Il processo Neoplastico: uno Studio dei Modelli Interpretativi del

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Il processo Neoplastico: uno Studio dei Modelli Interpretativi del
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
Università Campus Bio-Medico di Roma
Corso di dottorato di ricerca in Bioetica
XXIII ciclo anno 2008
Il Processo Neoplastico: uno Studio dei Modelli
Interpretativi del Cancro dal punto di vista dei
loro Presupposti ed Implicazioni Filosoche
Marta Bertolaso
Coordinatore
Tutore
Prof. Vittoradolfo Tambone
Prof. Alfredo Marcos Martínez
17 FEBBRAIO 2011
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
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Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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Il Processo Neoplastico: uno Studio dei Modelli
Interpretativi del Cancro dal punto di vista dei
loro Presupposti ed Implicazioni Filosoche
Marta Bertolaso
Riassunto
La complessità della patologia neoplastica è una caratteristica che è apparsa
sempre più evidente negli ultimi decenni tanto a livello clinico che molecolare. Il rapido progresso della biologia molecolare ha consentito di raccogliere
un’ingente quantità di informazioni circa i geni e le proteine presumibilmente
coinvolti nella genesi e nella progressione del cancro, mentre la prospettiva riduzionista -che ha dominato la ricerca sul cancro negli ultimi 60 anni- le ha
incorporate in modelli interpretativi sempre più dettagliati e complessi. L’analisi della letteratura scientifica, tuttavia, ha dimostrato che manca ancora una
definizione essenziale della patologia e che alcuni paradossi hanno messo in crisi
il potenziale esplicativo dei suddetti modelli. Allo stesso tempo ne è emersa
la tendenza generalizzata a considerare il cancro come un processo dinamico la
cui spiegazione richiede un approccio sistemico. Su questa base e prendendo le
distanze dalla prospettiva riduzionista (la cui teoria più rappresentativa è spesso identificata come Somatic Mutation Theory, SMT), è sorta una nuova teoria
(Tissue Organization Field Theory, TOFT) e nuovi modelli interpretativi hanno
preso piede muovendo da una prospettiva organicista. L’antiriduzionismo che
li caratterizza giustifica in parte la netta contrapposizione che si percepisce nel
dibattito scientifico tra queste due posizioni, ma questo riflette, nei suoi termini
principali, gli elementi che stanno alla base anche della questione del riduzionismo e antiriduzionismo nella Filosofia della Scienza contemporanea in generale
e nella Filosofia della Biologia in particolare.
A partire dalle categorie definite in questo contesto e appoggiando lo studio
sulle caratteristiche più condivise della patologia neoplastica -quali la sua dinamicità, eterogeneità e la stocasticità con cui diversi elementi appaiono lungo il
processo neoplastico- abbiamo analizzato i presupposti filosofici che sottostanno
alle due posizioni dominanti. Lo sforzo per far chiarezza sui concetti biologici
e filosofici adottati nell’argomentazione esplicativa ha messo però in evidenza
un’asimmetria tra i presupposti dei modelli interpretativi legati alla prospettiva riduzionista e antiriduzionista. Tale asimmetria si esplicita in tre versanti:
(a) dal punto di vista metodologico le due teorie dominanti non sembrano dar
conto degli stessi principi organizzativi che sottostanno alla genesi del cancro
e all’evoluzione del processo neoplastico mentre (b) dal punto di vista epistemologico si centrano su due diversi aspetti della spiegazione scientifica facendo
pensare che le due teorie possano costituire, entro certi termini, due opzioni non
alternative; l’enfasi che è posta su due diversi tipi di sistemi giustifica, in parte,
queste prime due divergenze e (c) apre la strada ad alcune considerazioni sulla
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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iv
natura dei sistemi biologici di riferimento che, da un punto di vista ontologico,
si appellano chiaramente a prospettive filosofiche diverse.
Queste considerazioni hanno consentito di integrare alcune riflessioni, già
presenti nella letteratura, che percepivano il cancro come un fenomeno non
adattativo, attraverso una Prospettiva Sistemica Individuale in cui si sottolinea
la priorità ontologica dell’organismo sulle sue parti funzionali e la specificità della
relazionalità che lo caratterizza, ridefinendo così il cancro come un fenomeno
legato ad una mancanza di pressione selettiva.
Lo studio critico del riduzionismo nella ricerca sul cancro ha messo in evidenza, oltre ai suoi validi contributi, alcune ragioni dei suoi limiti. Ha rimandato
inoltre ad una riflessione più ampia sull’inadeguatezza di tale prospettiva filosofica in Biologia e ai presupposti biologici e filosofici della posizione antiriduzionista
auspicabile nella ricerca sperimentale mediante un Approccio Integrativo capace di recuperare anche una metodologia ed epistemologia riduzionista in una
prospettiva più ampia. L’estensione della nozione di causa e un’epistemologia
più aperta alla molteplicità di manifestazioni dei fenomeni naturali si pongono
così come condizioni necessarie per il progresso della conoscenza scientifica nei
confronti della sfida posta dalla complessità specifica degli organismi viventi.
La continuità tra conoscenza e prassi, che sta alla base dell’evoluzione dei
modelli interpretativi del cancro, rimanda, infine, alla valenza anche etica di
un lavoro di ricerca ben fatto. Questa implica una maggior consapevolezza dei
presupposti, anche filosofici, di ogni attività scientifica e porta con sé una grande
fiducia nella ragione umana che, in adesione piena alla realtà sperimentale, è
continuamente alla ricerca di nuove categorie esplicative e sceglie quelle più
adeguate per l’indagine empirica, ma che sa anche rivederne opportunamente le
premesse quando la coerenza logica entra in conflitto con l’evidenza.
Ci auguriamo ora di poter raccogliere ed integrare ogni annotazione critica
che verrà fatta al presente studio in quelli che lo seguiranno, potendo dare così
continuità al lavoro di ricerca intrapreso. Sarà inoltre quello il luogo per chiarire
alcune considerazioni che sono emerse all’interno di questo studio e che richiederebbero, come spesso evidenziato nel testo, un ulteriore approfondimento.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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Indice
1 Introduzione
1.1 Una nota autobiografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.2 Obiettivo della tesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3 Struttura e metodologia specifica della tesi . . . . . . . . . . . . .
1.3.1 La complessità del cancro . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3.2 Le teorie e i modelli interpretativi del cancro nella letteratura scientifica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3.3 Riduzionismo e antiriduzionismo nell’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3.4 Alcune considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.4 Alcune annotazioni formali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.4.1 Organizzazione della bibliografia . . . . . . . . . . . . . .
1.4.2 Uso di alcuni termini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I
La complessità del cancro
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2 Il cancro e le sue definizioni
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2.1 Che cosa è il cancro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
2.2 Iniziazione e promozione: le prime evidenze di un processo e la
questione della latenza tumorale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
3 L’eterogeneità della patologia neoplastica
31
3.1 Le caratteristiche biologiche del cancro . . . . . . . . . . . . . . . 32
3.1.1 Le cellule tumorali presentano comuni alterazioni a livello
della membrana cellulare . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
3.1.2 Alterazioni genetiche comuni nella struttura e funzione
della cromatina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
3.1.3 Le cellule tumorali abitualmente perdono determinate proprietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36
3.2 L’eterogeneità fenotipica e funzionale delle cellule neoplastiche . 37
4 Il cancro e le sue analogie con fenomeni fisio/patologici
4.1 Il cancro come caricatura di un tessuto normale . . . . . . .
4.2 L’oncogenesi come una ontogenesi bloccata . . . . . . . . . .
4.3 Una teoria comune tra cancro, invecchiamento e sviluppo . .
4.4 Il cancro come una ferita che non guarisce . . . . . . . . . . .
4.5 La robustezza del cancro e l’approccio sistemico alla patologia
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INDICE
2
II Le teorie e i modelli interpretativi del cancro nella
letteratura scientica
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5 Una prospettiva storica della ricerca sul cancro
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5.1 Dalle cause ambientali a quelle cellulari e genetiche . . . . . . . 51
5.2 Dai geni alle cellule . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
5.3 Il recupero di una prospettiva integrata del fenomeno neoplastico 59
6 Le Teorie eziopatogenetiche del cancro
6.1 Somatic Mutation Theory . . . . . . . . . . . . . .
6.1.1 La cancerogenesi secondo la SMT . . . . . .
6.1.2 La patologia neoplastica secondo la SMT .
6.1.3 Il processo neoplastico secondo la SMT . .
6.2 Tissue Organization Field Theory . . . . . . . . . .
6.2.1 La cancerogenesi secondo la TOFT . . . . .
6.2.2 La patologia neoplastica secondo la TOFT
6.2.3 Il processo neoplastico secondo la TOFT . .
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7 L’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro
7.1 Le prospettive cellulari del cancro . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.1.1 Modello Clonale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.1.2 Modello Stocastico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.1.3 Modello Multifasico-Multigenico . . . . . . . . . . . . .
7.1.4 Il Modello Epigenetico . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.1.5 Il Modello Gerarchico . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.2 Le prospettive sistemiche del cancro . . . . . . . . . . . . . . .
7.2.1 Una prospettiva genomico-centrica . . . . . . . . . . . .
7.2.2 Il fenotipo neoplastico e le reti regolatrici cellulari . . .
7.2.3 Attractor landscape e attrattori auto-organizzanti . . .
7.2.4 Dynamic Reciprocating Model . . . . . . . . . . . . . .
7.3 Le ipotesi evolutive del cancro . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.3.1 Il cancro come fenomeno evolutivo somatico . . . . . .
7.3.2 Il cancro come un fenomeno stocastico macro-evolutivo
7.3.3 A systemic evolutionary perspective of cancerogenesis .
7.3.4 Il cancro come un processo non adattativo . . . . . . . .
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III Riduzionismo e antiriduzionismo nelle teorie e modelli interpretativi del cancro
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8 I termini della sfida per la biologia moderna
8.1 I problemi del riduzionismo in biologia . . . . . . . . . . . . . . .
8.2 Prospettive sistemiche e antiriduzionismo . . . . . . . . . . . . .
8.3 Contesto di analisi della questione riduzionismo-antiriduzionismo
nei modelli interpretativi del cancro . . . . . . . . . . . . . . . .
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9 La prospettiva metodologica
9.1 Identificando un processo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.2 I modelli sperimentali elaborati dalla SMT . . . . . . . . . . . . .
9.2.1 La prova funzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE
9.3
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9.2.2 Il controllo delle variabili della progressione neoplastica .
I modelli sperimentali elaborati dalla TOFT . . . . . . . . . . . .
9.3.1 Lo studio delle basi della componente dinamica del processo neoplastico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.3.2 La centralità del concetto di campo (funzionale) nel recupero della prospettiva sistemica . . . . . . . . . . . . . .
Conclusione: due diversi tipi di indeterminazione . . . . . . . . .
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10 La prospettiva epistemologica
10.1 Affrontando l’eterogeneità tumorale . . . . . . . . . . . . . . . .
10.2 Presupposti epistemologici della SMT . . . . . . . . . . . . . . .
10.2.1 La spiegazione dell’eterogeneità fenotipica del cancro . . .
10.2.1.1 Un punto di snodo: la questione del differenziamento cellulare . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10.2.1.2 Le componenti molecolari messe in sistema per
spiegare l’eterogeneità tumorale . . . . . . . . .
10.2.1.3 Costruendo gerarchie . . . . . . . . . . . . . . .
10.2.2 Da sequenze causali a gerarchie funzionali: i problemi
epistemologici del Modello Gerarchico . . . . . . . . . . .
10.3 Presupposti epistemologici della TOFT . . . . . . . . . . . . . .
10.3.1 L’eterogeneità come spiegazione: plasticità versus specificità, simmetria versus asimmetria . . . . . . . . . . . . .
10.3.1.1 I concetti biologici di robustezza e omeostasi . .
10.4 Conclusione: explanans e explananda . . . . . . . . . . . . . . . .
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11 La prospettiva ontologica
11.1 Ordinabilità gererchica e la stocasticità del processo neoplastico .
11.1.1 Casualità e determinismo nella prospettiva riduzionista .
11.1.2 Causalità e indeterminazione nelle prospettive sistemiche
11.2 Conclusione: dalle teorie degli insiemi alle teorie degli enti . . . .
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IV
Alcune considerazioni nali
12 Verso un ampliamento della nozione di causa
12.1 Una Teoria Istituzionale per il cancro . . . . . . . . . . . .
12.1.1 Una “field-level perspective” e la teoria istituzionale
12.2 Il cancro come mancanza di pressione selettiva . . . . . . .
12.2.1 Terapie tumorali e anti-tumorali . . . . . . . . . . .
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13 Considerazioni di carattere etico: la retrogiustificazione della
scienza sperimentale
223
13.1 Dalla prospettiva della vita, dalla prospettiva della morte . . . . 225
13.1.1 L’uso delle metafore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228
14 Conclusione: Il processo neoplastico e le ragioni per un approccio integrativo nella ricerca oncologica
235
14.1 “Qualcosa di sbagliato o abbiamo sbagliato tutto?”
. . . . . . . 235
14.1.1 Complessità reale e apparente del cancro . . . . . . . . . . 237
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14.2 Le prospettive riduzioniste e antiriduzioniste nella ricerca oncologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238
14.2.1 Un mondo di coerenza logica: la prospettiva riduzionista 239
14.2.2 La risposta sistemica: un’opzione che non è alternativa . . 240
14.2.2.1 “How wonderful that we have met with a paradox” 241
14.3 Riduzionismo e antiriduzionismo in biologia . . . . . . . . . . . . 242
14.4 Un Approccio Integrativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243
Bibliografia
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Pubblicazioni citate nella tesi
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Capitolo 1
Introduzione
1.1
Una nota autobiograca
“Quando hai escluso l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile, può
essere vero”. Con questa frase appesa al bancone del laboratorio dell’Istituto
Nazionale dei Tumori di Milano in cui lavoravo per preparare la tesi di laurea universitaria (uno studio sulla localizzazione intracellulare della proteina
c-erbB-2 nei tumori della mammella e dell’ovaio) iniziai ad avvicinarmi al mondo, a volte così apparentemente isolato da quello della vita quotidiana, della
ricerca sperimentale sul cancro. Volentieri passavo le ore a studiare gli articoli
che il direttore dell’Oncologia Sperimentale E (la dott.ssa Sylvie Menard) mi
lasciava e, con grande aspettativa, tornavo il giorno dopo in laboratorio per
registrare il risultato degli esperimenti. Ancor più mi appassionavano le riunioni del dipartimento o del gruppo di ricerca dove si discutevano gli approcci
metodologici o, ancora meglio, si mettevano in discussione i presupposti da cui
eravamo partiti, una volta che i dati sperimentali non confermavano le ipotesi
fatte. Mi incuriosivano molte cose, ma soprattutto mi stupiva la capacità di
reazione del materiale biologico che avevo tra le mani: colture cellulari in vitro,
topi transgenici e anticorpi marcati con fluorescenza o radioattivi per rilevare
l’espressione di determinati geni o la localizzazione intracellulare delle proteine...
“Quando hai escluso l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile, può
essere vero”. Questa affermazione iniziò a sembrarmi ancora più significativa
quando un giorno una collega, di buon mattino e senza lasciarmi il tempo di
indossare neanche il camice, mi chiamò e mi mise sotto il microscopio una linea
cellulare tumorale che era stata mantenuta per pochissime ore in un terreno di
coltura non ben controllato. Probabilmente conteneva il fattore di crescita neuronale (NGF), fatto sta che quelle cellule erano diventate dei bellissimi neuroni
con i loro dendriti articolati e interconnessi tra di loro. Questa esperienza, che
ha ovvie spiegazioni per coloro che hanno familiarità con le colture cellulari in
vitro, mi fece prendere più sul serio una domanda che ogni tanto mi si presentava
mentre studiavo una proteina che era considerata tumorale in quanto associata
all’insorgenza di un tumore, una volta che una sostanza mutagena era stata inoculata in un topo: quale era la sua funzione fisiologica? Mi sembrava riduttivo
studiare una molecola esclusivamente dal suo versante patologico, e forse ancor
meno adeguato mi sembrava non pormi la domanda se il fenotipo tumorale era
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1.1. UNA NOTA AUTOBIOGRAFICA
realmente associato a quell’oncogene o se quell’oncogene si chiamava così perché
associato al fenotipo tumorale... Sapevamo cioè come generare un tumore, ma
sapevamo davvero spiegarlo? Tuttavia, le ore del giorno sono 24 e dato che,
come ben sappiamo, non si può studiare più di una molecola alla volta, lasciai
queste questioni “filosofiche” ai ritagli di tempo per un caffè tra colleghi e continuai a dedicarmi a colture cellulari in vitro in cui il fenotipo tumorale era in
realtà mantenuto da condizioni di contorno altamente controllate.
Pochi anni dopo, mi trovai all’Istituto Oncologico di Candiolo (Torino) coinvolta in un progetto volto all’identificazione di alcune mutazioni cui erano associate diverse forme di poliposi familiare multipla (FAP). Questa volta, fu un caso
clinico che mi ripropose le questioni “filosofiche” cui, per altro, in quell’ambiente
si dava spazio, anche all’interno delle riunioni del dipartimento, per interesse
del primario. In quegli anni, era ormai divenuto chiaro che un solo gene mutato
non poteva essere responsabile dell’insorgenza del fenotipo neoplastico, ma che
erano richieste più mutazioni e potevano essere coinvolti diversi loci funzionali
sulla stessa proteina. Per alcuni geni erano state descritte e confermate alcune
forme ereditarie di cancro, ma quale probabilità aveva una persona di sviluppare
realmente un tumore? Per il gene APC fummo costretti a fare un rapido calcolo
statistico quando ci si presentò un medico delle Molinette che stava consigliando
l’aborto ad una signora, portatrice di una mutazione su un allele del gene APC,
che era rimasta incinta: la probabilità, per i dati che avevamo allora a disposizione, non superava quella che ha qualsiasi persona di morire per un incidente
stradale. Visto dall’altra parte la questione si poneva nei seguenti termini: in
che misura il gene APC wt contribuiva alla mia sopravvivenza? Se è impossibile
che una mutazione genetica determini necessariamente una patologia come il
cancro, quale sarà il livello di analisi più adeguato per comprendere realmente
il fenotipo neoplastico?
“Quando hai escluso l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile, può
essere vero”. Un’altra occasione che ebbi di riconsiderare questa massima fu
alla lettura di un articolo di Nature del 2005 dove si faceva riferimento al cancro come ad un “fenomeno biologico complesso”. Mi ritornarono alla memoria
quelle domande sul ruolo fisiologico dei geni tumorali, poi la questione del loro
ruolo causale nell’insorgenza della patologia. Ad esse mi si aggiunse una forte
curiosità di esplorare le ragioni che facevano pubblicare su Nature un articolo
che parlava del cancro da un punto di vista completamente diverso da quello
a cui ero stata abituata: quello genetico, molecolare che così spesso mi aveva
fatto prendere delle posizioni, logicamente coerenti, ma che spesso nella pratica
si dimostravano paradossali. Le potenziali analogie, per altro, del cancro con
altri fenomeni fisiologici, mi aveva sempre incuriosito e negli ultimi anni sono
state sempre più numerose le pubblicazioni che le hanno messe in evidenza. Che
stava succedendo? Studiavo dei geni dicendo che erano la causa di un tumore,
mentre si diceva che era “impossibile” che un solo gene potesse essere responsabile del fenotipo neoplastico; si mettevano a punto terapie geniche con l’obiettivo
di distruggere le cellule tumorali mentre si diceva che era “impossibile” guarire
un tumore (al massimo si poteva curarlo). Si diceva che avevamo a che fare
con una patologia, ma che era “impossibile” non correlarla sempre più ad alcuni fenomeni fisiologici ed evolutivi. Mentre generalmente le altre patologie
sono considerate degenerative di qualche funzione, nel cancro c’è un “di più”
che gli conferisce quella peculiarità per cui solo per esso usiamo verbi attivi per
descriverlo e identificarlo: un cancro prolifera, metastatizza, invade...
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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
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“Quando hai escluso l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile, può
essere vero”: dove cercare “tutto il resto” che poteva permettere di rileggere con
una luce nuova i dati sperimentali che, all’interno del framework tradizionale,
andavano incontro a tanti paradossi, “impossibili” logici e sperimentali? All’inizio può sembrare buffo pensare che la scienza sperimentale possa arrivare a delle
conclusioni che sono assolutamente coerenti in sé, ma assolutamente contraddittorie con altre evidenze empiriche. Siamo abituati a pensare che la scienza da
risposte e che le contraddizioni saranno superate dalle biotecnologie, mediante
una maggiore conoscenza dei meccanismi, che il problema sia fondamentalmente
tecnico e di tempo. Improvvisamente però mi venne una gran voglia di provare
ad osservare quel mondo dal di dentro, di individuarne le regole della logicità e le
ragioni della sua contraddittorietà. “Secondo me, fino ad ora, abbiamo sbagliato tutto” con questa frase la stessa dott.ssa Menard accolse con piacere la mia
richiesta di seguire questa nuova tesi per cercare di capire cosa stava succedendo
nella ricerca sul cancro e cosa il cancro “fisiologicamente” era, sulla base dei dati
sperimentali che avevamo a disposizione. Non c’era cammino tracciato, solo una
montagna di articoli e tante definizioni di cancro diverse che ci stimolarono ad
intraprendere questo studio.
Rispondere a queste domande voleva dire confrontarsi con concetti che, seppur utilizzati in biologia, appartengono anche all’ambito filosofico, come quello
di causa, di integrazione funzionale, ecc. Mettersi in quest’ottica significava
ipotizzare che la scienza sperimentale avesse, attraverso la ricerca sul cancro,
qualcosa da dire anche alla Filosofia della vita. Sarebbe stato possibile? Che la
filosofia avesse dettato legge a molte impostazioni scientifiche era chiaro, ma che
la scienza sperimentale potesse mettere eventualmente in discussione i presupposti filosofici su cui si basava sembrava audace eppure, almeno in linea teorica e
sulla base della storia della scienza stessa, non impossibile: “Quando hai escluso
l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile, può essere vero”. Con queste
domande e curiosità ci avventurammo nell’analisi che qui presentiamo.
1.2
Obiettivo della tesi
L’obiettivo della tesi è, in primo luogo, quello di pervenire a una chiarificazione concettuale, metodologica e critica dei modelli eziopatogenetici del cancro,
soprattutto per quello che riguarda i presupposti, anche filosofici, a cui tali modelli si riferiscono. La tesi però, nel suo insieme, si colloca principalmente nel
territorio della Filosofia della Biologia in quanto non solo affronta i presupposti
filosofici delle teorie e modelli del cancro, ma anche le implicazioni che la ricerca
sul cancro ha per la Filosofia della Biologia stessa e per la comprensione della
vita biologica in generale.
Il valore di questo contributo acquisisce un rilievo ulteriore se si considera
che nel campo della biomedicina nessun altro ambito riceve tante sovvenzioni
e impegna tante risorse umane quante quello oncologico. Dal percorso della
ricerca sul cancro, inoltre, impariamo l’importanza della prospettiva sistemica
nell’approccio clinico alle patologie complesse cui si perviene mediante una comprensione più approfondita dei fenomeni biologici dal punto di vista funzionale
e delle diverse nozioni di causa che concorrono alla loro spiegazione. Inoltre
impariamo i limiti e il valore dell’ approccio riduzionista nonché la necessità di
combinare la prospettiva evolutiva con quella dello sviluppo nello studio degli
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
8
1.3. STRUTTURA E METODOLOGIA SPECIFICA DELLA TESI
stessi. Emerge infine, la diretta correlazione che c’è tra un lavoro scientifico ben
fatto e le sue implicazioni etiche.
Tutto questo ha a che vedere, più che con i presupposti della ricerca oncologica, con le sue implicazioni filosofiche che saranno estratte a partire dallo
studio delle teorie e dei modelli interpretativi del cancro come riportati in letteratura. La metodologia pertanto presenta forti analogie con quella della scienza
sperimentale che, partendo da alcune evidenze, va alla ricerca di alcune regolarità che consentano una spiegazione del fenomeno mediante una discussione e
tracciando alcune conclusioni.
Dopo una rapida rassegna delle questioni che hanno suscitato la mia curiosità iniziale (Parte I), la prima fase di studio, di carattere più descrittivo e
didattico, ha permesso un’analisi sistematica delle principali caratteristiche e
teorie del cancro e di come si sono evolute od integrate in vari modelli interpretativi e sperimentali (Parte II). La contrapposizione rilevata tra due posizioni
epistemologiche principali ha guidato la seconda fase dello studio; l’analisi di tali
posizioni, mediante le categorie di riduzionismo e antiriduzionismo a cui le stesse fanno riferimento, è stata effettuata tenendo conto delle principali questioni
filosofiche presenti nella letteratura contemporanea di Filosofia della Biologia.
Questa scelta, che non esclude altre, ha determinato l’impostazione della terza
fase dello studio in cui alcuni elementi della ricerca sperimentale sono stati riconsiderati alla luce delle categorie filosofiche emergenti, come quelle relative al
concetto di funzione e di causalità nella spiegazione dei fenomeni fisio/patologici
(Parte III). Dalla discussione di questi aspetti sono emerse alcune conclusioni
di carattere epistemologico ed ontologico che lasciano spazio ad ulteriori ed
interessanti approfondimenti.
Abbiamo deciso di non procedere oltre nell’analisi di tutti gli elementi che
sono emersi per non ampliare troppo il lavoro e garantire una maggiore compattezza e unitarietà al presente studio (alcuni approfondimenti sono stati omessi,
anche se citati opportunamente nel testo, quando già pubblicati nel corso del
lavoro di tesi). Ci auguriamo però che esso possa servire di stimolo per altri
lavori di ricerca che approfondiscano altri aspetti della patologia neoplastica o
prendano in esame gli stessi da diversi punti di vista. Il percorso fatto può,
inoltre, fornire un riferimento metodologico per affrontare un’analisi critica di
altri ambiti della ricerca scientifica sperimentale, a partire dagli elementi che
essa stessa ci fornisce. A questo scopo alcune considerazioni finali sono state
raccolte nella Parte IV.
Sebbene, infine, questo studio non sia immediatamente volto a tracciare linee
di ricerca terapeutiche, ciò non significa che sia irrilevante rispetto alle stesse.
Anche se il piano concettuale e metodologico della tesi non permette di porsi
ragionevolmente in questa prospettiva, l’unità della ricerca e l’integrazione delle conoscenze rendono auspicabile un arricchimento reciproco delle prospettive
cliniche–sperimentali con quelle di carattere più immediatamente teoretico ed
etico.
1.3
Struttura e metodologia specica della tesi
La struttura della tesi si articola quindi in una Parte I che presenta il cancro
come un problema per la ricerca sperimentale stessa; una Parte II che espone le
diverse approssimazioni esplicative al fenomeno neoplastico e i modelli o teorie
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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
9
che emergono in letteratura dalla ricerca empirica intorno al problema del cancro; una Parte III che analizza i presupposti e le implicazioni filosofiche delle
due approssimazioni più importanti (SMT e TOFT); una Parte IV che traccia
le conclusioni del percorso fatto e apre nuove prospettive di ricerca.
1.3.1
La complessità del cancro
Il concetto di complessità risulta a tutti familiare quando si parla del cancro, dato che la percezione comune, dell’opinione pubblica ma anche dell’ambito
medico, è precisamente quella di una patologia complessa per le sue cause ma
anche per le sue manifestazioni e la sua evoluzione. Eppure, come si evidenzierà nel Capitolo 2, non ci riferiamo ad essa con un solo termine, nonostante
la molteplicità di definizioni che poi di essa si danno. La domanda che si pone
allora è se la la complessità del cancro sia dovuta all’assenza di un’adeguata
comprensione del fenomeno tumorale, celata dietro la suddetta semplificazione
semantica, o se rifletta invece una complessità intrinseca, reale, del fenomeno
stesso. Nella Parte I ci limiteremo ad analizzare i contesti in cui questa caratteristica di complessità emerge e in che termini essa si presenta. L’esposizione
sarà per alcuni aspetti principalmente didattica per fornire un quadro sintetico, ma completo, degli elementi che sono coinvolti nello studio e nella ricerca
sul cancro. Lasceremo invece per la fine di questo studio alcune considerazioni
critiche sulla complessità reale o apparente del cancro sulla base degli elementi
raccolti nel percorso di ricerca.
