segno paradigmatico di
un tentativo di percepire il mondo diversamente; d’altro canto, la frenesia della società contemporanea, con la sua ossessione carrieristica
e il senso di inadeguatezza che inculca negli individui, genera una relazione compulsiva, che
si manifesta spesso nelle dipendenza dal gioco,
dal porno, dal cibo, da internet o dallo shopping.
In ciò, la dipendenza è epifenomeno di una modernità che transita e destabilizza gli individui.
Non a caso l’Iran è il primo Paese al mondo per
numero di iscritti a Narcotici anonimi (l’equivalente degli Alcolisti anonimi per le droghe), e fra
i Paesi all’avanguardia nella ricerca sulla dipendenza dal sesso e dal cibo.
Il governo iraniano è intervenuto con grande attivismo per curare le tossicodipendenze del Paese. Agli inizi del 2000, l’aumento vertiginoso del
prezzo dell’oppio - causato da un programma di
7 marzo 2015
eradicazione delle coltivazioni di papavero dei
talebani afghani - ha portato molti consumatori di oppio a passare all’eroina. Con alti tassi di
infezione da Hiv/Aids dovuti all’uso di siringhe
usate e condivise, la legittimità del potere del
clero e di tutto lo Stato era messa sotto accusa.
Fu così che nell’arco di pochi anni, e attraverso
la collaborazione dell’ufficio dell’Unodoc a Teheran - ufficio in cui l’Italia ha giocato per anni
un ruolo strategico -, la società civile iraniana
attivava alcuni fra i programmi di riduzione
del danno più progressisti al mondo. Fornendo siringhe pulite, profilattici e programmi di
somministrazione del metadone, anche nelle
prigioni e alle lavoratrici del sesso, la tossicodipendenza è oggi concepita come problema medico, e non semplicemente come un crimine.
Non è la prima volta che l’Iran si riscopre Paese
dai grandi paradossi. Gli ayatollah negli ultimi
decenni hanno introdotto assistenMahmud
za di Stato a coloro che decidono di
cambiare sesso, di fatto trasformancoltiva cactus
do il Paese in un uno dei poli di queallucinogeni,
sto genere di chirurgia. Altro esempio
gli stessi usati
è la formula del matrimonio temporaneo, per cui un uomo e una donna
dagli indigeni
possono contrarre matrimonio per
andini.
un tempo definito (che sia un’ora o
«È una terapia
quarant’anni), in cambio di un corrispettivo materiale (soldi, oro, ma
dell’anima»
anche un bouquet di fiori). Si tratta,
a detta di molti, di una legalizzazione della prostituzione. Infine, le autorità hanno introdotto
dal 2012 cliniche per le “dipendenze alcoliche”,
sostanza che è haram (proibita) nella religione
islamica.
L’uso della droga rende possibile una dimensione spirituale e individuale alternativa, per
quanto lacunosa e destrutturata. Nella celebre
frase di Marx, la religione è l’oppio dei popoli,
si omette maldestramente l’affermazione che
la precede: «La sofferenza religiosa è, allo stesso tempo, l’espressione della sofferenza reale e
una protesta contro la sofferenza reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il
cuore di un mondo senza cuore, e l’anima di
condizioni senza anima. Essa è l’oppio dei popoli». Nel diciannovesimo secolo, in assenza di
anti-dolorifici farmaceutici, la gente comune
vedeva nell’oppio non una droga di perdizione,
ma un rimedio, spesso vitale, al dolore. Forse
non in maniera diversa la droga materializza
l’anima di condizioni umane senza anima.
*Università di Oxford
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© Epa/Sedat Suna
SIRIA
damasco ignorata
Il capo dei non jihadisti, Khoja: «Assad e il Califfo sono
due facce della stessa medaglia. L’Onu ci ascolti»
di Umberto De Giovannangeli
«Ho ormai perso il conto delle volte in cui, di
fronte ai crimini di guerra e contro l’umanità
perpetrati dal regime di Bashar al-Assad, ci siamo rivolti alle Nazioni Unite, chiedendo di agire
per porre fine alla mattanza di civili, all’uso delle armi chimiche da parte del dittatore e del suo
clan». A parlare è Khaled Khoja, presidente della
Coalizione nazionale siriana (Cns), l’organismo
rappresentativo delle forze non jihadiste che si
oppongono al regime siriano. «Ci siamo sempre
scontrati con il veto posto in Consiglio di Sicurezza dai membri che sostengono il regime: la Russia in primo luogo. Hanno bloccato risoluzioni e
impedito di applicare in Siria ciò che hanno in54
vece deciso di fare in Libia ai tempi di Gheddafi. Certo, hanno inviato ispettori, nominato non
so più quanti “inviati speciali”, l’ultimo in ordine
di tempo Staffan de Mistura, ma il popolo siriano non guarda più all’Onu con speranza. Questa
speranza è seppellita sotto le macerie di un Paese lasciato in balìa di dittatori sanguinari e Califfi
criminali. Al segretario generale, Ban Ki-Moon,
ho ripetuto più volte - sottolinea Khoja - che Assad non è la soluzione, ma il problema».
Quattro anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti, oltre 5 milioni di profughi, il 30%
dei villaggi rasi al suolo, e ora l’avanzata dei tagliagole dello Stato islamico. La Siria è in mace7 marzo 2015
rie. Cosa resta della legalità internazionale della
quale l’Onu dovrebbe farsi garante?
Della legalità nulla, ma ciò che è ancor più grave
è che l’Onu ha accompagnato nella sostanziale
inerzia quattro anni di guerra che hanno provocato oltre 200mila morti, milioni di sfollati, decine di migliaia di persone scomparse nelle carceri
del regime. Gli appelli alle Nazioni Unite perché
intervenissero quanto meno per realizzare corridoi umanitari nelle città assediate dall’esercito di
Assad, sono puntualmente caduti nel vuoto, o si
sono infranti contro i veti reiterati in Consiglio di
Sicurezza da parte del grande protettore del dittatore di Damasco...
A chi si riferisce?
A Vladimir Putin. E, fuori dal Consiglio, all’Iran.
Senza il sostegno politico, militare e finanziario,
ricevuto da Mosca e Teheran, Assad sarebbe caduto da tempo. Il suo potere si regge per la gran
parte su questo sostegno che garantisce a lui e al
suo clan una sostanziale impunità.
Assad si erge a paladino della lotta contro lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
Al-Baghdadi è anche un “prodotto” di Assad.
Dopo tutti i crimini contro il popolo siriano, il regime aveva bisogno di un bagno di credibilità internazionale, di riconquistare punti. Per questo,
Assad ha favorito la crescita della presenza jihadista in Siria, per dimostrare al mondo che se lui
cade, a sostituirlo sarebbe un folle intenzionato a
trasformare la Siria in uno Stato della Jihad, retto dalla ferrea dittatura della “sharia”. Per questo,
Assad ha concentrato le sue forze nelle aree dove
opera l’Esercito libero siriano (legato alla Cns,
ndr), evitando scontri aperti con le milizie dell’Is.
Oggi il popolo siriano è ostaggio di due criminali:
Assad e al-Baghdadi. La Siria potrà davvero voltar
pagina solo quando si libererà di tutte e due.
Ma per costruire cosa?
Una Siria aperta, con la piena sovranità sul proprio territorio nazionale. Una Siria che non discrimina per appartenenza etnica o religiosa. Le
persone che agli inizi del 2011 scesero nelle strade sfidando i carri armati del regime, lo fecero
perché si sentivano in sintonia con quanto stava
accadendo in Tunisia o in Egitto. Si chiedevano
elezioni davvero libere, si invocavano libertà e
giustizia. La risposta fu un bagno di sangue. Il regime puntava alla militarizzazione della resistenza, perché l’unico linguaggio che conosce e pratica è quello della violenza. E l’Onu, al di là delle
condanne di facciata, ha coperto questa pratica,
assumendosi una responsabilità storica.
Ma l’Onu ha anche operato per lo smantellamento dell’arsenale chimico in mano all’esercito di Assad.
7 marzo 2015
È la classica foglia di fico che serve a coprire silenzi e inerzia. Ancora oggi le forze di Assad usano
gas nervini contro le località controllate dall’Els,
provocando centinaia di morti tra la popolazione
civile. Assad continua a essere rifornito di armi
dai suoi protettori russi e iraniani. Dei corridoi
umanitari da noi richiesti più volte, continuano a
non esserci traccia.
Ciò significa che all’orizzonte non esiste la possibilità, su cui sta lavorando l’inviato dell’Onu
per la Siria, Staffan de Mistura, di costituire un
tavolo negoziale?
Non abbiamo escluso questa possibilità, ma abbiamo ribadito che alla base di un negoziato di
riconciliazione deve esserci la Dichiarazione di
Ginevra, e dunque l’uscita di scena di Bashar
al-Assad. Con lui al potere, la Siria non sarà mai
pacificata. Insisto su questo punto: la proposta
avanzata da de Mistura deve garantire la fine di
tutte le uccisioni e le forme di terrorismo, compreso quello praticato dal regime di Assad. E questo perché il regime di Assad è la prima forma di
terrorismo in Siria e la minaccia del terrorismo
non abbandonerà la regione fino a quando il suo
sponsor principale, ovvero gli apparati di sicurezza del regime di Assad, verrà meno.
Quanto è forte il rischio che la Siria possa cadere
in mano alle milizie del Califfato?
Non sottovalutiamo questo pericolo, ed è per
questo che le nostre forze sul campo sono impegnate a contrastare l’avanzata dell’Isis. Ma questo
spauracchio a volte viene ingigantito dalla propaganda del regime per
spostare l’attenzione internazionale sui crimini che continuano a
essere commessi ad Aleppo, Homs,
nei sobborghi di Damasco dove
più forte è la resistenza. Assad e alBaghdadi sono le due facce di una
stessa medaglia: quella marchiata
dal sangue del popolo siriano. Il regime baathista ha svolto un ruolo
fondamentale nel sostenere le organizzazioni
terroristiche, Hezbollah compreso, che continua
a perpetrare crimini contro il popolo siriano. Il
regime siriano ha anche favorito la crescita delle
organizzazioni terroristiche, evitando di bombardare i campi di addestramento usati dai gruppi
jihadisti e insistendo invece a colpire le postazioni dell’Els”.
Cosa si sente di chiedere oggi all’Europa?
Il coraggio di una scelta: tra i tagliagole dell’Isis e
gli squadroni della morte di Assad, c’è chi si batte
per una Siria democratica, pluralista. All’Europa
non chiediamo soldati ma di metterci in condizione di vincere questa battaglia di libertà.
