I Sono nato in Svizzera il 25 ottobre 1767, a Losan

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I Sono nato in Svizzera il 25 ottobre 1767, a Losan
I
Sono nato in Svizzera il 25 ottobre 1767, a Losanna, da Henriette de Chandieu, di antica famiglia francese rifugiata, per motivi religiosi, nel cantone di Vaud;
e da Juste Constant de Rebecque, colonnello in un reggimento svizzero al servizio dell’Olanda. Mia madre
morì di febbri puerperali otto giorni dopo il parto.
Il mio primo precettore, di cui serbo un ricordo nitido, era un tedesco di nome Stroelin, il quale era solito, prima, gonfiarmi di botte e, poi, soffocarmi di
moine supplicandomi di non andare a lamentarmi con
il babbo. Io glielo promettevo e ho sempre mantenuto la promessa. Tuttavia, i miei vennero a sapere –
non da me – la cosa e lo cacciarono di casa su due
piedi. Questi aveva avuto, però, una pensata piuttosto
ingegnosa: mi aveva insegnato il greco facendomelo
“inventare”. Ossia: mi propose di creare – tra me e lui
– una lingua immaginaria che soltanto noi due conoscessimo. Mi appassionai a questa trovata. Dapprima
escogitammo un alfabeto, nel quale egli mise le lettere greche; poi abbiamo dato mano a un dizionario, in
cui ogni parola francese veniva tradotta in greco.
Tutte queste novità, dato che me ne credevo l’inventore, mi si imprimevano a fuoco nella mente. Conoscevo già moltissime parole greche e cercavo di dare
a quelle parole, coniate da me, delle regole gramma-
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ticali. Stavo così imparando ben bene la grammatica
greca, quando il mio precettore fu licenziato. Avevo,
allora, cinque anni.
Ne avevo sette quando mio padre mi condusse a
Bruxelles, dove intendeva sovrintendere lui stesso
alla mia istruzione. Non tardò a rinunciarvi e mi diede per pedagogo un francese: monsieur Delagrange,
che faceva parte del suo reggimento come chirurgo,
con il grado di maggiore. Questo Delagrange si vantava di essere ateo. D’altronde, per quel che ricordo,
era un uomo assai mediocre, molto ignorante ed
estremamente vanitoso. Cercò di sedurre la figlia del
mio maestro di musica ed ebbe parecchie avventure
alquanto scandalose. Alla fine, per abbandonarsi più
liberamente alle sue stravaganze, mi portò ad abitare
in una casa equivoca. Lì mio padre piombò all’improvviso, dalla caserma del suo reggimento, e Delagrange venne cacciato.
In attesa di un nuovo mentore, mio padre mi sistemò in casa del maestro di musica. Vi restai qualche
mese. Quella famiglia, che l’intelligenza del padre
aveva sollevato un poco piú su della mediocrità, mi
nutriva e si prendeva cura di me benissimo, ma la mia
educazione segnava il passo. M’avevano assegnato
alcuni insegnanti di cui marinavo le lezioni, e messo
a disposizione una vicina biblioteca dove passavo il
tempo a leggere romanzi d’ogni sorta e svariate opere
antireligiose allora di moda. Stavo chino, per otto o
dieci ore al giorno, sui libri che sceglievo a casaccio,
dai trattati di La Mettrie ai romanzi di Crébillon: il
mio cervello e i miei occhi ne patiranno per tutta la
vita.
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Mio padre che – di quando in quando – veniva a
trovarmi, incontrò un ex-gesuita che gli propose di
occuparsi lui di me. Non se ne fece nulla, e non ne
conosco la ragione. Ma in quello stesso periodo un
avvocato francese, scappato dal suo paese per vicende alquanto scabrose, si trovava a Bruxelles insieme
a una ragazza che spacciava per sua cameriera. Costui, desiderando fondare un collegio-convitto, si
fece avanti e parlò con tanta eloquenza del suo progetto che mio padre si convinse di aver trovato, in
monsieur Gobert, un uomo straordinario. Fissata una
retta assai cospicua, Gobert accettò di accogliermi
presto sotto tutela. Mi impartì qualche lezione di latino (che conosceva a malapena) e quanto alla storia,
me la insegnava soltanto al fine di farmi ricopiare un
trattato storico di cui desiderava, appunto, possedere
diverse copie. Ma la mia calligrafia era talmente
brutta, e cosí grande la mia distrazione, che ogni pagina andava riscritta più volte, sicché in capo a un
anno e passa di lavoro non ero andato oltre la prefazione.