La patologia neoplastica è stata oggetto di numerosissimi studi, soprattutto
da quando le nuove tecniche di biologia molecolare hanno consentito un’analisi
più dettagliata delle componenti cellulari coinvolte nel processo neoplastico e
delle loro interazioni, che è riportata sinteticamente nel Capitolo 3. La diversità
di manifestazioni cliniche e l’eterogeneità fenotipica e funzionale delle cellule
tumorali però danno ragione di un diverso livello di complessità del fenomeno
che non sembra consentire una correlazione necessaria del fenomeno neoplastico con una sola componente molecolare. Le analogie che da questo punto di
vista il cancro presenta con altri fenomeni biologici, come l’invecchiamento o
la morfogenesi, presentati nel Capitolo 4, conferiscono a questa patologia un
primo spunto di interesse anche filosofico. Suscita infatti un certo stupore l’uso
di verbi attivi in riferimento al cancro -il cancro si riproduce, prolifera, invade, ecc.- a differenza di quanto avviene per altre patologie che invece vengono
descritte in termini degenerativi, di funzioni o proprietà che vengono perse. È
quanto avviene nella definizione di eventi traumatici, per cui viene persa una
funzione meccanica legata ad un arto od organo interno, di alcune malattie genetiche o neurogenerative per cui un’alterazione delle parti molecolari porta ad
una perdita o compromissione di un funzione enzimatica, per esempio, per cui
il paziente è affetto da limitazioni funzionali a diversi livelli dello sviluppo, della
crescita o delle attività mentali (dalla frattura di un arto, al diabete e ad alcune
malattie neurogenerative). La complessità cioè del cancro sembra rimandare a
caratteristiche che sono proprie dell’organizzazione strutturale e funzionale di
un organ-o/-ismo vivente.
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10
1.3. STRUTTURA E METODOLOGIA SPECIFICA DELLA TESI
1.3.2
Le teorie e i modelli interpretativi del cancro nella
letteratura scientica
Come afferma Ayala “(1) science seeks to organize knowledge in a systematic
way, endeavouring patterns of relationship between phenomena and processes;
(2) science strives to provide explanations for the occurrence of events; and
finally, (3) science proposes explanatory hypotheses that must be testable, that is,
accessible to the possibility of rejection or falsification” [Ayala 1968]. L’obiettivo
della Parte II, consiste in una presentazione sistematica e critica dei modelli
interpretativi eziopatogenetici del cancro e della loro evoluzione. Lo schema
narrativo di questa Parte segue un percorso circolare, riprende cioè gli stessi
temi da prospettive diverse, a volte complementari, affrontandoli però con una
profondità sempre maggiore. Questo giustifica la ridondanza di alcuni punti e
giustifica una lettura transversale del testo per coloro che non abbiano interesse
ad entrare nel dettaglio sulla specificità di alcuni modelli.
Il Capitolo 5 fornisce una prospettiva storica dell’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro dal punto di vista dell’individuazione delle sue cause.
Dall’irriducibilità di una spiegazione causale del processo neoplastico alle parti
molecolari emerge infatti la necessità di recuperare una prospettiva di analisi
integrata del fenomeno tumorale [Bertolaso 2009a]. Questa a sua volta rimanda
ad una visione sistemica, od organica, in cui la componente dinamica del processo neoplastico prende il sopravvento su quella molecolare. Alla domanda iniziale
però sulle cause del cancro, si aggiunge una seconda questione che riguarda direttamente la natura del fenomeno studiato. All’interno infatti della comune
tendenza a recuperare una prospettiva sintetica del fenomeno, le prospettive e
i presupposti epistemologici sembrano divergere.
Per questo nel Capitolo 6 procederemo con una presentazione analitica delle
due teorie principali sul cancro presenti in letteratura, cercando di comprendere
più a fondo l’interpretazione che esse ne danno. L’identificazione di tali teorie è
stata possibile seguendo l’evoluzione dei modelli principali e il dibattito presente all’interno della comunità scientifica sul confronto tra queste due prospettive
principali. Il quadro che è emerso è stato confrontato –di persona o per posta
elettronica- con i principali autori di riferimento per assicurare fedeltà alla visione interpretativa e chiarezza nell’organizzazione della presentazione sulla base
dei dati sperimentali di riferimento. La scelta cioè delle teorie di riferimento è
personale, ma non arbitraria. La coerenza, infatti, dei concetti teorici e degli
aspetti argomentativi, la consapevolezza da parte degli autori degli strumenti epistemologici che stanno utilizzando nell’organizzazione sistematica dei dati
sperimentali all’interno di ogni teoria e il riconoscimento in letteratura della
loro autorevolezza e attendibilità sono stati i punti di riferimento principali per
questa sintesi espositiva.
Il Capitolo 7 raccoglie invece una presentazione sistematica dei modelli interpretativi del cancro e della loro evoluzione all’interno delle due teorie principali.
La divergenza epistemologica, messa in luce nei capitoli precedenti, dà ragione
del fatto che non tutti i modelli sono compatibili tra di loro: la compilazione
pertanto di questo capitolo risponde all’esigenza di chiarire i termini e le modalità dell’evoluzione delle due teorie principali facendo però più direttamente
riferimento alle prospettive da cui muovono e permettendoci così di inglobare e
ordinare diversi modelli a seconda dei presupposti epistemologici di riferimento,
fornendoci, infine, altri elementi utili per l’analisi critica della Parte III e IV.
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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
11
La redazione schematica e la componente grafica sono state privilegiate per facilitare la comprensione degli elementi principali, soprattutto a coloro che non
sono dell’area bio-medica (cfr. Fig. 1.1).
Introduciamo qui una chiarificazione riguardo all’utilizzo del termine “modello”, “teoria” e “ipotesi” nell’identificazione dei modelli etiopatogenetici del
cancro. Sovente, infatti, tali parole vengono utilizzate indistintamente nelle
pubblicazioni. Come prima approssimazione possiamo dire che la denominazione di “teoria” è fondamentalmente e più diffusamente riservata alla Somatic
Mutation Theory (SMT), alla Tissue Organization Theory (TOFT) e alla Stem
Cell Theory. Per teoria qui si intende quindi la spiegazione dell’origine e formazione del cancro sulla base dell’organizzazione sistematica dei dati sperimentali
per quanto riguarda le cause di questa patologia e del loro ruolo nella progressione neoplastica. La domanda e l’attribuzione di causalità ne costituiscono la
caratteristica principale. La forza esplicativa è testata sull’evidenza sperimentale e le linee di ricerca vengono impostate sulla base dei presupposti delle stesse.
Le questioni recentemente sollevate sull’attendibilità della Stem Cell Theory,
tuttavia, ci ha fatto escludere quest’ultima dalla sezione dedicata alle teorie
principali analizzate nel Capitolo 6. Le ragioni di tali problemi verranno riprese
invece nella Parte III, Sezione 10.2 del presente lavoro.
Con il termine di “modello” si fa riferimento ad una descrizione, specifica e
sintetica, della progressione neoplastica o dell’insorgenza del tumore (Modello di
Vogelnstein, Modello dell’espansione clonale, Dynamic Reciprocity Model, ecc.),
in termini di parti e di relazioni fra di esse. Si tratta cioè di semplificazioni che
verosimilmente permettono di procedere nel lavoro sperimentale sulla base di
assunzioni concrete, mediante il controllo di alcune variabili o l’individuazione
di un livello concreto di organizzazione biologica a cui il fenomeno vuole essere
studiato. Ad una teoria, come nel caso della SMT, possono appartenere uno o
più modelli, alcuni dei quali rappresentano un’integrazione di quelli precedenti; altre volte, come nel caso dei modelli riassunti all’interno della sezione sulle
prospettive sistemiche del cancro, i modelli sono alternative cioè costituiscono
approcci diversi ad uno stesso fenomeno ma da una prospettiva comune. Per
questo una teoria può avere uno o più modelli che permettono un approccio sistematico e riproducibile all’oggetto in studio: hanno pertanto a che vedere con
la metodologia sperimentale e gli aspetti epistemologici della stessa. Non tutti i
modelli però hanno uguale peso e significato, tanto che alcuni a buona ragione si
avvicinano più ad una Teoria che a un Modello per la revisione dei presupposti,
almeno biologici, a cui fanno riferimento, come nel caso della Teoria cellulare
di Harris. Raccoglieremo però, nel presente studio, solo quegli elementi che
contribuiscono all’analisi e discussione di natura epistemologica ed ontologica
che strutturano la Parte III dello studio. Lasceremo a studi successivi la soddisfazione di recuperare il contributo scientifico che alcuni modelli hanno dato e
possono continuare a dare alla storia della ricerca sul cancro e alla comprensione
del significato biologico di determinati processi e funzioni quando analizzate in
un contesto sistemico ed organico (cfr. concetti di differenziamento, di gatekeeper, caretaker, ecc.). A questo stesso scopo abbiamo optato per non togliere da
questa Parte alcune informazioni, anche se non saranno poi completamente ed
esaustivamente riprese nei capitoli successivi.
Quando si utilizza il termine di “ipotesi” infine, nella letteratura sul cancro, ci si riferisce abitualmente ad argomentazioni esplicative di alcuni aspetti
dinamici del cancro (nella sua insorgenza o progressione) sulla base di leggi biolo-
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a condizione che ne venga citata la fonte.
12
1.3. STRUTTURA E METODOLOGIA SPECIFICA DELLA TESI
giche come quelle evolutive (cfr. la two hits hypothesis, la somatic cell evolution
hypothesis, etc.) che integrano altre componenti esplicative di alcuni modelli..
Utilizzeremo la nomenclatura inglese delle varie teorie o modelli, laddove
necessario, per facilitare una più rapida identificazione nella letteratura degli
stessi.
1.3.3
Riduzionismo e antiriduzionismo nell'evoluzione dei
modelli interpretativi del cancro
La prima parte del lavoro ha fatto emergere alcune questioni epistemologiche relazionate con la molteplicità dei modelli interpretativi e ha fornito ulteriori elementi di riflessione sulle interessanti analogie che il cancro presenta
con altri fenomeni biologici e sulla (apparente) contrapposizione delle principali
teorie interpretative. La prospettiva infatti riduzionista da cui muove la Somatic Mutation Theory sembra non ammettere, in quanto non ritiene necessaria,
una prospettiva organicista come quella della Tissue Organization Field Theory,
mentre l’antiriduzionismo di cui quest’ultima vuole farsi portatrice, apre interessanti questioni sulla compatibilità o meno di un pensiero sistemico con una
metodologia ed epistemologia riduzionista.
La Parte III della tesi è stata articolata secondo la distinzione, proposta inizialmente da Ayala [Ayala 1974], tra riduzionismo metodologico, epistemologico
e ontologico, per una presentazione più sistematica dei presupposti filosofici
impliciti ed espliciti dei modelli eziopatogenetici del cancro. Nel Capitolo 9
si analizza come le due teorie principali, da un punto di vista metodologico,
affrontano la questione della dinamicità del fenomeno neoplastico e le sue implicazioni metodologiche. Alcune riflessioni di carattere epistemologico, sul tipo
di indeterminazione studiato, preparano il capitolo successivo.
Nel Capitolo 10 infatti, la questione che guida l’analisi concerne l’eterogeneità tumorale. Torneranno utili per la lettura di questo capitolo alcuni elementi
descrittivi forniti nella Parte I e alcune considerazioni ivi fatte sulla complessità
del cancro. La ricerca di regolarità o il significato attribuito alla mancanza di
esse nel fenotipo neoplastico, ha portato ad alcune conclusioni epistemologiche
che riguardano il tipo di “sistema biologico” di riferimento assunto dalle teorie e
dai diversi modelli interpretativi del cancro. L’approccio a queste questioni, da
una prospettiva riduzionista o antiriduzionista, ha orientato infatti la ricerca in
direzioni diverse, negli ultimi 50 anni: le risposte alle domande sul “perché” del
cancro infatti divergono in quanto nella prima sono centrate sull’identificazione
di sistemi esplicativi sempre più complessi (explananda), e nella seconda sul
corretto livello di analisi del fenomeno (explananans) con cui confrontarsi.
Distinguere però diversi tipi di sistemi, significa porsi la domanda sulla loro natura e origine. Per questo nel Capitolo 11, finalmente, si studierà questo
aspetto per vedere come una prospettiva riduzionista o antiriduzionista riesce
ad integrare nel proprio framework esplicativo la componente stocastica del fenomeno neoplastico, implicita ma fondamentale nelle due caratteristiche biologiche del cancro prese in considerazione nei capitoli precedenti. Come vedremo,
questo rimanda direttamente alle nozioni di causalità - e ad alcune questioni ontologiche ad esse connesse- a cui le teorie interpretative si rifanno, riproponendo
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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
13
un’altra delle domande iniziali sulla possibilità di una definizione essenziale della
patologia neoplastica1 .
1.3.4
Alcune considerazioni nali
Il confronto con concetti filosofici, come quello di sistema, funzione, integrazione e storicità o evoluzione dell’organismo vivente, hanno consentito alla
fine di trarre alcune conclusioni che sembrano incoraggiare ad elaborare nuovi
approcci interpretativi del cancro e a valutare con fiducia la loro capacità euristica e le ricadute terapeutiche che ne possono derivare. Fondamentalemente
sono due gli elementi che vengono ripresi nel Capitolo 12: la necessità di un
ampliamento della nozione di causa e la specificità del concetto di funzione biologica. Sono infatti regolarità funzionali quelle che unificano la descrizione del
processo carcinogenetico. Ammettere però una gradualità nel processo e che
ci siano diversi livelli di complessità biologica coinvolti, mediante il concetto
di campo funzionale, implica recuperare una nozione di sistema organico sulla
base di una complessità delle cause che va ben oltre la semplificazione operata all’interno della letteratura scientifica [Bertolaso 2009b]. L’identificazione di
un problema scientifico-biologico, emerge infatti da alcune evidenze empiriche,
da cui deriva la ricerca di una dimostrazione le cui conclusioni sono mediate
da prove sperimentali2 . La risposta al problema della stretta interconnessione
tra struttura e funzione, tra il ruolo delle parti e l’attività dell’insieme, sposta
l’oggetto d’indagine sul significato biologico della dis-organizzazione funzionale
gerarchica del cancro, o dell’organizzazione funzionale gerarchica dell’organismo
cui appartiene. L’immagine della patologia neoplastica che sta emergendo è allora quella di un fenomeno biologico legato alla mancanza di pressione selettiva,
che mette in luce, allo stesso tempo, dinamiche dell’organizzazione funzionale
degli organismi viventi fortemente analoghe a quelle descritte nella morfogenesi.
L’organismo, come unità funzionale, si presenta cioè come principio di causalità
reale rispetto a questi stessi processi.
Le considerazioni che emergono rispetto alle implicazioni scientifiche che i
presupposti filosofici delle diverse teorie interpretative del cancro hanno avuto,
consentono in chiusura anche alcune riflessioni di carattere etico, riportate nel
Capitolo 13. Come evidenziato anche nella citazione di Ayala sopra menzionata
[Ayala 1968], infatti, parte integrante dell’attività scientifica è sempre stata la ricerca di regolarità mediante l’osservazione, seguita dall’elaborazione di teorie, in
un contesto interpretativo che sia tanto esplicativo che predittivo del mondo naturale. L’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro richiede pertanto una
riflessione sul valore dello sforzo che questo lavoro di discernimento ha supposto
anche per coloro che hanno fatto la ricerca sul cancro, e su come le premesse
biologiche ed epistemologiche adottate in un determinato approccio sperimentale, siano tutt’altro che indifferenti da un punto di vista etico. I riferimenti etici
per la scienza non riguardano cioè solo valori pragmatici (che portano con sé
una maggiore capacità di controllo e dominio sui processi biologici), ma anche
1 Aristotele
riteneva che era precisamente nella dinamica tra la descrizione e la ricerca
causale degli enti, nella spiegazione biologica, che si costruisce la possibilità di una denizione
essenziale degli stessi (APo. 99°21-29 in [Lennox 2001]).
2 Problem is a statement that identies an object of debate or inquiry
(not a proof ).
Conclusion is a statement that is the very necessary consequence of a proof . Problem is a
proposition proposed for the sake of demonstration (Aristotele, Rh.III.13 1414a29-37. Citato
in [Lennox 2001]).
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a condizione che ne venga citata la fonte.
14
1.4. ALCUNE ANNOTAZIONI FORMALI
epistemici che hanno a che vedere con la modalità della ricerca della verità in
relazione ad un obiettivo e metodo concreto. Diversi presupposti filosofici ed
epistemologici possono, infatti, facilmente determinare degli spostamenti concettuali a seconda del contesto in cui si pone la domanda su cosa è il cancro, ma
la storia della ricerca sperimentale sembra proprio per questo metterci di fronte
ad una scienza empirica che è alla ricerca di un nuovo orientamento razionale
per poter dare delle risposte veramente soddisfacenti ed efficaci anche in termini
terapeutici.
Condizione di questo nuovo approccio scientifico alle realtà biologiche, è un
ampliamento della nozione di evidenza, oltre che di quello di causa (la scienza è uno scire per causas), necessario per comprendere un fenomeno biologico
complesso come quello neoplastico e possibilmente alcuni aspetti dell’organizzazione strutturale e funzionale degli organismi viventi, mediante un approccio
integrativo che apre nuove questioni anche in riferimento alla dimensione etica/deontologica del lavoro di ricerca sperimentale. Nel Capitolo 14 accenniamo
ad alcune di queste conclusioni ripercorrendo sinteticamente il percorso fatto
nella tesi. Inoltre, si profilano alcune considerazioni che incoraggiano l’approfondimento del significato della prospettiva antiriduzionista in biologia, più che
la critica della posizione riduzionista ancora possibile in essa, e le implicazioni
anche metodologiche dell’adozione della stessa. Si evidenzia quindi la necessità
di una metodologia interdisciplinare sostenuta da uno sguardo contemplativo,
capace cioè di stupirsi e di cogliere la specificità di un fenomeno complesso ma
unitario come è l’organismo vivente e che è tipico della filosofia e dell’arte.
La tesi fornisce quindi una contestualizzazione dell’evoluzione dei modelli
interpretativi del processo neoplastico che orienta verso un superamento definitivo del riduzionismo filosofico dominante nella ricerca sperimentale e verso una
integrazione della prospettiva riduzionista e sistemica a livello metodologico ed
epistemico.
1.4
1.4.1
Alcune annotazioni formali
Organizzazione della bibliograa
Data l’estensione della letteratura sulla ricerca sul cancro, non è stato possibile includere tutti i riferimenti bibliografici utilizzati nello studio. Abbiamo
cercato di includere nella Bibliografia libri, articoli e reviews pubblicati su riviste
riconosciute a livello internazionale o che presentavano un interesse concreto rispetto alla ricerca effettuata. Le fonti tuttavia utilizzate sono state numerose ed
ampie. Controlli incrociati, mediante l’uso di parole chiave, ci hanno consentito
di assicurare, nella misura del possibile, la prospettiva e l’equilibrio valutativo
della consistenza e autorevolezza dei diversi modelli. Come già accennato, estremamente utile è stato anche il confronto diretto con alcuni autori, e con medici e
ricercatori che operano direttamente in ambito oncologico (cfr. Ringraziamenti). Oltre alla rete (Google, Google scholar, ecc.) e Medline (principalmente
PubMed), altri motori di ricerca utilizzati sono stati: Biological Abstracts, Cochraine Collaboration, Current Contents, Index Medicus, Reference Update, per
poter anche valutare la diffusione e l’eco che determinate teorie hanno avuto in
altri ambienti scientifici, didattici o divulgativi.
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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
15
Nonostante la lettura del testo possa risultarne un po’ appesantita, alla fine
abbiamo optato per citare gli autori e l’anno di pubblicazione direttamente
nel testo per facilitare la lettura critica e la visione di insieme a coloro che
conocono più da vicino i temi che si stanno trattando. Alla fine dello studio
invece i riferimenti bibliografici sono riportati per esteso e in ordine alfabetico,
per consentire la consultazione sistematica. La formattazione utilizzata per
questi ultimi è una di quelle comunemente utilizzate nella letteratura scientifica.
1.4.2
Uso di alcuni termini
Considerando che la letteratura inerente al tema di questo studio è quasi esclusivamente in inglese, manterremo l’uso di alcuni termini come quelli di
pattern, step, pathways, ecc. secondo il significato ad essi comunemente attribuito, anche tenendo conto che molti di essi sono ormai stati inglobati nel
linguaggio accademico e spesso anche colloquialmente utilizzati nella lingua italiana. Questo ci consente inoltre una presentazione più sintetica e precisa dei
concetti, senza dar adito a fraintendimenti che possono essere generati dall’uso
di perifrasi più ampie per esprimere lo stesso concetto. Per facilitare la comprensione a coloro che dovessero comunque avere minore familiarità con questi
termini e del loro uso all’interno della letteratura scientifica, bio-medica, riportiamo a continuazione un piccolo glossario degli stessi, preso principalmente da
wikipedia:
pattern:
è un termine inglese che tradotto letteralmente sta per modello,
esempio, campione e, in generale, può essere utilizzato per indicare
una regolarità che si osserva nello spazio e/o nel tempo che può
essere comune a più fenomeni naturali. In biologia con pattern
(tradotto a volte come "profilo") ci si riferisce a diversi tipi di regolarità, come ad esempio le regolarità delle sequenze di DNA o di
proteine che permettono il riconoscimento e il legame specifico tra
molecole oppure le regolarità nel livello di espressione dei geni delle
cellule che caratterizzano diversi tipi cellulari. Ad esse si aggiungono regolarità negli eventi che avvengono durante processi quali lo
sviluppo di un organismo o che sono ascrivibili al comportamento
di alcuni animali;
pathway:
indica una via, generalmente metabolica, che comprende l’insieme
delle reazioni chimiche coinvolte in uno o più processi all’interno di
una cellula. I singoli passi di questi percorsi sono generalmente reazioni catalizzate, nella maggior parte dei casi, da enzimi specifici che
trasformano il substrato su cui agiscono in un prodotto utilizzato
a sua volta come substrato dall’enzima della reazione successiva;
step:
significa “passo”. Nel contesto di questo studio esso è utilizzato generalmente per indicare i passi principali e successivi della
progressione neoplastica.
network:
tradotto letteralmente con “rete”, esso indica abitualmente nella letteratura bio-medica un pattern di interazioni che ricorrono
nell’organizzazione strutturale e funzionale della cellula;
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1.4. ALCUNE ANNOTAZIONI FORMALI
feedback: lo utilizzeremo principalmente nell’accezione di retroazione, intesa
come capacità di un sistema dinamico di tenere conto dei risultati
per modificare le sue stesse caratteristiche. A questo termine spesso è associato quello di feed-forward. Esso descrive un elemento
o un pathway al’interno di un sistema di controllo che passa un
segnale all’ambiente esterno al sistema di controllo stesso, amplificandone o potenziandone la capacità di risposta. In un sistema
vivente questo meccanismo è fisiologicamente sempre integrato con
quelli di feedback che riaggiustano le risposte in base alle proprietà
intrinseche del sistema e non sono pertanto pre-definite. Il comportamento globale che ne deriva è di tipo non lineare, imprevedibile
cioè a priori.
Non tradurremo, inoltre, anche altri termini che nella letteratura vengono
esclusivamente citati in inglese, come quelli gatekeeper e caretaker. Ci preoccuperemo, tuttavia, di esplicitarne il significato mano a mano che compaiono
nel testo, facendo i richiami dovuti quando fosse necessario nelle pagine seguenti. Useremo infine alcuni acronimi ottenuti da termini inglesi, e comunemente utilizzati nella letteratura scientifica, par facilitare la lettura a coloro che
con essa sono più familiari, come nel caso di TSG (Tumour Supressor Gene:
geni oncosoppressori), ONG (Oncogenes: oncogeni), SMT (Somatic Mutation
Theory: Teoria della mutazione somatica), TOFT (Tissue Organization Field
Theory: Teoria del campo dell’organizzazione tessutale), ecc.. Non useremo
per questi acronimi il corsivo, che sarà riservato alle citazioni testuali e ad altri
termini in inglese o in italiano a cui vuol essere dato particolare rilievo. Per
evidenziare altre espressioni linguistiche o titoli di libri useremo semplicemente
il virgolettato.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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Figura 1.1: Rappresentazione schematica e didattica delle prospettive da cui vengono analizzati i modelli interpretativi del cancro e la
loro evoluzione nella Parte II della Tesi
CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
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1.4. ALCUNE ANNOTAZIONI FORMALI
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Parte I
La complessità del cancro
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Capitolo 2
Il cancro e le sue denizioni
Dall’antica concezione di Galeno che riteneva i tumori polluzioni esterne di
un anomalo sconcerto umorale dell’organismo, agli studi dell’Ottocento che scoprono nei tumori una forma letale di "anarchia" delle cellule, fino a oggi, quando
finalmente si prospettano nuovi sistemi di interpretazione dei meccanismi eziopatogenetici, l’attenzione del mondo scientifico nei confronti delle neoplasie è
andata gradualmente crescendo. Negli ultimi decenni, le biotecnologie hanno
fornito strumenti sempre più adeguati per una descrizione dettagliata delle dinamiche molecolari coinvolte nella progressione neoplastica, lasciando auspicare
anche nuove prospettive di approccio terapeutico a livello molecolare. Una ricerca in PubMed (16-08-08) utilizzando la sola parola “cancer” riporta un numero
di articoli pari a 2.182.420 e di 247.307 reviews, lasciando senza fiato chi vorrebbe accostarsi a questo fenomeno per studiarlo con maggior attenzione. Inoltre,
l’incidenza epidemiologica di questa patologia ha suscitato un interesse sempre
più elevato anche a livello dell’opinione pubblica, facendo diventare il cancro
uno dei temi più frequenti di dibattito, approfondimento e discussione a livello
del giornalismo divulgativo e dei mezzi di diffusione di massa. La sensibilità
generale per questo tipo di patologie ha infine consentito la raccolta e l’impiego
di ingenti mezzi economici per la ricerca e la creazione di numerose strutture
cliniche. Dopo le malattie cardiovascolari, il cancro rimane, infatti, una delle
più frequenti cause di morte nel mondo occidentale, in molti casi età dipendente,
soprattutto nei paesi più sviluppati [Renan 1993].
La ricerca e l’approccio clinico attuale più generalizzato non lasciano dubbi
sul fatto che il tumore sia riconosciuto e trattato come una malattia. “Cancer is
a class of diseases in which a group of cells display uncontrolled growth, invasion
and sometimes metastasis” [Wikipedia 2010]. Il cancro viene fondamentalmente
descritto come un processo caratterizzato dalla capacità proliferativa indefinita
ed invasiva delle cellule, dal disordine organizzativo e funzionale che produce
nei tessuti e negli organi e dalla presenza di cellule staminali responsabili della formazione tumorale e della produzione di metastasi. La classicità di questa
definizione, per la maggior parte dei medici, è dovuta al fatto che la cosa più evidente in tumore è proprio un accrescimento anomalo. Altre definizioni pongono
l’accento sul fatto che le cellule tumorali hanno perduto in maniera irreversibile
capacità funzionali che svolgevano correttamente quando erano sane, acquisendone di nuove come, ad esempio, la capacità di riprodursi ed attecchire anche
in tessuti lontani da quello nativo oppure la capacità di produrre proteine e
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Figura 2.1: Tassi di mortalità legata al cancro, Stati Uniti 1973-1998.
Cfr. Cancer Medicine. Age-adjusted to the 2000 U.S. population. Source: National Center for Health Sciences. Vital Statistics of the US, 2001:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/bv.fcgi?rid=cmed6.figgrp.6654, fig. 27-8
sostanze nuove o diverse da quelle che avrebbero dovuto fabbricare.