Senza il sostegno
di Mosca
e Teheran,
il regime siriano
sarebbe caduto
da tempo
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GRAPHIC JOURNALISM
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tratti di corruzione
«L’Occidente sa, ma quando fa comodo chiude
un occhio». Parla Dotun Oloko, l’uomo che denuncia
i traffici illegali in Nigeria. Rischiando la vita
di Giacomo Zandonini
tavole di Claudia Giuliani
Intricata come i mille rivoli del Delta del Niger. E inquinata
da milioni di barili di petrolio, come la sua foce. La politica
nigeriana è, come la definisce The Economist, un «caos oleoso»: conflitti locali, concessioni incontrollate per l’estrazione del greggio, dinastie politiche in lotta e pesanti ingerenze occidentali. Alla vigilia delle elezioni presidenziali
del 28 marzo la casa editrice Round Robin dà alle stampe
un graphic novel su uno dei più grossi casi di corruzione
degli ultimi anni. E sulle relazioni fra lo Stato più popoloso d’Africa e un’Europa affamata di energia. Al centro, un
fondo di investimenti occidentale (il private equity di Emerging capital partners con sede a New York), utilizzato dalla
Banca europea degli investimenti e dal dipartimento per
la Cooperazione internazionale del Regno Unito per contribuire allo sviluppo d’impresa in Nigeria. L’imprenditore
nigeriano Dotun Oloko, però, scopre che James Ibori, governatore dello Stato del Delta, usa il fondo per riciclare i
proventi di attività illegali. La storia di Oloko è diventata un
fumetto grazie all’associazione Re:Common e alla disegnatrice Claudia Giuliani. L’eroe di Soldi sporchi. Corruzione,
riciclaggio e abuso di potere fra Europa e Delta del Niger,
racconta a Left come è inciampato in questa vicenda, rischiando la vita.
Il caso di corruzione legato a Emerging capital partners le
ha cambiato la vita. Com’è iniziato tutto?
Era il 2006 e vivevo in Nigeria. Indagavo sulla criminalità
economica e finanziaria per la commissione anti corruzione
del governo. Uno dei casi in esame era quello di James Ibori,
politico potente quanto corrotto, originario come me della
zona del Delta. Durante il processo a carico di Ibori, emerse
che un fondo di private equity statunitense aveva investito in
società a lui legate. Decisi di scavare e scoprii che c’erano di
mezzo fondi della cooperazione internazionale americana e
inglese, che confluivano nello stesso fondo usato per ripulire
il denaro di Ibori. Era così evidente che pensai: quando i governi occidentali sapranno, sicuramente faranno qualcosa.
Così non è stato...
Ho segnalato la questione a governi e istituzioni europee.
Però ho capito che non è solo una questione di élites africane corrotte, ma anche di chi le sostiente in Occidente. L’Occidente sa, ma quando fa comodo chiude un occhio. Infatti,
7 marzo 2015
invece di indagare sulle transazioni, hanno indagato su di
me. Hanno rivelato la mia identità al private equity, che l’ha
rivelata a società collegate a Ibori, costringendomi a scappare. Nulla è stato fatto per indagare sulle mie segnalazioni.
Solo dopo alcuni anni l’ufficio Antifrode dell’Ue mi disse che
non c’era interesse nel caso, perché non risultavano perdite
di fondi comunitari.
Quando si è trasferito nel Regno Unito ha continuato a seguire il caso?
Certo. Nel frattempo Ibori era stato processato e condannato a Londra per riciclaggio di denaro. La polizia e la procura
londinese avevano messo in evidenza i suoi legami con le
compagnie di Ecp e stavano cercando di bloccarne i fondi.
Ma il dipartimento inglese continuava a negare un suo coinvolgimento e anzi manteneva investimenti in fondi evidentemente legati alla corruzione.
Com’è cambiata la sua vita?
Sospettavo che la mia identità fosse stata rivelata, anche
se non ne avevo le prove. Persone legate a Ibori mi stavano cercando. Grazie al supporto di organizzazioni come
Re:Common e Cornerhouse ho scoperto che il mio dossier
era stato passato dal dipartimento per la Cooperazione internazionale a Ecp. Non sono potuto tornare in Nigeria. Mia
moglie e i miei figli erano sotto controllo e ancora oggi viviamo guardandoci le spalle. Aspetto il momento in cui Ibori e i
suoi sodali si vendicheranno.
Ma il suo impegno non è diminuito. Per cosa si batte?
Grazie a questa esperienza ho scoperto il caso dell’impianto
OPL 245, che vede coinvolte compagnie internazionali come
Eni e Shell. Hanno comprato licenze per lo sfruttamento delle piattaforme petrolifere da persone che le avevano acquisite illegalmente, cosa che avrebbero dovuto sapere. Abbiamo
presentato un esposto alle autorità italiane nel 2014 e già alcuni fondi sono stati bloccati.
Che ruolo ha il petrolio nelle elezioni presidenziali?
La campagna elettorale è polarizzata, tra l’attuale presidente corrotto, Goodluck Jonathan, e un noto politico anti corruzione, Muhammadu Buhari. Se vincerà il secondo molte
compagnie saranno chiamate a rispondere. Chi usa la corruzione per fare profitto sulla pelle dei nigeriani e dei contribuenti europei non potrà più contare sul “business as usual”.
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GRAPHIC JOURNALISM
queste tre tavole sono estratte
dal graphic novel soldi sporchi
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CULTURA
Roma capitale
della street art
Jam session di diciotto writers a Roma
il 9 marzo. A partire dalle 12 prende
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vita Big City Life, il progetto di arte di
strada a Tor Marancia, grazie agli abitanti del lotto 1. Fra gli street artist che
partecipano all’evento ci sono nomi
importanti come il francese Seth (autore dell’opera qui riprodotta). Ma
la cosa più interessante sarà vedere
come si dipana il rapporto tra gli artisti e le persone a cui dipingono case
e palazzi. Si aggiunge così un nuovo
capitolo alla storia d’amore fra la Capitale e i writers di tutto il mondo.
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© ANSA/AP Photo/Joerg Sarbach
il personaggio
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pillola
libera tutti
La molecola di Carl Djerassi ha prodotto la più
grande rivoluzione del XX secolo. Rompendo
ogni vincolo biologico tra sesso e riproduzione,
ha permesso a tutti di realizzare la propria sessualità
di Pietro Greco
Il 30 gennaio scorso, nella sua casa di San Francisco, negli Stati Uniti, all’età di 91 anni, è morto
Carl Djerassi. Professore emerito dell’università di
Stanford, chimico valente, amava la scrittura e il teatro, ma conosciuto al grande pubblico soprattutto come il “padre della pillola”. E, di conseguenza,
come lo scienziato che ha contribuito in maniera
decisiva alla più grande rivoluzione del XX secolo,
la rivoluzione sessuale.
Di origine ebraiche, Carl Djerassi era nato a Vienna
il 29 ottobre 1923. Suo padre, Samuel, era un dermatologo, specialista di malattie sessuali. La madre,
Alice Friedmann, era medico e dentista. Il ragazzo
fu costretto a lasciare l’Austria nel 1938, quando
Adolf Hitler impose l’Anschluss: l’annessione. E
con essa le leggi razziali. Insieme con la madre, Carl
7 marzo 2015
raggiunse gli Stati Uniti, dove, nell’anno 1945,
conseguì il PhD in chimica presso l’Università del
Wisconsin. Iniziò poi a lavorare con la Ciba nel
New Jersey. Quattro anni dopo si trasferì presso
un’altra azienda, la Syntex, come direttore associato per la ricerca medica nei laboratori di Città
del Messico. E proprio nella capitale messicana
mise a punto quella che il settimanale The Economist ha definito “l’invenzione del secolo”. In
realtà, i primi lavori a Città del Messico riguardano la sintesi del cortisone. Ma ben presto, con i
suoi collaboratori, Carl Djerassi sintetizza il norethisterone, un progestinico che, insieme all’etinilestradiolo, è in grado di diminuire fin quasi ad
annullare la fertilità femminile in maniera reversibile.
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il personaggio
È il 1951 e l’austriaco ha messo a punto il primo
contraccettivo orale. In realtà occorre del tempo
prima che la molecola messa a punto da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and
George Rosengkranz, diventi “la pillola”. Verrà sperimentata clinicamente nel 1954 a Puerto Rico dai
medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory
Pincus. Occorre attendere il 1957 perché la Food
and Drug Administration autorizzi la vendita del
nuovo farmaco per scopi limitati e poi, nel 1960,
come anticoncezionale con il nome di Enovid.
È solo a partire da questa data che la pillola inizia a
essere distribuita negli Stati Uniti e in tutto il mondo, con effetti culturali e sociali molteplici e senza
precedenti: sui costumi sessuali, sulla emancipazione femminile, sul controllo delle nascite. E già
perché la combined oral contraceptive pill (Cocp)
di Djerassi, più semplicemente “la pillola”, se assunta regolarmente da una donna - come spiega
Carlo Flamigni in un suo libro, Il controllo della
fertilità - ne inibisce l’ovulazione; modifica il muco
cervicale, rendendolo ostile alla risalita dei nemaspermi; induce mutamenti endometriali rendendo
più difficile l’impianto dell’embrione; altera il trasporto nelle tube dell’ovocita e dell’embrione. In
pratica riduce drasticamente la fertilità della donna
con diversi meccanismi indipendenti, il che rende
“la pillola” un contraccettivo molto sicuro, molto
più di ogni altro sistema usato in precedenza. Inoltre costa poco, è facile da assumere ed è sganciata
dal rapporto sessuale.
È proprio quanto molte donne si aspettano, in
un periodo, gli anni 60 del secolo scorso, in cui le
società occidentali si accingono a profonde trasformazioni negli stili di vita e nella domanda di
nuovi diritti di cittadinanza. È per tutto questo che
la Cocp ha un immediato e clamoroso successo e
diventa “la pillola”: nel 1961 negli Usa la assumono
già 400.000 donne; che salgono 1,2 milioni nel 1962
e a oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo
la assumono oltre 100 milioni di donne.
In realtà Carl Djerassi e molti degli scienziati che
hanno contribuito alla sintesi della molecola e
poi ai test clinici, guardano alla pillola come a uno
strumento per il controllo delle nascite. Da molto
tempo è attivo negli Stati Uniti un movimento decisamente preoccupato per la crescita della popolazione mondiale. Molti temono quella che definiscono, senza mezzi termini, “the population bomb”
: una crescita demografica incontrollata che porterà al rapido esaurimento delle risorse sul pianeta.
Una bomba che è già causa, pensano, di povertà
e di miseria. E si danno da fare per disinnescarla,
questa bomba. Tra i più attivi ci sono i membri
dell’International Planned Parenthood Federation,
presieduta da una signora molto attiva: Margaret
64
Higgins Sanger. Ed ecco cosa scrive Margaret
Sanger alla biologa Katharine Dexter McCormick: «Penso che nei prossimi venticinque anni
il mondo o almeno la nostra civiltà dipenderanno da un contraccettivo semplice, economico e
sicuro utilizzabile nei quartieri più provati dalla
povertà, nella giungla, dalle persone più ignoranti».
