I Monologhi della Varechina
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I Monologhi della Varechina
I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 1 p. 3 Introduzione di Silvana Rigobon p. 4 Reality di Laura Pugno p. 7 Oggi lavoro di Nadia Zorzin p. 14 Chi ha svaligiato la banca del tempo? di Stefania Scateni p. 16 Tetris di Antonella Cilento p. 18 Pendolari in scala di grigio di Alice Avallone p. 22 Nel frattempo di Loredana Lipperini p. 23 Il parto delle nuole peNsanti di Manuela Ardingo p. 25 Stanza centodieci di Chiara Reali p. 27 In quella luce di Babsi Jones p. 30 Il monologo della varechina di Silvana Rigobon p. 35 Inconvenienti tecnici di Antonella Cicogna p. 40 Note biografiche p. 43 FAQ e backstage La copertina è di Nadia Zorzin. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 2 Introduzione I Monologhi della Varechina è una nuova rivista che raccoglie le opere di scrittrici, giornaliste e blogger italiane. Il titolo è un gioco di parole con la celeberrima opera teatrale di Eve Ensler1, e la scelta dei termini non è casuale. Il monologo, infatti, è la forma più rappresentativa per la comunicazione al femminile, non necessariamente per scelta delle donne. La varechina rimanda a qualcosa di caustico, che arriva anche negli angoli più difficili. Il Numero Zero è una monografia dedicata al Lavoro in bianco e nero, interpretato dalle autrici come cinema d'autore: lavoro sommerso, immigrati clandestini, precariato, lavoro di strada, disoccupazione, sfruttamento, disparità uomo donna, pubblico e privato, flessibilità. Si è accennato al progetto de I Monologhi della Varechina in una lettera aperta a Giulio Mozzi2, firmata dalla sottoscritta e intitolata Le narratrici? Al lavoro! Nella lettera riflettevo sull’assenza di scrittrici nel pannello dei relatori di un convegno intitolato Raccontare il lavoro (tenutosi a Padova, lo scorso novembre). La risposta di Giulio Mozzi (uomo concreto, di poche parole) non si è fatta attendere. Ha offerto uno spazio su Vibrisse per pubblicare la rivista in pdf. Nella lettera indicavo anche i nomi di chi aveva accolto l’invito a partecipare al presente Numero Zero. L’entusiasmo e il sostegno di queste persone è stato fondamentale. Il numero d’esordio, quindi, appartiene anche alle cinque persone che non compaiono nel sommario, ma ne condividono lo spirito: Daniela Amenta, Lia Celi, Alessandra Fagnani, Clara Sereni e Grazia Verasani. A loro, e alle partecipanti, un grazie sincero: non è affatto scontato accettare di far parte di un progetto in fieri. E vorrei concludere mutuando una riflessione di Grazia Verasani, che in una sua mail di ottobre, in risposta al mio invito a partecipare a questa iniziativa, coglie esattamente lo spirito che la anima: «In questo momento di ritorno medievalistico del ruolo della donna (nella società, nella politica, in tv) mi sembra interessante stimolare le autrici (giornaliste, scrittrici, operatrici culturali, poetesse, artiste e non: insomma, tutte coloro che hanno qualcosa da dire) a parlare di questo. Non mi riferisco a temi femministici, ma a un tentativo di esulare dai temi "femminili" (erotismo, utero, ombelico) per allargare il campo a commenti caustici sul mondo. Quindi non la vagina ma la varechina come irriverente strumento di "pulizia" e di riflessione su temi sociali e su cose che riguardano le donne. Non la maternità in senso stretto, ad esempio, ma il fatto che un asilo costa mille euro al mese!...» Il lavoro nobilita l’uomo. Non dimentichiamo che nobilita anche la donna. Silvana Rigobon 22 Maggio 2006, Verona 1 Eve Ensler, I monologhi della vagina, Tropea, 2000 La lettera è stata pubblicata in Vibrisse (www.vibrissebollettino.net), il bollettino on line di scritture e letture curato da Mozzi, il 25 Novembre 2005. Si può leggere a questo link: http://www.vibrissebollettino.net/archives/2005/11/le_narratrici_a.html 2 I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 3 Reality di Laura Pugno Questo è il giardino degli amanti, spiega la ragazza del casting. Matilda è in piedi davanti a lei, Marco le tiene un braccio goffamente intorno alle spalle. Sono in una serra, meglio, un giardino d’inverno. La costruzione ha le pareti a vetrate: da fuori si può guardare dentro, quasi perfettamente. È in mezzo a una specie di parco finto, in realtà è il giardino di una villa privata, appartiene a una grande produzione che di tanto in tanto lo affitta. Il programma, spiega la ragazza del casting, si chiama Reality, è un format per il web importato dalla Francia. Loro sono i candidati per la puntata pilota. Ci sono cinque uomini e cinque donne, tra i diciotto e i trentacinque anni. Mati è la più giovane. Se il programma partirà, dovranno girare insieme, un uomo e una donna a puntata, quella che la produzione chiama la loro storia. I due non devono mai essersi visti prima, su questo sono stati molto rigorosi, e assolutamente non devono tentare di entrare in contatto l’uno con l’altra prima che si giri la puntata. I copioni, ha detto la ragazza del casting, sono stati scritti da sceneggiatori professionisti. Che poi sono gli stessi che si occupano anche della produzione, fanno tutto in pochissimi. Mati pensava che le cose sarebbero state diverse, ma questa è una web tv molto piccola. Più che un programma sembra che girino un documentario. Per adesso, devono trovare dei finanziatori per la puntata pilota; tra quelli che sono presenti sceglieranno solo due persone, tre se lo richiede la storia, poi se la puntata pilota piacerà richiameranno gli altri. Lei e Marco sono nella stessa storia: se verranno scelti, come accadrà, Mati ha deciso di ubbidire in tutto. Naturalmente hanno scelto te e Marco, le ha detto Silvia, la storia con voi due è la migliore. La prima scena di Mati con Marco era in un bar; dovevano incontrarsi lì per la prima volta e poi fare sesso a casa di Mati. È una produzione a basso budget, si gira in casa dei protagonisti, il solo posto fisso preso dalla produzione è il giardino. Mati si è depilata con cura, si è cosparsa il corpo di crema al tè bianco, ha messo in borsa una confezione di preservativi, ma li aveva già forniti la produzione. Li ha trovati nel cassetto accanto al letto, in casa sua. Per tutta la scena Mati ha avuto in testa la ragazza del casting che le girava intorno per osservarla meglio. Quando comincia il programma, chi sta in Rete deve votare, decidere quale delle storie vuole che continui, e come, se deve esserci più sesso, più scene di tenerezza, una separazione, un ritorno. Reality, le ha detto la ragazza del casting, è una cosa piccola, intima. All’inizio, Mati si era presentata al casting insieme a Silvia. Come sempre, era Silvia che ci contava. Che conosceva qualcuno. Silvia è molto bella, per Mati è strano che abbiano scelto lei al suo posto. Quando era arrivata la telefonata Mati stava andando a una delle riunioni del Diario. Silvia era già nella saletta, si era irrigidita quando Mati le aveva raccontato tutto, poi aveva scrollato le spalle. Quel pomeriggio, Mati porta Silvia all’Orto Botanico. Mati conosceva già Marco ma insieme hanno deciso di mentire. Non si conoscono veramente, è successo più o meno tra loro, qualche anno fa, quello che gli sceneggiatori avevano previsto per la loro storia. C’era anche Silvia, anzi era stata lei a condurli uno verso l’altra e poi a scivolare via dal letto e dalla stanza. Erano nella casa al mare di Silvia. Mati ricorda Silvia, l’indomani mattina, che fuma hashish in balcone, rientra quando la sente svegliarsi e le prepara la colazione, il caffè, prende dal forno la torta di mele fatta in casa. Marco dorme ancora. Sei felice? È durato poco: Silvia era partita per il Nevada, Mati era scomparsa dalla vita di Marco. Al ritorno di Silvia lei e Mati erano andate a vivere insieme finché Mati non aveva trovato una casa. Oggi Marco è sposato, ha un figlio di tre anni che Mati non ha mai visto, sta avviando le pratiche per la separazione. Mati ha il Diario. Sono quattro anni che Mati frequenta il Diario, è una delle più fedeli, segue le riunioni, porta testi. L’idea è stata di Silvia che aveva frequentato un Diario a Marsiglia. Mati ha cominciato perché il Diario le permette di straniarsi. Guarda con dolcezza, non avere più pensieri; segui la circolazione del traffico, segui la circolazione del tuo sangue. Le sembra che i suoi sensi, da quando ha cominciato, siano diventati più precisi. Il Diario ha infatti delle regole precise: ci si incontra una volta a settimana, in gruppo, sempre nello stesso posto, per leggere i testi scritti nel corso dei sette giorni precedenti. Chi porta testi scritti a mano leggerà solo testi scritti a mano. La regola più importante è: devi descrivere scene, cose vere, senza nomi, a meno che i nomi non siano delle parole che hai sentito davvero, che sono state realmente pronunciate. Questa per Mati è un’abitudine che le è rimasta: fa sempre fatica a ricordare i nomi, una cosa che a volte le crea qualche problema I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 4 sul lavoro. Mati fa i turni di pomeriggio nell’erboristeria di sua sorella, è brava a vendere: da quando è iniziato Reality ha smesso. Silvia ha fatto qualche volta i turni al suo posto, ma alla sorella di Mati non piace. Con i soldi di Reality Mati vuole comprare un computer portatile. L’Orto Botanico è un rifugio, per Mati. Con Silvia, è un pomeriggio d’inverno, le serre sono chiuse, ma a Mati va bene così. Dentro l’Orto, il suo posto preferito è il giardino dei profumi. Chiude gli occhi, si concentra, tocca le foglie cercando consistenze diverse. Silvia è rimasta fuori, beve dal thermos di caffè che ha sempre con sé. È la loro seconda visita all’Orto. La puntata di Mati e Marco è piaciuta, la storia continuerà. Silvia non ha più parlato di Reality. Forse non è gelosa. Se fosse estate, dice Mati, andremmo a ballare. Coprirebbero di sabbia le rive del fiume, pianterebbero delle tende bianche, di garza. La sabbia può gelare. Silvia butta giù l’ultimo sorso di caffè. Non ha la resistenza di Mati al freddo. Escono dall’Orto Botanico. Silvia va a casa, Mati ha appuntamento in un bar di Trastevere con gli sceneggiatori. Mati è stata, ha spiegato la ragazza del casting, particolarmente convincente. L’idea della vostra storia, ha continuato, era una notte e basta. È quello che di solito succede. Ora invece deve succedere qualcos’altro. La sceneggiatrice è una ragazza magra con un maglione khaki, i capelli chiari corti. Mati si è portata dietro il thermos di caffè di Silvia quasi vuoto. Sono in un bar pasticceria, Mati mangia le paste sporcandosi le dita, leccandosi i polpastrelli per pulirli dalla sensazione appiccicosa della crema. Ha fame. Voglio, dice, che prendiate Silvia, la ragazza che è venuta al casting con me la prima volta. Che succeda qualcosa con Silvia, nella storia. Non dipende da noi, dice la ragazza bionda controllando un bloc-notes, ma la prossima volta, tu e Marco vi vedrete nel giardino. Lì giriamo le fantasie erotiche. Alza gli occhi verso il suo compagno. La seconda ragazza che avevamo scelto per girare con voi ha rinunciato, dice lui. Sorride, ha un bellissimo sorriso. Vediamo, forse possiamo ripescare questa Silvia. Anche Mati sorride. Si salutano, Mati porta un vassoio di paste a casa. Silvia sta ballando a occhi chiusi, gli auricolari nelle orecchie, il lettore mp3 agganciato in vita. Silvia non sembra curarsi troppo della notizia che le dà Mati; quelli del Diario, le dice invece, fanno una festa. Intanto sta mettendo tutte le sue cose in delle scatole di cartone. Cambio casa, dice a Mati. Va a stare da Marco. Si sono sentiti, visti, dopo la sua puntata con Mati. Lui ha trovato un appartamento grazie a un amico. Mati non dice niente. Le sembra naturale. Voleva provocare lei, questa stessa cosa. Cerca tra le maglie e le gonne che Silvia sta ammucchiando sul letto, trova un vestito nero, sottile, di velluto. Dice, lasciami questo. Silvia fa segno di sì con la testa. Stasera dobbiamo festeggiare. Va bene, dice Silvia. Io e Marco, dice Mati, dobbiamo finire la nostra storia. Silvia sorride, la testa inclinata sulla spalla, le viene vicino, le mette le braccia intorno. Mati rimane immobile senza mostrare desiderio, senza tentare un contatto. Ma certo, dice Silvia con enorme dolcezza. Mentre Silvia la tiene ferma, a Mati vengono in mente le polaroid che Silvia le ha scattato a quattordici anni, ricorda quanto, fotografata da Silvia, si fosse sentita vulnerabile, il tempo lunghissimo che era servito per ogni scatto, la sensazione che l’espressione del suo viso stesse cambiando. Silvia la lascia andare, vestiti, Marco sta arrivando. Viene a prenderci. Viene anche lui alla festa. Mati la guarda bene, Silvia ha intorno una luce dorata, qualsiasi partita loro due abbiano giocato ha vinto. Non tornerà, lo sa, al Diario. Non tornerà da lei. Mati si ubriaca, il giorno dopo non ricorda niente della festa. Va al Diario, invece, da