Il processo neoplastico sembra iniziare con aberrazioni a diversi livelli (genetico, epigenetico, tessutale, ecc.), ma l’epilogo sembra essere unico: una componente molecolare, cellulare, tessutale, organica smette di funzionare a favore
dell’insieme, presentando un comportamento che, rendendosi indipendente, finisce con il costituire una minaccia per l’intero organismo a cui appartiene.
Questo troverebbe un suo corrispondente nel linguaggio comune, nell’uso che
si fa di verbi attivi per designare il comportamento e la progressione di un tumore. Da questo tipo di approccio derivano le strategie più tradizionali nella
ricerca sul cancro, centrate nell’identificazione di patterns di aberrazioni genetiche e, in particolare, di mutazioni specifiche. Il principio che lo sottende,
come avremo modo di vedere più estesamente in seguito, è che tipi specifici di tumori sono causati da una sequenza di eventi genetici durante quello
che viene definito lo sviluppo del cancro. Questa prospettiva gene-centrica,
che ha dominato il campo della ricerca sperimentale per decenni, ha portato
ad una concetrazione delle risorse per la ricerca sperimentale nell’identificazione di oncogeni mutati, geni oncosoppressori e dei pathways ad essi collegati
[Hahn Weinberg 2002b, Vogelstein e Kinzler 2004, Heng et al 2006a].
Nonostante però la patologia neoplastica continui ad essere percepita come
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CAPITOLO 2. IL CANCRO E LE SUE DEFINIZIONI
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un fenomeno unico, a cui ci riferiamo abitualmente con il nome di cancro, l’elevata eterogeneità delle sue manifestazioni e la molteplicità delle cause e dei
meccanismi coinvolti nella sua insorgenza e progressione - cancer is a “disease
involving dynamic changes in the genome; cancer cells have defects in regulatory
circuits that govern normal cell proliferation and homeostasis; there are more
than 100 distinct types of cancer, and subtypes of tumors can be found within
specific organs” [Hanahan e Weinberg 2000]- rendono ancora difficile un’attendibile prevedibilità della sua insorgenza, del suo decorso e della sua prognosi,
limitando sensibilmente le nostre capacità terapeutiche e preventive, secondo
alcuni, per la nostra incapacità di comprendere a fondo quali sono i meccanismi
critici sottostanti. Che in parte questo sia vero ne è prova il rapido susseguirsi,
nella letteratura scientifica, di modelli interpretativi sull’eziopatogenesi del tumore che, in continuità o in contrapposizione con quelli precedenti, cercano di
integrare le conoscenze acquisite nella ricerca di una comprensione più globale
ed unitaria di questa patologia.
Ma c’è anche chi afferma che "Il cancro non è una malattia" [Moritz 2008].
Questi autori partono dal presupposto che i tumori, assimilati ad altri disturbi
debilitanti, non siano vere e proprie malattie ma un ultimo e disperato tentativo
del corpo di restare in vita finché le circostanze lo permettano. In quest’ottica,
il cancro comparirebbe soltanto dopo che tutte le altre difese e tutti gli altri
meccanismi di guarigione dell’organismo avessero fallito. È estremamente interessante la sfida lanciata dall’idea che il cancro sia una forma si sopravvivenza
dell’organismo, supportata dall’osservazione sempre più frequente che molti tipi
di cancro tendono a scomparire da soli, senza bisogno di interventi medici. La
domanda implicita a questo tipo di approccio, e che trova un suo riscontro nel
senso comune, concerne il perché il corpo dovrebbe permettere l’autodistruzione, se il design genetico originale del corpo favorisce sempre la preservazione
della vita e la protezione contro le avversità di ogni tipo [Moritz 2008] e porta
la questione del cancro a un punto estremamente interessante.
Alcuni dati epidemiologici sembrano avvallare questa ipotesi. Anche se il
cancro infatti continua ad essere percepito da molti come una patologia confusa e imprevedibile, sono già numerose le evidenze sperimentali che dimostrano
come questa patologia non sia poi così casuale come sembra. Il 50% della popolazione americana, per esempio, presenta un rischio concreto ad ammalarsi
di cancro, mentre l’altra metà della popolazione non sembra correre alcun rischio. Incolpare la genetica non è, per alcuni autori, che un pretesto per coprire
l’ignoranza delle cause reali [Moritz 2008]. Il cancro, d’altra parte, è sempre
stato una malattia estremamente rara, tranne che nelle nazioni industrializzate
degli ultimi 40-50 anni, mentre i geni umani non hanno subito cambiamenti
significativi per centinaia di secoli. Perché dovrebbero cambiare soltanto adesso
e in modo così drastico? La risposta di alcuni a questa domanda è straordinariamente semplice: i geni danneggiati o difettosi non uccidono nessuno.
L’ipotesi che sostengono cioè è che ciò che risulta letale per il paziente non è
in ultima istanza la presenza di cellule con fenotipo neoplastico, ma è lo stato
dell’organismo in generale che permette a queste di proliferare e di metastatizzare. Tale stato sarebbe legato a fattori ben più complessi -di natura anche
sociale o psicologica- rispetto a quelli attribuibili ad una mutazione somatica cellulare. Del resto, la convinzione di una attribuzione causale al cancro
solo in termini genetici ha suscitato perplessità anche nel mondo più strettamente scientifico-sperimentale [Baker e Kramer 2007, Bizzarri et al 2008] come
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2.1. CHE COSA È IL CANCRO
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vedremo con maggiore dettaglio anche più avanti.
Anche una teoria unificata dello sviluppo, dell’invecchiamento e del cancro è
attualmente oggetto di discussione [Finkel et al 2007, Soto et al 2008a]. Il presupposto è la considerazione che tutte le cellule di un organismo derivano da
altre cellule con caratteristiche di staminalità. Queste cellule staminali maturano e si dividono fino a raggiungere uno stato di differenziamento terminale
in cui non subiscono abitualmente ulteriori divisioni. In quest’ottica il fenotipo
neoplastico rappresenterebbe l’incapacità di una cellula staminale di un certo
tipo a differenziarsi in determinate condizioni ambientali locali [Potter 1978].
Questo implicherebbe che le cellule tumorali non perdano mai il loro potenziale
di crescita e proliferazione continua. Questa prospettiva dà ragione, inoltre, di
come il cancro possa in qualche modo essere assimilato ad un sistema biologico
complesso per alcune caratteristiche che presenta, per esempio, di robustezza o
plasticità [Kitano 2005].
Procediamo ora ad una analisi più ravvicinata degli elementi che sono stati
accennati sopra, basandoci sulla letteratura scientifica.
2.1
Che cosa è il cancro
Decritto come malattia interna generalmente incurabile, di neoplasie e cancro
si parla già nell’antica Grecia e nell’antico Egitto. Sin da allora, la struttura morfologica che assume il cancro costituisce il parametro diagnostico utilizzato nella
diagnosi della patologia, rilevato attualmente mediante un’analisi istopatologica
del tessuto coinvolto e asportato mediante biopsia.
Da un punto di vista etimologico, nella sua origine greca, il termine cancro
indica una formazione anomala all’interno di alcuni organi e tessuti che assume
una forma caratteristica a forma di “granchio”. Da qui deriva il nome che conserva, in diverse lingue latine moderne e in tedesco, la sua etimologia. Anche il
termine di tumore (o neoplasia, dal greco “nuova formazione” o “nuova crescita”)
viene spesso utilizzato come sinonimo di cancro nel gergo comune. Per questo,
anche noi, ne faremo lo stesso uso all’interno di questo testo, non ignorando le
distinzioni che potrebbero essere fatte. Ci interessa, infatti, centrare l’attenzione sulle interpretazioni eziopatogenetiche del fenomeno neoplastico nella sua
completezza, considerando quindi sempre la componente maligna che caratterizza il cancro in termini di invasività e capacità metastatica e che non identifica
invece le forme di tumore benigno.
Considerata inizialmente una malattia legata tanto a fattori endogeni quanto
ambientali, questa patologia non fu oggetto di studi più specifici fino a quando,
tra la fine dell’800 e le prime decadi del ’900, non fu descritta una sua diretta relazione con la componente genetica e cellulare. Virchow, che nel 1863 consegna
alla stampa un trattato in cui i tumori vengono classificati su base morfologica,
è il primo dell’epoca a sostenere l’idea che le malattie, e soprattutto il cancro,
siano al contempo eventi naturali e sociali, generati da un lato dalla “scorrettezza” della natura e dall’altro dalle “sregolatezze dell’ambiente”. Si dà così seguito
e sostanza alla scoperta compiuta un secolo prima dal chirurgo inglese Percivall
Pott (1714-1788) secondo cui il cancro allo scroto, di cui frequentemente affetti
gli spazzacamini, era imputabile a residui di fuliggine depositati in quella zona
del corpo. Pott non fu tuttavia il primo studioso a stabilire un collegamento
tra ambiente e patologie. Infatti, di malattie dei lavoratori si discuteva già in
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CAPITOLO 2. IL CANCRO E LE SUE DEFINIZIONI
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epoca più remota. Bernardino Ramazzini (1633-1714) nella sua opera descrive
quadri clinici di pazienti affetti da “mal da lavoro” e di coloro che subiscono
danni alla salute “in virtù del malsano stile di vita” quale, ad esempio, l’uso
della polvere di tabacco. La ricerca medico scientifica di fine ’800 si indirizza
perciò non solo verso quelle che C. Bernard indica come cause endogene (milieu
intérieur) delle patologie, ma anche verso l’identificazione di cause esogene derivanti dall’ambiente socioeconomico (milieu extérieur). La focalizzazione della
ricerca su questi due filoni, vale a dire l’approfondimento della realtà patologica
del cancro attraverso l’analisi biochimica, biologica e molecolare con l’ausilio del
microscopio e attraverso le analisi dei dati emergenti dal panorama ambientale,
va a costituire un completamento dell’attività scientifica dell’oncologia a cavallo
tra 800 e 900. Cominciarono così ad emergere diverse ipotesi sull’origine del
cancro che vanno dalla teoria chimica dell’origine del cancro, che avanza l’ipotesi di un’alterazione degli equilibri biologici della cellula provocata da sostanze
tossiche, a quella ambientale cui si affiancano successivamente la teoria parassitaria e quella cellulare evolutiva. In questi anni, il lavoro della grande comunità
scientifica di ricercatori –microbiologi, patologi, biologi, clinici e chirurghi- che
lavorano partendo dalla teoria cellulare di Virchow, permette di formulare una
teoria genetica del cancro, in cui l’ambiente organico e le caratteristiche individuali immunitarie passano in secondo piano. Da allora, la ricerca ha progredito
notevolmente, identificando un numero sempre maggiore di fattori molecolari
coinvolti nella progressione neoplastica o tornando a valutare la componente
ambientale ed organica, alla ricerca di una definizione del cancro e delle sue
cause. È infatti l’identificazione di queste ultime la condizione principale per
consentire approcci terapeutici validi.
La pratica sperimentale del secolo scorso ha permesso di disporre di modelli
animali e cellulari in cui era possibile indurre un tumore mediante radiazioni
o sostanze mutagene, simulando in qualche modo le cause a cui rimandavano
i dati epidemiologici dell’epoca. Abbiamo imparato come generare un tumore,
ma sapevamo davvero spiegarlo? Alcune considerazioni ci spingono a prendere
sul serio questa domanda e ad escluderne una risposta affermativa, almeno sulla base delle definizioni che di questa patologia sono state date in letteratura.
Infatti, nonostante i numerosi sforzi per arrivare a una visione e ad un approccio unitario del cancro, non esiste una risposta univoca alla domanda su cosa
sia il cancro. Esso continua a presentarsi come una malattia con una genesi
estremamente complessa ed imputabile a fattori diversi e con un decorso difficilmente monitorabile, almeno fino a quando una massa neoplastica non abbia già
delle dimensioni che siano rilevabili mediante le metodiche anatomopatologiche
disponibili.
Riportiamo a continuazione alcune citazioni testuali dalla letteratura scientifica più recente. La maggior parte delle definizioni sottolinea il fatto che il cancro
è una proliferazione abnorme di un ammasso cellulare neoformato, più o meno
visibile, all’interno dell’organismo, che non sottostà più alle regole dei tessuti in
cui è ospitato e che invade in maniera progressiva disordinata. “Cancer is a heterogeneous disease often requiring a complexity of alterations to drive a normal
cell to a malignancy and ultimately to a metastatic state” [Edelman et al 2008].
Il termine generico di cancro può comprendere più di 100 patologie caratterizzate da crescita anomala e incontrollata di cellule che vivono più a lungo del loro
ciclo vitale medio e continuano a suddividersi e a riprodursi sfuggendo al controllo dell’organismo [IFO 2008]. Da un punto di vista molecolare, il cancro appare
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2.1. CHE COSA È IL CANCRO
più comunemente come “a disease involving dynamic changes in the genome;
cancer cells have defects in regulatory circuits that govern normal cell proliferation and homeostasis (...) simplifying the nature of cancer, we can portray it as
a cell-autonomous process intrinsic to the cancer cell, but cancer development
depends upon changes in the heterotypic interactions between incipient tumor
cells and their normal neighbors” [Hanahan e Weinberg 2000].
Negli ultimi 50 anni però, la prospettiva è passata dal considerare i tumori come il risultato di progressive mutazioni genetiche che producono difetti nei circuiti regolativi della proliferazione cellulare normale, a considerare il cancro come “a disease of cell differentiation rather than multiplication”
[Harris 2004]. Anche una visione organicista che si è fatta strada negli ultimi
anni vede il cancro come “the result of the disruption in the tissue’s architecture”
[Sonnenschein e Soto 1999] or a “systems biology disease” [Hornberg et al 2006]
più che una patologia genetica. Alcune definizioni che abbiamo raccolto presentano, infine, sfumature con tonalità persino metafisiche che identificano il cancro
come “a non-adaptive process and a formless phenomenon ”[Aranda 2002a].
Le diverse prospettive appena citate vengono presentate spesso in contrapposizione all’interno della letteratura scientifica laddove è la natura comportamentale del cancro ad essere analizzata. Il tumore è stato infatti ritratto
come “a cell-autonomous process” intrinseco alla cellula tumorale che ha luogo principalmente a livello genetico [Hanahan e Weinberg 2000] oppure come
“a non-cell-autonomous process,” prendendo in considerazione la sua dipendenza intrinseca dalle interazioni cellulari dell’ambiente tessutale in cui insorge “taking into account its intrinsic dependency on cellular interactions”
[Soto e Sonnenschein 2004].
Nonostante quindi il progresso scientifico abbia ampliato notevolmente la
nostra conoscenza sulle tappe e sulle basi molecolari del processo neoplastico,
con l’obiettivo di fornirci strumenti sempre più adeguati per controllare e curare
la patologia, le definizioni che ne vengono date hanno subito una ramificazione
che sembra allontanare più che avvicinare ad una visione unitaria della stessa.
Sono, infatti, diversi gli elementi che sembrano caratterizzarne la natura e definire quindi l’identità del fenomeno: dal genoma, al disordine architetturale dei
tessuti.
Tuttavia, l’efficacia delle decisioni maggiori nella pratica clinica dipende dalla
correttezza dell’ipotesi diagnostica, mediante una corretta identificazione della
malattia. Ciò è garantito (1) da una adeguata diagnosi differenziale, che consiste
nella capacità di distinguere un’infermità dalle altre e (2) dall’inquadramento
eziopatologico e fisiopatologico della stessa, che implica il conoscerne e quindi
il dominarne i meccanismi. Pertanto, una conoscenza inadeguata della natura
reale di una malattia non permetterà di scoprirne le cause reali, di predirne
il decorso e di selezionare le terapie più adeguate per un determinato paziente e neanche di condurre un trial su popolazioni a rischio per giudicare se i
trattamenti proposti siano efficaci.
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CAPITOLO 2. IL CANCRO E LE SUE DEFINIZIONI
2.2
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Iniziazione e promozione: le prime evidenze
di un processo e la questione della latenza
tumorale
Come abbiamo già accennato, la complessità della patologia neoplastica non
è legata solo alla molteplicità delle cause a cui può essere attribuita, ma anche alla complessità dei fattori che la determinano. Esiste cioè una complessità
intrinseca del fenomeno, in analogia con altri processi biologici, legata alla componente temporale della carcinogenesi, per cui il decorso della malattia non è
mai prevedibile con certezza e presenta un’elevata variabilità tra diversi pazienti, pur affetti dallo stesso tipo di tumore. A questa dimensione temporale della
patologia neoplastica è legato l’interesse per gli studi sulla latenza tumorale e
sugli step della progressione neoplastica. E’ dunque chiaro come la comparsa
della sintomatologia clinica di un tumore non coincide con la sua nascita, bensì
praticamente con la fase terminale della malattia neoplastica preceduta da un
periodo di tempo più o meno lungo detto periodo di latenza. Durante tutto il
periodo di latenza che in molti tumori dell’uomo può durare anni, il tumore già
esiste in quanto aggregazione di cellule neoplastiche in riproduzione ma non è
stato ancora clinicamente individuato. Da qui la necessità di poter diagnosticare
un cancro in fase precoce, addirittura preclinica, cioè nella sua fase di latenza.
Uno studio sistematico però del processo stesso rimane fuori da queste modalità
di indagine.
Vari studi epidemiologici, su cui non ci soffermeremo nonostante il loro interesse, hanno messo in evidenza come fattori ambientali, biografici e genetici possano entrare in gioco nell’insorgenza tumorale e nella sua progressione metastatica. Un esempio tipico è quello degli studi sull’incidenza tumorale nelle donne sopravissute alle bombe atomiche dell’ultima guerra mondiale
[Tokunaga et al 1979]. Il tumore, cioè, sembra presentare una sorta di “storia
naturale” guidata da principi intrinseci all’organismo vivente, per cui eventi molecolari e processi biologici spazio-temporali sembrano intrecciarsi nel generare
e guidare la progressione di questo fenomeno che chiamiamo cancro. Entrano
in gioco sicuramente una componente stocastica per cui ci troviamo di fronte
non alla semplice evoluzione di una situazione che procede in modo necessario,
ma ad un processo composto di varie fasi, laddove il passaggio da una all’altra
sembra essere determinato da diversi fattori, proprietà e componenti molecolari
o microambientali che insorgono con una sequenzialità e frequenza fondamentalmente imprevedibile. Un’analisi delle nozioni di causa che sottostanno a queste
evidenze empiriche saranno oggetto della discussione della Parte II; ci soffermiamo per ora a considerare alcuni elementi che ci pervengono dai primi esperimenti
volti a studiare la componente processuale del cancro e che hanno richiesto un
ampliamento della sua interpretazione eziopatogenetica da semplice evento a
processo in cui più cause e livelli di organizzazione biologica sono coinvolti.
Rudolf Virchow (1821-1902) fu il primo che cercò di spiegare il cancro come
un processo. La sua teoria ipotizzava una trasformazione che coinvolgeva alcune
cellule e la loro progenie. Le osservazioni al microscopio delle cellule tumorali rilevarono un elevato grado di disorganizzazione cromatinica, permisero poi
di correlare le aberrazioni genetiche alla disorganizzazione strutturale e morfologica già descritta precedentemente nelle cellule tumorali. I dati che Boveri
presentò nel 1914 confermarono una relazione tra il cancro e l’organizzazione
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2.2. INIZIAZIONE E PROMOZIONE: LE PRIME EVIDENZE DI UN
PROCESSO E LA QUESTIONE DELLA LATENZA TUMORALE
cromatinica delle cellule, formulando l’ipotesi che il fenotipo neoplastico fosse
trasmesso alla progenie per il difetto genetico che lo aveva generato. Si ampliò
così la conoscenza dei geni che giocano un ruolo principale nell’insorgenza tumorale, accelerando la nostra comprensione della patogenesi tumorale a livello
genetico e molecolare. A questo contribuì la cancerogenesi sperimentale, cioè la
riproduzione nel modello animale delle fasi di sviluppo di un cancro con le prove
in vitro ad essa relazionate.
Alcune delle evidenze più stringenti sulla centralità della componente temporale, processuale, del fenomeno neoplastico risalgono agli studi, condotti già
negli anni ’70, sugli effetti cancerogenetici di sostanze chimiche applicate sulla
pelle di topi. Infatti, sulla cute di questi animali sorgono tumori della pelle
se ripetutamente esposti a carcinogeni chimici, potenzialmente mutageni, come
il benzopirene o un suo composto analogo, il dimetilbenzoantracene. Apparve
evidente che una singola applicazione del carcinogeno non è in grado da sola
di dare origine ad un tumore o ad ogni altra forma di anomalia. L’ipotesi predominante fu allora che essa generi una forma latente di danno genetico, una
mutazione che prepara il terreno per una maggiore suscettibilità al cancro qualora le cellule vengano esposte alla stessa sostanza o ad altre anche molto diverse
in aggressività. Alternativamente l’esposizione per mesi a sostanze che fungono
da promotori, e che di per sé non sono mutagene, possono pure provocare il
cancro su zone della pelle previamente esposte a iniziatori tumorali (cfr. Fig.
2.2).
I promotori tumorali più ampiamente studiati sono gli esteri di forbolo, che
agiscono come attivatori artificiali della proteina chinasi C attivando parte del
pathway intracellulare del fosfatidilinositolo [Albert at al 2002]. Questo tipo di
sostanze causano il cancro con elevata frequenza solo se applicate dopo un trattamento con un iniziatore mutagenico. Una rappresentazione efficace di questi
meccanismi di iniziazione e promozione fu inizialmente riportata da Boutwell
[Boutwell 1978] che presentò il risultato, in termini di insorgenza neoplastica,
delle esposizioni successive a un iniziatore tumorale, mutagenico, e ad un promotore tumorale, non mutagenico. Fondamentale per gli studi successivi come
per la comprensione più approfondita della natura del processo neoplastico, fu
l’evidenza che tanto la sequenza come la frequenza di queste esposizioni fossero
tutt’altro che indifferenti rispetto all’insorgenza di neoplasie.
La cancerogenesi chimica, quindi, aveva messo in evidenza da una parte, mediante esperimenti in vivo, che la formazione del tumore era un processo plausibilmente guidato da una successiva sequenza di eventi con un ordine preciso,
dall’altra, mediante esprimenti in vitro, che il possibile denominatore comune
tra cancerogenesi fisica e chimica fosse il DNA, il cui danneggiamento a livello di
sequenza nucleotidica era considerata la causa principale dell’insorgenza e progressione neoplastica [Luch 2006]. Le successive scoperte sui virus tumorali a
DNA e RNA sembrarono confermare questa ipotesi, sebbene apparve chiaro fin
dall’inizio che, da soli, non erano responsabili per l’iniziazione di tumori umani.
Studi successivi, infine, misero in evidenza come anche solo ferendo la pelle che
è stata esposta ad un carcinogeno, detto iniziatore, si può indurre la formazione
di un tumore tra le cellule che si trovano ai bordi della ferita, lasciando pensare
quindi che eventi legati all’organizzazione tessutale potessero essere sufficienti
per conseguire lo stesso effetto. Questa ipotesi fu avvallata da dati più recenti
che sostengono che un iniziatore mutagenico, una mutazione somatica quindi,
non sia necessario per dar luogo a un fenotipo neoplastico [Hendrix et al 2007],
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 2. IL CANCRO E LE SUE DEFINIZIONI
29
Figura 2.2: Rappresentazione grafica dei meccanismi di iniziazione e promozione
del tumore. Riportata da Bruce Alberts, Alexander Johnson, Julian Lewis,
Martin Raff, Keith Roberts, and Peter Walter (2002) Molecular Biology of the
Cell Figure 23-19
ma che possa essere il cancro stesso, in qualche modo, a indurre mutazioni: “it
may be more correct to say that cancers beget mutations than it is to say that
mutations beget cancers” [Prehn 1994]. Gran parte di queste evidenze furono
a quell’epoca trascurate, mentre si incominciava però a prendere in più seri
considerazione l’evidenza di un processo in cui le dimensioni spazio-temporali
e la loro sequenza non sono indifferenti. Questo giustificò lo spostamento della
ricerca sul cancro sulla esplorazione dei meccanismi di trasformazione implicati.
Riportiamo a continuazione una descrizione didattica delle principali tappe in
essa identificati e comunemente utilizzate nella spiegazione della stessa.
Tradizionalmente, infatti, sulla base della nomenclatura elaborata da Peyton
Rouse (cfr. Parte II, Cap. 5), con il termine di “iniziazione” si indica la prima
alterazione che comincia a disregolare una serie di pathways, ma che è ancora
lontana da indurre una vera e propria trasformazione neoplastica. Se, come
alcuni sostengono, tale alterazione si da in una cellula staminale, la capacità
di tali cellule di essere più o meno resistenti agli stimoli cancerogeni dipenderà
dal profilo genetico individuale e si manifesterà in una normale proliferazione e
un normale orientamento verso il differenziamento e la morte. L’iniziazione di
una cellula tumorale deve quindi alterare, in qualche modo, questo meccanismo.
Questa alterazione iniziante può essere anche di carattere eredofamiliare, l’individuo cioè viene concepito già con una iniziazione presente (una alterazione
genica o mutazione) nel suo genoma. Vale la pena sottolineare come, secondo
questo modello, qualsiasi tipo di cancerogeno può creare una mutazione innescando i primi meccanismi di riparazione del DNA a carico di gatekeeper cellulari
che possono mandare in apoptosi la cellula: infatti, se fallisce la riparazione del
DNA si ha la prima mutazione.
La “promozione” è il meccanismo che promuove, attraverso degli stimoli esogeni, la proliferazione della cellula iniziata, mediante mutazioni dovute ad errori
di replicazione che presentino un “vantaggio selettivo”. La cellula iniziata accu-
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2.2. INIZIAZIONE E PROMOZIONE: LE PRIME EVIDENZE DI UN
PROCESSO E LA QUESTIONE DELLA LATENZA TUMORALE
mula così una serie di errori genetici, a cui il fattore iniziante l’aveva predisposta,
coinvolgendo oncogeni, oncosoppressori e altri geni che controllano l’apoptosi,
per esempio, nelle prime fasi della progressione neoplastica. In questo secondo
step gioca un ruolo importante anche l’immunoediting che potrebbe bloccare,
e di fatto in alcuni casi blocca, l’avanzamento del tumore, come si accennerà
successivamente. Quando la cellula esce da questa fase si avrà la proliferazione o il differenziamento disregolati, o alterazioni nel normale processo di morte
cellulare. A questo punto inizia l’angiogenesi e l’evasione della sorveglianza immunitaria, permettendo così alla cellula di entrare nella fase di trasformazione
neoplastica.
La “trasformazione” neoplastica è legata alla capacità di queste cellule di
crescere senza più nessun controllo esterno. Il tumore di origine monoclonale è
costituito da cellule che presentano come caratteristica fenotipica una plasticità
elevata, intesa come capacità di continuare a modificare il loro assetto in risposta
all’ambiente esterno. Entrano in gioco a questo punto, altre mutazioni che
conferiscono alla cellula capacità invasive, il fenotipo metastatico e resistenza
alla terapia.
La “progressione” si riferisce infine alle fasi terminali, presumibilmente irreversibili, in cui il tumore presenta proprietà metastatiche. Mentre però un
quadro coerente sembra essere emerso poco a poco circa i meccanismi biologici
e molecolari che danno origine al tumore primario, i processi che portano agli
ultimi step della progressione tumorale rimangono ancora oscuri. Sono ammesse
diverse ipotesi che attribuiscono la capacità metastatica già alle cellule del tumore primario piuttosto che affermare una sua acquisizione progressiva per un
ulteriore accumulo di mutazioni e alterazioni molecolari [Weinberg 2008], per
cui il fenotipo neoplastico maligno potrebbe precedere la lesione primaria ed
essere associato a cellule tumorali trovate in circolo persino in casi di tumori
benigni.