Ecco, la pillola di Djerassi - come ha ricordato
Elaine Tyler May in un libro del 2011: America
and the Pill: A History of Promise, Peril, and Liberation - risponde esattamente a questa domanda presente nella società americana: il controllo
delle nascite. La pillola corrisponde a pieno a
queste aspettative. Contribuendo a un netto calo
della natalità. In Europa, per esempio, il numero
di figli per donna nel 1960 è di 2,6. Quarant’anni
dopo è sceso a 1,5. Non è stata certo solo la molecola di Djerassi ha determinare questo cambiamento demografico, ma certo “la pillola” ha dato
il suo contributo. Certo, né Djerassi né gli altri
scienziati e medici avrebbero mai pensato che
la pillola sarebbe diventata un fattore importante di emancipazione femminile. Ben presto - e
anche superando una certa diffidenza dei movimenti femministi - la pillola si rivela, infatti, un
fattore di liberazione. Un duplice fattore di liberazione. Un fattore di liberazione e di auto-determinazione della donna. Per la prima volta nella
storia dell’umanità, le donne possono controllare in maniera piena la propria sessualità e la propria disponibilità alla riproduzione. Ne deriva,
come conseguenza, non solo una maternità più
responsabile - i figli sono voluti, e non giungono
indesiderati - ma la possibilità di scegliere cosa
fare della propria vita, di impegnarsi nel lavoro,
nella carriera, nella società. la pillola contribuisce ad aumentare gli spazi di libertà delle donne
e, di conseguenza, contribuisce ad aumentare la
consapevolezza dei propri diritti. La molecola di
Djerasssi accompagna, così, la più grande rivoluzione del XX secolo, quella femminile, appunto.
Ebbe un successo
clamoroso. Nel 1961, negli
Usa, la assumono già in
400mila; che salgono a 1,2
milioni nel 1962 e a oltre
3,5 milioni nel 1963. Oggi,
sono oltre 100 milioni
le donne che ne fanno uso
Non c’è determinismo, nelle faccende umane. Possiamo dire, tuttavia, che la pillola è un co-fattore di
liberazione. E questa sua caratteristica emerge con
buona evidenza nell’altra rivoluzione che accompagna quella demografica e quella femminile e, in
parte almeno, si sovrappone loro: la rivoluzione
sessuale. La molecola di Djerassi, infatti, consente di disaccoppiare completamente il sesso dalla
riproduzione. E consente, così, di rendere attuale
quella tensione potenziale che già animava, negli
anni 60 del secolo scorso, le società occidentale.
La domanda, non solo femminile ma soprattutto
femminile, di vivere con gioia e in libertà la propria
sessualità, rompendo i vincoli biologici.
Molti sono stati i co-fattori che hanno contribuito
alla rivoluzione sessuale. Ma sarebbe un errore trascurare il ruolo, per molti versi decisivo, del contraccettivo semplice, economico e sicuro messo a
punto nel lontano 1951 da Carl Djerassi.
Mai il chimico si sarebbe aspettato che quella sua
molecola avrebbe avuto così vasti e clamorosi ef-
fetti. Lui non amava essere definito “il padre della
pillola”. Ma la pillola ha cambiato anche lui. Lo ha
costretto a ripensare la scienza e il ruolo sociale
degli scienziati. Lo ha in qualche modo indotto a
dedicarsi non solo alla chimica e alla carriera universitaria, ma anche alle lettere e al teatro. Giudicati strumenti essenziali per restituire gli scienziati e la scienza stessa al mondo. Non è un caso se
in una delle sue numerose opere, An Immaculate
Misconception, analizza tutti gli effetti sociali della contraccezione orale, lui che l’aveva presa in
considerazione solo come antitodo alla “population bomb”. In un altro dei suoi lavori, per così dire
umanistici, è il caso di Oxygen, scritto con il collega
chimico Roald Hoffmann, Djerassi propone il teatro come una forma avvincente di vera e propria
didattica della scienza. Non capita tutti i giorni che
un grande scienziato diventi anche un grande scrittore e uomo di teatro. Né capita tutti i giorni che
un rivoluzionario rappresenti in teatro la sua rivoluzione. Nella prefazione della sua autobiografia,
del 1992, Carl Djerassi scrive: «Gli scienziati non
devono essere necessariamente degli specialisti
in senso stretto, che comunicano in un linguaggio
incomprensibile nel chiuso dei loro laboratori alle
prese con soggetti lontani dalle preoccupazioni
quotidiane». Al contrario, gli scienziati «possono
mostrare curiosità a tutto campo, ed essere ricercatori e pensatori in ogni dimensione intellettuale
e, nel medesimo tempo, essere coinvolti sui temi
sociali più caldi».
© Getty Images/ Fox Photos/H. William Tetlow
Non è una molecola taumaturgica, naturalmente,
quella di Djerassi. Non basta assumere la pillola per
liberare la donna. Per molti anni le donne occidentali l’hanno presa di nascosto, per tema dello stigma che accompagna chi tra loro rivendica esplicitamente il diritto a una piena e consapevole e
libera sessualità. E tuttora in molti Paesi sparsi per
il mondo le donne assumono la pillola, ma restano
in una condizione di subordinazione.
65
Ribelli alla natura
Embrioni ottenuti per partenogenesi. O da tre Dna.
Gameti prodotti in laboratorio. Boncinelli parla
dei nuovi orizzonti della fecondazione assistita
di Simona Maggiorelli
«L’invenzione della pillola anticoncezionale ha avuto un impatto enorme. E non è certo finita. Anzi, il
bello deve ancora venire... Oggi si parla di gameti
e di riproduzione, con l’apertura di orizzonti prima inimmaginabili» ha scritto il genetista Edoardo
Boncinelli sul Corsera commentando la notizia del
via libera, a larga maggioranza, da parte Parlamento
inglese a un tipo di fecondazione assistita che permette di evitare la trasmissione di malattie genetiche gravi da madre a figlio. Una tecnica ideata da
un gruppo di scienziati dell’Università di Newcastle,
che prevede la sostituzione del Dna mitocondriale
difettoso della madre con quello di una donatrice
sana. Ma questa non è la sua innovazione più interessante in questo ambito».
Professor Boncinelli, nuove tecniche di fecondazione in vitro fanno a meno dell’intervento dello
spermatozoo. Viene stimolato l’ovocita per provocare una partenogenesi. Di che si tratta?
In alcune specie la partenogenesi è un fenomeno
naturale. Non ha bisogno dell’intervento dei cromosomi maschili per dar vita a nuovo organismo.
Negli animali superiori, compreso l’uomo, di solito non avviene. O meglio non avviene spontaneamente. Ma si può attivare la cellula uovo. Nei conigli, per esempio, è piuttosto comune, s’inietta una
gocciolina di iodio e l’uovo comincia a svilupparsi
anche senza l’intervento del gamete maschile. In linea teorica nel caso dell’essere umano è possibilissimo ottenere tutto questo. In linea teorica, ripeto,
perché poi il processo viene fermato. Per esempio,
si può stimolare la cellula uovo attraverso degli ioni
calcio. In questo caso non c’è traccia di cromosomi
maschili, fa tutto la parte femminile. E comunque si
ottiene un organismo completo. O per meglio dire si
otterrebbe visto che non è ancora mai stato portato
a termine.
66
Si possono anche produrre gameti maschili e femminili in laboratorio?
Questa è l’ultima notizia. Anche se per noi scienziati
non è del tutto nuova, perché se ne era parlato nella comunità scientifica. Le cellule staminali, come
sappiamo, possono produrre vari tipi di tessuti e anche i gameti. Certo, vanno indirizzate in questa direzione. Un domani potremmo ottenere da una parte
cellule uovo e dall’altra spermatozoi, semplicemente partendo da cellule staminali. Il che porta un vantaggio in medicina: si potrebbe sapere esattamente
che patrimonio genetico hanno perché discendono
da una cellula specifica.
Se si aggiunge anche la fecondazione da tre Dna
diversi...
Il quadro si fa piuttosto articolato. Con la differenza
che quest’ultima strada è già pienamente realizzabile. Ed è abbastanza facile. Con questa tecnica si aggira la minaccia di avere un bambino con malattie
gravi di tipo mitocondriale perché la donatrice ha i
mitocondri sani.
La medicina più avanzata “libera” la sessualità
umana dalla procreazione?
Sì, sempre di più. Ma permette anche di poter avere
un figlio sano. Naturalmente se si ricorre alla tecnica
come puro gioco, non ha molto senso, ma se avere
un figlio per una coppia è sentito come una realizzazione e poi si è in grado di dargli affetto, sostegno,
istruzione ecc. questo è sicuramente un vantaggio
per il neonato, perché lo libera da difetti genetici per
i quali ad oggi non c’è una cura.
Parlando di tecniche che sono già a disposizione
di tutti, dovremmo anche citare la diagnosi preimpianto: le ha dedicato ampio spazio nel libro Einaudi, Guarire con la genetica, uscito l’anno scorso
Certo, perché la diagnosi pre-impianto è la punta
di diamante di tutta la genetica moderna. In Italia
7 marzo 2015
Per la Chiesa l’embrione
è persona perché ha
cromosomi umani. Quindi
anche un bulbo di capello
è un essere umano
è proibita dalla legge, anche se poi si chiude un occhio e c’è chi l’ha utilizza.
Ci sono state sentenze di tribunali che hanno riconosciuto il diritto di coppie sterili ad accedere
a questa tecnica. Ma crudelmente è ancora vietata
dalla Legge 40 alle coppie fertili anche se portatrici
di malattie genetiche.
La questione non è stata chiarita del tutto, purtroppo. E in assenza di un quadro definito c’è chi in Italia
preferisce non usarla. Ma come scienziato dico che
la diagnosi pre-impianto offre degli enormi vantaggi
per la salute. Sarebbe assurdo rinunciarci.
Nel saggio Homo Faber, da poco uscito per Baldini
& Castoldi, parla dell’ingegneria genetica come di
una grande avventura umana. Ma nel nostro Paese
incontra la forte opposizione della Chiesa. Il Papa
dice che le donne devono fare più figli ma poi condanna la fecondazione assistita. Come si spiega?
Loro adducono tanti motivi, ma il fatto è che la
Chiesa è sessuofobica, vede di malocchio la donna e
la sessualità. E poi sostiene che queste tecniche non
siano naturali. Ma cosa c’è di naturale, per esempio,
in un’iniezione che introduce nei muscoli un ago di
ferro per far passare delle sostanze? Non per questo
si rinuncia a curarsi.
Il Papa si schiera in difesa dell’anima ma poi difende l’embrione come fosse sacro. Non c’è una sorta
di feticismo, una forma estrema di materialismo?
Lo è. Addirittura sostengono che l’embrione è persona in quanto ha i cromosomi umani. Questo vuol
dire che anche una cellula della lingua o un bulbo
di capello è un essere umano. Il che è inaccettabile.
Nei dibattiti lei ha detto: «Appena compare la parola “sacro” si smette di ragionare». Annunciando
di voler scrivere un libro contro il sacro. Fuor di
battuta lo farà?
Spero davvero di riuscire a farlo!