Intanto Gobert e la sua amante stavano dando la
stura a un’infinità di pettegolezzi. Quando mio padre
venne a saperlo, scoppiarono violente scenate di cui
fui testimone. Sicché lasciai anche questo pedagogo,
convinto – per la terza volta – che coloro i quali dovevano istruirmi ed educarmi erano loro stessi ignorantissimi ed immorali.
Mio padre mi ricondusse in Svizzera, nelle sue
terre, dove trascorsi un certo periodo sotto la sua
unica sorveglianza. Un amico gli parlò di un francese, anzianotto, ritenuto intelligente e istruito, il quale
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viveva ritirato a La Chaux-de-Fonds vicino a Neuchàtel. Mio padre assunse informazioni e venne cosí
a sapere che monsieur Duplessis – tale il nome del
francese – era un frate che, scappato dal convento,
aveva gettato la tonaca alle ortiche e abiurato la religione. Anche in Svizzera stava nascosto, per non essere processato dai francesi.
Sebbene tali notizie non fossero molto favorevoli,
mio padre assunse Duplessis che si rivelò migliore
della sua reputazione. Divenne dunque il mio quarto
precettore. Di carattere era molto debole, ma buono e
arguto. Mio padre lo prese subito in grande antipatia
e non si curava di nascondermelo, il che era davvero
un cattivo avvio ai rapporti tra maestro e allievo. Duplessis assolveva i suoi doveri nel modo migliore e
mi fece fare grandi progressi. Trascorsi poco piú di
un anno sotto la sua tutela, parte in Svizzera, parte a
Bruxelles e in Olanda. Alla fine mio padre se ne disgustò completamente, e decise di immatricolarmi in
una università inglese.
Duplessis ci lasciò per andar a fare l’istitutore di
un giovane conte d’Aumale. Purtroppo questo giovane avere una sorella bellissima e di costumi molto frivoli che si divertì a far perdere la testa al povero frate
sfratato, il quale se ne innamorò perdutamente. Nascondeva questo folle amore perché la sua condizione, i suoi cinquant’anni d’età e il suo aspetto gli davano scarse speranze. A un certo punto però scoprì
che un parrucchiere, meno vecchio e meno brutto,
aveva avuto piú fortuna di lui. Commise allora mille
pazzie che furono giudicate con estrema severità: divenne infine pazzo sul serio e si tolse la vita.
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Intanto mio padre era partito con me per l’Inghilterra e, dopo un breve soggiorno a Londra, mi
condusse a Oxford. Non tardò a rendersi conto che
una simile università, dove gli inglesi vanno a terminare gli studi sui vent’anni, non era adatta a un ragazzo di tredici. Si limitò dunque a farmi studiare la
lingua inglese, a compiere qualche gita nei dintorni
per divertirsi e, dopo due mesi, ripartimmo con un
giovane inglese. Costui era stato raccomandato a mio
padre in quanto era in grado di darmi lezioni senza
accampare pretese di precettore, titolo che ormai detestava date le quattro pessime esperienze consecutive. Ma neanche questo quinto tentativo fu diverso dai
precedenti. Appena questo mister May si mise in
viaggio con noi, mio padre lo trovò ridicolo e insopportabile. Mi confidò le sue impressioni, con la
conseguenza che il mio nuovo compagno divenne per
me oggetto di scherzi e di continua derisione.