sola. La riunione è di mattina, sono in pochi, quasi tutti i partecipanti del gruppo lavorano. Quel pomeriggio ha appuntamento con Marco e la ragazza del casting: è stato lui a ricordarglielo, ieri sera, sono stati lui e Silvia a riportarla a casa. Mati ha vomitato, Marco e Silvia l’hanno messa sotto la doccia, Silvia le ha asciugato i capelli col phon. Poi Silvia ha preparato del caffè e lei e Marco l’hanno bevuto in cucina, intanto ha fatto bollire del riso. Mati si era addormentata sul divano, inutile cercare di metterla a letto, l’hanno coperta con un plaid di lana. Starà bene. Sono andati via facendo piano, spegnendo la luce, Silvia ha messo i croccantini al gatto per il giorno dopo. Mati non ricorda niente di tutto questo, ha trovato le tazzine da caffè lavate sul piano della cucina, la zuccheriera ancora al centro del tavolo, una scodella di riso basmati bianco pronto. Ha mal di testa e male allo stomaco. Immagina con chiarezza quello che non ricorda. Va al Diario a piedi, non ce la fa a prendere lo scooter. Ha portato il bloc notes. Un ragazzo nuovo legge quello che ha scritto: Roma, venerdì 30 gennaio 2004. Orto Botanico, 15.30. Una ragazza seduta su una panchina, beve da un thermos di caffè color argento, nell’altra mano tiene il coperchio nero, che potrebbe fare da bicchiere. Porta degli stivali con i tacchi alti, neri, molto a I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 5 punta. Sta aspettando qualcuno. Dal giardino dei profumi esce un’altra ragazza, lei la stava aspettando. Le foglie degli alberi sono immobili e gelide. La ragazza che è uscita dal giardino dei profumi ha una giacca di pile bianco, col collo rialzato, da neve. Se la toglie, la presta alla sua amica, lei sembra completamente indifferente al freddo. Mati è nel giardino adesso. La ragazza del casting l’ha accompagnata dentro, fuori ci sono i suoi uomini, due operatori e il fonico, le ha detto ti lasciamo qualche minuto da sola, così puoi concentrarti. Mati si toglie le scarpe, sente sotto i piedi una moquette verde erba, molto morbida. Hanno schermato le vetrate con dei fogli bianchi, ma si intravede ancora il parco tra le fessure. Le piace lì, è tranquillo, ci sono dei cuscini per terra, ti puoi mettere seduta. Quando riapre gli occhi - per un tempo brevissimo si è addormentata - Marco è davanti a lei. Mi piace questo posto, dice Mati. Marco fa segno di sì con la testa. Hanno una sceneggiatura. Tira fuori dalla giacca dei fogli ripiegati, li dà a Mati. Leggiamo cinque minuti prima di cominciare, dice. Fuori, Mati vede tra i fogli bianchi qualcuno muoversi dietro le vetrate, si chiede se in fondo tra gli alberi, nascosta nel verde scuro, ci sia anche Silvia. Con un vestito bianco, con un vestito d’oro. Poi è tutto molto naturale. Marco si avvicina, si rannicchia per terra accanto a lei, è a torso nudo e senza scarpe, lei gli accarezza i capelli corti, ruvidi, sente le imperfezioni del cranio, le dita si fermano su una piccola cisti, quasi invisibile. Marco respira lentamente, non cerca di toccarla. Fuori dentro cambia la luce sulle vetrate - Mati sa che non sono da soli ed è quello che desidera. Silvia sarà nell’arco della porta, Mati vedrà per prima cosa la sua ombra, Marco continuerà a tenere gli occhi chiusi, sarà ingannato dall’odore di lei che è simile a miele mentre quello di Mati è più leggero e sfumato sotto lo stesso profumo, Silvia e Mati hanno lo stesso sguardo e corpi similissimi adesso: si confonderanno nella memoria, saranno nella sua mente la stessa cosa. Nota al testo In Reality, il Diario a cui partecipano Mati e Silvia è modellato sull’esperienza del Dico, Diario collettivo, di Silvia Vignato (www.italie.ejic.com) che a sua volta riprende il JIC, Journal Intime Collectif, di Caroline Sarrion (Parigi 1994). Né la storia narrata in Reality, né i personaggi si riferiscono a veri componenti di quei gruppi. L’Orto Botanico di Roma si trova in Largo Cristina di Svezia a Trastevere, è una struttura all’aperto. Ha un giardino dei profumi. L’incipit di Reality è stato adoperato nell’evento di narrazione collettiva Sedani/Storie raccontate a mano, nell’ambito di Dappertout, sezione giovani del Festival Letterario Passepartout organizzato dalla Biblioteca Pubblica di Asti (www.dappertout.it, www.sedani.splinder.com), 10-15 maggio 2005. Il tema di Sedani 2005 è “il gioco”. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 6 Oggi lavoro di Nadia Zorzin Oggi_devo_andare_al_lavoro_in_autobus. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 7 Oggi_lavoro_fuori_ufficio. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 8 Oggi_ho_lavorato_molto. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 9 Oggi_sono_tornata_prima_dal_lavoro. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 10 Oggi_dopo_lavoro_porto_Emma_al_parco. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 11 Oggi_ho_lavorato_bene. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 12 Oggi_è_stato_il_mio_ultimo_giorno_di_lavoro. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 13 Chi ha svaligiato la banca del tempo? di Stefania Scateni Ore sette, sveglia. Pipì. Mettere su il caffè, scaldare il latte, preparare tazze e cucchiaini, biscotti e miele. Fumare una sigaretta dopo il caffè, aprire la finestra per mandare via il fumo. Ore sette e trenta. Svegliare il piccolo, far colazione. Lavarsi, vestirsi, gridare di lavarsi e vestirsi. Preparare la merenda per la scuola. Gridare per fargli mettere il giaccone e il cappello (è inverno). Ore otto e dieci, uscire. Salire in macchina o in motorino (dipende dal cielo), mettere in moto e andare. Beach Boys (se siamo in macchina) per tirarsi su, tra file e semafori, e arrivare cantando a scuola. Salutarlo con un bacio. Rimanere a guardarlo attraversare trotterellando il giardino della scuola, salire le scale e sparire oltre il portone (ormai non si gira più). Ore otto e mezzo. Salire in macchina, andare al supermercato. In casa non c’è più niente, e inoltre: la cavia peruviana non ha fieno da quattro giorni, bisogna restituire l’aglio a Rosetta della porta accanto, comprare l’acqua demineralizzata per le piante carnivore che non sopportano quella del rubinetto e fare una scorta di lampadine che si sono fulminate quasi tutte nel giro di due giorni - e la casa sembra un cimitero di lumini tristi. Caricare sei borse della spesa in macchina, tornare a casa. Lasciare l’auto in mezzo alla strada, scaricare le buste e appoggiarle nell’androne del palazzo. Dubbio: al portiere chiedo di occuparsi del parcheggio o di portare su la spesa? Ore nove e mezzo. Sistemare la spesa. Rispondere al telefono. Squilla ogni giorno tra le nove e mezza e le nove e quaranta. Genitori lontani. Sistemare i letti, raccogliere calzini, mutande e indumenti vari da mettere dentro il cesto della biancheria. Caricare la lavatrice. Pensare alla cena e lasciare le istruzioni alla babysitter. Finire di lavarmi. Ore dieci e trenta. Fuori, verso il lavoro. Ore dieci e quarantacinque. In redazione (sono fortunata, abito vicino). Leggere i giornali, scaricare la posta. Due caselle per un totale di 150 mail. Telefonare a collaboratori per chiedere articoli o per sollecitare consegna degli stessi. Controllare le agenzie di stampa. Consultare l’agenda nel caso ci siano altre cose urgenti da fare. Telefonare a collaboratori collaborativi per scambiare idee e progetti e valutare fattibilità. Preparare programma del giorno da esporre in riunione. Ore undici e mezza. Riunione di redazione: nove uomini e tre donne. Discussione politica (ma cosa combinano i Ds?). Dico: avete visto il blog di Grillo contro D’Alema? Facciamoci un articolo. Battibecco tra dalemiani e non (io sono non). Prosegue la discussione, intervallata da battute allusive e risate degli uomini (non tutti). Il direttore distribuisce inviti a conferenze stampa, iniziative da seguire, libri da recensire, articoli da pubblicare (perché non mi interessano mai? Forse perché sanno tanto di scambio e di favori?). I capiservizio elencano le notizie e le iniziative del giorno. Tocca a me: apertura su Foucault - il direttore ha un conato di vomito alla parola filosofia. Come alternativa propongo un’inchiesta sulle periferie - il direttore storce la bocca. Seconda apertura, articolo firmato da uno scrittore che amo molto, però è italiano - il caporedattore storce la bocca e scambia occhiate complici col collega. “Perché non parli dei libri in classifica? Perché non parli di Dan Brown?” Storco la bocca reprimendo un conato di vomito. Ore tredici e quindici, tredici e mezza. Fine riunione. Programma del giorno confermato o completamente cambiato. Breve scambio operativo con il vice insonnolito, che nel frattempo è arrivato. Definizione aperture, spalle e fogliettoni, lunghezze e immagini. Ore quattordici e quindici, quattordici e trenta: si mangia. Self service se si deve fare in fretta, enoteca se si può indugiare. Ore quindici, rientro in redazione. Quindici e trenta se si è mangiato all’enoteca. Disegno delle pagine con l’ausilio dei grafici. Controllo delle agenzie. Inizio del lavoro di desk, mettere in pagina un articolo. Passare il pezzo. Squilla il telefono. Rispondo. Squilla il telefono. Rispondo. Squilla il telefono. Rispondo. Riprendere a passare il pezzo. Dal direttore. Squilla il telefono. Rispondo. Finire di passare il pezzo. Controllare le agenzie. Controllare la posta. Rispondere ad alcune mail urgenti. Squilla il telefono. Rispondo. Aprire la posta. Libri. Operare una prima cernita. Pile: da scartare, da far recensire (squilla il telefono, rispondo), da valutare, da mettere insieme per un servizio “trasversale”, da spedire, da dare ai redattori. Ore sedici, sedici e trenta. Arrivano i redattori. Due. Assegnare i compiti. Una si siede, apre un pacchetto di cracker e inizia a leggere un romanzo che recensirà dieci giorni dopo. L’altro parla al telefono con gli amici suoi di politica. Squilla il telefono. Rispondo. Aprire la mascherina del titolo. Fare i titoli. La redattrice scansa le bricioline di cracker dal romanzo e dal tavolo. Visita di un collaboratore con proposte. Squilla il telefono. Rispondo. Il I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 14 redattore che parla di politica chiede al telefono se hanno letto il suo ultimo articolo. Squilla il telefono. Rispondo: la baby sitter non può andare a prendere il piccolo a scuola. Parlare col vice insonnolito? Meglio scappare di corsa, andare a scuola, prendere il piccolo, portarlo a casa, fare il latte con la cioccolata e aspettare l’arrivo della baby sitter. Squilla il telefonino. Rispondo. Ore diciotto, in redazione. Il vice legge una rivista di fumetti, la redattrice non c’è (ha finito i cracker?), il redattore parla di politica da solo. Cucinare la pagina. Controllare l’immagine. Didascalia. Squilla il telefono. Rispondo. Squilla il telefono. Rispondo. Squilla il telefono. Rispondo. Squilla il telefono. Rispondo. Dal direttore. Controllare agenzie. Controllare posta. Squilla il telefono. Rispondo. Pausa sigaretta. Così via fino alla chiusura delle pagine. Il vice alza la testa dalla rivista e dice che bisogna cambiare le pagine, mentre ero a scuola è arrivata una notizia importante, e c’è anche un “obbligo” dell’ultim’ora. Sbaraccare tutto e ricominciare da capo. Stampare le pagine. Controllare le pagine. Mandare le pagine in tipografia. Squilla il telefono. Ore venti e trenta, ventuno, sono fuori. Verso casa. Ciao, sono tornata! Com’è andata la giornata? E a scuola? Cosa fai, guardi i cartoni? Non mi racconti niente? Hai mangiato a cena? In cucina, c’è qualcosa da mangiare anche per me. Mangiare davanti ai cartoni, per stare vicino al piccolo. È in pigiama. Ore nove e trenta, portarlo a letto. Prima fargli lavare i denti. Rimboccargli le coperte. Baciarlo ripetutamente, abbracci, tenerezze. Buona notte. Notte mamma. In corridoio. Buonanotte mamma. Buona notte tesoro. Buonanotte. Buonanotte. Notte. Buonanotte, dormi bene. Ore ventidue. Ah, ora ho tutto il tempo per me. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 15 Tetris di Antonella Cilento Bisognava si chiedesse perché non sopportava più la voce del suo commercialista? - Vedi, cara, non vorrei mai trovarmi in una partita di tetris quando non sai più come gestire i pezzi che cadono. Penso al mio lavoro come a una partita in costante equilibrio, riesco sempre a mettere i pezzi, anche quelli lunghi, anche quelli quadrati, in modo tale da non dover mai interrompere. Cerco di non arrivare mai al game over. Livia guardava Federico mentre le parlava. Le era sempre stato simpatico, tutto sommato, ma restava quell’atteggiamento che ora, mentre parlava della vita come di un giochino elettronico, l’irritava profondamente. Federico era uno che non ascoltava. Si dava la carica, come certi orologini o i carillon, e parlava per ore. Parlare gli consentiva di spiegarsi ma anche di impedire al cliente qualsiasi notazione fino al cliente successivo. La porta suonava, Federico si scusava, si alzava, andava ad aprire e Livia sentiva già la sua voce prima che dicesse, al ritorno: - Cara… Il che stava a intendere: è ora che smammi. Livia, quel giorno in particolare, sentiva che la sua vita era proprio in un perenne game over. Forse per questo la metafora, oltre al semplice fatto che il suo commercialista osasse lanciarsi in metafore, evento di per sé spiacevole, l’aveva colpita tanto. - Sai anche mia moglie sta informandosi per fare impresa. Non è occupata e questa, oggi, è l’unica strada… Livia apprezzò la delicata perifrasi “non occupata”: le mogli con figli dei commercialisti erano “non occupate”, le altre erano banali disoccupate su cui piovevano pezzetti colorati di frame del tetris, ma non riuscì, proprio non le riuscì, di non dare ascolto alla prima parte della frase. In Italia, all’inizio del millennio, chi non aveva lavoro faceva bene a inventarsi un’impresa. Il precariato che inventa impresa: e quando mai un intero popolo nasce composto di manager, un popolo tradizionalmente gregario e per di più afflitto da secoli di cattolicesimo anti iniziativa privata? Fossero almeno nati in un paese protestante. Non avrebbe dovuto accettare il caffè. Lo sapeva che le faceva male. Ma intanto Federico parlava, parlava… - Bisogna che tu guardi al bicchiere mezzo pieno, non a quello mezzo vuoto. Io ho sempre seguito questa filosofia e penso che se tutti facessero così le cose andrebbero meglio… Livia tormentò il bordo di un tovagliolino di carta. Con i piedi saliva e scendeva dall’appoggio della scrivania di metallo. Scrivania trendy: pali innocenti con sopra una lastra di cristallo. Rivide se stessa bambina fare lo stesso mentre studiava matematica sui piedi leonini di legno della scrivania di casa, stile rinascimento. “Smettila!” ordinava sua madre. “Non rovinare la scrivania”. Strinse i denti senza accorgersene. - Insomma, Federico, io ho bisogno di sapere se adesso trasformo la mia attività associativa in società quanto rischio corro di trovarmi con il culo nell’acqua. Ho poche migliaia di euro sul conto e qui il consulente ha scritto sul progetto di finanziamento cifre piene di punti e di zeri che io non potrò coprire mai. Devo andare in banca? E se m’indebito anche con la banca? Le stavano venendo le mani fredde, stava diventando tutta fredda. Gli italiani fanno impresa. La cultura fa impresa. Per fare la sua personale impresa doveva scrivere sei pezzi a settimana per i giornali che la pagavano a sei mesi, quando andava bene, seguire laboratori di bambini deficienti e di adulti con la fregola del dopo-lavoro, scrivere libri per editori che davano anticipi ridicoli. Un lavoro creativo. Con uno dei suoi anticipi per un libro scritto in cinque o sei anni Federico pagava il quindicesimo computer della sua azienda commercialistica. Era un amico, ma in quel preciso momento vedeva lampeggiare in testa le parole: “frizione sociale”. In quel preciso momento sapeva perché non aveva mai frequentato i paninari dei licei del Vomero, perché Federico votava il Berlusca e lei no, perché detestava i piccolo borghesi della sua città, perché non avrebbe mai più giocato a tetris con il cellulare di suo marito. - Cara… - alla parola Livia ebbe un vergognoso fremito di furia - cara, devi capire che il consulente fa il suo lavoro e che queste sono schede automatizzate. Pensa di I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 16 andare da lui come dal medico, dal primario. Quando esci da uno studio medico hai capito il 20% forse di quel che ha detto, ma tu ti fidi, torni a casa e esegui la prescrizione e poi sei felice. - Col cazzo. - avrebbe voluto rispondere Livia. E invece, dopo un respiro: - Federì, io dai medici sono anni che non ci vado. Semmai dagli omeopati. Mi curo con l’alimentazione. E proprio perché mi ero scassata di capire a stento il 20% e di continuare a stare male. Al medico, se muori o vivi, in linea di massima, gliene sbatte. Figurati quanto gliene fotte al consulente se io faccio bancarotta. E comunque, se devo fare impresa, non posso mica essere il paziente dello Stato. Io allo Stato i soldi li devo restituire. Sono soggetto attivo, mica una mucca da latte. Federico inceppò un attimo, come un computer cui abbiano cambiato il programma senza preavviso, balbettò e poi riprese: - Beh… invece io penso ancora che sia necessario avere fiducia… E poi Livia si accorse in ritardo che il suo commercialista aveva ricominciato a usare metafore: il tetris, i medici… E questo secondo pensiero la fece incazzare ancora di più. - Quando mi parli di IVA e partite di giro e mi spieghi con un mezzo sorrisetto di compatimento per la mia idiozia i fatti tecnici del mio progetto che io non capisco, caro - e ti assicuro che non ci capisco davvero un tubo - pensi mai che se io ora ti chiedessi di ascoltarmi parlare di focalizzazione interna e esterna o iniziassi a esporti una teoria estetica o ti leggessi qualche pagina, bellissima, di Cechov tu non capiresti un accidente? Oh, sì. Le veniva da piangere. Fra sei mesi forse si sarebbe trovata senza più un euro in tasca, suo marito che aveva già iniziato a “fare impresa” da tre anni lavorava senza portare a casa uno stipendio, e Federico le diceva di avere fiducia? Livia salutò con educazione e si alzò. - Parlerò con il consulente, allora. Ti tengo informato. - Sì, brava. Fai così. - Sì, farò così. In strada c’era tanta luce, tanto sole. Era gennaio ma faceva bello. E c’erano i primi odori di primavera, un anticipo incantevole dei prossimi mesi. Napoli intorno a lei avanzava in disordine, come sempre. Auto in quadrupla fila, pedoni che attraversavano di sbieco e tagliavano la via in ogni modo, camion che scaricavano fuori orario, le signore con le buste della spesa, l’edicola, i ragazzi fuori al bar. Livia si fermò sul marciapiedi in attesa di svenire. Ormai era gelata del tutto. Fiducia, abbi fiducia. Ora non poteva pensarci, se no moriva. Ci avrebbe pensato domani, aveva ragione Rossella ‘O Hara. Questa citazione, probabilmente, a Federico sarebbe suonata nota e l’avrebbe usata con il prossimo cliente. Quindi, alzò gli occhi al cielo e invece di attraversare, come sempre, sulle strisce stradali che nessuno rispettava, zigzagò nella confusione e si lasciò andare nel flusso. A.Cilento, 14 febbraio 2006 I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 17 Pendolari in scala di grigio di Alice Avallone GIULIA, ingegnere Nessuno lo direbbe che è quasi un ingegnere. Capricciosa ma solare e chiacchierona, Giulia è estrosa nel vestire e timida con le persone che non conosce. Ma non appena prende confidenza, non c’è niente che può fermarla. Non si pettina mai la mattina, e detesta tutti i vezzi delle donne. Sta tornando dalla sua prima lezione di cucina, così ora i suoi amici torneranno a trovarla più spesso a casa e, forse, potrà riconquistare finalmente la sua vecchia fiamma. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 18 BEATRICE, studentessa Classe '91, in piena formazione classica. Sta andando ad un incontro tra ragazzine dipendenti dalla cioccolata. È un pesce dolce, nonostante abbia un ascendente scorpione tanto impulsivo quanto intuitivo. È sentimentale come le poesie ed i film che ama, ed è solare come il paese dove vuole andare a vivere dopo la scuola, la Spagna. Indicazioni per conquistarla: portarla in India o in Madagascar; portarla al cinema a rivedere Braveheart; leggerle dei passi de Il Piccolo Principe. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 19 ALICE, copywriter Nella vita sta facendo di tutto. Scrittrice, giornalista, fotografa, regista, illustratrice. Ma quello che Alice ama di più è fare l'assaggiatrice di ritagli di pasta cruda della crostata, ci gioca con i polpastrelli, ne fa palline zuccherose e le divora in un attimo subito dopo. Alice non ama essere svegliata la mattina presto, quando la madre spalanca la finestra ed entra tutto il freddo. Oggi è il suo compleanno, ed ha ricevuto un paio di scarpette rosse, come quelle di Dorothy del Mago di Oz. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 20 LAURA, cartomante Il suo lavoro, oltre fare la mamma, è leggere le carte ad amici e conoscenti. È empatica e stravagante, e le sue mani sembrano due ragni rosa. Abita in una villa di fine ottocento nella campagna di Pistoia con la piccola Sara. Quando nei mesi estivi c’è la luna piena, vanno nel grande parco a caccia di lucciole, e una volta catturate, le mettono sotto un bicchiere di vetro. Il giorno dopo sotto ciascun bicchiere trovano un euro, che dividono equamente. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 21 Nel frattempo di Loredana Lipperini Diciamo che le parole giuste sono “nel frattempo”. Nel frattempo, in un’opera lirica, avviene che: il tenore abbia incontrato il soprano, le abbia professato il suo amore, si sia convinto che lei ama un altro. Ergo: a)le getta un fascio di banconote in faccia tra la riprovazione generale b) va incontro alla fucilazione/decapitazione maledicendo il suo nome c)la strangola mentre in ciel Venere splende. Il tutto dopo aver giustamente affrontato un numero variabile di nemici uccidendoli o anche no (in questo ultimo caso sprofondandoli nei rimorsi per la loro perfidia). Nel frattempo, in un romanzo medio, avviene che: il protagonista abbia avuto due o tre crisi di mezza età, salvato una sconosciuta dall’annegamento, incontrato il suo primo amore o il suo ultimo (in questo caso preferibilmente minorenne), redento una prostituta, individuato un serial killer psicopatico (o anche, redento un serial killer psicopatico, strangolato una prostituta), a volte sventato almeno un paio di complotti politici. Il tutto dopo aver affrontato un numero variabile di avversari in carriera o falsi amici o anche rimorsi del passato restandone schiantato o anche no (in questo caso, rimane però schiantato qualcun altro, a volte uno dei due amori del protagonista). Nel frattempo, in una canzone media, avviene che: il protagonista abbia spietatamente piantato la ragazza dicendole che comunque domani andrà meglio e per cortesia non si mettesse a piangere che a lui queste cose danno noia (vedasi Guns N’ Roses: Don't you cry tonight/I still love you baby/ Don't you cry tonight/Don't you cry tonight/There's a heaven above you baby/And don't you cry tonight). O anche: abbia mandato a dire a Bush che è un idiota americano, o anche - aggiornamento della voce A della prima ipotesi abbia maledetto l’inaffidabile che se ne è andata con un altro ma sostituendo al sangue alcuni insulti ben concepiti e spesso messi nel titolo con i dovuti asterischi. Quanto al mondo reale. Molti e molti anni fa, si sarebbe detto e scritto che nel frattempo, appunto, un essere di sesso femminile avrebbe occupato ogni possibile interstizio del tempo, ogni residuo secondo sfuggito all’autopianificazione, per concentrare nello spazio di un solo giorno quello che un tenore fa nell’arco di un’esistenza in quattro atti, il personaggio di un romanzo in una media di trecento pagine, l’io cantante di un brano musicale in circa tre minuti, è vero, ma che per convenzione, si sa, valgono una vita. Nel frattempo, tutto questo è diventato banale, vagamente lamentoso, foriero di irritazione per le croniste di costume impegnate: in tutta sincerità, la questione lavoro-tempo (gestione del medesimo)-maternità sembra diventata, oh sì, marginale. Mentalmente marginale, intendesi: ottima a commento delle lacrime di una ministra bionda, ma trattata in modo assai più sentito in Desperate Housewives che in un articolo di fondo, un saggio, un convegno. Nel frattempo, tutto è diventato enormemente più complicato, e gli esseri di sesso femminile si pongono sempre con minor frequenza la questione tempo proprio perché si sono abituate ad occuparlo tutto, senza lasciare spiragli. Gli studiosi di era postmodern avrebbero parlato di atrofia del between: di tutto quel che c’è tra una cosa e l’altra. Del frattempo, appunto. Sia. Ah. Nel frattempo, chissà come, in molta narrativa italiana gli esseri di sesso femminile son lì che fanno le muse, o anche vivono i giorni dell’abbandono. Simone De Beauvoir: vaffanculo. What happened to the dreams of a girl president? She's dancing in the video next to 50 Cent (Pink: Stupid Girls) I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 22 Il parto delle nuvole peNsanti di Manuela Ardingo E mi fermo. Penso che non ci sia niente di peggio che esternare queste nevrosi, così me ne starò zitta e non andrò a piagnucolare da Ted. La sua comprensione mi tenta di continuo. Io sono fatta per l'attività, la felicità, i lavori pazzi e per scrivere questo e quello - racconti e poesie -, per crescere bambini. Come faccio ad arrivarci? Quando mi blocco, le vite e gli obiettivi a senso unico degli altri mi spingono in ombra. Resto ferma, fissata sulla chiarezza - non riesco a prendere le cose come vengono, o a farle venire come dico io. Sarà una