7 marzo 2015
La parola donna non c’È nella legge 40
Diagnosi pre impianto, nuove tecniche di fecondazione
assistita, utero “in affitto”, ricerca sulle staminali embrionali. Nei Paesi più avanzati le tecniche mediche vengono
in aiuto alle donne, permettendo ad avere figli liberi da
malattie genetiche oggi incurabili. Ma non solo. La pillola
Ru486 è un metodo sicuro, secondo l’Oms, di interrompere una gravidanza senza andare in sala operatoria, mentre
la pillola del giorno dopo, ovvero la contraccezione di
emergenza, in Inghilterra come in Francia è acquistabile
senza ricetta medica. Dalla pillola contraccettiva in poi,
sempre più, le donne hanno la possibilità di decidere se e
quando fare figli, ma soprattutto posso vivere la sessualità
in modo più profondo, libero, consapevole. Ma in Italia,
diversamente da gran parte d’Europa, queste conquiste
- come è noto - non hanno vita facile, a causa della forte ingerenza della Chiesa nelle decisioni politiche che riguardano la vita pubblica. Basta pensare ai divieti antiscientifici
e crudeli contenuti nella legge 40/2004. Aboliti, almeno
in parte, grazie al coraggioso ricorso ai tribunali da parte
di cittadini che da questa norma si sono visti negare
diritti fondamentali. Come ricostruiscono in un bel libro,
appassionato e incisivo, la sociologa Maria Mengarelli e
gli avvocati Maria Paola Costantini e Marilisa D’Amico.
Con il titolo Diritti traditi, la legge 40 cambiata dai cittadini
(L’Asino d’oro edizioni) questo volume punta il dito contro
la politica baciapile che ha sacrificato i diritti della persona
sull’altare della convenienze elettorali. Da questo incontro
fra interessi vaticani e del ceto politico italiano e cattolico,
infatti, è nata una legge che nega l’ideantità della donna.
E anche quella del medico. Non a caso, come fa notare
Marina Mengarelli queste due parole, donna e medico,
non compaiono nel testo di legge che preferisce parlare
astrattamente di “soggetti”.
s.m.
67
MEDIA
Il sesso delle m
Le serie tv come Sex and The
City e Girls hanno formato le
ultime generazioni di ragazze.
Ma Carrie è ormai un ricordo
di Giorgia Furlan
In principio fu Sex and The City. E fu
una vera e propria rivoluzione. C’erano solo New York, gli accessori fashion
e i locali altrettanto alla moda. Soprattutto c’era il sesso, raccontato per la
prima volta in tv in modo schietto e
diretto. È il 1998 e sul piccolo schermo, grazie alla serie lanciata da HBO,
i personaggi femminili assumono
un’altra dimensione: sono donne libere, emancipate e in carriera. Diventano reali, accattivanti, media friends
e, in fondo, non sono poi così diverse
da noi che stiamo a casa sedute sul
divano a guardarle. Le quattro protagoniste - Carrie, Miranda, Charlotte
e Samantha - lavorano, amano, sperimentano, piangono, si confidano,
si consolano. Tra mille peripezie mostrano cose che, alla fine degli anni
Novanta, evidentemente ancora non
erano tanto ovvie: essere single non
significa essere delle zitelle sfigate;
una donna può non saper cucinare,
lavare, pulire e stirare; parlare di autoerotismo, vibratori, ménage à trois
non è un tabù; fare sesso può essere
qualcosa che va al di là dell’amore romantico e, soprattutto: essere scaricate può essere un dramma, ma non è
mai una tragedia. «Benvenuti nell’era
68
dell’anti-innocenza: nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha relazioni da ricordare; facciamo colazione
alle sette e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare il più in fretta
possibile. Cupido ha preso il volo dal
condominio», è con queste parole che
Carrie Bradshaw, ci accoglie nella sua
scintillante Manhattan.
Nei primi anni Duemila Sex and The
City, con le sue morali antiromantiche
e le sue, altrettanto “ciniche” pillole
di saggezza, è diventato un manuale
di educazione sentimentale per le ragazze moderne e un galateo sessuale
anche per le generazioni successive.
Dopo il successo delle avventure di
Carrie & co i palinsesti hanno cominciato a popolarsi di serie tutte al femminile, meno fortunate e graffianti
dell’originale, ma sempre intenzionate a parlare con la stessa schiettezza di
cosa significa essere donne. Ci sono
stati Cashmere Mafia e Lipstik jungle,
dove le protagoniste, che qualcuno
definirebbe scabrosamente “con le
palle”, tentano di coniugare vita sentimentale e carriera senza rinunciare a
nulla; poi sono arrivati Mistress, Carrie’s diaries, il prequel che racconta la
7 marzo 2015
e millennial
vita della Bradshaw ventenne, e finalmente Girls. A quasi vent’anni dalla
messa in onda del primo episodio di
Sex and The City, le cose sono molto
cambiate. O meglio, sono le ragazze,
con le loro vite sentimentali, a essere
cambiate.
Nel 2012 con Girls, sempre prodotto
da HBO, irrompe sulla scena un’altra
generazione, quella delle millennials,
che vive l’emancipazione come un
dato scontato. Al centro della storia
sempre quattro amiche e sullo sfondo sempre New York, ma questa volta
non Manhattan, bensì Brooklyn, diventata nel frattempo dimora cool per
ogni hipster (ovvero ogni ventenne
narcisista e anarchico, bene educato
al punto da risultare decadente ndr)
giunto in città con velleità artistiche.
In Girls, a differenza di Sex and The
City, non c’è traccia di quell’identità
collettiva femminile che aveva lottato
per l’affermazione di uno stile di vita
diverso e manca totalmente il confronto fra identità maschile e femminile. La protagonista Hannah Horvath
- interpretata da Lena Dunham una
specie di enfant prodige che a soli 25
anni è sceneggiatrice, attrice, regista
della serie e scrittrice di culto - non
ha niente a che vedere con Carrie. È
goffa, in sovrappeso, concentrata su
se stessa, veste solo abiti vintage da
mercatino dell’usato, non frequenta
posti alla moda e il più delle volte la
vediamo bighellonare per casa sciatta
mentre mangia junk food in pigiama
o mentre balla in mutande per casa.
Ad Hannah e alle sue amiche capita
di incontrare dei “Mr. Big”, ma non li
trovano interessanti e li catalogano
immediatamente come non attraenti. I Mr. Big infatti sono il prodotto di
un’altra generazione, parlano un lin7 marzo 2015
guaggio diverso, e con “le ragazze” si
capiscono a fatica. Se per Carrie erano
scapoli d’oro, capaci di far innamorare anche la single più accanita, in Girls
diventano semplicemente degli sfigati
con un bel appartamento. L’educazione sentimentale di Hannah oscilla
tra continui dubbi e incertezze, tra
l’impegno e la fuga, tra l’amorale e il
bigotto. Si mostra un mondo fatto di
individualità e stranezze, irregolare
e non convenzionale anche quando
si parla di sesso e emozioni, al punto
che per le protagoniste, a differenza
di Carrie, è impossibile razionalizzare e trovare una qualche massima o
un qualsivoglia galateo amoroso a cui
aggrapparsi per definire la situazione
e sapere come agire. A guidare le millenials nell’intricato groviglio dei sentimenti è l’istinto del momento e, se
bisogna riconquistare il ragazzo che
in quell’istante si è convinte di amare, ogni remora o pudore si cancella
in un attimo. Tanto il tempo scorre
veloce e le cose si dimenticano in fretta. Tutto passa e allora chi se ne frega
se si manda un messaggio di troppo,
ci si trasforma in stalker o ci si rende
ridicole (vedi ad esempio Hannah che,
nel cuore della notte, corre sotto casa
di Adam vestita con un orrendo costume da coniglio).
In Girls le protagoniste sono costantemente in preda al caos, alla paura di
essere soli e di non essere più libere.
Come se le ragazze del nuovo millennio avessero studiato e imparato le regole sui volumi della Bradshaw e ora si
trovassero scisse tra la teoria e la pratica. Costrette a viversi giorno per giorno quello che accade, magari trovandosi a specificare «Non sono quel tipo
di ragazza!», che, non a caso, è anche il
titolo dell’ultimo libro della Dhunam.
69
LETTERATURA
A lezione
da Pinocchio
Da Foscolo a Collodi, da Bergson
agli azionisti. Antidogmatici, libertari,
controcorrente. Sono i maestri irregolari
riscoperti dalla collana Civitas
di Filippo La Porta
Sembra quasi un paradosso, diciamo
di aver bisogno di maestri, ma non
siamo disposti a riconoscere l’autorità di nessuno. Peraltro in democrazia,
in un mondo di uguali - nel Web uno
vale uno - qualsiasi autorità viene frantumata, non solo quella istituzionale,
legittimata dal privilegio, ma anche
quella intellettuale e morale. Né la crisi
dell’autorità implica rilancio della pubblica discussione e diffusione del senso
critico. Piuttosto porta alla sostituzione
dell’autorità con la competenza. Al posto dei maestri abbiamo gli specialisti,
in qualche giornale o canale tv. Ormai
anche per cucinare abbiamo bisogno
di qualche esperto, sancito come tale
dai media. Ma i “maestri” sono altro,
né la competenza può surrogare la saggezza. Solo che dipende da noi averli,
dipende da un nostro gesto di umiltà
e di apertura. In particolare nel nostro
Paese, privo di salde tradizioni morali e
senso civico, sarebbe utile rimeditare
la lezione di alcuni maestri, anche involontari, che pure appartengono alla
nostra storia. Le Edizioni di storia e
letteratura hanno ideato una splendida collana - “Civitas” - con il compito
di riscoprire e riproporre alcuni testi
autorevoli, diciamo di valore etico o
Illustrazione Antonio Pronostico
70
7 marzo 2015
sità non elimina mai una fondamentale fiducia nell’uomo, nella possibilità che la giustizia trionfi sulla forza.
Tutto il contrario dell’infame motto
andreottiano - che a pensar male degli altri ci si azzecca - e che ha ispirato
la storia delle nostre classi dirigenti.
Se dovessi indicare un solo maestro
del secolo scorso, avrei certamente
l’imbarazzo della scelta. Ma se dovessi limitarmi all’Italia, e in particolare
a qualcuno che aveva una spiccata
disposizione pedagogico-filosofica,
penserei a Guido Calogero, estensore del manifesto liberalsocialista nel
1940, studioso insigne e intellettuale
impegnato in grandi battaglie civili.
civile, di autori degli ultimi due secoli. Una piccola biblioteca colorata di
maestri. Apparentemente niente lega
Collodi, Foscolo, Bergson, o Cattaneo
allo scrittore yiddish Peretz, Croce
a Brandeis (un classico del pensiero
americano antitrust). Eppure in questi libretti, eterogenei e appartenenti
a epoche e contesti diversissimi, circola un pensiero dialogico, irregolare,
antidogmatico. E forse nel progetto
generale della collana possiamo individuare una qualche eredità del pensiero
azionista, quel pensiero eretico che fu
sconfitto nel dopoguerra e che, pur con
i suoi limiti moralistici, avrebbe potuto
creare un’altra storia d’Italia (forse una
sua rivincita postuma si può individuare nelle vittorie sul divorzio e sull’aborto, mentre La Repubblica di Scalfari ne
costituisce un risarcimento postumo e
un parziale tradimento).