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Capitolo 3
L'eterogeneità della patologia
neoplastica
A livello clinico, è comune considerare ogni cancro a sè, per cui difficilmente
è possibile applicare schemi diagnostici e terapeutici unici. La diversità fenotipica tra i vari tumori può essere espressa in termini di differenze nel tasso di
proliferazione cellulare, nel differenziamento e nel tipo di pathways metabolici
coinvolti. Pur tuttavia, una caratteristica principale dei tumori è la sregolatezza con cui le cellule proliferano, generando un accumulo di cellule con fenotipi
aberranti. Da un punto di vista clinico, pertanto, la questione più importante è
come si formi tale aggregato e come le cellule che lo costituiscono possano essere
poi capaci di invadere altri tessuti e lì moltiplicarsi nuovamente.
Anche da un punto di vista epidemiologico il cancro è considerato un processo
organico eterogeneo tanto perchè si realizza in più fasi sucessive in cui numerosi
eventi genetici sono coinvolti ad ogni step, tanto perchè la malattia presenta una
complessità notevole legata a diverse eziologie genetiche e ambientali per cui è
stata efficacemente coniata l’espressione “geneN-environmentN interactions, for
which how many “n” is not known” [De Vita et al 2008]. Caratterizzare allora
un fattore di rischio specifico per questa patologia, all’interno di un quadro
così ampio di fattori coinvolti, diviene difficile e limita notevolmente anche le
possibilità di analisi statistiche: di fatto anche l’ampia variabilità di risposta
individuale all’esposizione a sostanze cancerogene indica che le reazioni non sono
omogenee, per cui i modelli sperimentali ed epidemiologici non possono essere
considerati rappresentativi di tutti i sottogruppi di una certa popolazione. Il
cancro, inoltre, si può verificare a qualsiasi età e nelle sue prime fasi proliferative
e di accumulo cellulare è generalmente asintomatico. A complicare ulteriormente
la questione subentra il fatto che quasi tutti i sintomi causati dal cancro possono
essere comunemente associati anche a malattie non neoplastiche o ad vari tipi
di dolori interni [Holland 2003]. Infine, anche le risposte terapeutiche mostrano
un’elevata variabilità inter-individuale e molte dipendono da fattori anche di
natura psicologica, comportamentale e sociale [Yale et al 2005].
Al livello molecolare, infine, una molteplicità di fattori sembra essere coinvolta nell’iniziazione e progressione neoplastica e la sua importanza è spesso
legata anche alla sequenza temporale con cui tali elementi sono coinvolti, oltre
che al livello di organizzazione genetica, cellulare, tessutale o organica che viene
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3.1. LE CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DEL CANCRO
compromesso. “Both the genesis and progression of cancer are related to a large
number of causes and mechanisms” [Hanahan e Weinberg 2000], è noto infatti
che un tumore non inizia da una cellula già tumorale ed invasiva per cui, insieme alle alterazioni genetiche, anche la distruzione di meccanismi epigenetici
è stata ultimamente inclusa tra le caratteristiche del fenomeno neoplastico nell’uomo. In concreto il cancro colonrettale, a lungo considerato un modello per le
basi genetiche del cancro, negli ultimi anni ha dato ai ricercatori l’opportunità
di comprendere come eventi epigenetici fossero ugualmente importanti nell’insorgenza delle neoplasie [Wong et al 2007]. Nonostante però, almeno in questo
caso, le mutazioni sequenziali e le tappe individuate in alcuni tipi di tumori
siano state individuate [Kinzler e Vogelstein 1996], la natura e la sequenza dei
geni alterati nella progressione del tumore rimangono ampiamente sconosciute.
Questo implica che, al di là della apparente semplicità di questi modelli di progressione tumorale, i pathways necessari a superare i normali vincoli omeostatici
che mantengono sotto controllo la divisione cellulare sono alquanto complessi.
3.1
Le caratteristiche biologiche del cancro
Introduciamo qui una rassegna delle caratteristiche biologiche del cancro,
così come riportate in letteratura. E’ sorprendente infatti come tanti e così
vari fattori molecolari siano messi in relazione con il fenotipo neoplastico dando ragione della complessità tumorale. Generalmente nei manuali più utilizzati
a livello didattico si preferisce parlare di acquisizione invece che di perdita di
determinate funzioni o meccanismi regolativi, da parte delle cellule tumorali.
Questo è giustificato dalla prospettiva dominante che vede il cancro come una
patologia cellulare, piuttosto che sistemica, ma genera spesso una certa disomogeneità nell’organizzazione delle suddette caratteristiche. Come meglio si
comprenderà in seguito alla lettura della Parte II e III, per questo motivo abbiamo dovuto effettuare qui una scelta nell’organizzazione dei dati che, a nostro
parere, risulta più unitaria e biologicamente significativa. Abbiamo preferito
infatti presentare le caratteristiche biologiche del cancro dalla prospettiva della
perdita di determinate proprietà, piuttosto che di acquisizione delle stesse. Due
sono le ragioni che ci hanno portato a questo e che ci sembrano condivisibili,
in questa fase dello studio, senza ricorrere a specifiche prospettive epistemologiche di riferimento: da una parte il fatto che nessuna delle caratteristiche
sotto riportate risulti specifica del fenotipo neoplastico, dall’altra che nessuno
dei cambi descritti sia mai stato unanimemente segnalato come causa necessaria
e sufficiente per l’insorgenza del fenotipo neoplastico.
3.1.1
Le cellule tumorali presentano comuni alterazioni a
livello della membrana cellulare
Alterazioni della membrana plasmatica nelle cellule tumorali sono state dedotte da una serie di proprietà che caratterizzano la loro crescita e comportamento come la perdita di una inibizione della crescita densità dipendente, di una
minore adesività e la perdita di dipendenza dall’ancoraggio con una maggiore
invasività fino al superamento delle normali barriere tessutali. È stato osservato, inoltre, un certo numero di cambi nelle caratteristiche biochimiche sulla
superficie delle cellule maligne come la comparsa di nuovi antigeni di superficie,
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CAPITOLO 3. L’ETEROGENEITÀ DELLA PATOLOGIA NEOPLASTICA
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proteoglicani, glicolipidi e mucine, con una conseguente alterazione nella comunicazione tra cellula e cellula o tra queste e la matrice extracellulare. Alcuni
processi aberranti di glicosilazione sembrano essere responsabili della comparsa dei glicolipidi associati al fenotipo tumorale e sono stati identificati alcuni
eventi chimici nelle cellule tumorali, che possono spiegare i suddetti pattern di
glicosilazione.
Essi derivano generalmente da tre tipi di meccanismi che vengono alterati a
livello intracellulare e molecolare: [(1)]
1. la sintesi e/o il processamento incompleto delle normali e già esistenti catene di carboidrati, con il conseguente accumulo del precursore per una
modificazione della struttura risultante della catena;
2. la comparsa di una nuova attività sintetica dovuta all’attivazione di enzimi
glicosiltransferasi che sono assenti o che hanno una attività molto bassa nelle
cellule normali;
3. la riorganizzazione spaziale dei glicolipidi e glicoproteine a livello della
membrana cellulare [Hakomori 1985]. Gli epitopi che si costituiscono in seguito
a questa riorganizzazione determinano nuove proprietà della stessa modificando
l’adesione cellulare e gli eventi di trasduzione del segnale. Questi micro-domini
sono stati paragonati a una sorta di sinapsi che mediano la motilità e l’invasività cellulare e che presentano forti analogie con antigeni tipici di certe fasi
dello sviluppo embrionale [Hakomori 2001]. Anche per alcuni tipi di oligosaccaridi, a cui vengono legate catene di asparagine, sono state descritte alterazioni
significative nel fenotipo tumorale, confermando che la regolazione dei geni che
esprimono le glicosiltransferasi è importante nella trasformazione neoplastica;
alcune di queste evidenze sperimentali inoltre fanno pensare che i pattern di
glicosilazione cambino durante questo processo.
Dato quindi che le interazioni cellula-cellula e cellula-matrice extracellulare,
oltre che la regolazione della proliferazione e la reattività immunologica dell’ospite, subiscono tutte profonde alterazioni quando la composizione della membrana cellulare cambia, ne consegue che l’intera organizzazione cellulare subisca
profondi mutamenti in seguito alle modificazioni molecolari appena descritte
[Bertozzi e Kressling 2001]. Anche le mucine, un tipo di glicoproteine altamente
glicosilate che vengono prodotte da un vasto numero di cellule secretorie e sono
presenti a livello di molti tratti gastrointestinali, del polmone, del pancreas, dell’ovaio, ecc., risultano alterate nei tumori che riguardano questi organi. Sempre
per un’alterazione nel pattern di glicosilazione, si assiste infatti ad un aumento
della produzione delle stesse. I proteolglicani, infine, che vanno ugualmente incontro ad alterazioni di tipo quantitativo e qualitativo nel corso della formazione
neoplastica, svolgono un ruolo importante nelle nuove dinamiche interattive tra
cellula e membrana extracellulare [Yurchenco e Schittny 1990] agendo come riserve di fattori di crescita alterando così la trasmissione dei segnale tra le cellule.
Essi hanno, inoltre, un ruolo nella organizzazione dei filamenti di actina del citoscheletro cellulare, con le ovvie conseguenze sulla sua struttura e conformazione
della cellula, una volta che questo viene modificato.
2. Modificazioni delle componenti della matrice extracellulare,
dell’adesione tra cellula e cellula e cellula-ECM, e nella produzione
di enzimi litici. La membrana extracellulare (Extra Cellular Matrix : ECM)
gioca un ruolo importante nella regolazione della proliferazione e del differen-
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3.1. LE CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DEL CANCRO
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ziamento cellulare. Nel caso dei tumori, è risaputo che lo sviluppo di nuove strutture deputate all’irrorazione sanguigna e alle interazioni con lo stroma
mesenchimale su cui le cellule tumorali crescono, è necessario per lo sviluppo
tumorale e ne determina le proprietà invasive e metastatiche. La struttura mesenchimale infatti è continuamente rimodellata dalle interazioni tra il tumore in
crescita, le cellule mesenchimali dell’ospite e il suo sistema vascolare. La ECM
è costituita da collagene, proteolglicani, glicoproteine, come la fibronectina, la
laminina e l’entactina; essa costituice la barriera naturale all’invasione tumorale.
La membrana basale (MB) rappresenta una forma specializzata di ECM: essa
costituisce la struttura di supporto per le cellule di un tessuto, ed è un sistema
di rifornimento di nutrienti e prodotti metabolici cellulari anche per le cellule
migratorie (come i linfociti), giocando pertanto anch’essa un ruolo importante
nella proliferazione e nel differenziamento cellulare [Yurchenco e Schittny 1990].
Le cellule tumorali possono rompere la MB mediante la produzione di proteasi,
glicosilasi e collagenasi che degradano parte dei suoi componenti, permettendo
alle cellule tumorali di penetrare nel circolo sanguigno e linfatico, o nei tessuti
circostanti. Le stesse cellule maligne, inoltre, presentano recettori specifici per
concrete componenti della matrice o le possono produrre esse stesse; possono
inoltre rilasciare fattori polipeptidici che modulano il tipo di proteoglicani prodotti dalle cellule mesenchimali dell’ospite. Queste caratteristiche le rendono
capaci di legarsi all’endotelio vascolare e di rendere pertanto possibile l’invasione metastatica. L’adesione tra le cellule e la ECM influenza fortemente le
normali funzioni di crescita, differenziamento e proliferazione cellulare. Questa
dipendenza viene indicata abitualmente con il termine di “dipendenza dall’ancoraggio”. Le cellule normali che si staccano infatti dal loro sistema di ancoraggio
alla ECM, vanno incontro abitualmente ad apoptosi1 , mentre quelle tumorali
proliferano e si propagano.
Ci sono poi recettori di membrana, come le integrine, deputate all’adesione
cellula-ECM e che mediano l’espressione genica mediante l’interazione con il
citoscheletro e le sue componenti intracellulari (per esempio, l’actina), arrivando quindi fino al nucleo nella trasmissione di segnali mitogenetici aberranti. In
questo modo, le interazioni cellula-ECM possono controllare la modulazione dell’espressione genica deputata al differenziamento e normale funzionamento della
cellula. Le adesioni tra le cellule sono invece mediate da altre molecole, chiamate CAM (Cell Adhesion Molecules), che fungono tanto da recettori come da
ligandi. La loro espressione è programmata durante l’embriogenesi e lo sviluppo
per fornire un’informazione posizionale e migratoria alle cellule del nuovo organismo. Il dominio extracellulare di varie caderine è responsabile, per esempio,
dell’adesione omotipica tra cellule, mentre il dominio citoplasmatico interagisce
con proteine citoplasmatiche chiamate catenine che entrano a loro volta nelle
catene di trasduzione del segnale fino a livello nucleare [Liotta e Kohn 2001].
1 Questa
forma programmata di morte cellulare è conosciuta come anoikis e viene indotta
quando le cellule si staccano dalla ECM [Frisch e Screaton 2001].
Abitualmente infatti le
cellule rimangono strettamente connesse alle altre componenti del tessuto cui appartengono
per consentire la comunicazione tra le cellule adiacenti e tra queste e la ECM che fornisce i
segnali di crescita o di sopravvivenza fondamentali. Quando le cellule pertanto si distaccano
dalla EMC, per una perdita per esempio delle normali interazioni, vanno incontro ad anoikis.
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CAPITOLO 3. L’ETEROGENEITÀ DELLA PATOLOGIA NEOPLASTICA
35
3.1.2
Alterazioni genetiche comuni nella struttura e funzione della cromatina
1. Metilazione del DNA. La metilazione del DNA sulle citosine all’interno delle isole CpG (legame tra una Citosina e una Guanina) è un meccanismo
di regolazione dell’espressione genica. In generale, le sequenze di DNA ipermetilate sono meno espresse e quelle ipometilate più espresse. Le isole CpG sono
delle brevi sequenze ricche in dinucleoptidi CpG che si trovano all’estremità 5’
delle regioni regolatrici di praticamente tutti i geni umani. Alterazioni nei pattern di metilazione del DNA sono state osservate nelle linee cellulari tumorali
in modelli animali e in tumori primari umani.
2. Perdita di eterozigosi. La delezione di materiale genetico è estremamente frequente nei tumori umani, fino ad arrivare ad essere una delle anomalie
più frequentemente osservate nelle analisi citologiche dei tumori solidi. Queste
delezioni spesso implicano una perdita di eterozigosi (Loss of Heterozygosity:
LoH) nell’espressione dell’allele materno o paterno di un determinato gene. Se
essa è accompagnata da una mutazione sull’allele rimanente, per esempio nel
caso di alcuni geni riportati in letteratura come geni oncosoppressori (Rb, p53
in alcuni casi, ecc.), un meccanismo importante di regolazione cellulare viene
perso.
3. Perdita di imprinting genomico. L’imprinting è una modificazione
epigenetica del genoma che permette solo all’allele materno o paterno di essere
espresso. In un certo numero di tumori umani, è stata rilevata una perdita
dell’imprinting (Loss of Imprinting:LOI) che permette tanto all’allele materno
che paterno di essere espresso. Se questo avviene, per esempio, per un fattore di
crescita, le cellule sono sottoposte a un doppio stimolo di crescita [Cui et al 1998]
con ovvie conseguenze sul tasso di proliferazione cellulare.
4. Cambi nell’attività telomerasica. Le cellule germinali e le cellule
staminali pluripotenti presentano un’attività telomerasica costitutiva, mentre la
attività di questi enzimi è rimossa nelle cellule di molti tessuti una volta che hanno terminato il processo di differenziamento. La maggior parte dei tumori umani
sembrano essere capaci, invece, di riattivare l’attività telomerasica, ristabilendo
la loro capacità proliferativa. Tuttavia, sembrano esistere altri meccanismi, nel
10-15 % dei tumori umani, che, pur non esprimendo la telomerasi, mantengono
la lunghezza dei loro telomeri [Hodes 2001].
5. Alterazione dei meccanismi di riparazione del DNA. In generale, i meccanismi di riparazione del DNA sono estremamente accurati: quando
qualche passaggio nel processo non avviene nel modo giusto, prima o durante la
replicazione, si possono creare degli errori che possono dare origine a mutazioni
e ad eventi genetici relazionati con l’insorgenza del cancro. Un certo numero
di difetti ereditari nei sistemi di riparazione del DNA predispongono alcuni individui all’insorgenza del cancro, come nel caso di BRCA1 nella mammella e
nell’ovaio o la compromissione del sistema MHS nei tumori dell’intestino; tuttavia, sono ancora molti i meccanismi da identificare che potrebbero contribuire
all’insorgenza del cancro compromettendo questi sistemi. Altre sindromi che
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3.1. LE CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DEL CANCRO
36
hanno a che vedere con meccanismi di riparazione del DNA includono lo xeroderma pigmentoso, la ataxia telangiectasia, alcune forme di anemia, ecc. È
interessante inoltre rilevare che sostanze che aumentano la frequenza di replicazione del DNA, contribuiscono proporzionalmente all’insorgenza tumorale, come
invece la diminuiscono quelle che abbassano i tassi di proliferazione cellulare.
3.1.3
Le cellule tumorali abitualmente perdono determinate proprietà
1. Perdita di dipendenza dai segnali dei fattori di crescita esterna e dei fattori anti-crescita. Una delle proprietà che distingue il fenotipo
trasformato di cellule tumorali coltivate in vitro dalla loro controparte normale
è una diminuzione dell’inibizione densità dipendente della proliferazione e della
richiesta di fattori di crescita per la replicazione cellulare in coltura. I primi
esperimenti fatti su cellule trasformate da oncogeni virali avevano già messo in
evidenza questa caratteristica. Le cellule tumorali, inoltre, possono produrre
esse stesse fattori di crescita, attivando la proliferazione delle cellule vicine (effetto paracrino) o, se le cellule maligne hanno anche i recettori per quel fattore
di crescita, inducendo un’auto-stimolazione della proliferazione cellulare (effetto
autocrino). Un esempio di un loop autocrino di questo tipo è dato dal fattore
tumorale necrotico (Tumor Necrosis Factor: TNF) e dal suo recettore (TNFR)
in cellule derivate da linfomi con una prognosi peggiore.
Un punto importante da tenere in conto, tuttavia, è che nelle cellule esistono
fisiologicamente dei cross-talk importanti tra i diversi pathway di trasmissione
del segnale, relazionati tanto con la crescita e la proliferazione, come al differenziamento o all’apoptosi. Questi corss-talk possono up/down regolare un fattore
che trascina e determina la risposta di altri fattori2 [Graeber e Eisenberg 2001].
2. Perdita della dipendenza da ancoraggio. Se isolata, la maggior
parte delle cellule animali normali o delle cellule diploidi normali coltivate in
vitro non crescono bene sospese in un fluido o in un gel di agar semisolido. Se
però queste cellule prendono contatto con la superficie di coltura, aderiscono e si
allargano, proliferando. Molti tipi di linee cellulari ottenute da tumori e di cellule
trasformate da oncogeni sono capaci invece di crescere in sospensione o senza
aderire alla superficie: presentano cioè un meccanismo di crescita ancoraggioindipendente.
3. Perdita di dipendenza dal controllo del ciclo cellulare e dalla
regolazione apoptotica. Le cellule normali rispondono ad una varietà di
condizioni subottimali per la crescita entrando in quiescenza, nella fase del ciclo
cellulare detto G0. Esiste cioè un momento nella fase G1 del ciclo cellulare, nel
quale la cellula può determinarsi verso il completamento del ciclo entrando nella
fase S, la fase di sintesi del DNA, o fermasi in G1 aspettando condizioni migliori
2 Questo
rende evidentemente insoddisfacenti vari tipi di semplicazioni che a livello anche
terapeutico hanno delle implicazioni importanti dato che un farmaco che blocca una componente cellulare a monte del pathway può essere aggirata dall'attivazione di un altro pathway
parallelo. È quello che viene attribuito a vari fenomeni di resistenza a chemioterapici, per cui
l'obiettivo principale rimane sempre quello di puntare ad eventi e molecole che si trovano a
valle dove i pathway di trasduzione di vari tipi di segnali convergono nella capacità di stimolare
l'attivazione genica.
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CAPITOLO 3. L’ETEROGENEITÀ DELLA PATOLOGIA NEOPLASTICA
37
per continuare la divisione. Una volta che vengono indotte alla divisione le
cellule passano attraverso le fasi S, G2 ed M (Mitosi) per tornare quindi in G1.
Se le cellule vengono bloccate in una delle 3 fasi appena citate per un periodo
di tempo prolungato, muoiono. La perdita di regolazione su questi punti di
controllo del ciclo cellulare è una delle caratteristiche delle cellule tumorali e
costituiscono uno dei target delle terapie anti-tumorali3 .
È ampissima la letteratura sull’apoptosi e sul suo ruolo nel processo neoplastico. Sebbene infatti la biochimica dell’apoptosi sia stata ben studiata e i meccanismi compresi, e un certo numero di recettori [Ashkenazi e Dixit 1998] deputati
al
controllo
di
questo
meccanismo
identificati
[Green 1999, Vaux e Korsmeyer 1999], non sempre risulta chiaro come e perché il processo apoptotico venga innescato o aggirato dalle cellule tumorali. I
recettori per l’apoptosi sono ordinariamente deputati a segnalare alla cellula
situazioni ambientali che non sono compatibili con la vita, per cui le cellule vengono indotte a morire. Un processo di questo tipo può essere completato nel giro
di poche ore e mediato da alcune proteine come le caspasi [Green e Reed 1998].
L’importanza dei pathways apoptotici è evidente quando ci sono mutazioni che
alterano la capacità delle cellule di andare incontro a questo processo, mantenendosi in uno stato costitutivamente proliferativo insensibile ai segnali apoptotici.
La traslocazione del gene bcl-2 costituisce un esempio tradizionale di queste
alterazioni nei linfomi: la proteina Bcl-2 è una proteina transmembrana mitocondriale che regola i canali ionici e le pompe protoniche di questi organelli
intracellulari, regolando i meccanismi redox ad essi collegati.
3.2
L'eterogeneità fenotipica e funzionale delle
cellule neoplastiche
I primi risultati di studi volti a spiegare l’eterogeneità fenotipica del cancro
sono stati illustrati da Fould che centrò la sua ricerca proprio su questo aspetto
della patologia [Foulds 1954]. Infatti, prima dell’era dei geni, molti livelli di
eterogeneità erano stati descritti, includendo la morfologia cellulare, l’istologia
tessutale, i markers cariotipici e citogenetici e i tassi di crescita cellulare; anche
analisi quantitative dei prodotti cellulari come i recettori e gli enzimi, nonché
delle caratteristiche immunologiche, della capacità metastatica e della sensibilità ad agenti terapeutici [Heppner 1984, Dexter et al 1978] confermarono presto
l’estensione dell’eterogeneità tumorale. Si è detto che limitazioni metodologiche hanno contribuito a questo ritardo, ritenendo che persino le metodiche che
hanno permesso l’isolamento e il sequenziamento di DNA/RNA da popolazioni
di cellule miste, aumentavano artificialmente la varietà del profilo molecolare
[Bielas et al 2006]. Ciò non toglie che per molti le evidenze empiriche a no3 Le cellule normali infatti hanno dei meccanismi di protezione dalla esposizione a condizioni
che limitano la crescita o ad agenti tossici, mediante regolazione di questi punti di controllo.
Le cellule tumorali invece, possono procedere attraverso le diverse fasi essendo così più sensibili
all'eetto citotossico di farmaci o radiazioni. Quando per esempio le cellule vengono colpite
da raggi ultravioletti o raggi-X, si arrestano in fase G1 in modo che il DNA danneggiato
possa essere riparato prima della replicazione.
Un'altro punto di regolazione nella fase G2
permette di riparare le fratture a livello cromosomale prima che avvenga la segregazione
mitotica. Le cellule tumorali presentano una capacità quasi nulla di controllare questi punti del
ciclo cellulare, che implica quindi l'accumulo progressivo di mutazioni che niscono coll'essere
letali.
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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3.2. L’ETEROGENEITÀ FENOTIPICA E FUNZIONALE DELLE
CELLULE NEOPLASTICHE
stra disposizione, sembravano essere già più che sufficienti per prendere in seria
considerazione l’eterogeneità tumorale come una caratteristica intrinseca del fenomeno, piuttosto che come un bias metodologico o un rumore di fondo che con
metodologie più raffinate poteva essere annullato4 . La speranza era quella di
ridurre l’eterogeneità fenotipica a quella genetica. Quando si scoprirono nuovi tipi di regolazioni epigenetiche come le sequenze di RNA non codificanti, si
riaprì la speranza che nuove spiegazioni potevano essere date a quelle questioni
sull’eterogeneità tumorale che le teorie tradizionali genetiche non erano state
capaci di affrontare, ma neanche questo fu sufficiente.
“Recent years have seen an explosion of studies that systematically catalogue these (genetic and epigenetic) changes to provide an overview of the number and type of mutation that drive tumorigenesis. (...) It has emerged that
human tumours are genetically more heterogeneous and complex than expected. It has also becoming increasingly apparent that there is considerable genetic and functional heteorgeneity among the cancer cells within each tumour ”
[Nature Editorial 2009]. La maggior parte delle componenti molecolari infatti
rimangono invariate, ma l’attività funzionale cambia, dovuta a fattori esterni
ed interni che, alla fine, coinvolgono una miriade di eventi che danneggiano il
DNA, come mutazioni o alterazioni nell’espressione genica mediante l’ipometilazione delle sequenze promotrici [Vogelstein e Kinzler 2004, Jones et al 2008,
Baylin 2005].
Così avvenne che, mentre alcuni suggerivano di spostare la ricerca dall’identificazione dei geni alla caratterizzazione dei loro pathways, altri iniziarono a cercare cause che non fossero necessariamente genetiche per dar ragione
dell’eterogeneità tumorale, compresi fattori infettivi batterici o virali, cellule
staminali tumorali, errori o stress metabolici o ossidativi, aneuploidia, infiammazione, interazione tessuto-tumore, immunodeficienza, un ampio arsenale di
fattori epigenetici e in particolare la funzione dei micro-RNA, rappresentando
però “the same attempt to find common causative patterns (although) now focused on different levels of genetic/epigenetic or cellular organization and their
response under all kinds of environmental stress” [Heng et al 2009].
4 Aronteremo
con maggior profondità questo aspetto nella Parte III per le sue implicazioni
epistemologiche. Per ora, ci limitiamo ad aggiungere qualche dato che può fornire a chi voglia
addentrarvisi qualche elemento di riessione in più. Le evidenze e l'informazione sull'elevata
eterogeneità tumorale, infatti, furono ignorate da molti genetisti molecolari, che cercarono
invece di investire il loro lavoro di ricerca sull'identicazione di pattern comuni di mutazioni
o di pathways specici responsabili dell'aggressività tumorale delle cellule in trasformazione,
mettendo da parte ogni altra forma di eterogeneità presente, giving a false impression that
the accumulation of ``clonal cancer gene mutations or epigenetic changes represents a signicant pattern in most cancers [Heng et al 2009]. Il ricorso al sequenziamento del genoma di
numeri elevatissimi di tumori umani, furono eettuati e pubblicati nel tentativo di identicare
set comuni di geni [Collins e Barker 2007] e dare così una descrizione unitaria del fenotipo
neoplastico almeno in termini genetici. L'assunzione divenne che l'eterogeneità tra i pazienti e
le cellule tumorali fosse un rumore di fondo eliminabile mediante validazione dei dati su una
scala molto ampia di campioni. Sfortunatamente però, come previsto già da alcuni, questo
approccio non diede i risultati attesi [Greenman et al 2007]: (1) nonostante il successo iniziale
nell'identicazione di un ampio numero di mutazioni con elevata penetranza in certe popolazioni di pazienti, la maggior parte di queste mutazioni presentato una frequenza bassa tra i
pazienti in generale; (2) l'aumento continuo del numero di geni che vengono identicati come
responsabili di diverse forme tumorali fa dubitare che si possa mai arrivare ad una una serie
di mutazioni realmente comuni a tutti i tipi di cancro. Il concetto più diuso di cancro quindi
non sembra essere coerente con la realtà dell'elevato grado di eterogeneità genetica presente
almeno tra i pazienti [Heng et al 2009].