malattia*? [Sylvia Plath] Se non sto attenta precipito, zitta zitta, verso oscure riflessioni. Parto dall'angolo di mondo che ospita un gran letto e scivolo giù. Ma non tutta: il mio corpo con camicia da notte rossa, resta su. Intorno un'aura un po' brumosa, frutto di confuse alchimie, con l’unico compito di indurre quiete vigile. Tra i capelli una concentrazione passiva che li fa più belli. E l'anima che se ne va, senza far rumore… Ultimamente, però, rimane pure una certa forza. Una signorina forza vestita di sarcasmo ma capace di grandi compassioni e, quindi, sotto sotto, complice. È la parte di me che, ormai, di fronte a certe urgenze, non si scompone più. Si limita a guardare. Si sporge, senza farsi vedere, dai bordi del pozzo. E osserva, preoccupata. Poi, quando comincia a provare pena: si toglie l'impermeabile del sarcasmo (beige, due tasche, sei bottoni, 87% nylon e 13% poliuretano, comoda cintura in vita), si traveste da bruco, scende giù e viene a riprendermi. E io, sul fondo, piccola alice a gambe incrociate, piena di occhi che fanno tenerezza, zuppa di una voglia di calore che mi porterebbe ad accettare tutto e tenuta buona da una devozione quasi religiosa verso l'attesa - non si sa di che, non si sa da chi - di solito, la seguo. Per questo cerco di evitare. Tanto so già cosa mi dirà nei panni del bruco. Tanto so già cosa mi dirò nei panni del bruco. Mi chiederò chi sono. Mi dirò che non sono cambiata affatto. E che la chiave, ancora una volta, è nell'equilibrio. Un morso da un lato del fungo e un morso dall'altro. Ricordando sempre che il fungo è rotondo. E quindi non importa dove, basta che mordi. Ecco, se non sto attenta, mi capita così. Certe volte, poi, accanto a creatura simile, intuisco analoghe discese. Riconosco il suo fantasma vestito da sarcasmo perché ha un impermeabile molto simile al mio. Però da uomo. Allora osservo. E osservando è come se mi osservassi. Ne spio le dinamiche e i sorrisi appuntiti. Resto vicina cercando di seminare carezze dentro i suoi occhi affaticati. Per aiutarlo a tornare su. Per evitare di farmi contagiare. Per evitare di scendere a mia volta, con la scusa di andare a riprenderlo. Perché la sua sofferenza mi uccide quanto la mia ma, quando non mi appartiene, ho imparato ad aspettare: esiste un mestiere anche nello spleen, a quanto pare. Patteggio con me stessa, fin dai secondi che seguono il risveglio. Scelgo di sorridere oggi? Di andare avanti? Di disperarmi? Certa di un'esistenza fuori dal comune e di gioie a venire, da poco so controllare i movimenti delle braccia e mi piace. E ieri ho inventato complicate coreografie su un cd di Yann Tiersen, in piedi davanti allo specchio, senza fermarmi mai. Non si soffre per scelta. Anche se, alle volte, può scattare una forma di compiacimento: questo sì. Così io, che so scendere e tornare da oscure riflessioni, devo stare attenta a non sfoggiare la mia esperienza e a non abusare della tua. Così tu, che sai scendere e tornare da oscure riflessioni, devi stare attento a non sfoggiare la tua esperienza e a non abusare della mia. Dobbiamo semplificare. Mi chiedi che devi fare quando sto così. Non so. Mi chiedo che devo fare quando stai così. Non so. Ci abbracciamo? È meglio scuotersi? Facciamo come viene. Diciamo che dare prova di empatia, e non di condiscendenza, aiuta. E che urlare, se serve, è più costruttivo che insieme tacere. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 23 D’altra parte è quello che ho sempre voluto. L’alternativa sarebbe mettere al mondo l'uomo femmina. Quello che poi, in una catena di parti e controparti, mi costringerebbe a fare l'uomo. E io voglio fare la donna. Poi, mentre ci stringiamo per riscaldare le nostre solitudini, sappiamo bene che esiste una certa ineluttabilità che si attacca fin dal primo sguardo. Lo so io e lo sai tu. Si attacca durante quei primi incontri in cui qualcosa, dentro, ha già deciso che niente sarà più come prima. E qua una certa ineluttabilità si agita da qualche ora, da qualche giorno, da qualche mese... È poco? È tanto? Sarà ancora tempo di cercare altrove? Se sì, dimmi anche verso dove. Mi sembra che tutti i cieli intorno intorno siano occupati da quel primo sguardo lì. I destini incollati da appiccicose intuizioni che volentieri sigillerebbero un noi giocoso ma per sempre. Mi dico che verrà, un giorno, il giorno dei sogni sognati. A patto che tutto sia in un certo modo. A patto che tu ti ricordi. * [da Centuria di Giorgio Manganelli] Ad un certo punto della sua vita, quando non era più giovane ma ancora si aggirava nei labirinti imperfetti della maturità, egli si avvide che qualcosa stava accadendogli; più esattamente, gli veniva rivolta una richiesta. Questa richiesta veniva formulata, era chiaro, da una malattia; non si trattava di una malattia necessariamente ostile, e tuttavia era possibile che la malattia fosse mortale, specie nel caso che egli si fosse rifiutato di ammalarsi. Non gli fu facile capire esattamente in che consistesse la richiesta: ma alla fine una serie di eventi gli resero chiaro che la malattia chiedeva, con pacata fermezza, spazio per poter accadere. Egli non cercò di opporsi alla malattia, ma per qualche tempo si provò a negoziare, proponendo accordi parziali, che avrebbero consentito alla malattia una qualche partecipazione alla sua vita, partecipazione che egli non tentava neppure di contrastare, ma che poco alla volta aveva accettato come necessaria. Egli trovò che era difficile trattare con la malattia, soprattutto perché la malattia non parlava, non dibatteva, non contestava, non esigeva con tracotanza, ma semplicemente, per il suo modo di proporsi, si dichiarava necessaria. Alla fine egli scoperse che il rifiuto della malattia lo avrebbe costretto in uno spazio angusto, asfittico, del tutto simile a una malattia, che tuttavia non si era mai proposta come necessaria. Si accorse che la malattia necessaria lo interessava, e capì che sarebbe stato futile cercare di evitarla. Pertanto, tentò di organizzare la sua vita in modo da consentire alla malattia tutto lo spazio di cui abbisognava. Allentò i suoi rapporti con gli amici, si lasciò calcolatamente abbandonare da una donna che amava, ed alla fine decise di scegliersi un lavoro che consentisse alla malattia di aggredirlo in qualunque ritenesse opportuno e necessario. Costruendo la propria vita come uno spazio adatto alla malattia, egli aveva dato un preciso obiettivo alla propria storia, e sebbene il graduale affermarsi della malattia gli procurasse acute sofferenze egli avvertiva una sorta di conferma, un assenso, forse una gratitudine che gli veniva dalla malattia stessa, dalla sua ferocia mescolata ad una incomprensibile dolcezza. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 24 Stanza centodieci di Chiara Reali Rispondo al telefono. Annuisco mentre la voce all'altro capo del filo mi dice, albergo a cinque stelle, turisti inglesi, due bambini, ti aspetto tra un'ora. Salgo le scale di corsa, apro l'armadio e frugo tra i vestiti, qualcosa di comodo, qualcosa di elegante, qualcosa di comodo ed elegante. Arrivo all'appuntamento con qualche minuto d'anticipo; mi fermo all'angolo della strada e decido di fumare una sigaretta, guardo i minuti lampeggiare sul display del telefono. Il tempo digitale scorre a scatti, non ha vie di mezzo, nessuna approssimazione; privilegia la precisione della misura alla sua rappresentazione, alla lancetta che scivola fluida, al suo movimento continuo e inesorabile. La natura del tempo mi sfugge, tempo digitalizzato, perdo la concezione di infinito seguendo gli ottantaseimilaequattrocento momenti in cui è divisa la mia giornata, infinito precario, infinito a tempo determinato, sono troppo giovane, sono troppo vecchia, sono troppo qualificata, sono troppo inesperta, ha intenzione di avere figli? automunita? dinamica? È l'ora. La donna mi saluta con un cenno, mi porge un pacco avvolto nel cellophane, buon lavoro, mi dice, io ringrazio cercando di imitare il suo sarcasmo, e non è difficile, mi basta pensare al mio curriculum, maturità classica, laurea in Psicologia, buona conoscenza dell'inglese scritto e parlato, conoscenze informatiche e bla, bla, bla, affondo le unghie nell'involucro di plastica, saluto, mi accendo un'altra sigaretta. Sedevo in braccio a mia madre, la ascoltavo raccontarmi della sua infanzia, socchiudevo gli occhi per rivederla bambina correre in mezzo alle foglie affilate del granturco. Ma che lavoro fai, le chiedevo, lei mi rispondeva, la casalinga, e poi iniziava a lamentarsi, non ci sono vacanze, non vengo pagata, i miei sforzi non sono riconosciuti, e io non capivo mica, mi dici di nuovo di quella volta che la mucca è scappata, chiedevo, e lei ricominciava, e mi sembrava di sentire la corda ruvida tra le mani, l'odore di fieno e di sterco. Rispondo al telefono. Mia madre. Vai a prendere il pane, sì, com'è andata, bene, a che ora torni, non lo so, mamma, ci vediamo domani, domani lavoro. Un giorno ha deciso che era rimasta a casa abbastanza, è andata all'ufficio di collocamento e ha detto, voglio lavorare, si sono messi a ridere, alla sua età, ma alla fine ha trovato questo posto, serve ai tavoli e si lamenta, non ci sono vacanze, non mi pagano abbastanza, i miei sforzi non sono riconosciuti. Appoggio il pacchetto incellofanato sul sedile, lato passeggero, insieme alla borsa e alla giacca e al tuttocittà. Il giorno del mio ottavo compleanno ho accompagnato mia madre a dare l'esame di licenza media. Mentre passavamo su questo ponte, sul ponte che sto attraversando adesso, a ventiquattro anni, con una mano sul volante e una sulla plastica del pacco, mentre passavamo su questo ponte mi raccontava di quando era scappata di casa e si era nascosta nella cuccia del cane. Viveva con la mia bisnonna, che per me era una fotografia in bianco e nero incorniciata d'argento, e io guardavo fuori dal finestrino, mi dici di nuovo di quella volta che la mucca è scappata, dopo, e allora l'ho aspettata in macchina, ho disegnato una mucca sul vetro appannato. Ti ricordi la gerla, cos'è, mi dice, e io annuisco, non capisco, dov'è la mucca, allora, ogni mattina la tua bisnonna la riempiva e scendeva in città, a piedi, per vendere le uova e la frutta e la verdura, ogni mattina. Poi, un giorno, era una domenica, e lei aveva il grembiule sopra il vestito buono, e versava il vino agli uomini che giocavano a carte sotto il pergolato, un giorno le dicono, c'è un lavoro in un'altra città, un lavoro migliore, ma è una città lontana, non si può andare a piedi, e allora ti presto la bicicletta, ma lei non era capace di andare in bicicletta. Ha imparato dove hai imparato tu, nel cortile; ogni mattina scendeva in città, a piedi, per vendere le uova e la frutta e la verdura, e poi la sera saliva sulla bicicletta, imparava a pedalare e curvare e frenare. Mi fermo a lato della strada, pigio il bottone che fa lampeggiare le quattro frecce, devo girare a destra, poi fino alla rotonda, poi ci sono i cartelli, ha detto la donna, noi le I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 25 conferiamo la laurea di dottore in psicologia, giro a destra, poi fino alla rotonda, seguo i cartelli, parcheggio. Stanza centodieci, salgo le scale, il pacchetto l'ho messo dentro la borsa, centouno, centodue, mi fermo, lo apro, mi infilo il grembiule a strisce bianche e verdi, mi appunto sul seno la targhetta di riconoscimento, busso. Buona serata, saluto la coppia di turisti, saluto i bambini, fate i bravi con la baby sitter, e quando si chiude la porta so già cosa fare, racconto di quella volta che la mucca è scappata. C. Reali, Febbraio 2006, Verbania I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 26 In quella luce di Babsi Jones Non mi vedranno, sta pensando. La luce al neon le arrossa gli occhi, due patacche liquide, occhi da sonno mite, docili come quelli di una bestia. Non mi vedranno, sta pensando, mentre accarezza l’articolo del desiderio; è un tocco maldestro ma non lascivo, con quelle dita di legno, le nocche fatte a nodo; la pelle traslucida della mano lascia intravedere un reticolo di vene dilatate e spavalde e, se non tremasse lievemente, la mano si direbbe finta. L’oggetto del desiderio è come ci si aspetta che sia: un cilindro, non troppo lungo, facile da manipolare. È molto che la donna ci pensa: l’intuizione del sapore che l’articolo - appena lo avrà posseduto - lascerà nella sua bocca, le richiama alla mente le scampagnate giovanili con le amiche, i tempi andati del vino fulvo e del pane appena levato dal forno. E sono andati in fretta, i tempi, gli uni dietro gli altri, bruciandole la vita. È stata figlia, moglie, madre, nonna. Se ruotasse quella mano, che sfiora pigramente l’oggetto del desiderio, vedremmo qualche callosità sottile: l’ispessimento del lavoro manuale che - un giorno uguale all’altro, un giorno dopo l’altro – l’ha condotta alla pensione, dove ora giace: come se non restasse altro che attendere una morte a