Uno dei libretti più belli è proprio
un discorso stupendo alla Costituente di Piero Calamandrei, il quale pure
fece pubblicare nel 1947 la Costituzione per il Mondo di Borgese, utopia
concreta di una federazione mondiale. C’è un’attitudine comune a tutti
questi autori: il senso della comples7 marzo 2015
Un autore tra l’altro vicino allo spirito e alla cultura che ispira la collana
Civitas. Da poco è uscita una selezione degli articoli che scriveva per una
rubrica sul Mondo nei primi anni 60
(Quaderno laico. Un’antologia, a cura
di Guido Vitiello, Liberlibri), un insegnamento di filosofia che parte dal
quotidiano. I dialoghi di Socrate immessi dentro la cronaca. Ne segnalo
solo due. La critica al famoso saggio
crociano Non possiamo non dirci cristiani, sbagliato perfino nel titolo:
«quando mai un filosofo può parlare
al plurale?» e fuorviante nel contenuto (l’etica evangelica è in buona parte
già contenuta in quella socratica del
dialogo). E poi una riflessione che interessa direttamente il nostro tema:
«il vero maestro non cela e non impone nulla». Già il vero maestro non impone mai il suo punto di vista come
l’unica verità (vietandosi di imparare
lui qualcosa dall’altro), né si arroga
il diritto di nascondere qualcosa per
non turbare le coscienze negando
così la possibilità di scegliere. A Calogero sarebbe piaciuta la serie dei cartoni animati South Park, la migliore
applicazione dell’idea di Hannah
Arendt che il “male” nasce non da
profondità abissali ma dalla stupidità, dal non mettersi dal punto di vista
degli altri. Questo almeno dobbiamo
chiedere oggi a un maestro (sia egli
Amartya Sen o Bob Dylan, Alice Munro o Woody Allen): mostrarci la nostra
stupidità, anticamera del male.
A Libri Come maestri dal vivo:
De Mauro, Camilleri e gli altri
Della collana Civitas pubblicata
dalle Edizioni di storia e letteratura si parlerà il 15 marzo alle 12 a
Libri Come. E il tema innerva tutta l’edizione 2015 della rassegna
in programma dal 12 al 15 marzo
all’Auditorium di Roma. Proprio il
direttore di Radio3 e ideatore del
Festival Marino Sinibaldi seguendo questo filo rosso intervisterà
studiosi come Tullio De Mauro
e scrittori noir come Andrea Camilleri, ma ci saranno anche Luis
Sepulveda, James Ellroy e Emmanuel Carrère (in dialogo con Nicola Lagioia). Molto spazio hanno
anche originali voci femminili
come Jhumpa Lahiri e Zadie
Smith e Melania Mazzucco che
parlerà del suo Museo del mondo
(Einaudi), in cui raccoglie affascinanti articoli di arte. E ancora
il 15 marzo Point Sur. Letterature
dall’America Latina con Ilide
Carmignani e Vittorio Giacopini,
che il 14 marzo alle 20, presenta
il suo nuovo romanzo La mappa, edito da Il Saggiatore. Spazio
anche a nuovi talenti fra poesia e
critica: il poeta Paolo Febbraro a
Libri Come parla del suo Leggere
Seamus Heaney (Fazi) mentre Andrea Caterini presenta Giordano
(Fazi) in dialogo con Paolo Fallai
del Corsera che il 12 marzo, con le
Edizioni e/o, continua ad indagare il mistero Elena Ferrante dopo
lo speciale di Terzapagina su Raiscuola, smascherando le interviste bufala alla scrittrice apparse di
recente. Ma da segnalare è anche
l’iniziativa di @Stoleggendo. Se
l’editoria si affida sempre più ai
social media per arrivare ai lettori,
il giornalista Francesco Musolino
su twitter coniuga informazione di qualità e immediatezza.
Insieme a lui parlano del successo
di @Stoleggendo Piero Boitani,
Annarita Briganti, Florinda Fiamma, Antonella Lattanzi, Stefano
Petrocchi e molti altri.
71
© Alessio Costantini
MUSICA
A tempo di libertà
«La mia gente ha la musica nel
dna. Ma non ne sa l’importanza,
perché è costretta a sopravvivere». Parla il maestro Jovica Jovic
di Tiziana Barillà
72
«La musica tzigana non si studia sugli spartiti, ce
l’hai dentro fin dalla nascita, la ascolti in casa fin
da piccolo e la impari a orecchio, sapendo che poi
la tramanderai ai tuoi figli. È una musica che senti
con il cuore e con l’anima. Prima piangi tu che la
suoni, poi gli altri che la ascoltano. E questo ce l’ha
lasciato Auschwitz». Sono le parole del maestro Jovica Jovic, fisarmonicista rom nato 61 anni fa a Mali
Mokri Lug, vicino Belgrado, in Serbia. Da anni Jovic
insegna la fisarmonica cromatica con il suo particolare metodo: a orecchio, senza teoria, basandosi
sulla memoria visiva e sulla capacità d’ascolto. Il 14
marzo sarà al Nuovo Cinema Aquila per concludere con le sue note il “Roma Sinti Fest”, un evento
7 marzo 2015
Roma Sinti Fest
Il 14 marzo, dalle 15 alle 24, il nuovo Cinema Aquila di Roma
ospiterà la prima edizione del Sinti Roma Fest, organizzato
da ZaLab, il collettivo di fim maker e operatori sociali che
promuove integrazione, multiculturalità e coscienza civile
attraverso la produzione e distribuzione di film e documentari sociali.
Nel pomeriggio, alla presenza degli autori, saranno proiettati
film e documentari tra cui Container 158 di Stefano Liberti ed
Enrico Parenti, FuoriCampo di Sergio Panariello, Lo sterminio dei
Popoli Zingari di Andrea Segre, Rom Tour di Silvio Soldini e Giorgio Garini, Terrapromessa di Marco Leombruno e Luca Romano.
Non solo cinema, ma anche musica con i videoclip di Mannarino e Nuove Tribù Zulu girati
nei campi o in collaborazione con musicisti rom.
Nel foyer si svolgerà invece il dibattito “oltre i campi attrezzati - buone pratiche per il superamento della segregazione abitativa”, a cui parteciperanno il sindaco di Alghero Mario
Bruno, il consigliere del Comune di Roma Riccardo Magi, Manuele Hadzovic, abitante nel
campo di Alghero, gli attivisti Sabrina Milanovic, Nedzad Husovic e Roberto Mazzoli, ricercatore sociale. A moderare Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 Luglio.
L’iniziativa è stata realizzata con la collaborazione di Associazione 21 luglio, Amnesty Italia,
MyMovies, OsservAzione, Asgi, Arci Roma, Left, Redattore sociale, Radio città aperta, Alice
nella città, Popìca, Sàr San, il patrocinio di Consiglio d’Europa - ufficio di Venezia, Comune di Roma, Biblioteche di Roma e il sostegno di Open Society Foundations, Premio Lux e
Banca Etica.
E sostiene la petizione “Oltre I Mega-Campi” per il superamento della politica ghettizzante
e dei Campi attrezzati.
www.zalab.org/romasintifest
dedicato alla cultura, alla storia e alla condizione
sociale di rom, sinti e caminanti. Un festival che arriva nella Capitale all’indomani delle esternazioni
dell’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno in
tv: «I rom sono la feccia della società».
Maestro Jovic, ha iniziato a suonare da bambino.
E proviene da una famiglia di musicisti, che ricordo ha della sua infanzia?
Ricordi belli e brutti, come tutti del resto. Belli per
quanto riguarda la musica e non basterebbe un
libro per raccontarli. Brutti per le difficoltà, i miei
erano poveri, eravamo cinque figli, ma ce l’abbiamo sempre fatta onestamente e questo mi rende
orgoglioso. Ho iniziato a suonare fin da piccolo,
quando avevo 6-7 anni, ricordo che mio padre
vendette una mucca per comprarmi la mia prima
fisa, e la gioia provata non me la dimenticherò mai.
Tutti in famiglia suonavano, mio nonno, lo racconto sempre, è morto a 106 anni suonando il violino.
Ricorda la prima nota che ha suonato?
Non è possibile ricordare la prima nota... noi rom
suoniamo a orecchio!
7 marzo 2015
E viaggiate tanto anche. A 18 anni ha lasciato la
Serbia ed è andato in giro per l’Europa, giusto?
Sì, ho girato e suonato nei locali di Austria, Germania, Francia, Belgio, Svizzera, Ungheria, Polonia…
Fino ad arrivare in Italia, da cui vado e vengo da 30
anni, e dove ormai vivo.
Come tratta il suo popolo il nostro Paese?
Malissimo. Siamo gli ultimi degli ultimi, considerati peggio degli animali. E non vedo miglioramenti: impossibile avere i documenti, lavorare e vivere
onestamente. Non voglio giustificare chi ruba, ma
penso a quelli delle cooperative... tutti più o meno,
e non solo a Roma, sono anni che rubano i fondi
che avrebbero potuto aiutare il mio popolo ad avere una vita migliore.
Qual è l’importanza della musica e dell’arte per la
sua cultura e la sua gente?
La mia gente ha la musica nel dna, forti tradizioni,
racconti tramandati oralmente. Ma non ne percepisce l’importanza perché sono costretti a sopravvivere e hanno altro a cui pensare. Perciò sono felice se posso contribuire a diffondere i nostri valori.
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LIBRI
Civati e
la citazione
radical chic
Il ritorno inesorabile del trasformista.
Analizzato nel libro
del politico Pd
Filippo La Porta
D
el libro di Giuseppe Civati Il
trasformista (Indiana) non amo
l’uso decorativo della letteratura. (Possibile che occorra appellarsi a Musil e
Borges, autori fondamentali ma estranei a qualsiasi
“narrazione” anche vagamente progressista, per dire
che ci sono sempre altri
modi possibili di agire?),
non amo gli ammiccamenti
e le citazioni chic. Né contrapporrei, come fa Bartezzaghi nella prefazione, passione e ragione. La sinistra
riformista, benché ispirata
da una visione razionale,
deve anche saper riscaldare
i cuori attraverso miti “buoni” (Kennedy riuscì a rendere affascinante una cosa
noiosa come la democrazia). Però il libro individua
un problema reale: l’inesorabile riproporsi della figura del trasformista nella nostra politica. Che deriva da
una tradizione retorica tutta italiana: l’uso deresponsabilizzato della parola.
All’inizio di Nell’intimità di
Kureishi il protagonista, che
si accinge a lasciare la moglie e i due figli, scrive una
lettera, sapendo di dover
74
fare attenzione alle parole
che usa. Per la ragione che
«le parole sono azioni e fanno accadere le cose» e una
volta uscite non possiamo
più ricacciarle dentro. Ma
gli italiani ne sono specialisti! L’abitudine a smentire,
la civetteria del contraddirsi platealmente (strizzando l’occhio), l’invito a non
prendere mai nulla alla lettera, rende tutto reversibile,
revocabile e dunque destituito di senso. Il celebre
«stai sereno» di Renzi, poi
contraddetto, tendenzialmente vanifica ogni patto,
dissolve quel giuramento
che fonda la convivenza
civile. Solo che la replica
a tutto questo non è una
conferma ideologica identitaria. Invece è accettare entro certi limiti l’incoerenza,
lo scarto (“fisiologico”) tra
principi e comportamento,
però non assumendo euforicamente come obiettivo
l’incoerenza. Infine: ogni
politico vuole soprattutto
“vincere”, e così tende a manipolare le parole a tale fine.