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CAPITOLO 3. L’ETEROGENEITÀ DELLA PATOLOGIA NEOPLASTICA
39
Allo stesso tempo, tuttavia, prese piede un’altra tendenza che integrò quelle
precedenti: la perdita di determinate proprietà cellulari iniziò ad essere messa
in correlazione non tanto con la diversità di cause molecolari a cui era legata
l’insorgenza tumorale, quanto all’alterazione o al disaccoppiamento di due meccanismi principali, quello differenziativo e quello apoptotico. Il ruolo principale
fu comunque attribuito al differenziamento dato che il processo apoptotico può
essere in realtà comuqnue visto, almeno da un punto di vista evolutivo, come
parte e manifestazione del primo, sempre comunque presente, seppur in forma
aberrante, nelle varie fasi di trasformazione neoplastica. Il normale processo di
differenziamento porta infatti una cellula a differenziarsi completamente, tanto da non andare più incontro ad ulteriori fasi di divisione cellulare; in certe
circostanze però, come quelle create da determinati agenti carcinogenetici, le
cellule possono continuare a dividersi senza andare incontro al differenziamento
completo. Cellule di questo tipo sono generalmente identificate come cellule che
stanno andando incontro ad un processo di trasformazione maligna. È come
se i geni, deputati alla regolazione della proliferazione cellulare, fossero bloccati sulla posizione “on”, quando invece dovrebbero poter passare alla posizione
“off”. Questo fenomeno è dovuto al fatto che i geni legati al controllo del differenziamento o non sono espressi o sono espressi in modo anomalo. È evidente
pertanto l’interesse per i meccanismi di controllo del differenzamento cellulare
nella ricerca oncologica5 .
5 Il
dierenziamento può essere considerato come la somma di tutti i processi per cui le
cellule di un organismo in sviluppo raggiungono la loro specica funzione. Mediante l'acquisizione di queste caratteristiche speciche, le cellule della progenie sono distinguibili da quelle
parentali e le une dalle altre. Cellule somatiche che condividono un gruppo o un sotto-gruppo
di caratteristiche strutturali e funzionali si organizzano in tessuti facendo del dierenziamento
cellulare la condizione sine qua non della vita di organismi multicellulari. Il processo di dierenziamento appare quindi come qualcosa di praticamente permanente nello sviluppo: alcune
cellule, infatti, mantengono la capacità di dividersi, mentre altre si dividono e dierenziano in
cellule che presentano una plasticità fenotipica più ristretta. Quest'ultimo tipo di cellule sono
dette pluripotenti invece che totipotenti, in quanto orientate a dierenziarsi verso un tipo di
cellula tipica di un tessuto particolare.
Gli embriologi hanno tradizionalmente denito l'orientamento delle cellule a un pathway
di dierenziamento generale, con il termine di determinazione cellulare (determination), riservando il termine di dierenziamento (dierentiation) agli eventi nali da cui deriva una
cellula terminalmente dierenziata da una pluripotente [Sonnenschein e Soto 1999].
Da un
punto di vista biochimico, tuttavia, questa è probabilmente una distinzione articiale perché
il processo complessivo più verosimilmente rappresenta un continuum di eventi biochimici e
molecolari che portano da una cellula totipotente ad una terminalmente dierenziata.
Per
denizione, cioè, il processo di dierenziamento richiede un'alterazione ereditabile nel pattern
di informazione genetica delle due cellule glie che derivano dalla stessa cellula madre. Dato
che tutte le cellule di un organismo pluricellulare derivano da una sola cellula, l'uovo fertilizzato, questo processo deve basarsi su di una espressione dierenziata delle caratteristiche
nella progenie. Questo processo deve inoltre continuare lungo tutto lo sviluppo embrionale
no a dare origine alla grande varietà di cellule che sono presenti nell'organismo adulto.
La scoperta delle cellule umane staminali embrionali [Thomson et al 1998] e delle cellule
germinali embrionali [Shamblott et al 1998], e ancor più recentemente delle cellule staminali
tessutali presenti negli organi adulti [Blau et al 2001] come il cervello, il muscolo, che possono
dierenziare in diversi tipi di cellule, ha però drasticamente alterato l'intera questione: che
cosa è infatti una cellula staminale? Queste scoperte indicano che la plasticità di certe cellule
nei tessuti adulti è ben diversa da quella che gli si attribuiva pochi anni fa.
Essa, inoltre,
pone ancora più pressantemente la domanda su quale sia il target cellulare del processo di
trasformazione maligna. Se infatti queste cellule pluripotenti sono presenti in praticamente
tutti i tessuti del corpo, perché non tutti i tessuti sono ugualmente suscettibili all'insorgenza
di una neoplasia?
Sappiamo, per esempio, che i tumori e i sarcomi del cervello si danno
con una frequenza molto inferiore di quella dei tumori epiteliali (carcinomi) e che i tumori
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3.2. L’ETEROGENEITÀ FENOTIPICA E FUNZIONALE DELLE
CELLULE NEOPLASTICHE
Parlare di differenziamento però significa far riferimento al ruolo funzionale
delle cellule all’interno dell’organismo. Tutte le cellule del nostro corpo, infatti,
hanno lo stesso patrimonio genetico, ma presentano determinate caratteristiche
fenotipiche a seconda della funzione espletata. Nel cancro sembra darsi una
situazione inversa: generalmente l’identità neoplastica, descritta in termini funzionali, viene attribuita a cellule che presentano invece caratteristiche genetiche
diverse.
L’eterogeneità, allora, delle caratteristiche funzionali delle diverse cellule che
si riscontra all’interno di un tumore, introduce un nuovo elemento di complessità
nello studio di questa patologia. Esso non è legato solo al fatto che sono svariati
i tessuti da cui il cancro può avere origine, ma anche al fatto che raramente
di fatto caratteristiche fenotipiche comuni sono state descritte per le cellule tumorali anche di uno stesso tipo di tumore. Di fatto, nelle cellule tumorali le
componenti molecolari coinvolte nei pathways funzionali rimangono sostanzialmente invariate, mentre la loro attività funzionale cambia in risposta o come
conseguenza di determinati fattori interni o esterni alla cellula che ne compromettono il normale funzionamento. Questo implica una riflessione sulla natura
del programma che viene compromesso o della riprogrammazione che sembra
darsi nella fase di trasformazione a tumore maligno e un confronto tra ciò che
permane e ciò che cambia in una cellula tumorale in termini di informazione ed
istruzione biologica. Alla luce di ciò, i dati inerenti la dinamicità del fenomeno
neoplastico, riportati nelle sezioni successive, ci sembrano acquisire un particolare interesse insieme ai parallelismi con altri fenomeni biologici complessi e con
le loro caratteristiche di robustezza e plasticità, che compaiono nella letteratura
scientifica.
al muscolo cardiaco sono molto rari.
Si potrebbe senza dubbio obiettare che le cellule del
muscolo e del cervello sono meno esposte agli agenti ambientali e all'azione ormonale che
sono invece coinvolti nell'attivazione dei processi carcinogenetici. Ci sono dati tuttavia che
dimostrano come un danno a questi tessuti possa attivare le cellule staminali endogene e
spingerle a proliferare e a muoversi verso l'area della lesione [Temple 2001], facendo supporre
che queste stesse cellule possano essere ugualmente suscettibili di danni carcinogenetici essendo
cellule in attiva proliferazione e pertanto suscettibili a danni mutageneci durante i processi di
replicazione del DNA. Questo solleva anche la questione circa l'abilità delle cellule nei tessuti
adulti di de-dierenziare in risposta al danno tessutale e se le cellule staminali adulte sono
veramente cellule adulte de-dierenziate.
Come avremo modo di vedere nella Parte III, tutte queste questioni non sono solo disquisizioni accademiche perché dall'approccio epistemologico all'iniziazione e progressione del
cancro dipende anche il tipo di cellule che sono prese di mira per la prevenzione o la scelta
delle strategie adottate nel controllo della progressione tumorale. La risposta a quelle domande, inoltre, determina anche la possibilità di identicare precocemente cellule iniziate, cellule
tumorali dormienti o aggressive. A supporto di queste considerazioni ci limitiamo a dire che
non mancano evidenze sperimentali. Esistono, per esempio, una serie di casi di tumori maligni
animali, o di colture cellulari umane, in cui le cellule possono perdere il loro fenotipo maligno
mediante trattamenti con agenti che inducono il dierenziamento. È il caso di una leucemia
(friend virus-induced murine erythroleukemia ) che può essere trattata mediante DMSO (dimethyl sulfoxide), del dierenziamento delle cellule di carcinoma embrionale murino mediante
esposizione ad acido retinoico, analoghi dell'AMP ciclico (cAMP), sodio butirrato, ecc. e del
dierenziamento di cellule promielocitiche acute umane (HL-60) in coltura ottenuto mediante
un certo numero di farmaci antitumorali, come il sodio butirrato, DMSO, vitamina D3, esteri
di forbolo e analoghi dell'acido retinoico [Ruddon 1995].
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Capitolo 4
Il cancro e le sue analogie con
fenomeni sio/patologici
Il cancro presenta alcuni connotati chiaramente patologici, descrivibili in
termini di perdita di funzione: l’organizzazione delle caratteristiche biologiche
del cancro, appena conclusa, e l’analisi di altre caratteristiche della complessità di questa malattia, considerano il fenomeno da questo punto di vista. In
letteratura e in molti manuali o testi divulgativi, però, alcune proprietà delle
cellule tumorali e del cancro sono descritte in termini analoghi a quelli ci si
aspetterebbe per un organismo vivente, per cui si parla di riprogrammazione
di determinate funzioni delle cellule tumorali, sottolineando alcune analogie di
comportamento che il cancro presenta rispetto ad altri fenomeni biologici. Per
ora, ci limiteremo a presentare il contesto e i riferimenti concreti presenti in
letteratura. La discussione degli stessi richiederà un’analisi più ampia che sarà
oggetto della Parte III e IV del presente studio.
4.1
Il cancro come caricatura di un tessuto normale
L’integrazione delle scoperte macroscopiche sulla patogenesi di alcuni tumori
solidi con i dati raccolti dalla ricerca cellulare e molecolare sul cancro ha messo
recentemente in luce le analogie di questa patologia con altri processi biologici e fisiologici di un organismo. A livello microscopico, per esempio, i tumori
non vengono più solo descritti in termini di semplici aggregati di cellule maligne, ma appaiono come “maladjust living entities”, entità viventi malcostituite
che reclutano selettivamente le cellule stromali dell’ospite come i fibroblasti, le
cellule endoteliali, ecc., con cui interagiscono e interferiscono [Tarin 2007]. Il risultato sembra essere la formazione di una caricatura distorta, ma riconoscibile,
dell’istologia di un organo da cui il tumore derivava e che distrugge il normale
tessuto adiacente. L’ipotesi che il cancro sia la caricatura dello sviluppo organico e del rinnovamento tessutale normale -“caricature of normal development
and tissue renewal ”- era originariamente basato su studi descrittivi di tessuti
normali e di tumori. Il concetto che emergeva da questi studi era, infatti, che
tanto i tessuti normali come quelli tumorali fossero sostenuti da cellule che si
41
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42 4.1. IL CANCRO COME CARICATURA DI UN TESSUTO NORMALE
auto-rinnovavano, una sorta di cellule staminali che inizialmente davano origine
al una progenia altamente indifferenziata e proliferativa [Dalerba 2007]. Questo
modello prevede che cellule, derivate da questa prima popolazione in attiva proliferazione, cessino di crescere ed entrino in una fase di quiescenza, esprimendo
markers caratteristici di alcune forme cellulari differenziate dell’organo al cui
interno risiedono.
Quindi, sebbene i tumori vengano per lo più ritenuti di origine monoclonale, molti sembrano di fatto contenere una popolazione eterogenea di cellule.
Questa osservazione è stata tradizionalmente spiegata postulando variazioni nel
microambiente tumorale e la coesistenza quindi di sottocloni geneticamente differenti creati per l’accumulo progressivo di mutazioni somatiche indipendenti.
Una spiegazione addizionale, tuttavia, ipotizza che i tumori umani non siano
semplici espansioni clonali di cellule trasformate, ma piuttosto una specie di
tessuto complesso tridimensionale dove le cellule tumorali possono divenire funzionalmente eterogenee come risultato di un processo differenziativo. In accordo
con questo secondo scenario, “tumors act as a caricatures of their corresponding
normal tissues and are sustained in their growth by a pathological counterpart
of normal adult stem cells, cancer stem cells” (cfr. Parte III). Questo modello
inizialmente sviluppato per le leucemie mieloidi umane, è stato negli ultimi anni
esteso anche ad altri tipi di tumori, come quello della mammella o del cervello
[Dalerba 2007].
La differenza più evidente, allora, tra tessuti normali e tumorali consiste nel
danneggiamento del processo differenziativo nei secondi, tale da produrre un
accumulo di cellule indifferenziate, o non completamente differenziate, mitoticamente attive. Anche ricerche più recenti sulle prime fasi di sviluppo del cancro
alla prostata supportano questa idea [Marker 2008]. Sono sempre più numerose,
infatti, le evidenze che i primi stadi di tumori testicolari si sviluppino a partire
da un gonocita con capacità staminale; questo spiegherebbe come in un uomo
adulto si possano sviluppare strutture che appaiono come “neoplastic caricature
of embryonic growth” [Skakkebaek et al 1998]. Sebbene ancora siano limitate le
nostre conoscenze sulle basi molecolari e cellulari dello sviluppo della prostata
necessarie per validare definitivamente questa ipotesi, ci sono alcuni dati, comuni anche ad altri tipi di tumori, che riportano come molti dei geni che regolano lo
sviluppo embrionale di questo organo riappaiano, in termini di attività, durante
la progressione neoplastica dei tumori alla prostata [Marker 2008].
Una caratteristica importante di questo modello rimane comunque l’idea che
la biologia di popolazioni di cellule indifferenziate e proliferanti nei tumori sia
governata dagli stessi pathways che regolano lo sviluppo e il rinnovamento dei
tessuti normali. Nei tumori, però, l’attività e la regolazione di questi pathways
sono alterate a causa di aberrazioni genetiche ed epigenetiche che cambiano le
dinamiche molecolari con cui un segnale ha origine e viene trasmesso. Alcuni
dati sperimentali, per esempio, riportano come alcuni di questi cambi riguardino
il silenziamento di molecole target dei segnali per gli androgeni: alterazioni,
mediante fusione di promotori che rispondono agli androgeni con nuovi geni
sembrano infatti creare nuovi target per il pathway di segnale legato a questi
ormoni. Tuttavia, continuano le ricerche per comprendere se altri pathway
regolatori dello sviluppo sono alterati nella progressione del tumore alla prostata
in modo analogo a quello degli androgeni [Marker 2008].
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CAPITOLO 4. IL CANCRO E LE SUE ANALOGIE CON FENOMENI
FISIO/PATOLOGICI
4.2
43
L'oncogenesi come una ontogenesi bloccata
Storicamente fu Van R. Potter ad anticipare l’idea del cancro come un problema relazionato con il differenziamento cellulare in un tessuto. Partendo da
alcuni studi sulla biochimica del cancro [Potter 1964], Potter immaginò la crescita neoplastica come un problema di comunicazione intercellulare e di differenziamento, elaborando il concetto dell’oncogenesi come una ontogenesi bloccata
-“oncology is blocked ontogeny” [Potter 1968, Potter 1969] - partendo dalla considerazione che la diversità fenotipica nei tessuti normali può dipendere da due
fattori principali: (1) nell’evoluzione delle specie, la diversità emerge da mutazioni adattative del DNA che costituisce il genotipo; (2) la diversità fenotipica
può insorgere mediante ontogenesi, cioè mediante il programma complessivo di
differenziamento considerato “as a process that alters the availability but not the
information content of the total DNA complement” [Potter 1978]. L’idea di base
era che le cellule tumorali avessero perso dei meccanismi di controllo retroattivi (feedback control ) nella proliferazione tale da renderle in grado di dividersi
incondizionatamente. Inoltre, le cellule tumorali acquisirebbero una ampia gamma di nuove proprietà che le renderebbero distruttive rispetto all’organismo nel
suo insieme.
Muovendo da queste premesse, Potter suggerì che il parallelismo tra oncogenesi e ontogenesi fosse deducibile dalle similarità enzimatiche che si osservavano,
almeno nel modello da lui utilizzato, in tumori al fegato e in tessuti epatici fetali.
Egli suggerì che la diversità fenotipica tra i tumori potesse essere spiegata senza
bisogno di presupporre ampi cambiamenti a livello genomico. Egli infatti credeva che il cancro fosse “a disease of differentiation”, “a case of blocked ontogeny”,
per cui il blocco poteva avvenire plausibilmente a qualsiasi stadio tra la divisione cellulare e lo stato di differenziamento terminale. L’eterogeneità tumorale
allora è legata ai diversi tassi di proliferazione e gradi di differenziamento che
danno ragione delle differenze fenotipiche e delle variazioni metaboliche che ci
sono nei tumori. A supporto di questa ipotesi, studi successivi hanno dimostrato
come molte, anche se non tutte, cellule indifferenziate appartenenti a leucemie
mieloidi di mammiferi potevano essere indotte a differenziare in macrofagi e granulociti maturi [Lotem e Sachs 1974], evidenziando come il blocco fosse reale,
sebbene suscettibile di superamento.
Potter propose quindi una visione delle cellule tumorali come un problema
concernente la scorretta combinazione del processo di proliferazione e differenziamento quando i meccanismi, per cui un blocco parziale o completo al differenziamento potevano contribuire allo sviluppo del cancro, non erano ancora
conosciuti. Studi successivi dimostrarono come un blocco nel differenziamento
in un organismo sano induce un feedback positivo che aumenta la proliferazione
delle cellule a monte del blocco, producendo una iperplasia; mutazioni successive sarebbero necessarie per raggiungere il fenotipo neoplastico vero e proprio,
per cui il blocco del differenziamento influenzerebbe solo indirettamente il processo tumorale. Questo è stato interpretato da alcuni in termini di plasticità
cellulare in quanto blocchi di questo tipo sarebbero capaci di generare cellule con diversi gradi di maturità e differenziamento che costituirebbero poi la
massa neoplastica [Rapp et al 2007]. Rimandiamo tuttavia alla Parte III la discussione di queste diverse prospettive dello stesso problema: il parallelismo del
processo neoplastico con quello ontogenetico, mediante la compromissione dei
meccanismi differenziativi.
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44
4.3. UNA TEORIA COMUNE TRA CANCRO, INVECCHIAMENTO E
SVILUPPO
4.3
Una teoria comune tra cancro, invecchiamento e sviluppo
Le prospettive precedenti ci permettono ora di introdurre alcune idee che
stanno, poco a poco, dando origine nella letteratura scientifica ad una teoria
più ampia che unisce cancro, invecchiamento e sviluppo. Se si osservano, infatti, l’organismo e i fenomeni biologici da una prospettiva che include diversi
livelli di analisi, anche da un punto di vista molecolare, l’ampliamento delle
conoscenze sui meccanismi che controllano il cancro convergono in quelle che
tradizionalmente erano state appannaggio della biologia dello sviluppo e dell’invecchiamento, riducendo significativamente la distanza tra queste aree di ricerca
scientifica-sperimentale. Questo crea nuove opportunità per studi unificati di
questi processi, dei loro pathways e patterns proteici. Un esempio semplice di
ciò viene dagli studi effettuati sulle proteine della famiglia WNT i cui membri
sono glicoproteine secrete e modificate mediante legami covalenti a lipidi e sono
coinvolte nell’embriogenesi, nell’omeostasi dei tessuti adulti e nella carcinogenesi [Katoh 2008]. Una teoria unificata è infatti estremamente interessante se
si considera che tutte le cellule, in linea di principio, originano da cellule staminali e che gli stessi patterns organizzativi e pathways funzionali sembrano
essere coinvolti nel loro differenziamento. I risultati di studi embriologici e sulle
cellule staminali hanno consentito una comprensione più approfondita dei meccanismi coinvolti nella generazione e assemblaggio dei tessuti e degli organismi.
Meccanismi regolatori, come il controllo epigenetico dell’espressione genica e
la regolazione post-trascrizionale a carico dei micro-RNA, hanno ulteriormente
chiarito aspetti della normale biologia delle cellule staminali, inclusa quella riferita ai processi di invecchiamento e di tumorigenesi [Oakley e Van Zant 2007].
Alcuni dati disponibili infatti sul ruolo delle cellule staminali nell’invecchiamento suggeriscono che esso abbia luogo in parte perché le cellule staminali
diventano vecchie come risultato dell’alterazione di processi che nell’arco della
vita prevengono anche l’insorgenza del fenotipo neoplastico. Eventi ereditabili,
come l’alterazione o il danneggiamento del DNA nelle nicchie che supportano le cellule staminali, possono anche contribuire ai processi di invecchiamento nei mammiferi [Sharpless e De Pinho 2007]. Allo stesso modo l’incapacità
delle cellule staminali di differenziare in determinate condizioni del micro ambiente sembra essere in relazione con l’insorgenza del fenotipo neoplastico. Le
cellule staminali sono considerate da molti autori come elementi fondamentali
nel mantenimento del fenotipo neoplastico, e tale teoria riscuote un consenso
sempre più ampio grazie a studi sulle alterazioni, prevalentemente epigenetiche
[Feinberg 2008], che controllano le cellule staminali adulte e che pertanto sembrano essere coinvolte in molti processi tumorigenici [Vescovi et al 2006]1 . La
convergenza tra la biologia dell’invecchiamento e il contributo delle cellule stami1 Questa
rimane tuttavia solo un'ipotesi, anche se in alcuni articoli è stata presentata come
una vera e propria teoria. La questione sarà ampiamente discussa nella Parte III, Cap. 10.
Per ora basta accennare al fatto che le cellule staminali tumorali, per essere tali, non presentano caratteristiche che in realtà sono praticamente denitorie della cellula staminale quali
per esempio, la capacità di dividersi in maniera dierenziale, di avere meccanismi potenti di
riparazione del DNA, e di essere ubiquitarie nei vari tipi di tumori, cosa dicilmente sostenibile nei casi per esempio di tumori mioepiteliali, luminali, duttali o lobulari della mammella.
Il progenitore cioè di questi tumori si presenta e mantiene uno statao già dierenziato che secondo alcuni studi si ripresenta in sede metastatica quasi a contrormare l'origine della cellula
maligna.
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CAPITOLO 4. IL CANCRO E LE SUE ANALOGIE CON FENOMENI
FISIO/PATOLOGICI
45
nali adulte [Rando 2006, Rapp et al 2007] ha lentamente rivelato aspetti prima
sconosciuti di come una cellula tumorale possa raggiungere e mantenere uno stato proliferativo “immortale”. Nonostante però le similitudini e le sovrapposizioni
evidenziate per questi tre processi -tumorigenesi, invecchiamento e sviluppo- in
termini molecolari, sembra ancora poco plausibile una comprensione più utile,
in termini scientifici ed applicativi, del fenomeno neoplastico: the emerging complexity of the entire ‘cancer system’ overwhelms us, leaving an enormous gap in
our understanding and predictive power [Hornberg et al 2006]. Come esempio
citiamo a questo proposito un paio di lavori che mettono in evidenza un livello di analisi di queste analogie a diversi livelli principalmente relazionati con
il significato biologico dei meccanismi coinvolti nel differenziamento cellulare e
che ci saranno utili nella discussione successiva. È stato evidenziato, infatti,
come le cellule tumorali riassumano, in qualche modo, caratteristiche tipiche di
cellule embrionali, in quanto meno differenziate rispetto la loro controparte normale: si dividono rapidamente e continuamente ed appaiono meno specializzate
delle cellule completamente differenziate. Allo stesso tempo però, importanti
differenze tra questi tipi di cellule sono da tenere in conto, come dimostrato da
esperimenti fatti sull’effetto differenziale di uno stesso tipo di mutazione durante
il differenziamento embrionale e neoplastico [Biava 1999], facendo pensare che
le cellule tumorali hanno dei difetti nei meccanismi regolatori del differenziamento, in quanto non capaci di leggere in modo corretto i segnali che ricevono.
Tali difetti differenziativi sono comuni a molte cellule tumorali e sono parte del
processo mutazionale che rende capaci le cellule tumorali di proliferare in modo
incontrollato [Biava 2002].
Altri elementi interessanti vengono da quelle evidenze sperimentali che riportano come perturbazioni nel processo di differenziazione cellulare, causate da
traslocazione cromosomica, possano portare allo sviluppo di leucemie. Queste
traslocazioni possono produrre, ad esempio, la fusione di geni che coinvolgono
i geni HOX o i loro regolatori. Abitualmente, per questa neoplasia si tratta
di traslocazioni che inducono un’acquisizione di funzione che compromette il
normale processo di differenziazione delle cellule staminali pluripotenti, producendo i progenitori tumorali. Sebbene la relazione funzionale tra una leucemia
e un’attivazione deregolata dei geni HOX sia ancora poco chiara, alcuni autori
sostengono che i geni HOX, espressi durante l’embriogenesi, ma down-regulated
nella vita adulta, vengano riespressi nella neoplasia. Questa ipotesi è sintetizzata nell’espressione “oncology recapitulates ontology” [Grier et al 2005]. Durante
l’embriogenesi esiste cioè un fine equilibrio tra la proliferazione cellulare e la differenziazione che è essenziale per lo sviluppo normale del feto, mentre invece nel
cancro sarebbe l’equilibrio tra i due processi ad essere compromesso in quanto
non portato a termine correttamente [Abbs et al 2004].
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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46
4.4
4.4. IL CANCRO COME UNA FERITA CHE NON GUARISCE
Il cancro come una ferita che non guarisce
Il cancro è stato infine descritto come uno stato patologico cronico, mantenuto mediante citochine immunomodulatorie che sopprimono le funzioni immunitarie e assicurano così un microambiente pro-tumorigencio, mediante il
controllo dei networks immuno-soppressori dell’organismo [Greten et al 2004,
Condeelis e Pollard 2006]. Questo è il motivo per cui i tumori sono stati definiti come “wounds that do not heal ” [De Vita et al 2008]. Di tutte le funzioni
tumorigeniche che un tumore primario aggressivo necessita, alcune sono particolarmente importanti nella selezione di quei geni che consentono poi la metastasi. Alcuni studi sperimentali puntano ad analizzare con maggiore profondità le
condizioni necessarie all’insorgenza dell’attività metastatica che implichino alterazioni del sistema immunitario, potenziale target di interventi terapeutici. Uno
stroma cancerizzato è costituito da cellule immuni dell’ospite e fibroblasti che
sono stati cooptati per permettere al tumore di superare l’ipossia e consentirne
l’invasione e la migrazione. La rottura del tessuto, l’ipossia, le citochine infiammatorie e le chemochine secrete dalle cellule tumorali richiamano e reclutano,a
loro volta, macrofagi (definiti come Tumor-Associated Macrophages: TAMs). I
numerosi fattori di crescita che i TAM producono stimolano poi la crescita delle
cellule tumorali e la loro motilità [Condeelis e Pollard 2006].
Come in una ferita normale, i fattori secreti dai TAM o dai tumori stessi attivano i fibroblasti. Questi (conosciuti come Carcinoma-Associated Fibroblasts:
CAFs) promuovono la crescita dei tumori primari [Kalluri e Zeisberg 2006].