caso. È stata lavoratrice: i tempi, andati in fretta, di anno in anno in anno in anno, la hanno consegnata, con le sue gambe esitanti e il suo cuore sciupato, in questo tempo: tempo moderno di baldracche e lupi, di sciacalli sconci; in questo tempo per giovani aitanti, grandi competitori, accurati vessatori, belle facce abbronzate da bastardi. Non mi vedranno, sta pensando, e non la vedono: eppure si vergogna. Ci sono azioni che per gente d’altri tempi hanno l’odore dell’inconcepibile: rubare quello che non si può comprare, per esempio. Ma non si può comprare quasi più niente, pensa - come se già si esprimesse in sua difesa davanti alla corte che la accusa di essere una canaglia; non ci si arriva, a fine mese, signor giudice: la voce, se il tribunale immaginario si materializzasse, produrrebbe in alcuni di noi un po' di pena: voce sdentata e fiacca, fiato cortissimo da lepre tallonata, parole titubanti, con quell’unto di inflessione regionale. Non ha studiato molto, questa vecchia: ma era fiera di aver finito l’avviamento. A quei tempi si diceva così, signor giudice, ma lei è troppo giovane per ricordare: il cuore le sbatte dentro, mentre immagina di essere colta in flagrante, sorpresa a rubare in questa luce al neon del supermercato di quartiere. Questa nuova luce da convinzioni intoccabili, da sorridenti famigliole che scelgono e riflettono, questa luce da tiratori scelti e da uomini esattamente sani, questa luce: che pialla le cose fino a ridurle a un deserto, in cui non è rimasto nemmeno un cantone per dar riparo ai poveri, per dar conforto agli ammalati, ai differenti, ai mutilati, ai feriti, per dar speranza agli scampati, ai terrorizzati, agli storpi nell’anima - o nelle fibre muscolari. In questa luce, l’azione si svolge come la racconto: la sua mano sconsolata acchiappa l’oggetto del desiderio, così dispendioso e così triviale; esita un secondo, poi lo infila nella tasca di un paltò poco pratico, un po’ liso sui gomiti, di un colore imprecisabile: il colore dei soprabiti ordinari acquistati ai grandi magazzini e conservati in naftalina. Occorre meno di una trentina di secondi affinché la scena si concluda; la mano, l’articolo, la tasca: e il cuore della vecchia, che si ostina in un gioco rischioso di spinte e di sussulti. È una cardiopatica: il dottore si è raccomandato tanto perché si sottraesse alle emozioni. E di emozioni, a dire il vero, ne restano poche, a questa donna in scadenza di contratto con la vita: qualche ricordo che si annacqua con le piogge uggiose di novembre, di ogni novembre; qualche ricordo che si squama dentro la luce al neon dell’ipermercato. Lamelle I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 27 e frammenti di vita di una Signora Qualunque, foto di matrimonio e di villeggiatura, le belle gambe delle ragazze nel dopoguerra, e il tinello per cui si erano firmate le cambiali. Fra queste sue scaglie di memoria, sparpagliate fra i detersivi e i surgelati pronti in meno di quattro minuti, nella giostra in cui roteano i volti delle cassiere immusonite, del ragazzo al banco carni che si contempla la mano sinistra, come se cercasse nelle linee sul palmo la risposta a tutte le sue incertezze, nella giostra in cui roteano i volti dei passanti frettolosi acquirenti, produttori, consumatori, avventori: uomini moderni - la vecchia si dirige verso l’uscita. Nella tasca, a parte quel cilindro vagheggiato, impaccato a festa e prezzato (cinque euro e sedici centesimi), riposano le monete del resto della farmacia, un fazzoletto di stoffa, che non si usa più, e un bigliettino cartonato e scuro che le hanno allungato all’ingresso del tabaccaio, stamattina: Immortal, i destini che si intrecciano per l’eternità: dal 19 novembre nei migliori cinema. È tanto tempo che la donna non va al cinema, e se la scoprissero con il magro bottino nella tasca, pur imbarazzandosi, al giudice direbbe: sa, un tempo mi piaceva guardare certi film, perché fantasticavo di essere più bella, e ricca, e anche un po’ felice. Le porte automatiche del supermercato stanno per aprirsi, con quel singulto metallico inavvertibile che fanno le macchine che non hanno tregua; oltre le porte, c’è il solito quartiere di case rettangolari, di vasi e di pilastri, di scale e scale e scale, di strade imbrattate e di vigili disattenti, di bancarelle e di bambini in corsa, di casalinghe che filano - alla messa, dal parrucchiere, a casa -; il solito quartiere che nasconde pedantemente i suoi operai in cassa integrazione, i suoi tossici, con la siringa piantata in vena come una spada, e i suoi vecchi: che a fine mese vanno a far la fila all’ufficio postale della piazza, per vedersi consegnare la carità di una pensione scarsa. Il solito quartiere, oltre le porte del supermercato: dove termina la luce sfolgorante e inizia qualcosa che non è ancora buio, che non è ancora notte, che non fa ancora propriamente orrore, ma lascia addosso quel senso di incompiuto, di sperperato, di sciagura rimandata a data sconosciuta. La vecchia quasi oltrepassa le porte, in pochi metri il suo solito quartiere la inghiottirà: stendendo un pietoso velo sulle sue vene dilatate delle mani, e quell’oggetto cilindrico dentro la tasca sdrucita del paltò, frutto di un furto e di un desiderio puerile: sentirsi in bocca il gusto dei panini divorati in treno, delle sagre di paese e delle tavolate in festa. La voce che arriva alle sue spalle è piatta come l’esistenza, ovvia come il Natale che si annuncia nel postribolo delle vetrine gonfie, è una voce di routine: “Mi scusi, posso vedere cos’ha dentro le tasche?” Non mi vedranno: l’ha pensato così a lungo, la vecchia, che pareva vero, e se mi vedranno avranno pietà di me, questi cristiani. Il cuore è una strumento che certe volte, nel petto di alcuni vecchi stanchi, si fa ordigno, e - dalla confusione, dallo spavento o dalla rabbia - esplode. Dentro la luce che promette festeggiamenti lieti e vantaggi custoditi, dentro la luce moderna, che ritaglia spazi ottimali per le esigenze di ogni cliente, dentro quella stramaledetta luce che non conosce ombre e non ammette deroghe, la vecchia cade, nella banalità del suo infarto: non dirà mai al giudice del tribunale dei sani e ritti in piedi, che aveva rubato solo per quella volta, che la pensione non le basta, che le piaceva il cinema, un bicchiere di vino, un panino con il salame. All’uomo della sicurezza del supermercato, che si inginocchia come il pastore di un brutto presepe metropolitano, la anziana donna biascica: “…Come un salame, perché… Il sapore del salame delle scampagnate…”, e non finisce: la morte non ha mai rispetto per quel che si ha da dire. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 28 Dentro la luce al neon del supermarket, questa luce che rischiara un deserto in cui non è previsto nemmeno un angolo per dar salvezza ai poveri, per dar consolazione agli ammalati, per dar fiducia ai superstiti, dentro quella luce e intorno alla vecchia morta si accalcano i curiosi: che guardano le due patacche liquide dei suoi occhi mentre diventano di vetro. Nota dell’autore: questo racconto è stato scritto dopo aver letto un banale fatto di cronaca su Repubblica, il 30 novembre 2004. L’articolo diceva: “È morto nel supermercato durante un controllo antitaccheggio. Gli addetti alla sicurezza della Esselunga di via Canova nel popolare quartiere dell'Isolotto a Firenze avevano appena cominciato a frugare nella borsa di N. V., un pensionato di 70 anni, quando hanno notato qualcosa che non andava: nella sua spesa c'era un articolo non pagato. L'anziano, cardiopatico, quando si è visto scoperto si è agitato molto. Il malore ha colto l'uomo mentre i vigilanti lo accompagnavano nell'ufficio del direttore. Il pensionato, residente nella zona dell'Isolotto, era appena passato per le casse a pagare la spesa, quando è stato avvicinato da alcuni addetti antitaccheggio. Secondo i carabinieri di Legnaia durante i normali controlli che vengono intensificati nel periodo natalizio, gli addetti alla vigilanza si sarebbero accorti di una piccola leccornia che non figurava nello scontrino appena battuto alla cassa: un salamino.” Il mio testo non ha nessuna correlazione con l'accaduto, se non il desiderio che mi è venuto, leggendo il giornale, di dedicare una storia alla impercettibile tragedia quotidiana degli anziani. La vecchia di cui parlo è immaginaria, ma se fate due passi nel quartiere in cui vivete, scoprirete che questa vecchia ha molti nomi e molti volti. Il 52,3% dei pensionati italiani ha un reddito inferiore a 750 euro mensili (valore inferiore alla soglia di povertà relativa pari a € 810,32 definita dall'Istat). Le immagini le ho scattate a Milano nel corso del 2005. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 29 Il monologo della varechina di Silvana Rigobon Lei finge di dormire, gli dà le spalle. Lui legge un libro. L’unica luce è quella sul comodino dalla parte di lui. Lui chiude il libro, lo ripone sul comodino, si avvicina a lei. E il sangue, alla fine, chi l’ha pulito? Chi vuoi che l’abbia pulito, indovina. E non potevi farlo pulire a Luisa? Alla moglie del capo? Ma ti sembra il caso. Almeno si rendeva utile. Una volta tanto. Sì, bravo. È pure incinta. Che stamattina quasi sviene, dallo choc. Lui spegne la luce. Buio. Insomma, chi l’ha accompagnata, Kumari, al pronto soccorso? Il capo, te l’ho detto. Con Anna, che prima è passata al bar a farsi dare il ghiaccio. Il ghiaccio per la mano, vuoi dire. Per il dito. E per la mano, anche. Lui riaccende la luce. Si gira verso di lei, che continua a dargli le spalle. No, scusa: per il dito in che senso? Vedi che non mi ascolti mai, quando ti parlo. Si gira e lo guarda. Te l’ho detto. Gliel’hanno riattaccato. Il dito. Il dito. Ma stai scherzando? Guarda che te l’ho detto anche prima. È stata fortunata, c’è un medico che fa miracoli, a Borgo Roma. Fortunata? Insomma, nella sfiga ha avuto fortuna. Anna dice che il chirurgo, stamattina, è stato in gamba, con Kumari. L’ha rassicurata. È riuscito a farla rilassare. Le ha confermato che l’operazione è difficile, ma con un po’ di fortuna potrebbe addirittura riacquistare la mobilità del dito. Almeno parzialmente. Anna dice che è proprio un bel tipo. Chi? Il chirurgo, quello che ha riattaccato il dito a Kumari. Ma chissenefrega. Di dov’è, piuttosto? Il chirurgo? Kumari. Dello Sri Lanka. Guarda che me l’hai chiesto anche prima. Ma mi ascolti o no? E l’hai pure conosciuta. Chi? Kumari. Ma quando? Alla festa del quartiere. Quella delle polpette piccanti. Bravo. Lei. Quella del bambino di sei anni che non vede da tre. Bravo. Lei. Cazzo. Che sfiga. Lei. Lui spegne la luce. Buio. E tu non ci sei andata? Dove? All’ospedale. No. Non ancora. Perché no, scusa? Non mi andava. Perché? Te l' ho detto che non mi andava. Ci vado domani. Forse. E il tuo capo? Il mio capo cosa? Cosa dice, lui. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 30 Lei accende la luce. Si gira verso di lui. La prima cosa che ha detto, stamattina, quando ha visto il sangue: Fortuna che l’ho messa in regola… Stronzo. Beh, insomma. Mica ha tutti i torti. No, scusa, voglio dire: sangue a fiotti, lui non sa neanche cos’è successo. Per quel che ne sa lui, questa rischia di morire. E cos’è la prima cosa che gli viene in mente? Di cosa si preoccupa? Di lei che potrebbe lasciarci le piume? No, figurati. Si preoccupa delle sue carte. Ti sembra normale? Ti sembra un ragionamento da essere umano? Che c’entrano le sue carte? Se non ha il permesso di soggiorno, come cavolo la porti, una con un dito tranciato, all’ospedale? Esattamente allo stesso modo in cui l’hanno portata loro: in macchina, con la mano fasciata in un asciugamano e il dito in un sacchettino di plastica, nel ghiaccio. Hai capito benissimo cosa voglio dire. Come ti presenteresti all’ospedale con una che rischia un’emorragia e non ha i documenti? Guarda che il servizio sanitario è un diritto. Per tutti. Mica siamo in America. È una questione di etica. Un medico non può rifiutarsi di curare un paziente che rischia un’emorragia grave. In ogni caso, una volta curata, intervengono i servizi sociali. O la polizia. O i carabinieri. Qualcuno interviene di sicuro. E sono cavoli amari. E che fanno? E che ne so. Lavoro in banca, mica in Pronto Soccorso. Ma sicuramente non è una bella cosa ritrovarsi senza documenti, in ospedale, da immigrato. Magari se non avesse avuto il permesso di soggiorno si sarebbe fatta prestare i documenti da una parente, o da un’amica. Che tanto le singalesi si assomigliano tutte e si aiutano sempre, fra loro. Anche lui si gira verso di lei. Sì, brava. Magari. Magari si fa prestare i documenti da una che è stata già ricoverata in ospedale, magari una che ha partorito di recente, che magari è registrata con un gruppo sanguigno diverso, che magari le cuccano subito: una rischia l’espulsione e all’altra fanno un culo così. Oppure magari non se ne accorgono e a questa che rischia l’emorragia magari fanno una trasfusione