Con questo libro Civati si
impegna ad avere una concezione della politica capace di abbracciare anche le
ragioni dell’etica.
cinema
mali
di fede
Timbuktu, l'arma
dell'arte, contro il
fondamentalismo
Daniela Ceselli
Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako
è un film di rara bellezza e sospeso incanto, pur trattando
il tema dell’orrore jihadista
in terra d’Africa. Lascia senza
respiro per le qualità estetiche e la raffinata semplicità
del linguaggio, per i temi che
affronta con limpida chiarezza e rigore morale, per la narrazione, scevra da retorica,
che alla consequenzialità logica preferisce una frammentarietà liricamente avvolgente, dolorosamente profonda.
Nel 2012 ad Aguelok, nel nord
del Mali i genitori di due bambini, vengono giustiziati con
la lapidazione. La loro unica
colpa era quella di non essere sposati. Prendendo spunto da questo fatto realmente
accaduto, Sissako racconta
una città presa d’assedio dai
fondamentalisti islamici e le
regole da loro imposte. Non
si può cantare, né fare musica. Non si può fumare, né
giocare a calcio. Le donne
hanno l’obbligo di portare il
velo e i guanti, anche se vendono pesce. Vietato decidere
chi amare e con chi stare. La
vita di tutti è perimetrata da
ordini e divieti, schiacciata
da proclami al megafono e
sorveglianza continua, annichilita dalle armi e un regime
opportunista, i cui militanti
risultano così ipocriti e meschini nell’esercizio dei loro
compiti da risultare ferocemente ridicoli. Al regime non
sfugge neanche il pastore che
vive tranquillo con la moglie
7 marzo 2015
7 marzo 2015
© National Galleries of Scotland, photography A Reeve
e la figlia tra le dune. Reo di
aver ucciso un pescatore che
lo ha privato della sua mucca, accetta la pena capitale,
versando lacrime di dolore
per chi resta sola di fronte al
suo destino e pronunciando
parole, che il suo improvvisato giudice non comprende.
Il regista si muove tra le contraddizioni con leggerezza di
tocco e sottile ironia: i ragazzi
giocano una splendida partita, senza pallone ai piedi;
la donna, punita a colpi di
frusta, grida il suo dolore con
un canto straziante; i jihadisti comunicano con i cellulari
in inglese; diversamente non
riescono a capirsi; il rapper,
chiamato a pronunciare di
fronte alla videocamera la
sharia contro gli infedeli,
non riesce più a parlare; il
miliziano importuna la donna sposata, accusandola di
indecenza, quando il marito
non c’è; l’imam cerca di ammorbidire l’ottusità del fanatismo religioso, spiegando in
nome di Allah il suo dissenso; le teste degli idoli pagani
vengono crivellate di colpi.
Sullo sfondo resta la fuga di
una gazzella, inseguita da
una jeep, mentre gli uomini
fuori campo gridano di non
ucciderla, ma sfiancarla, e
poi la corsa di un giovane in
moto, di un adolescente e di
una bimba. Non è importante la meta, visivamente solo
la tensione elastica del movimento vitale acquista senso e con esso le corde degli
strumenti musicali pizzicate
sommessamente, le voci sensuali che sussurrano un canto, gli sguardi delle donne, i
colori sgargianti che tagliano
la campitura monocroma del
deserto, tracce di una resistenza e di una bellezza che
non vuole morire.
A RT E
Quel selvaggio
Di Gauguin
In fuga dall'Europa.
Ma anche da se
stesso. I mille volti
dell'artista francese
Simona Maggiorelli
La paura che la propria vena
creativa potesse esaurirsi, l'attrazione verso culture lontane,
(anche se percepite attraverso
la lente deformante dell'esotismo) e poi la ricerca di temi
visionari, di tonalità calde e di
una luce nuova spinsero il pittore Paul Gauguin ad abbandonare la Francia per trasferirsi
prima a Tahiti e in seguito, dal
1901, nelle isole marchesi. Il
frutto di quella scelta radicale furono marine abbaglianti,
paesaggi rigogliosi e soprattutto una seducente serie di nudi
di fanciulle in fiore, incontrate
in poveri villaggi di pescatori.
Come racconta la mostra monografica che la Fondation Beyeler di Basilea dedica, fino al
28 giugno, all'artista francese.
Un'esposizione che ai dipinti
del periodo bretone affianca
opere realizzate a Tahiti, in cui
appare la quotidianità idealizzata delle comunità indigene
attraverso la raffigurazione di
giovani corpi dai colori ambrati
e dall'evidenza plastica, quasi
scultorea, nonostante siano rigidamente bidimensionali. Ma
se la ricerca di una pittura sintetica affidata soprattutto alla
forza del colore caratterizzava
già la pittura di Gauguin fin dai
tempi di Pont Aven, la passione
per le stampe giapponesi, condivisa con Van Gogh, gli permise di arrivare a un'originale definizione dei contorni realizzati
con il solo colore. La seduzione
delle stampe orientali incontrava così la forza dei primitivi
francesi che Gauguin studiò assiduamente in Britannia, come
testimonia Paul Sérusier nel libro I segreti della pittura, scritto dopo la fine dell'esperienza
di Pont Aven e che ci permette
di sapere come lo sfuggente
Gauguin veniva percepito dai
giovani artisti che fecero di lui
un maestro, per superare definitivamente l'impressionismo
e poter poi prendere la strada
di una ricerca visionaria e intimista, come quella del movi-
mento Nabis. Castelvecchi ha
di recente riproposto in edizione italiana il saggio di Sérusier. E ancor più utilmente ha
pubblicato il testo-testamento
che Gauguin scrisse nel 1902,
quando ormai l'aggravarsi di
problemi alle gambe e l'assenza di risorse finanziarie per un
viaggio a Parigi avevano reso
impossibile ogni eventuale
progetto di ritorno in Europa.
Lucidamente Gauguin pensò
di approfittare dell'aura di mistero che ormai circondava lui
e la sua opera e si mise a scrivere un libro, Avant et aprés,
come autoritratto per i posteri. Ma da quelle 241 pagine,
pubblicate da Castelvecchi
con il titolo Prima e Dopo, non
emerge solo ciò che Gauguin
avrebbe voluto tramandare di
sé. Accanto alla rivendicazione di un animus selvaggio e
ai discorsi in difesa degli indigeni vittime del pregiudizio
occidentale e del colonialismo,
emergono in filigrana i nodi affettivi irrisolti e il modo cinico e
paternalistico con cui ricordava Van Gogh, con il quale aveva
condiviso burrascosamente la
casa di Arles. Una "amicizia"
che questo «non libro», indirettamente, suggerisce di tornare
ad esplorare.
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BUON VIVERE
Lepre
in salmì
TENDENZE
Zaino
in spalla
Cucinare come ai
tempi di Giulio Cesare
Francesco Maria Borrelli
D
e gustibus non disputandum
est.
Come cucinavano
gli antichi romani?
Di certo non c’erano tutti gli
ingredienti disponibili oggi
e alcuni, come il burro, non
erano usati in cucina. Plutarco, infatti, racconta che Giulio Cesare, durante il periodo
nel quale era proconsole della Cisalpina venne invitato
con i suoi uomini ad un banchetto nel quale c’erano degli asparagi conditi col burro. La pietanza non piacque
affatto a Cesare, né ai suoi
collaboratori che la additarono come un cibo «barbaro» perché abituati al gusto
dell’olio d’oliva. Fu allora che
il celeberrimo generale romano avrebbe pronunciato
la frase «de gustibus non disputandum est». I gusti non
si discutono, specie quando
si è ospiti. Proviamo ora a
immaginare una pietanza
dell’epoca, “la lepre”, e a realizzarla con gli ingredienti
usati in quei tempi.
Ingredienti: 1 lepre (compresi fegato, cuore e polmoni); vino rosso 1 l; olio extravergine d’oliva (EVO); lardo
100 gr; sedano una costa; 1
carota; 2 cipolle; aglio; alloro; pepe.
Tagliate a pezzi la lepre, il
sedano, la carota, le cipolle e mettete a macerare una
notte in una scodella coperte
76
dal vino. Il giorno dopo colate i pezzi, asciugateli e filtrate il vino che conserverete.
In una padella soffriggete
le verdure recuperate dalla
macerazione, finché non si
saranno ammorbidite; quindi aggiungeteci le interiora
tagliate a pezzetti e proseguite la cottura per qualche minuto. In una seconda padella
mettete a rosolare la lepre
con dell’olio EVO, aggiungete il lardo in pezzi, due spicchi d’aglio e qualche foglia di
alloro (girate spesso). Unite il
primo soffritto nella padella
dove sta cuocendo la lepre,
aggiungete un bicchiere di
vino della marinatura, salate, pepate e lasciate cuocere
per una ventina di minuti col
coperchio. Servite il piatto
ancora fumante.
Vino consigliato: Chianti
classico Docg, Badia a Coltibuono. Prodotto con uve
biologiche, «il nostro centro
di interesse è il Sangiovese
con le sue caratteristiche
naturali, racconta Emanuela Stucchi Prinetti, una dei
proprietari dell’azienda. Cerchiamo di restare molto tipicamente chiantigiani, senza
voler internazionalizzare il
gusto del vino che rimane
semplice ed elegante, ma
non necessariamente pesante come molti hanno cercato
di fare. Una particolarità? Se
ne berrebbe a secchiate!».
Perfetto anche la
sera, è il nuovo must
have della stagione
Sara Fanelli
D
otato di tasche
interne e cerniere a scomparsa in
cui infilare sogni
e convinzioni, coulisse da
stringere di desideri e passioni, il backpack non può
mancare, perfetto, per avere
accanto più dello stretto indispensabile. Non si tratta
di un accessorio puramente
casual, ma la tendenza di
stagione lo vede indossato
in ogni occasione. Quello
in pelle borchiata è perfetto
di sera, se carico di entusiasmo abbinatelo a tacco
stiloso. Abbandonato da
un po’ per favorire la presenza di borse più o meno
glamour, oggi lo zaino ritorna prepotentemente in
spalla. È comodo e versatile, è la soluzione ideale per
chi vuole avere un ufficio
mobile sempre a portata
di mano. Se la vostra vita
si aggira tra le assemblee
universitarie potete sbizzarrirvi con i modelli più
originali, buttandoci dentro
coraggio e incoscienza. Se
coltivate l’apertura mentale
e non il pregiudizio, la genialità e la cura nella scelta
dei materiali di Saline Reliques di Mauro Sciascia farà
al caso vostro, tra tessuti a
tinta unita e pelle morbida
spalmata. Nasce da Chanel
la prepotente imposizione
di un ritorno, lo propone in
pelle nera trapuntata con il
classico logo in oro a chiusura. AlexanderMcQueen va
di borchie e glam. Trussardi
è come sempre classico,
con un color cuoio perfetto. Alexander Wang per uno
stile fuori dal comune ha disegnato sacche in pelle rigida con tagli orizzontali alla
Fontana. Il mood backpackers è per uno stile di vita
pieno di idee e progetti, da
indossare senza rinunciare
però all’eleganza. Una proposta di rinnovamento, una
via di mezzo tra lo streetstyle e il classico bon ton da
liceali lo ritroviamo anche
da H&M che applica frange,
nappe, piccole borchie, un
misto di sogni e convinzioni
addolciti da fantasie floreali
e stampe animalier.