TAMs possono essere trovati in posti strategici della membrana basale, nei punti
di rottura della stessa, e sul fronte invasivo del tumore. Queste cellule producono, inoltre, fattori angiogenici che promuovono la vascolarizzazione, proteasi che
degradano la ECM e fattori di crescita che stimolano la motilità e l’invasività
delle cellule tumorali. Anche i CAF producono fattori angiogenetici, fattori di
crescita tumorali e proteasi; essi, inoltre, richiamano precursori per l’angiogenesi
di origine midollare. Infatti, non mancano evidenze empiriche riguardo l’importanza delle interazioni tra le cellule tumorali ed infiammatorie nella progressione
maligna. Molti dei mediatori espressi dalle cellule immunitarie e dalle cellule
tumorali interagenti sono controllate da pathways di trasduzione del segnale
che coinvolgono NF-kappaB, un fattore di trascrizione centrale nella risposta
infiammatoria e un gene ampiamente attivato nei tumori umani. L’inattivazione di NF-kappaB in cellule premaligne porta alla riduzione dell’incidenza
tumorale senza una riduzione dell’infiammazione o delle dimensioni del tumore
[Greten et al 2004]. In un approccio alternativo, il ruolo che giocano le proteine TAM nella progressione tumorale, nei topi, è stata dimostrata con modelli
caratterizzati dai una mutazione omozigotica nulla per il fattore di crescita macrofagico CSF-1 [Lin et al 2001]. Le citochine e i fattori di crescita che i TAM
e CAF secernono hanno un effetto amplificativo gli uni sugli altri in quanto
parte del normale processo di risposta ad eventi infiammatori o di riparazione
di ferite.
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CAPITOLO 4. IL CANCRO E LE SUE ANALOGIE CON FENOMENI
FISIO/PATOLOGICI
4.5
47
La robustezza del cancro e l'approccio sistemico alla patologia
Lo studio di alcune caratteristiche del cancro, che lo assimilano ad altri
sistemi biologici complessi [Kitano 2005], è stato effettuato negloi ultimi anni
mediante approcci metodologici sistemici. Evidenze sperimentali, infatti, stanno
mettendo in rilievo che la proprietà di robustezza -sempre più riconosciuta in
biologia come un principio organizzatore altamente conservato negli organismi
viventi che consente di mantenere un determinato stato funzionale nonostante le
perturbazioni a cui viene sottoposto- non solo mantiene l’omeostasi in organismi
complessi, ma può essere anche dirottata per mantenere determinate disfunzioni,
come avviene nel caso di resistenza dei tumori a farmaci anti-tumorali. Ci sono
due domande fondamentali che emergono da questa questione e che riguardano
anche quesiti teoretici inerenti la natura della robustezza nei sistemi biologici in
generale: una è relativa a come la robustezza sia mantenuta nel cancro, l’altra
a come possiamo controllarla per elaborare terapie più efficaci [Kitano 2005].
Un approccio metodologico sistemico al cancro sembra quindi emergere tanto
dalle analogie del cancro con altri fenomeni biologici complessi come dall’analisi
e formalizzazione matematica di alcune proprietà che esso condivide con questi.
È la stessa ricerca sperimentale che sembra aver condotto alla necessità di affrontare il problema da una prospettiva diversa [Strohman 1997]: per alcuni autori,
la complessità del cancro non sarebbe solo una questione di teorie alternative,
ma prima e innanzitutto richiederebbe un approccio metodologico capace di
guardare al cancro come un “systems biology disease” [Bizzarri et al 2008]. Rispetto a questo, i modelli matematici dovrebbero assumere la non-linearità dei
fenomeni biologici come default. I processi biologici, infatti, e i meccanismi patologici sono regolati da oscillazioni non-lineari di networks di segnale complessi,
che operano al limite del caos. Approcci matematici e computazionali sono già
in azione per elaborare modelli che muovano da una prospettiva sistemica per
ottenere un sistema unificato di analisi che abbia un potenziale predittivo utile
[Ge et al 2003, Phelps et al 2002, Khalil e Hill 2005].
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48
4.5. LA ROBUSTEZZA DEL CANCRO E L’APPROCCIO SISTEMICO
ALLA PATOLOGIA
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Parte II
Le teorie e i modelli
interpretativi del cancro nella
letteratura scientica
49
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Capitolo 5
Una prospettiva storica della
ricerca sul cancro
5.1
Dalle cause ambientali a quelle cellulari e genetiche
Definito essenzialmente sulla base dell’analisi istopatologica delle masse neoplastiche, il cancro è stato studiato principalmente a partire dal 19° secolo. Nel
1863, Rudolf Virchow (1821-1902) pubblicò un articolo in cui i tumori erano
classificati sulla base della loro morfologia, supportando l’idea che il cancro fosse relazionato tanto con fattori endogeni quanto esogeni e sia con eventi naturali
che sociali. Si deve a lui anche la prima intuizione che la patologia potesse riguardare le cellule e la loro progenie. L’idea che il cancro potesse essere una
patologia cellulare sembrò trovare conferma da osservazioni realizzate al microscopio, che rivelavano una elevata disorganizzazione della cromatina nelle
cellule tumorali; questo aggiunse un nuovo livello di osservazione della disorganizzazione strutturale e morfologica delle masse tumorali, il cui interesse fu
successivamente confermato dalle scoperte sul DNA e sulle basi molecolari della
genetica ereditaria. Anche i primi studi effettuati da Boveri sulle uova dei ricci
di mare contribuirono a questa visione. Egli infatti dedicò parte della sua attività a studiare l’associazione tra mitosi aberranti e tumori maligni [Boveri 1914]
mediante manipolazioni sperimentali di uova di questo tipo e inducendo mitosi
multipolari e segregazioni cromosomiche aberranti. La crescita illimitata che
ne derivava - e che è comunemente associata al fenotipo maligno tumorale- fu
attribuita ad una scorretta combinazione dei cromosomi, gettando le fondamenta per una visione del cancro come patologia genetica. Fu però solo negli anni
’60 che il primo difetto genetico associato al cancro fu identificato in un piccolo cromosoma presente nelle cellule di pazienti con leucemia mieloide cronica
[Nowell e Hungerford 1960]. Successivamente, nel 1980, David von Hansemann
pubblicò le prime figure mitotiche di 13 diversi campioni tumorali, tutte caratterizzate da strutture aberranti. Questi dati, messi insieme, trovarono ampio
consenso contribuendo in modo significativo ad una interpretazione del cancro
su base molecolare. Lo studio delle basi genetiche del cancro costituì, infatti,
una pietra miliare nella ricerca oncologica. Gli studi molecolari e genetici pre51
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52
5.1. DALLE CAUSE AMBIENTALI A QUELLE CELLULARI E
GENETICHE
sero il sopravvento e, poco a poco, l’interesse per gli studi patologici iniziali
sulla natura delle masse neoplastiche e delle cellule che le componevano andò
scemando.
È da notare invece che, sebbene fosse stato Virchow a proporre inizialmente
che l’infiammazione avesse un ruolo importante nell’iniziazione tumorale, dovettero passare molti anni prima che il suo ruolo fosse meglio compreso e che
questo livello di analisi fosse nuovamente preso in considerazione. L’eziologia
del cancro rimase comunque in prima linea negli obiettivi della ricerca, anche se
prevalentemente focalizzata su quei fattori fisici e chimici che sembravano legati
alla carcinogenesi e alla biochimica dei meccanismi cellulari coinvolti. Il National Toxicology Program ha via via compilato una lista di più di 200 sostanze
chimiche, fisiche e di altri agenti infettivi identificati come possibili carcinogeni
ambientali [National Tossic Prog 2005], sebbene sia ormai assodato che i processi carcinogenici siano molto specifici e che la maggior parte dei fattori chimici
ambientali non presentino caratteristiche carcinogenetiche. Le radiazioni ionizzanti e ultraviolette furono tra i primi agenti fisici identificati per la loro correlazione con l’insorgenza neoplastica. I maggiori progressi nell’eziologia del cancro
furono però probabilmente realizzati mediante lo studio dei carcinogeni chimici.
L’origine chimica di alcuni tumori maligni umani fu descritta in seguito a studi
effettuati sull’incidenza di tumori sporadici in determinati gruppi di lavoratori o di popolazioni circoscritte [Colditz et al 2006, Parkin 2004, Potter 1964].
Particolarmente interessanti sono le prime ricerche che furono effettuate negli
Stati Uniti sull’uso del tabacco: studi epidemiologici avevano mostrato, infatti,
un’elevata mortalità tra le persone che ne facevano uso o che, per il luogo dove
lavoravano, ne inalavano facilmente il fumo. La prima relazione fu pubblicata sul British Medical Journal nel 1954 [Doll and Hill 1954], con un aggiornamento nel 1956 [Doll and Hill 1956], mostrando una più elevata mortalità tra
i fumatori che tra i non-fumatori, e una chiara risposta dose-dipendente tra il
totale dei fumatori e il tasso di morte per tumore al polmone. A livello molecolare, sebbene alcune sostanze chimiche che causano il cancro in roditori non
siano genotossiche, sia i carcinogeni genotossici che quelli non-genotossici sono
stati descritti come in grado di alterare, in qualche stadio del processo neoplastico, l’espressione genica mediante l’induzione della trascrizione del DNA
attraverso la metilazione degli istoni o altri meccanismi nucleari che influenzano l’attività del trascrittoma [Jones e Baylin 2007]. Alterazioni epigenetiche
che permangono nell’espressione genica in seguito ad esposizione a sostanze
chimiche carcinogeniche furono, anche negli anni successivi, progressivamente
identificate come fattori importanti dell’iniziazione e progressione neoplastica
[Feinberg e Tycko 2004, Fukushima et al 2005] Anche difetti del sistema di riparazione del DNA correlavano con una più elevata predisposizione all’insorgenza del cancro, corrispondendo a un’ipotesi supportata anche da esperimenti in
vitro in cui cellule di mammifero deficienti nei meccanismi di riparo del DNA
presentavano un’aumentata suscettibilità alla trasformazione maligna mediante
carcinogeni fisici o chimici [Cleaver 2005, Wijnhoven et al 2007].
Anche se per queste ed altre ragioni il DNA fu immediatamente identificato
come il target dei carcinogeni, intorno agli anni ’50 non erano ancora conosciuti
i meccanismi coinvolti nel processo. A partire dagli anni ’80, si aprirono nuove
prospettive per studi sull’eziopatogenesi del cancro con la scoperta di alcuni
virus capaci di indurre tumori. La maggior parte erano DNA virus, ma non
mancarono di aggiungersi alla lista dei virus associati allo sviluppo del fenoti-
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CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
53
po maligno anche altri a RNA [Duesberg 1980, Klein 2002, Burmeister 2001].
D’altra parte, non stupì in quel momento che agenti biologici di vario tipo potessero essere coinvolti direttamente nell’insorgenza della patologia neoplastica:
a questo avevano, infatti, già contribuito le scoperte di Rous che dimostrò come
un certo tipo di tumore dei polli poteva essere trapiantato in altri individui producendo nuove neoplasie [Rous 1910]. Solo più tardi fu dimostrato che l’agente
scoperto da Rous era un virus che, da allora, fu denominato Rous Sarcoma
Virus (RSV). A questa scoperta seguì un’altra che dimostrò come all’interno
del RSV era contenuto un oncogene responsabile delle sue proprietà tumorigeniche nei polli. Ciò ebbe un ovvio impatto sugli studi sperimentali del cancro
che centrarono definitivamente la loro attenzione sulla componente genetica della crescita e dello sviluppo neoplastico, alla ricerca di mutazioni che potessero
significativamente compromettere il normale funzionamento del patrimonio genetico cellulare. Anche se oggi sappiamo che pochi tipi di tumori possono essere
realmente attribuiti ad un virus, a quel tempo molti sostenevano l’idea che il
cancro fosse causato da agenti infettivi e il mistero dei processi di trasformazione cellulare con i suoi principi verosimilmente analoghi sembrava confermare
quell’idea [Luria 1960].
Appena le nuove metodologie biochimiche lo permisero, l’indagine sulla funzione dei prodotti proteici codificati dagli oncogeni seguì rapidamente la loro identificazione, come avvenne nel caso del fattore di crescita piastrinico
[Waterfield et al 1983, Doolittle et al 1983]. Si susseguirono pubblicazioni che,
sulla base di evidenze empiriche, mostravano come alcuni oncogeni trovati in
retrovirus codificassero per componenti della normale macchina regolatoria della crescita cellulare, mentre altri si rivelarono capaci di codificare proteine che,
mediante il legame con le chinasi, fungevano da modulatori di segnale nella
trasduzione di specifici pathways cellulari. Inoltre, quando si scoprì che i geni
che governavano il ciclo cellulare nei lieviti avevano i loro omologhi nell’uomo
[Lee e Nurse 1987], le mutazioni che riguardavano suddetti geni divennero un
obiettivo prioritario della ricerca incoraggiata dalla speranza che i tumori potessero essere spiegati in termini di aberrazioni nel controllo della proliferazione
e del differenziamento cellulare [Reddy et al 1982].
Alcuni ricercatori incominciarono allora ad esplorare il significato biologico
della relazione tra i geni tumorali e il differenziamento o lo sviluppo, sebbene il nucleo duro della comunità scientifica ancora guardava al cancro fondamentalemente come una malattia genetica, spiegabile in termini esclusivamente
molecolari e di moltiplicazione cellulare. Fu proposto che mutazioni negli omologhi dei geni virali potessero trasformare le cellule in assenza di ogni coinvolgimento virale e che tale fenomeno avvenisse in una proporzione significativa
di tumori umani. Scoperte chiave a questo riguardo avvennero quando si dimostrò che il DNA di cellule murine, trasformate mediante mutageni chimici,
era capace di trasformare altre cellule non-neoplastiche, una volta trasferito
in esse [Shih et al 1979, Cooper et al 1980]. Tuttavia, l’identità precisa del gene trasformante rimaneva ancora sconosciuta e una quantità ingente di DNA,
considerata potenzialmente irrilevante, veniva trasferita nel processo. Fu, finalmente, il gruppo di Weinberg che nel 1982 clonò il primo oncogene, da una linea
di carcinoma della vescica, dopo aver isolato il frammento di DNA responsabile
della neoplasia mediante una serie si numerose transfezioni. Ad ogni passaggio
la maggior parte del DNA veniva perso, fino a quando l’oncogene potè essere clonato mediante l’utilizzo di sequenze “tag”. Questi geni cellulari clonati
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5.1. DALLE CAUSE AMBIENTALI A QUELLE CELLULARI E
GENETICHE
presentavano le stesse proprietà trasformanti degli oncogeni derivanti da retrovirus. Avendo rivelato la presenza di oncogeni cellulari, l’attenzione si volse
allora alla loro identificazione. Alla fine del 1982, un singolo cambio aminoacidico, che alterava la struttura della proteina RAS rendendola costitutivamente
attiva, fu identificato come la prima mutazione responsabile dell’attivazione di
un oncogene. Gli sviluppi del 1982 furono fondamentali per la comprensione
moderna del cancro: l’interazione complessa di diversi tipi di lesioni genetiche
[Shih e Weinberg 1982] e il ruolo degli oncogeni nella trasformazione cellulare
divennero, così, il principale focus della ricerca oncologica [Tabin et al 1982].
Negli anni che seguirono, molti studi furono condotti sulla genetica e l’ereditarietà del cancro, facendo pensare che la medicina avrebbe disposto nell’arco
di breve tempo di fattori predittivi importanti ed efficaci per le strategie di
prevenzione, diagnosi e terapia del cancro, in termini molecolari (cfr. Fig. 5.1).
Il concetto di mutazione fu introdotto, a quell’epoca, per indicare il cambio funzionale da una cellula somatica normale a una cellula tumorale, identificandolo con la sua accezione più generale che significava semplicemente un
cambio nella sequenza del DNA. La Somatic Mutation Theory (SMT) è basata
su questa assunzione. Le evidenze disponibili indicavano che una trasformazione oncogenetica di cellule in un tumore primario, implicava almeno due stadi:
uno di stabilimento, iniziazione (establishment) -identificato anche con l’immortalizzazione delle cellule- e la trasformazione cellulare. Con questo schema
in mente, molti gruppi iniziarono a studiare come gli oncogeni cooperassero
per indurre lo sviluppo neoplastico [Land et al 1983, Ruley 1983] indagando gli
effetti dell’espressione oncogenetica e assumendo che questi geni potessero presentare una modalità di dominanza ereditaria, come nel caso della sindrome del
retinoblastoma.
Ben presto però, altre osservazioni sperimentali riportarono l’attenzione ad
un livello di osservazione più ampio. Il fatto che cellule di topo normali manifestassero un comportamento dominante su cellule tumorali quando i due tipi
cellulari venivano fusi [Harris 1971], suggerì che le prime dovevano essere portatrici di geni che si opponevano alla tumorigeniesi e che alcuni di essi avessero una funzione tumore-soppressore. Questo ed altri dati [Harris et al 1996,
Steel e Harris 1989] suggerirono che la carcinogenesi non richiedesse un’acquisizione di funzione, ma piuttosto la perdita, il danno di qualche pattern di differenziamento cellulare. Ciò, che da un punto di vista concettuale poteva apparire
semplice, tecnicamente richiese un importante lavoro di ricerca per dimostrare come la teoria della dominanza degli oncogeni non fosse la regola generale,
gettando, così, le fondamenta sulle successive teorie cellulari del cancro.
La scoperta dei geni oncosoppressori fece luce anche sulla plausibilità di altre
ipotesi che erano sorte nel frattempo. Knudson, per esempio, aveva postulato
che la predisposizione al cancro potesse essere conseguenza di una mutazione germinale eterozigote in un gene onco-soppressore (primo evento) mentre,
per lo sviluppo del fenotipo neoplastico vero e proprio, sarebbe stata richiesta
una successiva mutazione somatica acquisita (secondo evento). Il modello assumeva, pertanto, che il secondo evento dovesse riguardare l’allele rimanente di
questo ipotetico gene onco-soppressore, risolvendo così il paradosso che veniva
dall’ammettere che geni (funzionalmente) recessivi potessero essere responsabili
del tumore [Comings 1973]. Alcune analisi effettuate su retinoblastomi, neurofibromatosi e leucemie infantili sembrarono confermare successivamente questa
ipotesi [Knudson 1971]. La così denominata “two hit hypothesis” trovò un con-
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Figura 5.1: Prospettiva storica dell’origine dei termini di Oncogeni e Geni Onco-Soppressori
CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
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5.2. DAI GENI ALLE CELLULE
56
senso sempre più ampio, sebbene mancassero ancora ulteriori intuizioni sulla
natura dei due eventi. Fu Bert Vogelstein a far luce sul ruolo degli oncogeni e
dei geni onco-soppressori descrivendo come alterazioni in entrambi fossero necessarie nella cancerogenesi del colon retto. In un articolo che segnò la storia
della ricerca oncologica, Fearon e Vogelstein presentarono i loro risultati insieme
all’idea di una evoluzione clonale del tumore mediante un processo tumorigenico coerente e sequenziale, costituito da una serie di tappe di natura molecolare
(Multistep Model ) [Fearon e Volgestein 1990]. Essi sostennero che l’accumulo
totale di cambi molecolari fosse più importante per la progressione tumorale
che la loro sequenza, concludendo che cinque o più alterazioni genetiche fossero
probabilmente richieste per lo sviluppo dei carcinomi, mentre un numero ben
inferiore di mutazioni sarebbero state richieste per la tumorigenesi benigna. Come accennato precedentemente, questo modello fu ampiamente accettato dalla
comunità scientifica [Vogelstein e Kinzler 2004] in quanto fornì le basi scientifiche all’ iniziazione, promozione, trasformazione e progressione del cancro, che
fino ad allora erano basate su dati prettamente teorici. Il modello aveva anche il
vantaggio di chiarire il ruolo dei meccanismi genetici nell’iniziazione e progressione dei tumori, fornendo le premesse per studi successivi in cui componenti
tessutali ed epigenetici furono chiamati in causa per il ruolo che potevano avere nella progressione neoplastica stessa. I ricercatori finirono, così, col definire
la carcinogenesi come una serie sequenziale di errori nella proliferazione, nei
processi di morte o differenziamento cellulare [Llyod et al 1997] e adottarono
l’ipotesi di lavoro che identificava le mutazioni gentiche come gli agenti causali della tumorigenesi e che descriveva la crescita neoplastica come un semplice
fenomeno cellulare, sebbene ancora insufficiente per spiegare completamente gli
stadi finali, invasivi e metastatici, del processo neoplastico.
5.2
Dai geni alle cellule
Pochi si azzarderebbero a dire che il percorso delle scoperte scientifiche è
stato breve e semplice. Le prime evidenze sembravano, infatti, indicare che
solo un numero ristretto di processi fosse responsabile del cancro, sebbene il
numero di fattori e le potenziali cause genetiche continuassero a crescere. Il
ruolo funzionale di questi elementi ancora necessitava di una spiegazione unitaria
e semplice, che però appariva essere in contrasto con una prospettiva genetica
determinista. Il cancro, infatti, non poteva più essere visto come un evento, ma
come un processo multifasico che dipendeva non solo da un gene, ma da una
cascata di eventi che portavano alla trasformazione neoplastica, coinvolgendo
diversi livelli dell’organizzazione biologica. A partire dalla SMT, molte teorie si
susseguirono cercando di fornire una visione unitaria dei meccanismi sottostanti
alla progressione neoplastica. Quando, per esempio, i ricercatori iniziarono a
prendere in considerazione il ruolo dell’epigenetica, in aggiunta ai classici fattori
genetici, le prospettive di successo nell’identificare nuovi fattori causali per la
tumorigenesi e la progressione si ampliarono notevolmente.
Gli eventi epigenetici possono essere definiti come cambi ereditari nell’informazione cellulare che non sono contenuti nella sequenza del DNA, ma che
coinvolge abitualmente modificazioni covalenti del DNA o degli istoni, proteine
che legano la struttura nucleotidica permettendone l’avvolgimento e l’organizzazione tridimensionale, oltre che a modularne l’attivazione differenziale me-
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CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
57
diante il controllo dell’espressione genica. Gli esperimenti condotti negli anni
’80 [Jones e Taylor 1980, Feinberg e Vogelstein 1983] dimostrarono come una ridotta metilazione del DNA, mediante una reazione enzimatica relazionata con
la regolazione di determinati geni, si riscontrava in cellule che sarebbero andate
incontro alla trasformazione neoplastica. Solo negli anni successivi, emersero
altre evidenze che legavano anche l’ipermetilazione del DNA al fenotipo neoplastico. A quel tempo, si riteneva che cambi nella metilazione del DNA avvenissero precocemente e ubiquitariamente nel cancro. A questo proposito, era stato
osservato che la prima mutazione che portava alla LOH poteva essere anche
un’alterazione epigenetica sulla linea germinale, che poteva pertanto sostituire
una mutazione somatica o portare ad un’ inattivazione biallelica di natura epigenetica. Tuttavia, successivamente altri meccanismi vennero associati a quelli
più tradizionalmente considerati come epigenetici [Feinberg et al 2006]; persino
i mRNAs sembrano, infatti, giocare un ruolo importante, sebbene meno preponderante rispetto ad altri, nella regolazione epigenetica e nella deregolazione
della maggior parte dei pathways regolatori delle cellule staminali tanto normali che tumorali [Esquela-Kerscher e Slack 2006]. Altri esempi riguardano le
alterazioni nella metilazione dei telomeri, l’imprinting genetico, i cambi della
struttura cromatinica, tutte ubiquitarie nelle cellule tumorali. Nei tumori di
Wilms, per esempio, un ruolo causale è stato specificatamente attribuito alle
modificazioni epigenetiche [Ravenel et al 2001] in una percentuale significativa
di casi. Alterazioni epigenetiche furono poi descritte con ulteriori dettagli anche
per il tumore del colon retto [Cui et al 2003] a lungo considerato come modello
delle basi genetiche del cancro [Wong et al 2007]. I meccanismi genetici cioè non
sono l’unico percorso possibile nella cancerogenesi, ma cambi epigenetici possono mimare l’effetto delle tradizionali mutazioni genetiche e costituiscono cause
alternative possibili, anche di alterazioni cromosomiche, nella progressione tumorale. Gli studi sulla natura dei cambi epigenetici coinvolti nella tumorigenesi
dimostrarono anche come tali alterazioni non si trovassero abitualmente su un
singolo gene, ma raggruppate piuttosto in clusters, gruppi di geni, facendo pensare che il loro ruolo andasse oltre quello di una semplice mutazione in quanto
potevano essere responsabili della riorganizzazione di cambi nell’espressione di
patterns di geni a diversi livelli dell’organizzazione genica. Il modello epigenetico -Epigenetic Progenitor Model (EPM)- sembrò allora capace di dar ragione
non solo del fenotipo neoplastico, ma anche degli effetti ambientali, dell’eterogeneità tumorale e di integrare, completandola, la genetica del rischio per il
cancro laddove la natura quantitativa di tratti complessi e della loro interazione
non mediata dal ruolo dei fattori ambientali non sembrava capace di arrivare [Bjornsson et al 2004, Hatchwell Greally 2007 ]. L’EPM creò così un nuovo
contesto interpretativo integrando diversi livelli gerarchici della complessità biologica con le spiegazioni causali dei primi step della progressione neoplastica e
aprendo la strada a nuove spiegazioni cellulari del cancro mediante il concetto
delle cellule staminali tumorali (Cancer Stem Cells: CSCs).
Il Modello Gerarchico del cancro (Hierarchical Model of cancer ) che ne derivò suppone che solo una piccola sottopopolazione di cellule tumorali staminali
possano proliferare continuamente sostenendo la crescita e la progressione del
clone neoplastico. Il principale studio di riferimento per la nostra comprensione
dei meccanismi tumorali mediati dalle CSCs lo dobbiamo al lavoro effettuato
su tumori maligni ematopoietici [Furth 1937, Gatenby e Vincent 2003]. Quegli
studi, insieme con altri che seguirono, misero infatti in evidenza l’eterogeneità
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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5.2. DAI GENI ALLE CELLULE
funzionale presente nei tumori, in termini di potenziale tumorigenico differenziato tra le cellule tumorali stesse: non ogni cellula di un tumore primario,
cioè, è capace di proliferare e formare una colonia in vitro o di dare origine
a un nuovo tumore quando trapiantata in vivo. Successivamente, si dimostrò
come solo una piccola frazione di cellule tumorali isolate da pazienti affetti da
una leucemia mieloide acuta, con specifiche caratteristiche molecolari di riconoscimento (characteristic marker signature), erano capaci di dare origine a
nuove leucemie in topi ospiti. Questo fornì un metodo riproducibile per selezionare progressivamente le cellule con attività tumorale e permise di formulare
quello che è conosciuto oggi come Modello Stocastico del cancro (Stochastic
Model of cancer ). Sebbene l’idea di cellule inizianti il tumore fosse già stata
esposta negli anni ’60, solo ad opera di John Dick e colleghi, si ebbero prove
concrete della loro esistenza che fu poi presentata a conferma di un Modello
Gerarchico del cancro [Bonnet e Dick 1997], ridefinendo così anche l’approccio
terapeutico e la biologia del cancro. Anche teratocarcinomi murini fornirono
evidenze dell’esistenza di CSCs, fornendo un framework estremamente interessante per studiare come il microambinete cellulare contribuisse all’oncogenesi
[Damjanov 1993]. L’ipotesi delle CSCs, in definitiva, postula che il cancro derivi
da cellule germinali che non sono andate incontro ad un corretto differenziamento a causa di fattori epigenetici che normalmente portano con sé un’instabilità
genomica[Feinberg e Vogelstein 1983, Gama-Sosa et al 1983, Goelz et al 1985],
come la metilazione, l’ipoacetilazione degli istoni -un’altra modificazione delle
proteine che interferiscono con la struttura cromatinica e quindi con l’espressione genica- e l’ipometilazione di geni specifici coinvolti nella regolazione delle
regioni promotrici e nel legame, con effetto silenziatore, di geni oncosoppressori [Feinberg e Tycko 2004]. I cambi epigenetici, in questo modo, fornivano un
meccanismo unificato di comprensione della genesi e progressione neoplastica.
Questo sarebbe coerente con il concetto che le CSCs, come le cellule staminali
normali, diano origine ad una organizzazione gerarchica di popolazioni cellulari
che vanno incontro ad un’organogenesi di qualche tipo [Reya et al 2001]. Come precedentemente menzionato, circa 30-40 anni fa, Potter [Potter 1978] aveva
già in qualche modo anticipato questa idea del coinvolgimento di un progenitore cellulare staminale, mediante l’azione di fattori epigenetici, nell’origine e
progressione neoplastica. Risulta, infine, più chiaro perché alcuni autori hanno
affermato che il cancro si comporta come una “caricature” di un tessuto normale
e che possa essere plausibilmente sostenuto nella sua crescita dalla controparte
normale delle cellule staminali adulte [Dalerba 2007].