con il sangue di un altro gruppo. Leggi troppi fumetti, tu. Lei si gira su un fianco e gli dà nuovamente le spalle. Allunga la mano e spegne la luce. Buio. Notte. Notte. *** Lei riaccende la luce. Si gira verso di lui. Lui fa finta di dormire. Sei sveglio? Sì. Lo sai cos’ha detto la suocera? I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 31 - Di Kumari? Che c’entra la suocera di Kumari? E che ne so? Non stavamo parlando di Kumari? Ma dai. Sarà in Sri Lanka, la suocera di Kumari. Che ne so della suocera di Kumari? Intendo la suocera del capo. La mamma di quella che non ha pulito il sangue dal pavimento. E dalla taglierina. Che altrimenti sviene. Bravo. Quella che sta per partorire ed è sotto choc per la scena di stamattina. Lei. Anzi, sua madre. E che ha detto, la suocera? L’ho sentita che raccontava la storia del dito, al telefono. Probabilmente la raccontava a una comare della parrocchia. Dice, Fortuna che l’ha messa in regola. Pure lei. Appunto. Lei si alza, si mette seduta sul letto. Fortuna che l’ha messa in regola, dice. Che altrimenti si mangiava la casa, con tutti i sacrifici che ha fatto fare a mia figlia. Madonn’Ausiliatrice. Quali sacrifici, scusa? E che ne so? Chiedilo a lei. O alla figlia. Vabbè dai. Notte. Perché, t’annoio? Perché sono le due passate. Madonn’Ausiliatrice. Devo alzarmi fra quattro ore. Lei spegne la luce dalla sua parte e si rimette sotto le lenzuola. Buio. Appunto. Dormi. E vedi di non svegliarmi, domattina. *** Buio. - Ehi. Che c’è? Ma lo sai che puzzi di varechina? Cosa fai, mi annusi? No. Ma puzzi di varechina. Ti giuro. Ancora? Credevo di essermela lavata di dosso, di averla solo nel naso, questa puzza. … Me la sono versata sui jeans, la varechina. Quelli nuovi. Li ho rovinati. Per sbaglio, spero. Lei riaccende la luce. Ovvio che me la sono versata per sbaglio. Stavo cercando di centrare l’anello, e mi è scivolata la bottiglia di mano. Ero seduta su uno sgabello, ho fatto un disastro. In che senso stavi centrando un anello? Lui si alza su un gomito. Stavo cercando di centrare “l’anello”. Di Kumari. Stavi cercando di togliere le impronte? Per occultare le prove del delitto? Spiritoso. Cosa vuoi che occultassi? Quando è caduto il dito, l’anello si è sfilato. Non c’era verso di trovarlo. L’anello, dico. Il dito l’ha trovato Anna, quasi subito. Dove? Sotto il tavolo della taglierina. Bastava seguire la scia di sangue. S’è infilato fra due pile di carta, in verticale. Stava in piedi da solo. Risparmiami i dettagli, ti prego, vorrei evitare incubi, stanotte. Spegni e dormi. Lei spegne la luce. Buio. *** Lei accende la luce, si allunga verso il comodino. Si sfila l’orologio dal polso, si toglie gli anelli e li appoggia sul comodino. Lui è disteso, girato verso di lei. Chi ce l’ha, adesso? Cosa? L’anello. Di Kumari. Il marito. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 32 - E chi gliel’ha dato? La moglie del capo, credo. O la suocera. Andavano a trovarla all’ospedale, stasera. Ho chiesto io di consegnarlo al marito. Anna dice che si è commosso, quando l’ha visto. Secondo me non le entra più, l’anello. Lei spegne la luce. Buio. *** Nell’angolo opposto della scena si accende uno spiraglio di luce verticale. È il frigorifero che si apre. È lei, in cucina. Prima cerca qualcosa da bere, ma ci rinuncia e chiude lo sportello. Poi tira lo sportello del freezer e prende una vaschetta di gelato. Cerca un cucchiaio nel cassetto delle posate e mangia il gelato direttamente dalla vaschetta. In scena solo un faretto a seguire i suoi gesti. Si siede su uno sgabello, guarda il pubblico, mangiando il gelato. - Stamattina, prima di salire in macchina, Kumari mi ha guardato negli occhi. È importante, per me, mi ha detto. È l’anello del matrimonio. Ci abbiamo messo quaranta minuti per trovarlo. Abbiamo dovuto spostare tutte le pile di carta. Tutte, una dopo l’altra. L’ha trovato la suocera del capo. Ha chiesto a me di pulirlo, perché a lei il sangue fa schifo. E fortuna che l’ha messa in regola, continuava a ripetere come un mantra, Madonn’Ausiliatrice. Anche a me non piace, il sangue, avrei voluto risponderle. Ma non ho detto nulla. È brava, Kumari, lo ammette anche il capo: Parla poco e lavora bene, Kumari. Non ha mai commesso un errore. Non ha mai sbagliato una misura, non ha mai rifilato più carta del necessario. Usa tutto con parsimonia, ha un grande rispetto anche per le cose, per la carta. Lavora da noi da un paio d’anni. Faceva le pulizie, all’inizio. L’hanno messa in regola quest’inverno, dopo che abbiamo scoperto di suo figlio. Non lo vede da quando è partita, perché se andava a trovarlo rischiava di non poter ritornare in Italia. Non ne ha mai parlato, con noi, fino a quando non le è caduta una foto del bambino dalla tasca, per sbaglio. Sono anni che non ci ritorna, in Sri Lanka. Sono anni che non vede i suoi. Il suo sogno sarebbe di ritornare a viverci. Le mie colline del tè, le chiama, lei. È sempre evasiva, quando ci racconta del suo viaggio verso l’Europa. A noi ha detto che in Italia ci è arrivata in treno, dalla Germania. Insieme ad altri. Ma del viaggio fino alla Germania, neanche una parola. Mai. Se glielo chiedi, come abbiamo fatto noi, all’inizio, sorride e dice che è passato tanto tempo; che ricordare non serve a nulla. Stamattina nei suoi occhi c’era quel viaggio. Fortuna che l’ho messa in regola, continuava a ripetere il nostro capo, stamattina. Era più pallido di lei, quando è salito in macchina per accompagnarla al Pronto Soccorso. Lui che guidava, Kumari accanto con un asciugamano a fasciarle la mano, e Anna dietro, col sacchettino sulle ginocchia. Il sacchettino col dito conservato nel ghiaccio. Anna l’ha chiesto al bar di fronte, il ghiaccio: quando ha spiegato a cosa le serviva, la barista è impallidita. Io sarei svenuta. Al posto di Kumari, dico. La scena non l’ho vista, me l’ha raccontata Luisa, la moglie del capo, che secondo me le vengono le doglie in anticipo, dallo spavento. Ha un pancione che ormai ogni giorno potrebbe essere quello giusto. Da quando è incinta scende in laboratorio di rado, ha sempre la nausea e ha problemi di pressione. Kumari è stata assunta per sostituirla, alla taglierina e alla pressa. Per una volta anche la suocera è d’accordo col capo. Fortuna che l’ha messa in regola, Madonn’Ausiliatrice. Luisa dice che il sangue schizzava dappertutto. La carta sotto alla taglierina era zuppa di sangue. L’abbiamo bruciata tutta. Il pavimento, alla fine, l’ho sfregato io. Per togliere il sangue bastava l’acqua fredda. Ma non per togliermi di dosso quegli occhi e tutto quel che c’era, dietro a quegli occhi. È come se mi fosse entrata nei polmoni, la varechina. Me la sento dentro, insieme a quel viaggio. Continua a mangiare il gelato, fino a finire la vaschetta. Si spegne il faretto. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 33 *** Buio. Si accende la luce dalla parte di lei. Lei si mette sotto le coperte, guarda lui che le dà le spalle, sembra che dorma. E se ingrasso non mi amerai più. Hai le paturnie. Lei si allunga per spegnere la luce. Buio. S. Rigobon, Aprile 2006, Verona Nota dell’autore: questo racconto è liberamente ispirato ad un’immagine di Nadia Zorzin, pubblicata nel suo blog www.soloinlinea.splinder.com, il 5 maggio 2004. La didascalia che accompagna l’immagine è «E_se_ingrasso_non_mi_amerai_più._Hai_le_paturnie!». I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 34 Inconvenienti tecnici di Antonella Cicogna Eppure quella sera al cellulare ci aveva provato. Ma dall’altra parte non era arrivato che un mugghio indistinto. Pertanto dovendo ripetere, Franca aveva preferito ripiegare su: “abbastanza. Ho detto che sto abbastanza bene, mamma”. Sabato 16 ottobre alle otto e trenta i marmi della stazione odoravano di cera appena stesa. Ma le tendine della biglietteria erano ancora calate, nonostante il cartello nell’angolo in basso: Orario d’apertura SABATO e FESTIVI 7:00 - 18:30 “Ma come chiuso?” Franca si allentò la sciarpa, le dita irrigidite dal freddo del primo mattino, e si guardò attorno. “C’è qualcuno?”, bussò al vetro di quell’unico sportello. Chiamò e richiamò, la faccia nella mezza luna eclissata della biglietteria. Non le rispose che il freddo del ripiano di marmo. Ogni sabato sui treni eurostar si viaggia a partire da 15 euro. Ogni sabato sui treni eurostar si viaggia a partire da 15 euro. Ogni saba Un monitor rosso alle sue spalle scagliava frasi promozionali di Trenitalia con tale foga contro la vetrata dalle tendine abbassate che, trovandosi tra la biglietteria e quel furore luminoso, Franca sentì il bisogno di scostarsi. Il box simil-frigorifero che sorreggeva quella rincorsa di lettere giurava di essere una biglietteria in esercizio. “Siamo salvi!” La ragazza vi si avvicinò di soppiatto, attenta a schivare il fuoco incrociato di lettere che meccanicamente rimbalzavano dal monitor alla vetrata; dalla vetrata al monitor: to sui treni eurostar ot ratsorue inert ius Ogni sabato si is otabas ingO a partire eritrap a da 15 euro orue 51 ad Infilò la testa tra le sue orecchie metalliche, che a Franca ora ricordavano le palme delle mani rivolte al cielo di quelle madonnine sul ciglio delle stradine di montagna, azzurre, coi fiori di campo infilati nelle grate dei loro capitelli bianchi. E si ritrovò faccia a faccia con uno schermo leggermente convesso. Selezionare la lingua desiderata Scelse la bandierina verde-bianco-rossa. Lo schermo rispose dopo qualche secondo: • • • • Internet biglietteria telefonica Cambio prenotazione Emissione biglietti Informazioni orario Ma, accanto alle prime tre opzioni, lo schermo precisava, a caratteri esitanti: Servizio momentaneamente non disponibile “Momentaneamente”, ridacchiò Franca. “Momentaneamente. Ma che significa? Dimmi che non funzioni e falla finita qui!”. E ripremette più forte su Emissione biglietti, quasi potesse schiacciarlo, sentirlo friggere sotto la punta del suo dito quell’Emissione biglietti. Servizio momentaneamente non disponibile, fu la replica. “Perfetto! E adesso?” I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 35 Si svincolò dall’abbraccio della biglietteria elettronica e guardò il monitor delle partenze che pendeva da un sostegno metallico in un angolo del soffitto. Che almeno il treno fosse in orario! Sistema di visualizzazione non attivo. Prestare attenzione alla diffusione sonora. Le restava il cartellone Partenze sotto vetro, prima d’imboccare l’uscita ai binari. Il suo dito incontrò rasserenato il blu delle 8 e 55. Occhei. L’eurostar partiva al binario tre, alle 8 e 55, come le aveva detto la sua nuova collega di lavoro. “Fermati! Resti da me a dormire. Festeggiamo e domani riparti più riposata!”. Era stato allora che Franca aveva telefonato a sua madre. “Vedrai se non ne becco uno di stronzo per ‘sto biglietto. Ve-dra-i”. Sospinse la porta a vetri, attraversò il sottopassaggio, svoltò all’indicazione Binario 3, e presa dai suoi pensieri per poco non finì addosso a una signora che, sbucata chissà da dove, china su un’enorme valigia, cercava con tutte le sue forze di portare il grosso fardello in cima alle scale. “Oddio mi scusi!”, esclamò Franca. “Le ho fatto male?” La donna si raddrizzò, spalancò la bocca con aria sorpresa, ma non disse parola. “Ce la fa? Le dò una mano?”