May trascorse un anno e mezzo al nostro seguito
in Svizzera e in Olanda. Abitammo parecchio tempo
nella piccola città di Geertruydenberg. Qui, per la
prima volta, mi innamorai. Mi ero invaghito della figlia di un anziano ufficiale amico di mio padre. Ogni
giorno le scrivevo lunghe lettere che poi non le consegnavo e partii senza mai svelarle la mia passione
che era durata in tutto ben due mesi.
L’ho rivista piú tardi: il pensiero che l’avevo tanto
amata me la rendeva interessante o forse era semplicemente una sorta di curiosità a pungermi il cuore.
Una volta lei ebbe l’impulso di interrogarmi sui miei
sentimenti, ma venimmo interrotti e il colloquio finì
lì. Qualche tempo dopo si sposò e sarebbe morta di
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parto. Mio padre, che non vedeva l’ora di liberarsi di
May, colse la prima occasione per rispedirlo in Inghilterra.
Ritornammo in Svizzera e, per farmi prendere
qualche lezione, papà ricorse a un certo Bridel, uomo
abbastanza istruito ma molto pedante e noiosissimo.
Ben presto mio padre si seccò anche del mio nuovo
precettore – da lui scelto – per via del suo sussiego,
delle confidenze che si prendeva e del suo cattivo gusto. Disgustato dalla sfilza di insuccessi accumulati
con pedagoghi privati, decise di iscrivermi – a quattordici anni – a una università tedesca.
Il margravio 1 di Anspach, che si trovava allora in
Svizzera, fece cadere la scelta su Erlangen. Mi ci condusse mio padre e lui stesso mi presentò alla piccola
corte della margravia di Bareith, che vi risiedeva. Lei
ci ricevette con tutte le premure che i principi annoiati prodigano agli stranieri che trovano divertenti, e mi
prese a benvolere. In effetti, siccome io dicevo tutto
quanto mi passava per la mente, mi burlavo di tutti e
sostenevo con sufficiente vivacità le piú bizzarre opinioni, agli occhi di una corte tedesca dovevo risultare
molto spassoso. Il margravio di Anspach, da parte sua,
mi usò le stesse gentilezze. Mi conferì un titolo a corte, dove io mi recavo per giocare a faraone 2 e pertanto contrarre debiti d’onore che mio padre ebbe sempre
il torto e la bontà di pagare.
1 TITOLO CONFERITO AI SIGNOROTTI TEDESCHI CUI SPETTAVA LA DIFESA DELLE
MARCHE DI CONFINE [NDT].
2 GIOCO D’AZZARDO,
[NDT].
NOTO IN ITALIA CENTRALE ANCHE COME “LA BASSETTA”
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Studiai molto durante il primo anno di soggiorno
in quella università ma, al tempo stesso, commisi
mille stramberie. La vecchia margravia me le perdonò
tutte, non faceva che amarmi sempre piú: il mio successo a corte obbligava al silenzio tutti coloro che,
nella cittadina, mi giudicassero con maggior severità.
Ma io volli gloriarmi d’avere un’amante. Scelsi una
ragazza che godeva di una pessima reputazione, la
cui madre aveva fatto alla margravia non so quale
sgarbo in non so quale circostanza. La cosa curiosa è
che, da un lato, io non amavo la ragazza; dall’altro,
che lei non mi si concesse. Verosimilmente io ero l’unico al quale lei avesse resistito. Ma il piacere di far
credere e sentir dire che mantenevo un’amante mi
consolava dalla noia di frequentare giorno dopo giorno una persona che non amavo, e per di più di non
godermi colei che mantenevo.
Questa mia relazione offese molto la margravia,
ma i suoi rimproveri mi fecero intestardire sempre
piú: mio principale intento, infatti, era quello di far
parlare di me. Al tempo stesso, la madre della mia
presunta amante, sempre astiosa verso la margravia,
lusingata da quella specie di rivalità venuta a crearsi
tra una principessa e sua figlia, non smetteva di incitarmi a ogni sorta di atti offensivi per la corte. Alla
fine la margravia perse la pazienza e mi proibí di frequentare la sua casa. Lì per lì mi dispiacque di esser
caduto in disgrazia, e cercavo di riconquistare le benevolenza che mi ero stupidamente giocato. Non vi
riuscii. Tutti coloro che non avevano potuto fin ad allora parlar male di me, si rifecero. Fui oggetto dello
sdegno e del biasimo generale.