Ponendo l’attenzione sui processi differenziativi come aspetto importante
nella definizione del processo oncogenetico, attraverso prima la scoperta di geni
oncosoppressori e poi con l’elaborazione del Modello Gerarchico, la ricerca oncologica si trovò ad un punto di svolta. L’organizzazione strutturale gerarchica
delle cellule tumorali appariva come un concetto fondamentale per la comprensione della biologia del cancro. I pathways di trasduzione del segnale associati
tanto alle cellule staminali normali che tumorali sono state ampiamente studiate
negli ultimi anni [Lobo et al 2007]. Le evidenze sperimentali che ne sono derivate supportarono anche l’ipotesi che l’eterogeneità cellulare all’interno di un
tumore costituisse un aspetto costituvo del fenotipo neoplastico aprendo ad una
visione più ampia e corretta del cancro. Il cancro, cioè, non sarebbe una semplice espansione clonale di una cellula trasformata. La prospettiva emergente
è che il cancro, sebbene continui a poter essere considerato un gruppo eteroge-
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
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CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
59
neo di patologie o di disordini genetici, presenti una base comune fondamentale
nella riprogrammazione epigenetica e nella natura policlonale delle cellule progenitrici. I geni coinvolti sono stati definiti, su questa base, tumour-progenitor
genes. Il cancro si comporta allora come un tessuto in cui le cellule divengono funzionalmente eterogenee come risultato di un processo differenziativo
aberrante.
5.3
Il recupero di una prospettiva integrata del
fenomeno neoplastico
L’ampliamento progressivo dei database che raccoglievano le liste di oncogeni e geni oncosoppressori coinvolti nell’insorgenza e progressione neoplastica
di molti tumori umani, le differenze che continuavano ad emergere tra i modelli
murini utilizzati nei laboratori e i cancri umani, le scoperte sul coinvolgimento di
interi pathways funzionali cellulari per la realizzazione del fenotipo neoplastico,
l’eterogeneità funzionale delle cellule tumorali e la similitudine della struttura
organizzativa del cancro con quella di un tessuto o organo normale nonché le
nuove evidenze sull’importanza del contesto per l’acquisizione del fenotipo maligno da parte delle cellule tumorali primarie portarono inevitabilmente ad un
ampliamento delle prospettive da cui si doveva esaminare il cancro.
Era ormai stato assunto che la crescente disponibilità di dati genetici e biochimici sul cancro umano avrebbe permesso un accesso comune a profili di espressione genica per i diversi tumori, cosa che avrebbe consentito l’elaborazione
sempre più sofisticata di gruppi comuni di interazioni genetiche responsabili del
fenotipo neoplastico. Se i geni continuavano a costituire il meccanismo fondamentale di governo della genesi e progressione neoplastica, anche i tumori
ereditari sarebbero stati più facilmente identificati e diagnosticati grazie a una
disponibilità sempre più ampia di dati molecolari. La complessità del cancro diventò così comparabile a un circuito elettrico e l’accessibilità dei dati ne
avrebbe consentito una descrizione sempre più fine in termini di parti e di interazioni, con una precisa definizione e attribuzione funzionale, permettendo la
ricostruzione di quello che è stato denominato un “integrated circuit of the cell ”
[Hanahan e Weinberg 2000, Hahn e Weinberg 2002a]. Ciò che emerse da questo
paragone era la necessità di disporre di una visione più ampia e comprensiva dei
sistemi regolatori coinvolti nel cancro per poterne controllare le dinamiche.
D’altro canto, questa organizzazione sistemica dei dati molecolari ha consentito di spostare la ricerca di caratteri definitori del fenotipo neoplastico, più che
sulla presenza di parti molecolari, tendenzialmente di natura genetica, ad aspetti
funzionali attribuibili alle stesse, organizzate ora però in circuiti e pathways più
ampi. Da qui deriva infatti l’identificazione, da parte degli stessi autori, di un set
comune di funzioni che governano il cancro. Su questa base sono state identificate sei tappe principali della progressione neoplastica, che giocherebbero un ruolo
fondamentale nella fisiologia cellulare tumorale [Hanahan e Weinberg 2000]: (1)
l’autosufficienza rispetto ai fattori di crescita, (2) l’insensibilità a fattori che inibiscono la crescita, (3) la capacità di aggirare i meccanismi di morte cellulare
programmata (apoptosi), (4) il potenziale di crescita illimitato, (5) l’angiogenesi,
(6) la capacità invasiva e metastatica.
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5.3. IL RECUPERO DI UNA PROSPETTIVA INTEGRATA DEL
FENOMENO NEOPLASTICO
I modelli epigenetico e gerarchico, tuttavia, avevano messo in rilievo anche
l’importanza del microambiente in cui si trovano le cellule progenitrici-tumorali
nella genesi del processo neoplastico. Questo è mediato da fenomeni di plasticità genetica ed epigenetica delle cellule, comprese quelle staminali, che possono
progressivamente acquisire proprietà funzionali. Alcuni dati sperimentali hanno
supportano questa prospettiva, mediante esperimenti in vivo e in vitro, di eventi
di riprogrammazione relazionati con specifiche combinazioni di oncogeni che dirigono il cambio del fenotipo cellulare. Ancor più interessanti sono poi quei dati
che riportano esempi di reversibilità del fenomeno oncogenetico nella progenie
cellulare durante la progressione tumorale [Rapp et al 2007], facendo pensare
che fattori contestuali possano avere un ruolo nella divisione e differenziamento
cellulare, anche tumorale.
La spinta che questi dati avevano conferito alla ricerca, nell’identificazione di
nuovi livelli di analisi del processo neoplastico, portò diversi autori a ripensare
la prospettiva da cui studiare il cancro, a volte in contrapposizione al paradigma dominante della SMT e dei modelli da essa derivati, per considerare anche
la complessità intrinseca del fenomeno biologico sottostante ad esso e l’importanza dell’ambiente. Si assiste negli ultimi anni alla comparsa di un numero
crescente di studi che indicano come i limiti imposti allo sviluppo di cellule
staminali tessuto-specifiche siano determinati dal microambiente e come le cellule dell’ospite, in certe condizioni determinate, per esempio, da una lesione o
infezione, possano produrre segnali che si contrappongono a queste restrizioni [Mueller e Fuseing 2004, Nelson et al 2002]. Il primo spunto sul fatto che il
microambiente fosse importante e selettivo per il cancro e la sua progressione
fu enunciato come “soil hypothesis”. Proposta alla fine del 19° secolo da Paget
[Paget 1889], fu ripresa da Hart and Fidler [Hart e Fidler 1980] successivamente. L’evidenza, infatti, che alcuni organi costituiscono un terreno più fertile di
altri per la crescita tumorale e di certe metastasi porta a pensare che le cellule
tumorali presentino una preferenza di qualche tipo per i diversi tessuti. Allo
stesso tempo, una cellula tumorale che si trova in un altro tessuto non è sufficiente a sviluppare un tumore secondario, per cui alcune proprietà aggiuntive del
tessuto stesso o della cellula tumorale devono sostenerne la crescita e riavviare
la proliferazione.
Diversi studi si sono, allora, centrati sul destino e sulla funzione delle cellule
staminali anche da questo punto di vista in cui la loro attività sarebbe governata
da una combinazione di segnali interni o esterni derivanti dal microambiente o
dalla nicchia -il compartimento germinale in vari tessuti deputato ad assicurare
il rinnovamento cellulare- dove si trovano. La transizione epitelio-mesenchimale
(Epithelial Mesenchimal Transition: EMT), un programma di differenziamento
e organizzazione cellulare principalmente caratterizzato dalla perdita di adesione
e da un aumento della motilità cellulare, è anche stato incluso recentemente tra
i meccanismi che potrebbero render conto dell’invasività delle cellule tumorali
[Potenta et al 2008, Kalluri e Weinberg 2009].
La dipendenza contestuale della tumorigenicità è stata anche dimostrata
studiando le dinamiche e le integrazioni reciproche delle componenti dell’architettura e funzionalità tissutale, dimostrando come queste dirigano, per esempio,
lo sviluppo delle ghiandole mammarie e la polarità tessutale che, in ultima analisi, guida l’espressione genica tessuto-specifica. Il cancro, pertanto, si darebbe
quando queste interazioni dinamiche sono alterate per una durata di tempo
sufficiente [Xu et al 2009a, Xu et al 2009b]. Questo modello (Dynamic Reci-
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CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
61
procity Model : DRM) sembra particolarmente efficace nel mettere insieme gli
elementi molecolari e i processi biologici, fino ad ora a nostra disposizione, in
un framework esplicativo del processo neoplastico e della sue caratteristiche
patologiche [Bissell et al 2002].
A considerazioni analoghe sul ruolo dell’organizzazione tessutale, sebbene
muovendo da una revisione esplicitamente epistemologica del lavoro di ricerca
nell’ambito oncologico effettuato fino al 2000 circa, pervengono altri autori che
assumono le propietà emergenti del tessuto come punto di partenza delle loro
analisi, in chiaro contrasto con le premesse biologiche ed epistemologiche della SMT, come avremo modo di vedere più estesamente nei prossimi capitoli.
Questo approccio conosciuto come Tissue Organization Field Theory (TOFT)
sfida l’idea che il cancro derivi da una singola cellula somatica che ha accumulato una moltitudine di mutazioni sul proprio DNA, che lo stato normale
delle cellule nei metazioni sia quello quiescente -come sarebbe presupposto dalla
SMT- e che il cancro sia una malattia legata alla proliferazione cellulare causata da mutazioni in geni che controllano la proliferazione e il ciclo cellulare
[Sonnenschein e Soto 1999]. Questa nuova teoria suggerisce che il cancro sia simile ad un processo di normale istogenesi e di riparo tessutale, che coinvolge
l’organizzazione tridimensionale dei tessuti [Maffini et al 2004]. In questo modo,
un tumore non sarebbe la caricatura di un organo, ma un organo che non ha raggiunto correttamente la sua configurazione definitiva. Analogamente a quanto
hanno fatto i biologi dello sviluppo per studiare l’istogenesi e l’embriogenesi, la
TOFT considera la prospettiva organica più adeguata per studiare un fenomeno
complesso come il cancro [Sonnenschein e Soto 2005a]: il genoma non sarebbe
il fattore trainante dello sviluppo tumorale. Per questo, gli autori della TOFT
hanno intitolato il loro libro “The society of cells”; l’organismo si presenta come
un’organizzazione sociale di cellule e il cancro come un problema, non delle singole cellule, ma tessutale: la carcinogenesi distrugge la struttura tridimensionale
ed organizzativa che esiste tra lo stroma e il parenchima, mediata dalle interazioni cellule-cellula, così che i carcinogeni non sarebbero direttamente responsabili
della neoplasia mediante eventi mutageni. Una catena di errate informazioni
darebbe invece origine a un lento, ma efficace feedback positivo di cambi che
genererebbero, a loro volta, cambi ulteriori a diversi livelli dell’organizzazione
biologica di un tessuto, una volta che i segnali normali di comunicazione che
mantengono l’organizzazione tessutale normale, sarebbero andati distrutti.
In quest’ottica, il concetto di campo morfogenetico (cfr. Capitolo 5) in
cui operano tali segnali [Maffini et al 2005] diventa necessario per comprendere la carcinogenesi come un processo di sviluppo che non va a compimento
[Soto e Sonnenschein 2004, Soto et al 2008a]. Durante lo sviluppo, infatti, l’espressione spaziale e temporale dei geni governa lo sviluppo e il destino cellulare
mediante un’informazione di campo: le cellule sanno, in qualche modo, da dove
provengono (informazione storica) e dove sono (informazione posizionale) e questa informazione nel suo insieme restringe il loro destino ad un fenotipo specifico.
Che la carcinogensi possa essere considerata un problema relazionato a fattori
epigenetici o che altri dati sperimentali puntino ad evidenziare come meccanismi
molecolari diversi possano essere coinvolti nella normale istogenesi e riparazione tessutale, non distoglie questi autori dal ricondurre il problema neoplastico
a livello dei suddetti campi morfogenetici e del loro ruolo nella costruzione di
un organismo: essi permangono lungo la durata della vita dell’organismo coordinando l’istogenesi e l’organogenesi e facendosi carico della rigenerazione dei
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
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5.3. IL RECUPERO DI UNA PROSPETTIVA INTEGRATA DEL
FENOMENO NEOPLASTICO
tessuti [Maffini et al 2005]. Dire, pertanto, che la proliferazione delle cellule
neoplastiche è correlata con fenomeni a livello tessutale piuttosto che cellulare
o subcellulare è compatibile con l’esistenza di meccanismi epigenetici, se si considera che lo stato basico delle cellule proliferanti è finemente controllato anche
da meccanismi di questo tipo.
L’idea che il cancro sia un problema di comunicazione cellulare a livello organogenetico è stata anche presentata da Biava [Biava 2002], come già
menzionato nella Parte I. Studiando la relazione tra carcinogeni, mutageni e
teratogeni, la sua attenzione si centrò sui dati che mostravano come agenti che causano il cancro, quando somministrati durante la gravidanza, hanno
diversi effetti a seconda del periodo in cui sono dati: questi, infatti, inducevano un tasso più elevato di malformazioni quando somministrati durante
l’organogenesi e un numero più alto di tumori nella progenie se dati in periodi successivi dello sviluppo, quando l’organogenesi era già stata completata
[Einhorn 1983, Lakshmi e Sherbet 1974, Brent 1980, Tomatis Mohr 1973]. Egli
dimostrò, così, come nel peridodo dell’organogenesi debbano esistere fattori
regolatori che impediscano la divisione cellulare indefinita tipica del fenotipo
maligno [Biava 1999].
A mo’ di sintesi, riportiamo un quadro storico, prospettico dell’evoluzione
delle principali teorie sull’eziopatogenesi del cancro.
Come si può notare, c’è un’asimmetria nella progressione dei modelli interpretativi. La prima parte, infatti, del secolo XX è caratterizzata da uno spostamento e scivolamento progressivo, nell’attribuzione dell’insorgenza del cancro,
da cause che appartenevano al “macroambiente” dell’organismo ad altre che
caratterizzano invece il “microambiente” dello stesso, come le cellule e i geni.
Invece, dalla seconda metà del secolo scorso in poi, nonostante la tensione verso
una prospettiva più integrata del fenomeno neoplastico, legata in prima istanza
alla complessità dei fattori molecolari e ambientali implicati, non c’è stato un
rovesciamento dell’attribuzione causale. Nonostante di eziopatogenesi del cancro si continui a parlare e alcune cause ambientali vengano rivalutate, quello
che caratterizza questo secondo periodo è l’emergenza di vere e proprie teorie
interpretative che convivono, che evolvono in contemporanea e in parte si intrecciano o si contrappongono fra di loro. Questo perché si era acquisita una
maggiore conoscenza dei fattori che erano causalmente coinvolti nell’insorgenza
della neoplasia, ma non si riusciva a dare comunque una spiegazione unitaria
del fenomeno in sé, un fenomeno che presentava una peculiare dipendenza dal
fattore temporale e delle dinamiche specifiche di strutturazione. Ciò spiega perché, a partire dagli anni ’80, si inizi a parlare di vere e proprie Teorie del cancro,
non solo di modelli. Diverse posizioni epistemologiche iniziano a confrontarsi
fra di loro in letteratura, prima inconsapevoli, poi sempre più esplicite e teoreticamente fondate. Lo sforzo per integrare i dati empirici a disposizione sfocia,
infatti, in prospettive divergenti, ragion per cui lasceremo da parte, per ora, il
termine “prospettiva integrativa” e distingueremo le diverse posizioni sulla base
del sistema di riferimento cui questo tentativo di integrazione viene ricondotto, e
del tipo di connessione tra le parti chiamata in causa per giustificare il potenziale esplicativo delle varie teorie. La comprensione di questo fenomeno dovrebbe
essere facilitata dalla lettura dei prossimi due capitoli, mentre un’analisi critica
dello stesso sarà oggetto della Parte III. Quindi, presenteremo immediatamente
le due principali teorie che abbiamo identificato e riprenderemo poi l’evoluzione
o la maturazione storica delle stessa dal punto di vista della visione e del sistema
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CAPITOLO 5. UNA PROSPETTIVA STORICA DELLA RICERCA SUL
CANCRO
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integrativo a cui si rifanno; parleremo, pertanto, di “prospettive cellulari” prima
(Cap. 7.1) e di “prospettive sistemiche” poi (Cap. 7.2).
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5.3. IL RECUPERO DI UNA PROSPETTIVA INTEGRATA DEL
FENOMENO NEOPLASTICO
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Figura 5.2: Rappresentazione grafica dell’evoluzione dei modelli interpretativi dell’eziopatogenesi del cancro
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Capitolo 6
Le Teorie eziopatogenetiche
del cancro
Il dibattito che la TOFT ha suscitato nella letteratura scientifica, tanto per la
novità dell’impostazione epistemologica come per la revisione critica dei presupposti filosofici e metodologici della SMT, che ha realizzato
[Soto e Sonnenschein 2004, Sonnenschein e Soto 2000] per arrivare a proporre
un teoria tessutale sull’origine del cancro, rappresenta un elemento di indubbio e centrale interesse per il nostro studio. Avvicinandoci, infatti, a questa
teoria e, per correttezza, approfondendo la SMT di pari passo, abbiamo avuto
la conferma che queste due prospettive possano essere al momento considerate
come i punti di riferimento principali per quanto riguarda l’interpretazione del
cancro nella comunità scientifica. Abbiamo potuto raccogliere, in questo modo,
gli elementi che ci consentono ora di presentare un’analisi sistematica di queste teorie e di procedere poi a quella degli altri modelli secondo dei criteri che
speriamo diano una visione completa delle diverse interpretazioni sull’origine e
sulla natura del processo neoplastico.
La critica che la TOFT muove alla SMT origina fondamentalmente dalla
considerazione che il cancro non può essere spiegato in termini riduzionisti come quelli della SMT che arriva ad ignorare così la complessità biologica del
livello tessutale in cui gli eventi patologici hanno luogo. Noi sappiamo, infatti,
come generare un cancro, ma non sappiamo spiegare realmente perché si genera. Le ragioni per cui un carcinogeno è un carcinogeno sono spiegate, infatti,
nelle due teorie mediante approcci epistemologici completamente diversi da cui
deriva anche una visione del processo neoplastico chiaramente divergente. Per
la TOFT una causalità dall’alto verso il basso (top-down causality) deve essere
necessariamente tenuta in conto perché è solo a livelli di organizzazione biologica superiori a quello cellulare che la complessità del fenomeno neoplastico può
essere compresa. Incisiva, da un punto di vista grafico è la slide presentata da
uno degli autori della TOFT in un seminario tenutosi nel 2009 presso il nostro
Ateneo. La riproduciamo a continuazione con il permesso del relatore: fig. 6.1.
Come emerge dal percorso storico sviluppato nel precedente capitolo, qui
risulta chiaro come la prospettiva analitica, che scompone il fenomeno nelle sue
parti per poi ricomporlo e che è tipica della SMT e del riduzionismo, sia stata
integrata da altre prospettive sintetiche che qui vengono espresse in termini di
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6.1. SOMATIC MUTATION THEORY
Figura 6.1: Approccio riduzionista e organicista nella spiegazione del fenomeno
neoplastico. Diapositiva concessa dal Prof. C. Sonnenschein dopo il seminario
tenuto presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma nel Maggio 2009 (cfr.
Parte V)
causalità “bottom-down” e “middle out”. L’accento si sposta pertanto su aspetti
funzionali più che molecolari, secondo la visione sistemica proposta da Noble nel
suo famoso libro “The music of life” da cui la seconda parte della slide è stata
presa [Noble 2006].
La divergenza tra le due teorie ha portato gli autori della TOFT a sostenere
ripetutamente l’incompatibilità delle stesse [Sonnenschein e Soto 2006a] aggiungendo alcuni elementi di complicazione all’analisi in corso. Sono, infatti, ormai
ricorrenti le affermazioni in letteratura per cui gli organismi “are clearly much
more than the sum of their parts, and the behavior of complex physiological processes cannot be understood simply by knowing how the parts work in isolation”
[Strange 2004], ma cosa questo significhi in termini sperimentali ed epistemologici per la prospettiva riduzionista e organicista e quali siano le implicazioni
filosofiche di questa posizione è quanto rimarrà da discutere nelle Parti III e IV
del presente lavoro.
6.1
6.1.1
Somatic Mutation Theory
La cancerogenesi secondo la SMT
Il cancro è definito nella SMT come un problema sub-cellulare, molecolare e
genetico, che implica una proliferazione sregolata delle cellule [Weinberg 1998].
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
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Le premesse di questa teoria possono essere, sinteticamente, riassunte nel seguente modo:
• Lo stato di default delle cellule nei metazoi è la quiescenza.
• Mutazioni genetiche coinvolte nel fenotipo neoplastico implicano un aumento del tasso proliferativo delle cellule neoplastiche.
• La carcinogenesi si origina a livello della singola cellula.
• Le neoplasie sono fondamentalmente monoclonali.
• Le neoplasie sorgono quando geni coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare sono mutati.
Un tumore si forma quando una cellula di un organismo superiore (metazoi) –che
generalmente mantiene l’accesso a tutte le componenti del suo genoma sebbene
questo sia abitualmente regolato in situazioni fisiologiche- subisce modificazioni
aberranti nei programmi di crescita. Da questo processo deriva “one renegade
cell ” che forma il tumore mediante un’attività proliferativa deregolata. Tali
cellule sono, in qualche modo, il risultato di un normale sviluppo che non va
a buon fine [Weinberg 2006]: nonostante infatti l’organismo presenti molteplici
meccanismi di vigilanza per far sì che questo tipo di cellule non si presenti, in
alcuni casi esse si sviluppano, riorganizzando i loro obiettivi che possono essere
ricondotti fondamentalmente a uno: creare copie di se stesse.
Il cancro emerge, allora, da un accumulo progressivo di cambi genetici che
liberano le cellule neoplastiche dai meccanismi omeostatici che governano la normale proliferazione cellulare [Hahn e Weinberg 2002a, Hahn Weinberg 2002b].
Definire, quindi, la carcinogenesi mediante errori nella proliferazione cellulare,
morte cellulare o differenziamento – o alla combinazione di questi elementi- significa assumere la nozione che le mutazioni sono gli agenti causali del cancro e che
la neoplasia è fondamentalmente un fenomeno cellulare. Semplificando, il cancro
può essere quindi considerato come un processo cell-autonomous, intrinseco alla
cellula cancerosa stessa [Hanahan e Weinberg 2000]. Le cellule tumorali sono
allora come cellule normali “impazzite” [Weinberg 2006] la cui trasformazione
implica una proliferazione cellulare incontrollata.
Questa patologia coinvolge cambi dinamici nell’organizzzione strutturale e
funzionale
del
genoma
cellulare
[Hanahan e Weinberg 2000] e anche l’evidenza di instabilità genomica comune
a tutte le cellule cancerogene confermerebbe che il coinvolgimento di molteplici
fattori genetici sia richiesto per la progressione neoplastica. Le tecniche del DNA
ricombinante, negli anni ’70, hanno consentito un enorme progresso nell’identificazione dei geni coinvolti nel fenotipo tumorale e della loro funzione. Sebbene
quindi appaia ancora lontana la possibilità di identificare in modo univoco i
geni responsabili del cancro in modo assoluto -necessario e sufficiente- “sooner
or later, the process of cancer pathogenesis needed to be explained and understood in molecular terms” [Weinberg 2006]. Nonostante, infatti, geni e proteine
coinvolti nel processo neoplastico si contino ora a centinaia, a questa sicurezza
contribuisce l’evidenza che l’insorgenza di tutti i cancri è governata da un set
comune di meccanismi che sono limitati in numero [Hanahan e Weinberg 2000]
e che sono riconducibili a pochi pathways di traduzione del segnale, la cui compromissione risulta essere critica nell’insorgenza e progressione di molti, se non
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
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6.1. SOMATIC MUTATION THEORY
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di tutti i tumori. Il circuito molecolare che programma la trasformazione delle cellule maligne diventa, quindi, l’obiettivo principale dell’attività di ricerca
[Hahn e Weinberg 2002a].
Figura 6.2: Il circuito integrato cellulare [Hanahan e Weinberg 2000]
6.1.2
La patologia neoplastica secondo la SMT
L’evidenza che tutti i tessuti che costituiscono un organismo derivano da
cellule che si dividono e differenziano, a partire da un’unica linea originaria, ha
portato a considerare i tumori come fenomeni che hanno un’origine endogena all’organismo che lo soffre: si tratta cioè di cellule che derivano da tessuti normali,
ma che non funzionano in modo corretto. L’evidenza, tuttavia, di interazioni
eterotipiche che continuano ad operare dopo l’embriogenesi e sono funzionali
al mantenimento del tessuto, dimostrano come le cellule mantengano un certo
grado di dipendenza reciproca nell’organismo adulto. La progressione neoplastica mediante un numero discreto di fasi, darebbe ragione, allora, di come una
cellula pre-maligna evolve verso la malignità, liberandosi progressivamente dai
legami con le cellule vicine e della sua dipendenza dal supporto che ordinariamente una cellula riceve dal suo contesto tessutale [Weinberg 2006]. Agli steps
che caratterizzano la suddetta trasformazione maligna corrispondono caratteristiche specifiche, identificabili mediante analisi istopatologiche, e molti di essi
correlano anche con alterazioni genetiche specifiche. Come questi geni possano influenzare il comportamento delle cellule è stato studiato mediante l’analisi
molecolare dei pathways di traduzione dei segnali coinvolti, insieme alla ricerca
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
69
di fattori di crescita che fossero responsabili della continua comunicazione tra le
cellule all’interno di un tessuto: l’ipotesi, infatti, è che la decisione della singola
cellula a proliferare sia determinata dai segnali che riceve dal suo contesto cellulare e tessutale. Prova ne sarebbe il fatto che cellule poste in coltura, dopo esser
state liberate dalla loro organizzazione tessutale, non proliferano se non in presenza di siero, che conterrebbe, dunque, fattori positivi della crescita cellulare
[Weinberg 2006].
Colture in vitro di cellule tumorali hanno rivelato una capacità quasi generalizzata da parte di molte cellule appartenenti ad un tumore di moltiplicarsi
indefinitamente; capacità delle cellule tumorali che, superiore a quella della loro
controparte normale, costituirebbe una prova a favore della loro immortalità
[Weinberg 2006]. Tale caratteristica, nella SMT, è considerata un prerequisito
essenziale per la formazione di cellule tumorali [Hahn Weinberg 2002b]: hanno
bisogno cioè di essere immortali per manifestare quel vantaggio selettivo che
gli permette di dare origine ad un tumore. Le cellule umane normali, infatti, dovrebbero superare due barriere per raggiungere questo stato: la prima
legata a fenomeni di senescenza replicativi, che si manifestano come una sopravvivenza a lungo termine delle cellule a plateau, in uno stato cioè di noncrescita/proliferazione ma di attività metabolica; la seconda legata alla crisi cellulare, provocata fisiologicamente dall’erosione dei telomeri e che induce morte
apoptotica nelle cellule.
L’attivazione di proto-oncogeni, necessaria per la SMT per il fenotipo neoplastico, può essere indotta mediante retrovirus o mutazioni somatiche
[Weinberg 2006] che possono essere a loro volta suddivise in mutazioni che modificano la struttura della proteina codificata o in mutazioni che de-regolano
l’espressione di queste proteine. È per questo che, per assicurare diagnosi e
prognosi della patologia neoplastica sempre più accurate, l’interesse della SMT
si centra fondamentalmente sui geni che provocano il cancro, come conseguenza
di una mutazione somatica.