. La signora ancora non disse nulla. Sembrava piuttosto smarrita. Rimasero così per un attimo, Franca due scalini sopra la donna. Ne notò le mani guantate. Il Loden fuori moda coi bottoni d’osso, anche quelli del tipo che usava sua madre. E le forcine che le tenevano raccolti i capelli, prossime a schizzare; come se non fosse il cuore a pompare il sangue nelle sue vene ma il cervello, e lo sforzo nel trascinare su quella valigia lo gonfiasse a dismisura contro la scatola cranica, col rischio di fare saltare via tutto. “Su che l’aiuto!” e, ridiscesi i due scalini, afferrò la valigia per la maniglia estraibile. Comprese le intenzioni di Franca, la donna scostò la borsetta nera che le s’impicciava tra il cappotto e la valigia, le sorrise, e piegandosi leggermente sulle ginocchia prese il bagaglio per le rotelle. Assieme, lo trasportarono ai piedi della linea gialla, binario 3. “Va anche lei a Roma?” Gli altoparlanti espettorarono l’annuncio di un treno riservato, proveniente da Amburgo, che viaggiava con un ritardo di due ore e trenta minuti. Poi ci fu quello del Regionale 5543 delle ore 8 e 53 che subiva un ritardo di trenta minuti per inconveniente al materiale rotabile, e per questo si stava mettendo in sosta al binario 1. Mai che un treno rispettasse gli orari dati. Franca fissò nuovamente la donna che aveva questo maledetto vizio di non rispondere. Né rispose. Col dorso della mano guantata e tremante si scostava i pochi capelli dalla fronte. Li risistemava sotto le forcine. Rimase così, con le dita tra i capelli, un sorriso accennato. Poi abbassò le braccia, consapevole di aver lasciato qualcosa a metà, che la ragazza la guardava e attendeva. Si tastò le tasche. La borsetta nera. L’aprì. E fu allora che le sue labbra ritornarono ad appiattirsi. Franca ebbe la sensazione che la donna volesse darle qualcosa. Forse dei soldi. Scosse la testa e protese le mani, per anticiparla. “Davvero signora, non è il caso”. Ma la donna estrasse un biglietto sgualcito e, ancora senza dire nulla, lo affidò alla gialla timbratrice che ogni tanto scattava senza motivo, cementata a una colonna sotto un orologio privo della lancetta dei secondi. “Ma guarda che tipo…” La bocca nera si schiuse. Fagocitò il cartoncino, lo risputò con un colpo secco di mascella, lasciando in un angolo del biglietto un’impronta sbavata di molari blu con la data del giorno. L’annuncio del treno eurostar Italia numero 9313 in arrivo al binario 3 inglobò tutto il resto: il disappunto di Franca che si aspettava un grazie e niente più; la donna che, nuovamente piegata sulla valigia, ora armeggiava con la fibbia mentre le sue labbra stentavano a lungo su certe vocali, senza peraltro emettere suoni. La ragazza volutamente non la salutò, le voltò le spalle e corse verso i vagoni di testa. Via, lontana da quella signora così scortese. Non poteva immaginare che ora la donna in Loden, nella speranza che Franca si voltasse, agitava le braccia e saltellava ai margini del binario, stringendo un pacchetto tra le mani, coi bottoni d’osso che ondeggiavano sospinti dall’impeto delle sue braccia alzate. Quando fu sull’ultimo scalino della carrozza Franca esitò. Il suo sguardo corse lungo i fianchi grigi del treno che ripetevano Trenitalia in una grafica che le mandava insieme la I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 36 vista. Percorse con gli occhi tutte le carrozze finché non intravide una figurina alle prese con una valigia che la strattonava all’indietro, incastrandosi nel predellino del treno. Pensò alla madre. A quell’ultima telefonata. - Ma stai tranquilla mamma. Ho finalmente trovato lavoro no? Mi hanno preso no? Non era questo? - Eddai mamma! Ci sarà il rinnovo. Non è mica l’Alitalia. In tutto il mondo le prime assunzioni sono a tempo. - Sì ti dico. - Tranquilla, ti dico. - Ma ti dico che non possono licenziare così. - No mamma. È sicuro, ma è che tu non sei mai… - Come assistente di terra, che altro sennò. - Sì mamma. - A me sembra già buono, mamma. - Eddai. Non dovevi stirarmele le camicie, lo sai mamma. Non è questo, è che non sei mai… - …di merda. - …abbastanza. Ho detto che sto abbastanza bene, mamma. Si immaginò gli indumenti perfettamente stirati in quella valigia che arrancava, i guanti avvolti nella carta velina, i golfini dai ricami tirolesi, i bottoni d’osso di scorta riparati in una scatolina di latta… conosceva la cura e l’amore che quella donna in Loden aveva riposto in tutte quelle sue cose. “Fatti aiutare da loro adesso, che a quelle non devi dire grazie”, pensò amareggiata. Poi si voltò dall’altra parte e salì definitivamente in carrozza. Nessuno dei viaggiatori alzò lo sguardo quando lei entrò. Lo scompartimento era vuoto per essere un sabato a partire da 15 euro. Si sedette nel posto singolo, vicino al finestrino e alla porta scorrevole, in attesa che il treno partisse; che arrivasse il capotreno per fare finalmente il biglietto. Il treno eurostar Italia 9313 dà il benvenuto ai passeggeri saliti a Bologna centrrrrrr La voce su nastro, entrata in scena nella stazione sbagliata, fu troncata da un rauco annuncio in diretta. Attenzione chef express, la ristorazione che viaggia, informa i signori viaggiatori che per inconvenienti tecnici il servizio bar, ristorante, caffetteria non potrà essere erogato. Ce ne scusiamo in anticipo. “Sta andando tutto a rotoli”, mormorò Franca. Il marciapiede del binario 1 era invaso dai passeggeri scesi dal regionale 5543. Una comunicazione di servizio invocava l’intervento dell’addetto ai mantici, e un uomo dalla pelle scura, in giubbetto arancione fosforescente, stava correndo in soccorso del treno inerte. Il mantice doveva essere quella cosa nera divelta a metà, secca, ritirata nelle sue stesse pieghe, che altrimenti avrebbe tenuto assieme i due vagoni, riparato il traghettare da una carrozza all’altra di quei viaggiatori che ora attendevano sulla banchina irrigiditi nei loro cappotti. Dunque era al mantice l’inconveniente, non al materiale rotabile come avevano annunciato in un primo tempo all’altoparlante. E il mantice era effettivamente quello? “Tutto letteralmente a rotoli”, si ripetè Franca, seguendo i movimenti affannati del soccorritore fosforescente. Poi distolse lo sguardo dalla scena, richiamata dalle mosse di un uomo. Non là. La metta qui, qui, gesticolava esageratamente il capotreno additando uno spazio vuoto tra due sedili. Quella valigia era ritornata all’orizzonte ma la donna non voleva metterla da nessuna parte, solo andare avanti, verso la ragazza. Franca vide i bottoni d’osso farsi più vicini e si sentì improvvisamente stanchissima. D’istinto guardò alla sua sinistra, per assicurarsi che davvero non ci fosse un secondo sedile. Che non si potesse proprio sedere nessuno di fianco a lei. Si raggomitolò nella speranza di passare inosservata, con la tendina automatica che strideva e s’abbassava, perché il suo ginocchio premeva inavvertitamente contro uno dei due pulsanti grigi sotto il finestrino. Erano così vicini quei bottoni d’osso ora, che le parve di poterne distinguere tracce di midollo. Di sentirne l’odore. La valigia gonfia e livida si fermò ai suoi piedi. “Ti ho stirato le camicie”. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 37 Perché sua madre le aveva sempre stirato le sue cose anziché dirle schietta: sono fiera di te. Perché le forcine le rimanevano sempre così impeccabili su quella testa che tanto raramente si era accostata alla sua? Inconvenienti tecnici. Momentaneamente non disponibile. Non erogabile. Perché le cose non potevano chiamarsi semplicemente col loro nome? Tipo: non funziona. Tipo: ti voglio bene. Punto e basta. Tipo: il bar e il ristorante su questo treno sono chiusi. Tipo: non s’illuda, dopo questo periodo il suo contratto non le verrà rinnovato. E invece era tutta una patina di parole, frasi, gesti, per non arrivare mai al sodo. Per non permettere mai di essere certi di qualcosa. Per dare quell’illusione di differito, di prossima epifania. Dispersa nelle volute espressive. Nel non detto, nel detto senza dire. Come in quel manifesto mezzo strappato incollato tra le pubblicità e gli annunci mortuari. Bando d’arruolamento per l’anno 2006 di 21.000 volontari in ferma prefissata di un anno nell’esercito italiano. Aveva attraversato la strada Franca, e tirato fuori il quaderno per annotarsi i punti chiave, perché se non l’avesse superato quel colloquio, l’ennesimo in due anni, insomma, ci sarebbe stata l’arma. Con prevista incorporazione nel mese di febbraio 2006. E i requisiti come aspirante di sesso femminile c’erano. Ma poi all’articolo 17: Rafferma, aveva riposto la penna, infilato le mani in tasca e lasciato gli appunti a metà: Ai sensi dell’Art 5 della legge 23 Agosto 2004 n. 226 e secondo le modalità di cui al Decreto del Ministro della Difesa 8 luglio 2005 nei limiti delle risorse finanziarie disponibili e nel rispetto delle consistenze annuali previste per i volontari di truppa dell’Esercito, i volontari in ferma prefissata di un anno, possono essere ammessi, a domanda, ad un successivo periodo di rafferma della durata di un anno. Per non chiamare le cose semplicemente col loro nome. Solo che quando telefonava a sua madre e diceva abbastanza, anziché di merda, neanche lei diceva le cose come stavano, in fondo. Neanche lei chiamava le cose con il loro vero nome. Anche se ci aveva provato, a farlo. Ma poi le sue parole erano arrivate alla madre tirate, sgualcite come quel biglietto della tedesca, e dunque, aveva preferito abdicare, e dare fiato a quell’abbastanza. Una ciocca di capelli, segno che alcune forcine non ce l’avevano proprio fatta, le sfiorò il viso. Franca si strinse nelle spalle, cercando di schermirsi come poteva da quella donna tanto molesta. Ma che voleva ancora? Alzò lo sguardo, fece per gridarle qualcosa. Esasperata. Svuotata. “Für Sie liebes Mädchen. Es war im Koffer!” sussurò invece la signora con fatica, porgendole un pacchetto. Con l’altra palma guantata batté sulla valigia, si portò il dito indice alla fronte. Scordato, ricordato! Poi, impugnata la maniglia estraibile del suo fedele bagaglio, senza altro dire, si portò all’uscita. Franca si tirò su con quel ringraziamento inaspettato in grembo: una salsiccia scura, lunga e schiacciata, tenuta assieme da un involucro di plastica raggrinzito al quale era stata levata tutta l’aria. Qualcuno dei viaggiatori ora guardava e ridacchiava. Lei scattò su per raggiungere la donna, ma il capotreno aveva già fatto scivolare la valigia della tedesca dal predellino e con le mani, sporgendosi tra il secondo e il terzo gradino, faceva cinque più cinque e indicava che il treno per Monaco partiva là di fronte, al binario 2 fra dieci minuti. Poi si era raddrizzato la visiera, aveva fatto segno che il treno era pronto per partire, e con una mezza giravolta si stava apprestando a rimontare in carrozza. “Signora, si-gno-raaaa. Frau, Fra-uuuuu”. “Ma che fa? Dove vuole andare. Stiamo partendo e lei non può sentirla, non vede che è non udente?”, tagliò corto l’uomo, indispettito da quella passeggera che ferma sul gradino gli impediva di risalire. Franca stringeva il pacchetto della tedesca al cuore, voleva almeno, se solo, un segno, un gesto, se le dava. “Non c’è tempo. È inutile. Mi ha sentito? La signora è non-uden-te”. “Sorda, vorrà dire. Anzi co-fo-sa se proprio vuole saperla tutta. Perché questo è il termine. Questa è la sua patologia. Questa è una fottutissima signora co-fo-sa. Da kophós. Occhei? Le va bene adesso?” E con il capotreno bloccato sul secondo scalino, e che già aveva I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 38 cambiato espressione, urlò lo stesso da sopra l’uomo, in un ultimo tentativo: Dankeeeeee! Frauuuuuu, dankeeeeee! La donna in Loden, seguita dalla sua valigia traballante, ovviamente non si voltò. Franca attese ancora qualche secondo, ma poi, conscia di quel ridicolo sfogo, arrossì e cercò di recuperare, in tono più cordiale, meno ostile. “Mi scusi sa, devo… devo fare il biglietto. In stazione era tutto chiuso e anche la biglietteria automatica non andava” L’uomo si conquistò finalmente la sua postazione sul treno. Una macchinetta affastellò lettere e numeri. “Fanno 10 euro e 50 con sovrapprezzo per la tratta fino a Verona”. “Con sovrapprezzo? Perché la multa scusi? Le ho spiegato che neanche quella automatica andava e –“ “Doveva farselo emettere ieri, il biglietto”, controbattè il capotreno. “10 euro e 50. Fino a Verona. Poi deve scendere e acquistarlo in stazione. Qui si sale solo con prenotazione. E l’educazione, se ancora sa cosa significa!”. L’altoparlante annunciò che il treno eurostar Italia 9313 delle ore 8 e 55 per Roma Termini era in partenza al binario 3. Fermava a Verona, Bologna Centrale, Firenze Santa Maria Novella, Roma Termini. Le carrozze di prima in settore A e C. Partiva con dieci minuti di ritardo per inconvenienti tecnici. Trenitalia spa se ne scusava coi gentili viaggiatori. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 39 Note biografiche MANUELA ARDINGO – Ventinove anni, abita a Roma. Nel suo passato il più classico dei licei classici e la più digitale delle ingegnerie. Trentacinque poesie, trentuno racconti e un libro: tutto comodamente barattabile. Nel suo presente la gestione quotidiana di un blog www.mardin.it - e la prima stesura di un secondo libro. Cura rubriche e approfondimenti su diverse riviste giornalistiche, cartacee e non. Collabora con le testate di arte e cultura libera: Exibart e Bazar. E spera di proseguire l’esperienza di critica cinematografica avviata con Duellanti. Ha vinto un concorso alla scuola Holden di Torino per la scrittura di un monologo teatrale e partecipato a Pordenonelegge.it per teorizzare in sette giorni i confini della scrittura in rete, ma va fiera soprattutto delle recensioni cinematografiche che settimanalmente pubblica su Cinewema. Un suo racconto è stato finalista al premio Teramo. Estratti dai suoi scritti sono stati letti e recitati, su e giù per l'Italia. Ha partecipato all'organizzazione della giornata sulle nuove scritture del Festival delle Letterature di Pescara e visto frasi tratte dalle sue poesie dipinte da Simona Angeletti e esposte a Terni. Sull’ultimo numero di Fernandel c’è un suo racconto, sta scrivendo un saggio sulla comunicazione e dalla settimana prossima lavorerà in radio. ALICE AVALLONE - Ventun anni, è iscritta all'IED di Torino, Pubblicità. Collabora con diversi giornali e riviste, sia cartacei che online. Da ottobre 2004 racconta sul blog www.intreno.wordpress.com, attraverso una poesia visiva in forma di prosa, i passeggeri dei treni, le loro vite e le loro stranezze. Visioni Binarie ha vinto il Primo Premio Scrittura Mutante 2005, e con la casa editrice Jumper ne ha tratto anche un libro omonimo. È stata volontaria del Festival Letterario Passepartout, partecipando alle prime due edizioni come redattrice web e direttore della fanzine cartacea quotidiana AuDay. Dall'autunno 2005 le è stato affidato l'incarico di animatrice culturale della Sezione Giovani Dappertout. È così che per la Biblioteca Astense ha ideato ed organizzato l'iniziativa di narrazione collettiva Sedani, storie raccontate a mano, conclusa il 21 marzo 2006, con il quale ha vinto il Primo Premio Speciale - Idea Originale di D O N N A è W E B 2 0 0 6 . Il suo blog è www.nastenka.wordpress.com. Progetti futuri? Carote. ANTONELLA CICOGNA - è di Milano, dove è nata nel 64, ma ha lasciato la sua città undici anni fa per una località di trecento anime tra vigneti e ciliegi, in Trentino. I suoi vicini possiedono tre asini. Acquistati con l’intento di farne spezzatino, sono però riusciti a convincere i loro padroni. Così ora pascolano nei prati e hanno pure un nome: Simoni, Cipollini e Chiappucci. Come gli assi delle due ruote. Antonella si è trasferita in Trentino dopo aver lavorato per un gruppo farmaceutico, dove scriveva giornali di vita aziendale e molecolare. Si è sposata con Mario, alpinista roveretano. Dalle iniziali dei loro cognomi è saltata fuori CIMA, ed è quello che fanno lei e lui per il mondo. Antonella ha salito diverse montagne e pareti rocciose extraeuropee: dall’Iran all’Oman, dall’India al Pakistan, dalla Colombia al Perù, dal Canada agli Stati Uniti… Nei suoi viaggi ha incontrato genti e realtà che ha spesso descritto nei suoi reportage e articoli. Giornalista professionista, collabora con diverse testate nazionali, locali e di settore. Tra queste SportWeek e Gazzetta dello Sport, i quotidiani Adige e La Provincia di Lecco e Como. Per Treccani ha contribuito alla realizzazione dell’Enciclopedia dello Sport nel settore alpinismo. Per Montagne del Mondo Supplemento del quotidiano Trentino - ha curato il volume Picchi d’America: dall’Alaska al Capitan. Per Radio Rai Trentino Alto Adige ha narrato la storia dell’alpinismo al femminile sulle montagne del mondo. Nel settembre 2005 è stata inviata per SportWeek a Teheran ai Giochi islamici femminili. In Iran ci va spesso, e della condizione femminile in questo paese ama scriverne. La sua firma è apparsa su Diario della Settimana, Meridiani, e sulle riviste di settore Meridiani Montagne, Alp e AlpWall, Climbing, Desnivel, Vertical, Klettern. È curatrice delle pagine di cronaca alpinistica extraeuropea per il bimestrale La Rivista del Club Alpino Italiano. È stata per diversi anni responsabile dell’ufficio stampa del Filmfestival Internazionale Montagna Avventura Città di Trento. Traduce narrativa di montagna per i tipi di Versante Sud. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 40 ANTONELLA CILENTO - (Napoli, 1970) ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002, Premio Fiesole e Premio Viadana), Non è il paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005). È tradotta in Germania da Bertelsmann. È stata finalista al Premio Calvino nel 1998 e vincitrice del Premio Tondelli 1999 con la tesi di laurea. Dal 1993 insegna scrittura creativa a Napoli dove ha fondato il laboratorio Lalineascritta (www.lalineascritta.it), tiene corsi di scrittura nella scuola pubblica, dirige la scuola di scrittura Le scimmie all’UPAD di Bolzano. Collabora con Il Mattino, L’Indice dei libri del mese, Il Riformista, il Sole 24 Ore. BABSI JONES - è nata a Milano la notte di capodanno del '68 in una casa popolare. Passa l'infanzia chiusa in un armadio con un coniglio giallo per cui inventa reportage dal fronte: è convinta di essere a Saigon. Preferisce Patti Smith al Liceo Classico Parini, da cui si fa espellere accusata di "fuori tema a scopo sovversivo"; per lunghi anni sopravvive in uno squat a Londra e scrive improbabili recensioni discografiche. Risale a questo quinquennio londinese il suo incontro con i testi di Burroughs e con le benzodiazepine. A metà degli anni '90 si sposta fra Ostuni e improbabili isole greche continuando a scrivere taccuini frammentari che formano un'unica opera impubblicabile e mastodontica. Nel '98, l'incontro con Emir Kusturica la balcanizza: viaggia nella ex-Jugoslavia devastata dalle guerre e studia serbocroato mentre cadono le bombe umanitarie su Belgrado. Di ex-Jugoslavia, e in particolare di Kosovo, si occuperà fino a oggi. Ha collaborato in qualità di "balcanista" stralunata con Report Diffuso, l'agenzia stampa ora defunta, ha pubblicato un cantico balcanico su Nuovi Argomenti 32 (Mondadori) nella sezione dedicata a Pasolini, sta scrivendo un quasiromanzo ambientato nella città divisa di Mitrovica nei giorni del pogrom antiserbo, e tiene aggiornato uno strano blog (www.babsijones.typepad.com): la versione virtuale dei suoi adorati taccuini. Più che uno scrittore è un work in progress, e ha come manifesto letterario l'Articolo19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. LOREDANA LIPPERINI - è giornalista e scrittrice. Collabora da anni con le pagine culturali de La Repubblica e con Il Venerdì. È stata una delle voci storiche di Radiotre e la trasmissione che ha condotto con maggior entusiasmo è stata Lampi, programma culturale quotidiano in onda dal 1995 al 1999. Ha ideato e diretto il canale cultura e il canale cinema del portale Rai.it. Attualmente scrive format televisivi. Ha pubblicato vari libri di musica classica (Guida all'ascolto di Bach, 1984; Don Giovanni, 1986 e 2006; Mozart in rock, 1990 e 2006 ) e uno di tutt'altro genere ( Generazione Pokémon, 2000). Ha curato la raccolta di racconti La notte dei blogger, Einaudi, 2004. Il suo blog è www.lipperatura.it. LAURA PUGNO - è nata nel 1970. Ha pubblicato Tennis, poesie con prose di Giulio Mozzi (Nuova Editrice Magenta 2001); Sleepwalking. Tredici racconti visionari (Sironi 2002); Descrizione del bosco, poemetto (Galleria Emilio Mazzoli 2005), in edizione numerata con illustrazioni di Vincenzo Cabiati. È stata finalista al Premio di poesia Antonio Delfini 2005. Con una sceneggiatura tratta dai racconti di Sleepwalking ha vinto il Premio Scrivere Cinema all’Autumn Film Festival di Verona, 2005. Nel 2007 uscirà per Einaudi il romanzo Sirene. È presente in antologie di poesia (L’opera comune, Atelier 2000, Dieci poeti italiani Pendragon 2002, Parcopoesia, Guaraldi 2003, 1° non singolo, Oèdipus 2006, Il presente della poesia italiana, Lietocolle 2006) e di prosa (La qualità dell’aria, Minimum Fax 2004; Italiane 2004, La Tartaruga; Resistenza60, Fernandel 2005; Eco e Narciso. 14 scrittori per un paesaggio Sironi 2005, Roma Capoccia. Cronache di una metropoli in 23 scrittori, DeriveApprodi 2005, La città fuori le mura. Roma come non l’avete mai vista, Biblioteca di Repubblica 2005, Allupa allupa, DeriveApprodi 2006). Ha tradotto dall’inglese e dal francese per Repubblica, Fazi, Minimum Fax, Theoria e insegnato traduzione presso l’Università di Roma La Sapienza. Collabora con la cronaca di Roma di Repubblica e le pagine culturali del Manifesto. Il suo sito è www.laurapugno.it. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 41 CHIARA REALI - è nata a Verbania - dove tuttora vive - nel 1978; eterna laureanda in psicologia, è esperta in ideazione di tesi impossibili. Scrittrice ossessiva, lettrice compulsiva, blogger a tempo perso (www.thebelljar.typepad.com/blog), fotografa quello che non riesce a dire (www.flickr.com/photos/belljar). Ha collaborato con la Compagnia del Teatro dell'Argine alla stesura di Un ventre gonfio d'assenza, dedicato alla poetessa iraniana Forugh Farrokhzad. Ha un romanzo nel cassetto e un altro in testa. Non sa scrivere biografie. SILVANA RIGOBON - pordenonese, classe 67, dopo una pausa di una decina d’anni in giro per l’Europa, fra Barcellona, Strasburgo e Londra, dal 98 vive e lavora a Verona. Ha creato e gestisce il blog delle Massaie Improvvide Veronesi (www.massaieveronesi.net) e in rete si firma con il nick Massaia di Avesa o FaMme de Ménage. Il suo blog personale è www.cabalandcabbages.splinder.com. Collabora con varie riviste e quotidiani, cartacei e on line. Cura una rubrica di blog letterari per la rivista letteraria Fernandel e una rubrica di recensioni di blog enogastronomici e di viaggio per il mensile Vie del Gusto. È ideatrice e coordinatrice de I Monologhi della Varechina. STEFANIA SCATENI - è nata a Città di Castello nel 1959 e vive a Roma dal 1979. Psicoterapeuta di formazione, dalla metà degli anni Ottanta inizia a lavorare su quotidiani, riviste e in radio (Radiotre), e diventa giornalista a l’Unità. Dal 2001 dirige Orizzonti, le pagine culturali della nuova Unità. Si interessa alle nuove tendenze della letteratura, alla psicoanalisi e all’infanzia, come mostrano i suoi interventi comparsi in vari libri (tra gli ultimi, La frantumaglia di Elena Ferrante; Prendimi l’anima. Il caso Sabina Spielrein e Microbi di Manuela Trinci). Nel 2005 ha curato l’antologia di scrittori italiani Le finestre sul cortile (Quiritta); nel 2002, con Beppe Sebaste, il pamphlet Non siamo in vendita (Arcana). A settembre 2006 uscirà Periferie (Laterza), da lei curato. NADIA ZORZIN - trent'anni, triestina, grafica pubblicitaria e illustratrice, nel suo blog di storie narrate attraverso un’unica immagine si firma S o l o _ i n _ l i n e a (www.soloinlinea.splinder.com). Ogni disegno di Solo_in_linea è un microcosmo, narrato sulla punta di una penna che non si alza mai dal foglio e che a volte torna dove il racconto ha avuto inizio. Una forzatura del disegno che nasce dal desiderio di chiudere la linea in una forma riassuntiva. Alcuni disegni tratti dal suo blog hanno illustrato il numero 2/2006 della rivista Fernandel. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 42 F.A.Q. e backstage Chi può partecipare a I Monologhi della Varechina? ll progetto è aperto a narratrici, poetesse, giornaliste, sceneggiatrici, autrici teatrali, blogger, fotografe, illustratrici, pittrici, artiste.. Le invitate vengono scelte per la qualità della loro scrittura e/o delle loro opere. In alcuni casi per il loro impegno concreto in ambito culturale: molte delle invitate sono promotrici di progetti che fanno rete attraverso la scrittura (nel proprio territorio, nel territorio nazionale, oppure on line). Si partecipa solo su invito. Chi coordina I Monologhi della Varechina? Il progetto è ideato e coordinato da Silvana Rigobon. Cosa viene pubblicato ne I Monologhi della Varechina? Ogni numero della rivista è dedicato ad un tema specifico, che viene comunicato alle partecipanti al momento dell’invito. Ogni partecipante decide come sviluppare il proprio intervento, utilizzando il mezzo (o i mezzi) che ritiene più adeguati per esprimere la propria creatività. L’intervento non deve essere necessariamente un monologo. Può essere un racconto, una piccola pièce teatrale, una testimonianza, una poesia, un racconto fotografico… Dove non specificato, il materiale pubblicato nei Monologhi è INEDITO. Quando vengono pubblicati I Monologhi della Varechina? Non ci sarà una periodicità fissa. La data prevista per il prossimo numero, intitolato Guerra e Pace, è indicativamente il prossimo Autunno 2006. Dove si possono trovare I Monologhi della Varechina? I Monologhi possono essere scaricati gratuitamente, in pdf, in Vibrisse (www.vibrissebollettino.net), il bollettino on line di scritture e letture curato da Giulio Mozzi, e dai siti delle blogger partecipanti alla rivista. Copyright o copyleft? I Monologhi della Varechina aderiscono al progetto di copyleft. Il loro contenuto è coperto da una Creative Commons License, cioè da una parziale riserva dei diritti d'autore. Ovvero: ogni pagina può essere copiata, redistribuita, stampata, citata liberamente, a patto di indicare la fonte, citando il nome dell’autrice. Senza il permesso esplicito dell'autrice il contenuto non può essere alterato o modificato, né si possono ricavarne opere derivate; non può essere usato per scopi commerciali. I Monologhi della Varechina non è un progetto a scopo di lucro. Non è previsto nessun tipo di compenso: né per chi scrive, né per chi coordina. Contatti: [email protected] Ringraziamenti A Giulio Mozzi, per l’ospitalità. A Francesco Ronchini per il logo (da un’idea di Nadia Zorzin) e per la consulenza grafica. A Babsi Jones per la consulenza editoriale. A Marco Dondero per la consulenza web. Disclaimer I Monologhi della Varechina è una rivista gratuita (non registrata), senza finalità di lucro. Non costituisce testata giornalistica e non ha carattere periodico: è aggiornata secondo la disponibilità e la reperibilità dei materiali e degli articoli ivi contenuti. Pertanto, non può essere considerata in alcun modo un prodotto editoriale ai sensi della L.n. 62 del 7.03.2001. I Monologhi della Varechina – 00/Giugno 2006 – Il Lavoro in bianco e nero [email protected] 43