7 marzo 2015
M U S I CA
VICENTE
AMIGO
Venticinque anni
di Tierra flamenca
Ilaria Giupponi
I
l duende flamenco attraverserà l’Italia sulle
corde di Vicente Amigo.
A partire dal 9 marzo
all’Auditorium Parco della
Musica di Roma passando
per l’ObiHall di Firenze e
il Teatro Duse di Bologna
(il 10 e il 12 marzo). Il mini
tour si concluderà all’Auditorium Verdi del Conservatorio di Milano il 14:
quattro date per celebrare,
sulle sonorità flamenque, i
suoi 25 anni di carriera. Sul
palco Vicente torna alla formazione originaria accompagnato da Añil Fernández
(Seconda Chitarra), Paquito González (Percussioni),
Rafael de Utrera (Cantaor)
e Dani Navarro (Bailador).
Maestosi interpreti del genere andaluso, dunque.
Tuttavia la protagonista
sarà indiscutibilmente lei,
la sua chitarra flamenca,
nota in tutto il mondo per
il suo stile inconfondibile,
trascinante e pulitissimo
al tempo stesso, acuto ma
conturbante e contemporaneamente dolcissimo: «La
chitarra è un dolce tormento», racconta il maestro che
intreccia le tradizione nelle
trame finemente ricercate della sperimentazione.
Non piacciono le etichette,
al chitarrista sevillano che
imbracciò “l’arma” a soli
8 anni: «La mia musica è
7 marzo 2015
come una specie di fusion
senza etichette. E lo è perché il mio modo di sentire è
così. Io cammino per strada
e mi possono interessare
le cose più differenti e dallo stile più diverso. Così è
la mia musica», racconta,
«cerco di trovare la mia personalità. Devi confrontarti
con queste cose e rischiare
con naturalezza». Questo
consente l’esplorazione dei
confini: «La chitarra è in un
momento brillante. I chitarristi di oggi sono molto
preparati. Il flamenco sta
dando molto alla musica
e sta avvicinando persone
con culture musicali differenti. E non è perché è una
musica esotica, ma perché
è una musica di verità».
La vita, il proprio modo di
risponderle, il sentido (il
“sentire”) personale: questo
è il flamenco, percepibile in
ogni intreccio e strisciata
sulla chitarra di Amigo. Che
tiene sempre in mente (e
nella cassa di risonanza) un
cardine: il radicamento al
suolo, alla terra, alle origini del flamenco, com’è più
che evidente nel titolo del
suo ultimo album, Tierra:
«Quando io suono, suona
anche la mia terra, l’Andalucia».
STA RT U P
Passa
a produrre
Switch2Product è il
concorso per prodotti
e servizi hi-tech
Massimo Panico
P
iù di 600 posti di lavoro creati e un fatturato complessivo
di 197 milioni di euro
per le startup presenti e passate: sono questi i numeri di
PoliHub, l’incubatore gestito
dalla Fondazione Politecnico di Milano che, anche
quest’anno, lancia il concorso S2P (Switch2Product). La
competizione, giunta alla settima edizione, ha lo scopo di
promuovere la creatività e far
emergere idee che possono
portare allo sviluppo di prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico o dal design
innovativo. C’è tempo fino
al 2 aprile per presentare le
domande e i relativi progetti.
Per i dieci finalisti selezionati
dalla giuria ci sarà l’accesso
gratuito allo Startup Programm del Mip, il master della School of Management del
Politecnico di Milano dedicato a startupper e aspiranti
imprenditori, dove si potranno sviluppare concretamen-
te le idee imprenditoriali. I
progetti vincitori selezionati,
alla fine del programma di
empowerment, vinceranno
un percorso di accelerazione della durata di quattro
mesi all’interno di PoliHub,
la possibilità di accedere a un
finanziamento da parte di investitori che fanno parte del
network e l’accesso agevolato
ai laboratori messi a disposizione dal Politecnico di Milano. La competizione è suddivisa in questa edizione in
una Call4Ideas e in una Call4People. Le aree di interesse
sono: clean-tech e greening,
nuovi dispositivi innovativi,
convergenza tra tecnologie
digitali e hardware fisico e
Ict (Information and Communication
Technology).
Condizione necessaria per la
partecipazione all’iniziativa,
pena l’esclusione, è che l’idea
non abbia ricevuto finanziamenti da Business Angel, Venture Capital o piattaforme di
crowdfunding al momento
della presentazione della domanda. Polihub, creato nel
2000, è uno dei 19 incubatori
certificati dal ministero dello
Sviluppo Economico con 51
startup e aziende presenti
dalla sua nascita. Nelle precedenti edizioni, le startup
selezionate da S2P hanno
raccolto più di un milione e
trecentomila euro in crowdfunding. Per partecipare:
www.s2p.it.
77
IN AGENDA
Dedica
porta
il cile
in Italia
Racconta la storia di emigrazione negli Usa dall'India
Vita in famiglia (Einaudi)
del talentuoso Akhil Sharma
(in foto). Il 12 marzo alla Libreria Bardotto, a Torino.
Pittura
suonata
Dal 13 al 15 marzo, alla Casa
della Cultura a Roma, si tiene la personale di Maurizio
Fioretti: oltre alla mostra di
pittura, l’artista si esibisce
in due performance musicali, con installazioni musico-pittoriche eseguite live.
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Dal 14 marzo, Luis Sepúlveda è protagonista della edizione 2015 del Festival Dedica a Pordenone. Una otto
giorni densa di incontri con
l’autore coordinata da Bruno
Arpaia. Sarà l’occasione per
presentare il suo nuovo libro
L’avventurosa storia dell’uzbeko muto appena pubblicato da Guanda e per ripercorrere i maggiori successi della
carriera di questo poliedrico
scrittore cileno, cineasta,
autore teatrale, poeta e soprattutto romanziere conosciuto in tutto il mondo, con
bestseller come Storia di una
gabbianella e Il vecchio che
leggeva i romanzi d’amore.
Prima di ripartire, il 15 marzo, lo scrittore sarà a Roma,
a Libri Come per parlare dei
propri maestri, intervistato
da Marino Sinibaldi.
La Siria
difesa
dagli
scempi
© Daniel Mordzinski
Il talento
di Sharma
Joan
BAez
An evening with Joan Baez,
una serata con la grande
cantautrice. il 10 marzo
all’Auditorium di Roma e il
12 marzo al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Sono
passati più di 50 anni dalla
celebre esibizione del 1958
al Club 47 di Cambridge,
Massachusetts, e dal debutto del 1959 al Festival folk di
Newport. Nel frattempo il lavoro creativo di Joan non ha
conosciuto soste, così come i
suoi tour. Coronati nel 2011
dall’ingresso nella Grammy
Hall, ma anche da riconoscimenti per le sue battaglie
per i Diritti umani, come
quello ricevuto da Amnesty.
In mostra nella città curda
di Amouda i tesori riscoperti dalle missioni italiane.
Trent’anni di scavi per riportare alla luce la città di
Urkesh, fondata nel 4000
a.C. La memoria del passato come affermazione della
propria identità culturale: è
un gesto forte e coraggioso
quello che vede l’Associazione Subartu e il Progetto
archeologico Tell Mozan /
Urkesh allestire una mostra
dedicata alla civiltà hurrita
ad Amouda, città del nordest della Siria minacciata
dall’Isis. La mostra presenta
l’esito delle ricerche e scavi
condotti da studiosi italiani
coordinati da Giorgio e Marilyn Buccellati.
7 marzo 2015
Milano
Dai visconti
agli Sforza
Avanguardia
Tedesca
I colori acidi e gridati, la
deformazione delle figure
al limite del grottesco, le linee dure, spezzate, aguzze.
Ma soprattutto il tono visionario delle scene, perlopiù, scorci di città in rapido
mutamento, parlano di una
corsa verso la modernità
non senza contraddizioni.
E di un modo di vivere metropolitano eccitante, ma
anche punteggiato di solitarie derive. Con la forza del
colore gli Espressionisti rappresentavano le inquietudini di anni che precipitavano
verso la prima guerra mondiale. Genova li ricorda con
una importante mostra in
cui sono esposte 150 opere
dei più rappresentativi artisti tedeschi dell'epoca. Dal 5
marzo al 12 luglio in Palazzo
Ducale, opere di Kirchner
(suo il quadro in foto), Dix,
Max Beckmann, Grosz, e
altri, provenienti dal Brucke
Museum di Berlino. Curata
da Magdalena Moeller, direttrice del museo berlinese,
la mostra è accompagnata
da un catalogo Skira.
7 marzo 2015
Milano al centro dell’Europa. Riallacciandosi alla
grande mostra realizzata da
Roberto Longhi nel 1958, si
apre il 12 marzo in Palazzo
Reale una rassegna dedicata al lungo periodo che va
dal primo ‘300 al primo ‘500,
secoli contrassegnati dalla dinastia dei Visconti, poi
degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei
Francesi. In mostra opere di
Bonifacio Bembo, Pisanello,
Gentile da Fabriano, Vincenzo Foppa e molti altri.
Con il
coraggio
di Mosella
Fitch
Una grande attrice come
Barbara Valmorin (in foto) e
un drammaturgo di talento,
come Stefano Massini, autore dei Taccuini di Mosella
Fitch (ma anche di Lehman
Trilogy diretto da Ronconi). Da non perdere al Teatro Due di Roma. Fino all’8
marzo, per la regia di Pia Di
Bitonto, Valmorin si cala nei
panni di una donna che di
fronte alla durezza della vita
ha il coraggio di spaccare il
vetro dell’ipocrisia.
creativi
e
curiosi
Per i più giovani e non solo.
Dal 16 al 22 marzo si anima
la II edizione del Festival
della Cultura Creativa, coordinata dall’Abi. Un festival diffuso su tutto il territorio nazionale che coinvolge
50 banche in diverse città
d’Italia. Il tema è “L’alfabeto del mondo ” e il filo conduttore saranno le diverse
modalità di narrazione della realtà che ci circonda. Dal
20 al 22 marzo, invece, ritorna a ModenaFiere il salone
delle vacanze 0-14. Si parlerà di viaggi per i più piccoli,
di turismo formato famiglia e di turismo scolastico: moltissime le proposte.
Oltre 200 espositori e i dati
dell’Osservatorio nazionale
sul turismo giovanile.
Senza
atomica
Una mostra contro le armi
nucleari si apre a Roma
nello Spazio Factory della
Pelanda. Da oggi al 26 aprile la rassegna è promossa
dall’Istituto Soka Gakkai
con organizzazioni insignite del Nobel per la Pace.