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La collera e la irresolutezza mi fecero compiere
ancora qualche sciocchezza. Infine mio padre, informato dalla margravia di quanto accadeva, mi ordinò
di raggiungerlo a Bruxelles, e di là partimmo insieme
per Edimburgo. Vi arrivammo l’8 luglio 1783. Mio
padre aveva vecchie conoscenze, fummo accolti con
tutte le premure dell’amicizia e con l’ospitalità propria degli scozzesi. Io fui sistemato presso un professore di medicina che gestiva una specie di pensione.
Mio padre rimase soltanto tre settimane in Scozia.
Dopo la sua partenza mi misi a studiare con grande
fervore e cominciò allora il piú piacevole anno della
mia vita. Tra i giovani di Edimburgo era usanza lavorare. Organizzavano numerose riunioni letterarie e
filosofiche: io partecipai a qualcuna e mi distinsi come scrittore e, sebbene in una lingua straniera, come
oratore. Strinsi numerose, vere amicizie con uomini
che, per la maggior parte, si sarebbero in futuro distinti: tra questi figurano Mackintosh, attualmente primo giudice a Bombay, Laing, uno tra i migliori continuatori di Robertson, eccetera.
Fra tutti quei giovani, colui che sembrava promettere di piú era John Wilde, figlio d’un mercante di tabacco. Godeva di un grande ascendente su tutti i suoi
amici, sebbene in gran parte gli fossero superiori per
casato e per ricchezze: le sue conoscenze erano immense, infaticabile il suo ardore, la sua conversazione brillante, eccellente il suo carattere. Dopo esser
stato nominato, per le sue qualità, professore e aver
dato, con la pubblicazione di un libro, lusinghiero
avvio alla sua fama, alla fine divenne pazzo furioso e
attualmente – se non è morto – giace in una cella,
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sulla paglia, incatenato. Povera razza umana, che ne
è di noi tutti e delle nostre grandi speranze?
Divertendomi molto, restai a Edimburgo circa diciotto mesi. Lavoravo assiduamente, di buon grado, e
di me non si diceva altro che bene. La cattiva sorte
volle che un piccolo italiano, il quale mi dava lezioni
di musica, mi presentasse a un suo fratello che gestiva una bisca. Giocai a faraone, perdetti un mucchio di
soldi, contrassi debiti da tutte le parti e il mio lieto
soggiorno finì in malora.
Essendo giunto il momento fissato da mio padre
per il mio ritorno, nel partire promisi ai creditori che
li avrei pagati. Ma li lasciai scontenti e feci a tutti, con
mio grande scorno, una pessima impressione. Passai
da Londra, dove molto inutilmente rimasi tre settimane, e giunsi a Parigi nel mese di marzo del 1785.
Mio padre aveva trovato per me una sistemazione
che m’avrebbe procurato ogni soddisfazione se io
avessi saputo e voluto approfittarne. Dovevo abitare
presso il signor Suard che riuniva in casa sua molti
letterati e che aveva promesso d’introdurmi nella migliore società parigina. Ma non essendo ancora pronto il mio appartamento, andai a stare in una pensione
e lì feci conoscenza con un inglese ricchissimo e
molto libertino: volli imitarlo nelle sue pazzie, e in
capo a un solo mese, dacché ero arrivato a Parigi, già
ero pieno di debiti fin sopra la testa. Un po’ era anche
colpa di mio padre, il quale, fidandosi di me, mi
aveva mandato in un luogo dove non avrei potuto
fare a meno di commettere una serie di errori. Comunque, alla fine, mi trasferii da monsieur Suard, e la
mia esistenza divenne meno estrosa.
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