79
TRASFORMAZIONE
Non si riuscì mai a pensare che
il neonato ha un corpo umano che, prima, non esisteva
La vita
del corpo è movimento e tempo
C
ome se fossi giunto nella terra in cui scorrono fiumi di latte e miele, leggo e seguo con lo sguardo
le righe in cui si svolge il dibattito sulla filosofia di
Heidegger ed il nazismo. Non ho ricordi e neppure
la memoria, che crea immagini, riesce a darmi il pensiero
che fa la conoscenza del tempo passato. Soltanto l’umidità
della fronte, ormai troppo ampia, fa sentire al palmo della mano il ritorno della vita passata. Non ho altre parole
per dirlo anche se il corpo urla di dolore alla sola astratta
ipotesi che si avvicinino gli orrendi termini che non sono
parole: ritorno del rimosso.
Viene alla mente cosciente il ricordo nitido delle righe
scritte da Heidegger. Lo dissi giorni fa: “Noi parliamo nella veglia e nel sonno”. Affascinante! Ma la memoria, che
non sparisce mai e sempre si trasforma dice, con il suono
che non sono parole: non è. Erano affascinanti. Come un
ragazzino testardo dico: ma, forse mi spinsero a confermare quanto avevo intuito: nel sonno c’è un pensiero. E,
poi, non so quando, il pensiero verbale disse: in Heidegger
non esiste il pensiero umano né nella veglia né nel sonno.
Il linguaggio non è realtà percepibile di suoni pronunciati, non è espressione del corpo che dà conoscenza, ma è
quella cosa che hanno denominato sempre spirito, che
non è realtà non materiale umana.
Sempre insoddisfatto guardo l’ultima parola, umana, e
mi domando se è superflua ed equivoca. Non c’è bisogno
dell’aggettivo perché la realtà non materiale è soltanto umana. Non esiste al di fuori dell’essere umano. Ma poi penso
che, se non scrivo umano, tutti pensano che parlo di spirito.
Compare il termine linguaggio e vedo che in Heidegger non
c’è nessun pensiero di rapporto con i propri simili. E si apre,
nella strada della conoscenza, una spaccatura che appare
come un abisso insuperabile. È evidente che nel sonno non
parliamo ma pensiamo. Il pensiero del sonno, di per sé, non
comunica agli altri esseri umani, è necessario trasformarlo
nel linguaggio articolato della coscienza.
Non volevo rievocarla, ma compare l’immagine dello
psichiatra che interpreta i sogni trasformando le immagini oniriche descritte da un suo simile in pensiero ver-
bale. Cosa accade nelle venti ore di ogni settimana? Un...
cammino verso il linguaggio? E diamo così alla parola il
significato del rapporto con i propri simili...che è reale soltanto se la voce che dice parla all’altro umano. Nel sonno
non parliamo perché il pensiero è memoria dell’esperienza vissuta e non ha parola. Diventa parola quando viene
trasformato in linguaggio articolato. Ed anche i gesti del
sordomuto sono linguaggio articolato perché sono segni
come se fossero scrittura silenziosa. Heidegger ha identificato pensare con parlare e non dice la verità.
Il linguaggio senza parola è il linguaggio delle immagini
oniriche. E, se non ci sono immagini, è capacità di immaginare che si ha alla stimolazione della rètina quando in essa giunge la luce. E la memoria scrive che, guardando il parlare di
Heidegger, mi chiedevo quale fosse il suo pensiero. Vennero
i termini verbali che dicevano: anni venti. Era finita la prima
guerra mondiale e Freud scrisse: Al di là del principio del piacere. Aveva scoperto che nell’uomo esisteva l’aggressività!??
Vennero le parole che dicevano di una realtà incomprensibile. Impossibile pensare la realtà di una cecità
abissale. Dopo 25 milioni di morti lo “studioso”, che aveva sempre pensato alle perversioni sessuali, scopre l’aggressività! Aveva stabilito che nell’inconscio dominava il
principio del piacere ed ora doveva pensare alla coazione
a ripetere. Avrebbe dovuto interpretare i sogni che rappresentavano la distruzione. Istinto di morte. Todestrieb. E la
parola Trieb non volle dire: pulsione ma istinto come se gli
esseri umani fossero uguali agli animali.
Heidegger elaborò il Sein und Zeit e le due parole congiunte, Essere e Tempo erano seducenti. Avrebbero potuto allearsi
distruggendo il divenire e la parola trasformazione. Provocavano credere che avesse pensato alla parola movimento senza spostamento di una realtà materiale nello spazio. Non era
la verità e vidi l’inganno quando lessi ciò che non era scritto,
ovvero che il linguaggio-spirito non era la realtà non materiale del corpo umano. Il pensiero era quello religioso di una
realtà non materiale che precede e crea la realtà materiale. Il
corpo si muoveva non per sua forza propria alla realtà biologica ma per “l’anima” che avrebbe dato ad esso la vita.
Confronto e rifiuto con il pensiero di Heidegger. Era audace ma era impotente
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7 marzo 2015
Massimo Fagioli psichiatra
Nel movimento
veglia-sonno scompare la coscienza.
Il corpo diventa rilassato ed inerte ed il pensiero si trasforma.
L’essere umano non parla e pensa con immagini silenziose.
È ricreazione del percepito e pensato
e la memoria, che non è ricordo, è ricreazione del primo momento della vita
in cui si crea, con l’energia che si unisce alla materia,
la fantasia di sparizione che è capacità di immaginare
Nell’aria, è noto, c’è un pulviscolo che la inquina. Io
vedo ombre che sono i puntini neri delle parole stampate sui giornali. Penso che l’identità umana inizia quando
l’essere umano riuscì a distinguere il bene dal male. Scoprii che il male maggiore non era la distruzione ma quel
modo di essere invisibile in un comportamento normale,
che non distrugge le cose e non uccide, cui ho dato il nome
di anaffettività e pulsione di annullamento.
Avevano detto che la realtà umana era naturalmente distruttiva e perversa e che soltanto la ragione poteva controllare gli “istinti” malvagi. Heidegger, è noto, pensò di ritornare al prerazionale. Vista la lettera delle parole vorrebbe
significare: tornare al selvaggio della caverna. E penso che
non è giusto pensare che invitava l’uomo a ritrovare la realtà
prima della formazione dell’identità razionale. In altre parole non diceva di tornare al primo anno di vita senza parole,
come Freud che pensava soltanto che nel denominato preconscio c’erano, rimossi, i rapporti ed i pensieri dimenticati.
Heidegger non aveva mai pensato alla nascita umana. L’essere se stessi spontaneo ed autentico, era l’espressione dell’
“istinto di morte” che era la sparizione degli altri.
Eliminare, far sparire, rendere mai esistito il popolo
ebraico. E non era annientamento, era annullamento oltre
l’uccisione che i nazisti avevano fatto dei malati di mente
fucilati e seppelliti. Non fu “fabbrica di cadaveri” ma eliminazione dei corpi. Far sparire come fece Videla in Argentina gettando i ribelli nell’oceano. Come se volessero avere
la capacità di creare il nulla.
E viene il pensiero: la pulsione di annullamento nei riguardi della realtà materiale è delirio di un corpo immobile,
è pazzia criminale quando il corpo ha soltanto il “movimento” che lo sposta nello spazio. Quando l’essere umano perde
la creazione di sé che è rendere inesistente realtà passate
che non sono l’umanità possibile. E vengono le parole:
prassi cieca del corpo che è distruzione di sé e degli altri.
Ma i forni crematori non sono distruzione. E le parole
dicono: rendere inesistente l’esistenza del corpo umano.
Come se non fosse mai nato. Ma la verità dell’essere umano chiede, per essere, il pensiero non cosciente. Chiede
che il linguaggio articolato non sia scissione della mente
cosciente e mente senza coscienza ma sia trasformazione
del vagito e la scrittura possibilità neonatale che diventa
capacità di fare la linea.
La mano scrive quando la memoria, che non è ricordo,
parla dicendo realtà umane mai pensate, perché ricrea
quel primo momento di vita che è soltanto capacità di immaginare senza immagine. E la possibilità di fare la linea
diventa capacità di scrivere. Il corpo che entra nel mondo
della luce si immerge nello spazio simultaneamente alla
comparsa del tempo del movimento che, prima, non c’era.
Il feto era soltanto realtà biologica, materiale che si modifica nello sviluppo e non va mai incontro alla non esistenza.
Poi, quando l’energia che non è materia si unisce ad
essa, il movimento non è più lo stesso perché la parola
inizio ha, in sé, il termine fine. E la realtà non materiale
creata sparisce e diventa non esistente. La realtà materiale
biologica, nel disfacimento del corpo, diventa altra. Non
è trasformazione perché la sparizione non è, simultaneamente, creazione di una realtà che, prima, non c’era. È, forse, esaurimento della vitalità che può ricreare le realtà non
materiali dell’essere umano. È, forse, pulsione di annullamento che si libera per fare, gradualmente, la non verità
dell’essere umano che era diventato esistente alla nascita.
Ho creato le parole che danno un nome a realtà mentali non viste e mai
pensate. Iniziò con
fantasia di sparizione. Heidegger
non poteva comprendere perché
non poteva pensare.
Non aveva le parole:
nascita dell’essere
umano, rifiuto che
non è negazione.
Non udì, come
Freud, il linguaggio
dei sogni.
perché Geworfenheit era il termine che non parlava di nascita umana
7 marzo 2015
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UN’ALTRA STORIA di Monica Catalano
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7 marzo 2015
AsinoLeft Bagni-Conserva_Layout 1 26/02/15 11.03 Pagina 1
Novità
L’Asino d’oro
edizioni
«B
ello, come un film del neorealismo. Un libro fatto di vera
scuola quotidiana, quando a
farla sono due insegnanti colti, preparati,
politicamente avvertiti. Quasi un romanzo
epistolare, di viaggio e di memoria, con
più piani di lettura. Un viaggio lungo un
anno, che come un gomitolo si dipana tra
difficoltà, dubbi, intuizioni, speranze e soprattutto, sempre, la voglia di essere consapevoli del proprio mestiere, la voglia di
misurarsi, sempre, con la prospettiva del
‘non uno di meno’, anche perché ‘l’uno di
meno non è un numero ma un nome e cognome’.
Lettera dopo lettera si ricostruisce il puzzle
dello stare a scuola, con quel clima particolare che solo chi sta in aula conosce
bene: sentirsi ‘al fronte’, nella necessità e
nell’urgenza continua di prendere decisioni
‘giuste’ – e con il dubbio che lo siano davvero.
Nascono così, dalla lettura del libro, i fili e
i nodi dell’insegnare oggi».
Vittorio Cogliati Dezza
dal 13 marzo
in libreria
www.lasinodoroedizioni.it
Giuseppe Bagni insegna chimica in un Istituto
professionale di Firenze. Attualmente è presidente nazionale del Cidi, Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Autore di numerosi
articoli di scienze, scrive su varie riviste riguardo
al sistema scolastico ed educativo.
Rosalba Conserva ha insegnato italiano e storia in
un Istituto tecnico di Roma. Ha dedicato molti
anni allo studio del pensiero di Gregory Bateson,
in particolare alle teorie relative al fondamento
biologico della conoscenza. È tra i fondatori del
Circolo Bateson, dove collabora a ideare e proporre incontri seminariali intorno e oltre l’epistemologia di Bateson.