Le mutazioni che possono indurre un comportamento neoplastico si distinguono in due gruppi:
1. “gain-of-function” che promuovono la capacità proliferativa delle cellule e
che riguardano i cosiddetti oncogeni che codificano per fattori di crescita
e i loro recettori, per proteine coinvolte nel pathway di trasduzione del
segnale e per componenti del meccanismo del ciclo cellulare, ecc.;
2. “loss-of-function” che inattivano i segnali inibitori codificati da
anti-oncogeni o geni definiti oncosopressori.
Dati sperimentali hanno rivelato, inoltre, che pathways di geni oncosoppressori,
come RB e p53, sono coinvolti nel mantenimento delle barriere fisiologiche che
hanno lo scopo, cioè, di impedire che cellule normali acquisiscano un fenotipo
immortale [Hahn e Weinberg 2002a], dando prova della plausibilità del ruolo
fondamentale di questi geni nell’insorgenza e progressione tumorale. Infine, in
questa prospettiva per cui il cancro è fondamentalmente una patologia genetica
e cellulare che implica una proliferazione sregolata delle cellule neoplastiche
che presentano un vantaggio selettivo sulle loro vicine, l’origine dei tumori è
considerata monoclonale [Weinberg 2006]. La molteplicità tuttavia di geni e
pathways coinvolti nei tumori e delle loro combinazioni porta a considerare il
cancro non una patologia unica, ma un insieme di molte malattie in cui gli agenti
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70
6.1. SOMATIC MUTATION THEORY
causali -identificati in termini di geni e proteine- possono essere organizzati fino
ad un elenco di circa 110 diversi tipi nei cancri umani [Weinberg 2006].
6.1.3
Il processo neoplastico secondo la SMT
Se il cancro è una patologia legata ad una proliferazione cellulare incontrollata e il comportamento delle cellule tumorali è aberrante, occorre pensare che
le cellule tumorali inventino vie completamente nuove per programmare la loro
crescita e divisione, cioè che il circuito interno delle cellule tumorali sia organizzato in modo alquanto differente da quello della loro controparte normale
[Weinberg 2006]. Il coinvolgimento (1) di pathways alterati per la trasduzione del segnale per fattori di crescita, (2) di proteine modificate coinvolte nella
realizzazione del ciclo cellulare, (3) di alterazioni nella regolazione della morte
cellulare e del differenziamento cellulare, mediante fattori inibitori e prodotti di
geni oncosoppressori, darebbe ragione di questo.
Una progressione multistep del fenotipo tumorale è quindi coerente con la
prospettiva del processo neoplastico nella SMT. Numerose evidenze sperimentali
sono state presentate a supporto dell’ipotesi che la tumorigenesi sia di questo tipo: tanto in vivo che in vitro le cellule neoplastiche presentano una successione di
stati che riflettono alterazioni genetiche che guidano e promuovono la trasformazione progressiva delle cellule normali in maligne [Hanahan e Weinberg 2000],
secondo una gradualità crescente di anormalità lungo il percorso da tumore
benigno a metastatico. È confermato come tale progressione presenti anche
caratteristiche diverse a seconda delle specie animali, in termini, per esempio,
di numero di steps richiesti a seconda che si tratti di cellule umane o murine
[Hahn et al 1999]. Questa progressione è stata perciò ampiamente studiata in
termini di eventi discreti che segnano le diverse tappe della sua evoluzione: il
modello di Vogelstein [Kinzler e Vogelstein 1996] sul cancro al colon ne costituisce l’esempio più completo e paradigmatico. Il modello della tumorigenesi
multistep aiuta infatti a comprendere le dinamiche sottostanti alle poliposi familiari e a fenomeni di cancerizzazione concentrati in determinate zone di un
tessuto (field cancerization) [Weinberg 2006], per cui tumori sporadici appaiono
in numero elevato all’interno di una stessa zona, rimandando ad una suscettibilità familiare per gli stessi. Infatti, le alterazioni genetiche comuni a queste masse
cellulari, che sorgono indipendentemente all’interno di un area tessutale, sarebbero il risultato della successione di identici meccanismi mediati da mutazioni
somatiche specifiche.
Una questione critica continua a presentarsi riguardo al fenotipo maligno:
non sono state infatti ancora identificate mutazioni che correlino definitivamente
con quest’ultima caratteristica attribuita specificamente alle cellule di un tumore maligno e una questione logica si pone sulla dominanza o recessività della
capacità invasiva e metastatica delle stesse [Harris 1985]. Infatti, non sembra
plausibile che questa caratteristica offra un vantaggio selettivo alle cellule neoplastiche all’interno di un tumore primario. Un’ulteriore difficoltà ad includere
il fenotipo metastatico in questo modello deriva anche da evidenze per cui il fenotipo metastatico sarebbe già presente in qualche modo nelle cellule del tumore
primario, cosa a cui farebbe pensare (1) l’esistenza di “poor-prognosis” microarray signature; (2) dati, derivanti da trasformazioni di cellule umane mediante
l’inserimento di un determinato set di geni, che evidenziano come le cellule metastatiche sono più simili alle cellule originarie che a quelle degli altri tumori
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
71
indotti contemporaneamente e metastatizzano, inoltre, in organi diversi, facendo pensare che il programma differenziativo della cellula di origine rappresenti
un forte determinante anche dell’eventuale disseminazione metastatica; (3) i set
di lesioni genetiche presenti nelle cellule metastatiche ricalcano quelli presenti
nelle cellule del tumore primario [Weinberg 1988, Weinberg 2008]. Tuttavia, anche se i tentativi di razionalizzare i meccanismi della fase metastatica sembrano
ancora lungi dal dare le risposte unitarie che ci aspetteremmo, la discussione
dei dati sperimentali al riguardo dispone a dare come definizione della capacità
neoplastica l’acquisizione di funzione, con un carattere dominante, quindi, della stessa. La risposta potrebbe, infatti, essere che il fenotipo metastatico non
sia legato all’acquisizione di nuove mutazioni ma al fatto che le cellule tumorali si approprino di “complex biological programs” normalmente coinvolti nel
mantenimento dell’attività fisiologica cellulare e organica [Weinberg 2008]. È il
caso dei meccanismi deputati alla transizione epitelio-mesenchimale (EpithelialMesenchymal Transition: EMT) che gioca ruoli importanti nella normale morfogenesi [Thiery 2002]. Nelle cellule tumorali questi processi verrebbero utilizzati in modo aberrante, consentendo a queste cellule di assumere un fenotipo invasivo: la disseminazione delle cellule tumorali nell’organismo avviene,
quindi, mediante una cascata di eventi successivi (invasion-metastasis cascade
[Fidler 2003]) e un processo definito con il termine di “colonizzazione” che si
conclude con l’invasione metastatica, a partire dal tumore primario, di nuovi
organi e tessuti.
Bibliograa essenziale
Sono numerosissimi gli autori che afferiscono a questa teoria. Tuttavia, abbiamo scelto di confrontare i riferimenti bibliografici con RA Weinberg, per la
sua fama internazionale riguardo la ricerca svolta sul cancro e per aver, in diversi
contesti, esplicitato la prospettiva riduzionista da cui procede (cfr. Parte III):
in grassetto i testi da lui indicati come riferimenti principali della sua visione
del cancro. Nei pochi lavori, inoltre, di carattere epistemologico che abbiamo
rinvenuto all’interno della letteratura scientifica, è questo autore ad essere citato
come punto di riferimento per la SMT. Altri autori di riferimento per questa
teoria e la sua impostazione epistemologica emergono, comunque, da alcune citazioni bibliografiche di questo capitolo: Hahn WC, Hanahan D, Bishop JM,
Kinzler KW e Vogelstein B.
• Weinberg RA. One Renegade Cell. Basic Book, New York 1998
• Weinberg RA. The Biology of Cancer. Garland Science 2006
• Hanahan D, Weinberg RA (2000) The hallmarks of cancer. Cell 100:57-70
• Jacks T, Weinberg RA (2002) Taking the study of cancer cell survival to
a new dimension. Cell 111:923-5
• Hahn WC, Weinberg RA (2002) Modelling the molecular circuitry of
cancer. Nat Rev Cancer 2:331-41
• Gupta PB, Mani S, Yang J, Hartwell K, Weinberg RA (2005) The evolving
portrait of cancer metastasis. Cold Spring Harb Symp Quant Biol 70:291-7
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6.2. TISSUE ORGANIZATION FIELD THEORY
72
6.2
6.2.1
Tissue Organization Field Theory
La cancerogenesi secondo la TOFT
L’eziologia del cancro,
[Sonnenschein e Soto 2000]:
nella
TOFT,
muove
da
due
premesse
• la proliferazione è lo stato di default delle cellule nei metazoi;
• il fenomeno del cancro deve essere esaminato da una prospettiva gerarchica
dell’organismo e definito come un problema di organizzazione tessutale.
L’ipotesi che avanzano è che la neoplasia sia un fenomeno emergente che deriva
da un difetto nelle interazioni tra le cellule e il tessuto, e che il cancro sia causato
da una perdita di controllo proliferativo, mantenuto mediante meccanismi di
inibizione sulle cellule da parte del contesto. La patologia neoplastica, quindi,
sarebbe legata fondamentalmente ad un problema di organizzazione tessutale1 .
Una comunicazione alterata tra le cellule costituisce il nucleo interpretativo della TOFT [Soto e Sonnenschein 2005], che si focalizza sull’organismo come
una “società di cellule”. In quest’ottica, lo sconvolgimento delle interazioni reciproche tra cellule e tessuti, che sono alla base della carcinogenesi, non richiede
necessariamente mutazioni genetiche, ma stimoli aberranti che compromettono il
coordinamento e la struttura dell’organizzazione gerarchica delle unità cellulari
nei metazoi. Una modificazione aberrante dell’organizzazione tessutale avrebbe quindi un ruolo necessario nell’induzione e progressione tumorale, attraverso
meccanismi epigenetici più che mutazionali. Se, inoltre, è la prospettiva gerarchica dell’organizzazione di un organismo a costituire la caratteristica principale
degli organismi viventi pluricellulari, è allora a questo livello che si deve ricondurre ogni fenomeno biologico che percepiamo come crescita di un organ-o/-ismo,
1 L'emergentismo
è una teoria che concerne la natura del mondo materiale. In contrapposi-
zione al materialismo riduzionista che aerma che solo le parti irriducibili della materia hanno
proprietà uniche e proprie, l'emergentismo sostiene che in concomitanza con la complessità, e
specialmente la struttura e la funzione, ci sono proprietà che sono uniche e che non possono essere ritrovate nelle componenti più piccole della materia. Queste proprietà di sistemi complessi
sono allora non riducibili a quelle dei loro elementi costitutivi, sebbene non possano esistere a
prescindere da essi. Mentre molte delle proprietà fondamentali della materia, come la massa,
sono assunte come meramente quantitative e additive, le proprietà emergenti presentano connotati qualitativi che portano con sé un grado di novità e di non predicibilità. Storicamente
l'emergentismo è associato al lavoro di due loso:
Morgan che per primo formulò le sue
teorie sull'evoluzione emergente [Morgan 1923] e Alexander che argomentò la sua posizione in
Space, Time, and Deity [Alexander 1920]. Tuttavia, spiegazioni ancor più persuasive dell'emergentismo sono da ritrovare nel lavoro di Ludwig von Bertalany, il fondatore della Teoria
Generale dei Sistemi. Le teorie dell'emergenza e il termine di emergenza stesso, tuttavia, non
sono univoche né da un punto di vista trasdisciplinare né intradisciplinare. Una denizione
che è stata data è la seguente: On the rst form of the theory the characteristic behavior
of the whole could not, even in theory, be deduced from the most complete knowledge of the
behaviour of its components, taken separately or in other combinations, and of their proportions and arrangements in this whole. This alternative, which I have roughly outlined and
shall soon discuss in detail, is what I understand by the Theory of Emergence [Broad 1925].
L'idea principale è che il tutto è maggiore della somma delle sue parti.
Il comportamento
caratteristico del tutto, cioè, non può essere dedotto dalle caratteristiche delle sue parti. Gli
autori della TOFT utilizzano il termine in questo senso. L'aermazione contraria è quella del
riduzionismo ontologico per cui il tutto è la somma delle parti. Il riduzionismo ontologico si
rifà al riduzionismo causale per cui le cause che agiscono sul tutto producono semplicemente
la somma degli eetti delle singole cause agenti sulle parti o, detto in altro modo, l'eetto che
si manifesta nel tutto può essere ricondotto ad un elemento causale di una delle parti.
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
73
mentre la prospettiva della proliferazione cellulare non può essere considerata un
parametro adeguato ed affidabile per una valutazione quantitativa della stessa.
Per questo motivo, quando si ha a che fare con la prospettiva dell’organizzazione tessutale, gli autori evitano di utilizzare il termine di crescita, adoperando
invece quello di iperplasia e ipertrofia per indicare rispettivamente un aumento
del numero di cellule e di taglia cellulare [Sonnenschein e Soto 1999].
6.2.2
La patologia neoplastica secondo la TOFT
La patologia della carcinogenesi, secondo la TOFT, è riconducibile ad un processo simile a quello organogenico che però non va a compimento
[Soto et al 2008a]. Sebbene quindi gli autori della TOFT riconoscano che il
cancro coinvolge molteplici livelli della complessità ed organizzazione biologica, questa patologia inerisce principalmente al livello tessutale, si configura
cioè come un fenomeno che coinvolge fondamentalmente e in modo distruttivo le interazioni tra le singole cellule e i tessuti [Sonnenschein e Soto 1999,
Sonnenschein e Soto 2000]. Le normali procedure diagnostiche sembrano sostenere questa tesi. La diagnosi preliminare, infatti, è generalmente condotta a
livello organico da medici che esaminano i sintomi e i segni esterni che il paziente presenta. Tuttavia, è il patologo che pone la diagnosi definitiva, attraverso
l’analisi microscopica e l’interpretazione della biopsia di tessuto in cui si ha il
sospetto sia sorta una neoplasia: questo livello di analisi è quello che corrisponde
al livello tessutale della complessità biologica.
A rinforzo di questa ipotesi, ci sono anche evidenze fornite da esperimenti condotti mediante trapianto di tessuto tumorale. Infatti, i tessuti tumorali
trapiantati, se sono capaci di produrre un nuovo tumore nell’ospite, gli danno
origine a partire dalle cellule del parenchima. Sono queste cellule, proprie di un
organo, ad essere responsabili della nuova neoplasia, mentre lo stroma -che rappresenta l’intelaiatura su cui il parenchima si organizza- viene perso e le cellule
dell’ospite si rivelano capaci di ricostruirlo intorno alla nuova formazione tessutale. Inoltre, un’altra evidenza sperimentale è che, in una neoplasia spontanea,
le metastasi abitualmente presentano un’architettura simile a quella del tumore
primario, il che sosterrebbe l’origine delle cellule tumorali e il postulato della
TOFT per cui è a livello tessutale che la carcinogenesi ha luogo.
Questi esperimenti, insieme ad altri condotti per esempio su teratocarcinomi
[Damjanov 1993, Illmensee e Mintz 1976, Mintz e Illmensee 1975], hanno messo
in evidenza come la reversione del fenotipo neoplastico sia una possibilità reale
e tutt’altro che remota. Nella prospettiva della TOFT, la normalizzazione delle
cellule tumorali contraddice l’assunzione che il cancro sia causato da una mutazione del DNA, dato che il fenotipo neoplastico potrebbe essere normalizzato con
una frequenza molto più alta di quella che sarebbe necessaria per la reversione di
una mutazione genetica a wild type [Soto e Sonnenschein 2005]. In quest’ottica,
anche le mutazioni legate all’ereditarietà dei tumori -che in genere non superano mai il 5% dei casi- possono essere interpretate secondo una correlazione,
rispetto al cancro, indiretta e non diretta di causa-effetto. Infatti, secondo gli
autori della TOFT, esse comprometterebbero l’organizzazione al livello tessutale. Per esempio, alcuni dati di studi fatti su APC, che è legato all’ereditarietà
dei tumori al colon, si presterebbero a questa interpretazione: il prodotto di
questo gene, infatti, entra nei meccanismi del ciclo cellulare mediante il wnt
pathway, ma è anche coinvolto, grazie la sua interazione con le beta-catenine,
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74
6.2. TISSUE ORGANIZATION FIELD THEORY
nell’adesione intercellulare [Kemler 1993, Hough et al 1997, Jursnich et al 1990,
Wasan et al 1998] .
Quindi, l’effetto dei cancerogeni sulle strutture e sugli organuli subcellulari,
incluse le mutazioni genetiche, sebbene dannoso per ogni cellula, non è visto
dalla TOFT come direttamente responsabile dello sviluppo di una neoplasia
[Soto e Sonnenschein 2005]. Il fenotipo neoplastico, infatti, non si riconduce a
cambi subcellulari, ma ad aberrazioni che si realizzano a livello dell’organizzazione tessutale, prime vere cause anche delle modificazioni a livello molecolare
(mutazioni genetiche, atipie cromosomiche, anomalie del metabolismo dei carboidrati, peculiarità nella forma e grandezza nucleare, ecc.) intracellulare che
si danno in concomitanza ad esso. Anche la perdita del controllo proliferativo è
una di esse. Il fatto, tuttavia, che il tasso di proliferazione delle cellule nelle neoplasie non è necessariamente più elevato del tasso di proliferazione cellulare di
tessuti normali, e che lo stesso tasso proliferativo possa cambiare a seconda della
concentrazione ormonale, contribuisce a sostenere infine l’ipotesi che il cancro
non sia necessariamente una entità autonoma [Sonnenschein e Soto 1999].
Figura 6.3: Il target di un carcinogeno chimico per la TOFT (diapositiva concessa dal Prof. C. Sonnenschein dopo il seminario tenuto presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma nel Maggio 2009. NMU sta per
N-nitroso-N-methylurea)
Dire che la proliferazione cellulare neoplastica sia strettamente relazionata con fenomeni basati su meccanismi tessutali più che cellulari o subcellulari,
sembra, invece, compatibile con la proposta epigenetica, se si considera che lo
stato basico delle cellule -proliferativo e non quiescente- è controllato in modo
estremamente specifico precisamente da questo tipo di meccanismi. Gli autori della TOFT, tuttavia, pur riconoscendo un’importanza strategica a questi
meccanismi, ritengono che il cancro si possa considerare una patologia legata all’epigenetica solo in quanto quest’ultima riflette l’espressione temporale e
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
75
spaziale dei geni normali e le sue variazioni, sotto il controllo di segnali ambientali aberranti. Analizzando, infatti, il fenomeno neoplastico nella prospettiva più ampia delle dinamiche tra singole cellule e tessuti, i fattori epigenetici
non avrebbero un ruolo esplicativo –una relazione causale- nel fenotipo neoplastico. Modelli che cerchino di spiegare il cancro sulla base della componente
epigenetica costituirebbero semplicemente un tentativo di ridurre le cose al loro più basso livello esplicativo, compatibile con i dati a nostra disposizione
[Sonnenschein e Soto 2006a].
6.2.3
Il processo neoplastico secondo la TOFT
Nella presentazione della genesi del cancro la TOFT assume con decisione la
prospettiva evolutiva sul controllo della proliferazione cellulare2 , implicita nella
premessa che lo stato di default delle cellule sia quello proliferativo, per trarne
delle conclusioni su cui organizzano la loro teoria. Se lo stato di default delle
cellule nei metazoi è quello proliferativo e l’organizzazione in tessuti ed organi
delle cellule negli organismi superiori è il risultato di un programma di sviluppo
che si realizza mediante interazione tra le cellule gerarchicamente organizzate, le
questioni biologiche principalmente implicate nel processo neoplastico sarebbero
le seguenti:
• Il controllo della proliferazione cellulare è un processo che ha luogo a
livello dell’organizzazione gerarchica delle cellule, cronologicamente sottratto dal controllo del ciclo cellulare, che inerisce al livello subcellulare
dell’organizzazione gerarchica dei metazoi.
• Le interazioni tra le cellule sono mediate da proteine di membrana che
riconoscono segnali paracrini, giunzioni meccaniche o segnali endocrini
che agiscono a distanza e sono quindi responsabili, in prima istanza, della trasmissione di segnali significativi per le cellule in relazione alla loro
proliferazione e differenziamento.
Da questa prospettiva, lo studio dei meccanismi del ciclo cellulare diventa praticamente irrilevante rispetto alla decisione delle cellule di proliferare o di entrare
in uno stato di quiescenza. Il ciclo cellulare viene visto cioè alla stregua di un
programma automatico –una serie di algoritmi rappresentativi di dinamiche responsabili degli eventi meccanici di causa-effetto- per cui da una cellula se ne
formano due. La proliferazione cellulare è, nella prospettiva degli autori, una
funzione discreta e il solo parametro che permette la comparazione dell’attività
proliferativa è il tempo di raddoppiamento della popolazione cellulare. È necessario pertanto testare in vivo se il ruolo del regolatore putativo è coerente con i
dati ottenuti in vitro. Una considerazione interessante che ne deriva è quella che
riguarda il comportamento delle cellule di un organismo quando messe in coltura
in vitro con un mezzo di crescita adeguato. Esse, infatti, sembrano sopravvivere
e moltiplicarsi indefinitivamente. “In culture cells from metazoan show properties that they do not demonstrate at the organismal, organ, tissue levels. By
virtue of becoming freed from the constrints of the homeostatic influences necessary to coordinate the needs of a multicellular organism, the “liberated” metazoan
2 La
morte cellulare non è discussa, in quanto relazionata con il mantenimento del nu-
mero cellulare e non coinvolta come meccanismo di controllo sulla proliferazione cellulare
[Sonnenschein e Soto 1999].
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6.2. TISSUE ORGANIZATION FIELD THEORY
76
cell in culture may re-acquire ancestral, cryptic properties, including proliferation and mobility. Demergence has taken place” [Sonnenschein e Soto 1999] .
Questo concetto di “de-emergenza”, anche se solo raramente ripreso nelle loro
pubblicazioni, costituisce la principale chiave interpretativa della dinamica evolutiva sottostante al processo neoplastico, fenomeno che assume, allora, anche le
caratteristiche tipiche di un processo adattativo in cui l’organizzazione, la forma
topologica e l’organizzazione storica dei patterns dei geni che vengono espressi
costituiscono gli elementi responsabili del fallimento del controllo sul normale
programma differenziativo e morfologico.
Dall’organizzazione dei dati sperimentali che ne deriva, la TOFT sembra
poter affermare che gli eventi cellulari critici che determinano la malignità sono
perdite di funzione ereditabili e in particolare, perdita della capacità di completare un pattern specifico di differenziamento. Si comprende così meglio perchè
i cancerogeni non sarebbero direttamente responsabili della neoplasia in quanto
comprometterebbero, fondamentalmente, il flusso di informazione tra stroma
e parenchima o tra le cellule all’interno dello stesso tessuto, dando inizio alla
carcinogenesi. A supporto di questa tesi, ci sarebbero quei dati sperimentali
che evidenziano come tali sostanze o radiazioni agiscono sullo stroma, ma senza
indurne la trasformazione neoplastica [Sonnenschein e Soto 1999], mentre sono
le stesse cellule, alterate dai carcinogeni e presenti nello stroma, che inducono
un’alterazione patologica in cellule potenzialmente neoplastiche e che fungono
da cellule progenitrici del tumore. È come se le cellule epiteliali alterate vengano, in qualche modo, percepite come diverse dalle loro vicine le quali rispondono,
a loro volta, al cambio ambientale prodotto. Questa catena di fraintendimenti
costituisce un lento e quasi impercettibile feedback continuo di variazioni che
producono a loro volta ulteriori cambiamenti. Alla fine i segnali che contenevano e controllavano le cellule perché esprimessero solo il fenotipo appropriato
al contesto in cui si trovavano, legato alla loro posizione, si indeboliscono: le
cellule nel loro contesto tridimensionale possono esprimere, così, la loro innata
capacità proliferativa. La cancerogenesi e la neoplasia quindi possono procedere mediante fenomeni emergenti (sopracellulari) una volta che i segnali che
mantengono la normale organizzazione siano stati stravolti.
Si capisce, allora, perché nella TOFT la carcinogenesi è da considerarsi come
un problema simile a quello della normale istogenesi e della riparazione tessutale cioè un fenomeno che coinvolge l’organizzazione tridimensionale dei tessuti
[Maffini et al 2005, Sonnenschein e Soto 1999]. Tuttavia, un’interpretazione che
propone il parenchima e lo stroma come target di mutamento neoplastico, di
cui i cancerogeni sarebbero responsabili, richiede di per sé di essere studiata
utilizzando il paradigma dei campi morfogenetici3 . È a questa teoria che gli au3 La
Teoria dei campi morfogenetici, in ambito biologico, si è sviluppata all'interno della
biologia evolutiva dello sviluppo (evo-devo , dall'inglese: evolutionary developmental theo-
ry ). Come il nome stesso indica, la biologia dello sviluppo deve la sua origine alla conuenza
di due campi di ricerca biologica di cui integra le prospettive: quello dello sviluppo e quello
evolutivo. Il riferimento evolutivo sottolinea l'importanza dell'ambiente nel processo di strutturazione dell'organismo e di selezione di alcune caratteristiche su altre. La prospettiva dello
sviluppo sottolinea, invece, la logica interna di queste interazioni, in termini di epigenetica,
organizzazione strutturale, ecc. e l'emergenza di nuovi fenotipi comportamentali da suddette
interazioni [Gilbert 2003]. La forma più semplice di campi morfogenetici è rappresentata dal
concetto di gradienti morfogenetici [Tsikolia 2003, Tsikolia 2006]che sembra risalire a Boveri
che li descrisse per la prima volta nel 1901.
Anni più tardi, la scoperta di gradienti meta-
bolici in planarie condusse Child a considerare l'associazione tra gradienti e geni formulando
l'ipotesi che si potesse vericare un dierenziamento dell'espressione genica lungo gradienti
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
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tori della TOFT si rifanno. Sono, infatti, questi campi morfogenetici quelli che
permangono durante tutto l’arco vitale dell’organismo e orchestrano l’istogenesi
e l’organogenesi prima della nascita, come anche il mantenimento e la rigenerazione dei tessuti successivamente, nella vita postnatale [Maffini et al 2005]. Il
genoma, allora, non è il pilota dello sviluppo, ma sarebbe la persistenza dei
campi morfogenetici -i soli a mantenere alcune qualità mentre tutto il resto può
cambiare- a far stimare la patologia del cancro come un fenomeno tessutale e
non cellulare, attribuendo, durante lo sviluppo, all’espressione spazio-temporale
dei geni il ruolo di governo della direzionalità del differenziamento cellulare e
quindi del destino cellulare.
E’ interessante notare come gli autori della TOFT si riferiscono alla cancerogenesi principalmente facendo riferimento alle tappe iniziali della formazione tumorale: quest’ultima, infatti, è vista come un progressione, un processo dinamico che può essere temporalmente o permanentemente sospeso, che può riconvertirsi in uno stato normale o progredire verso quella fase che chiamano “frank neoplasia” e che, a sua volta, può invadere, metastatizzare o persino, raramente, regredire4 . Il fenotipo tumorale maligno, allora, assume, all’interno della TOFT,
un connotato specifico: la domanda che si pone è se sia da considerare dominante o recessivo [Harris 1985] e se sia definibile o meno in base all’acquisizione
di nuove proprietà [Shih et al 1979, Varmus e Weinberg 1992, Weinberg 1983].
I dati sembrano suggerire, all’interno del quadro interpretativo della teoria, che
la malignità sia una perdita di funzione o un carattere recessivo. L’autonomia
proliferativa, l’invasività e la metastasi sarebbero fenomeni integrativi, successivi ma non essenziali che coinvolgono l’interazione tra le cellule, i tessuti e gli
organi, la cui comprensione non sembra poter essere implementata esplorando,
a parere degli autori, i pathways intracellulari di natura chimica e molecolare
[Sonnenschein e Soto 1999] .
morfogenetici [Child 1941]. Fu poi Turing nel 1952 che propose un modello matematico della
morfogenesi mediante equazioni dierenziali [Turing 1952]. Uno degli esempi di gradienti morfogenetici meglio conosciuti è quello relazionato con i morfogeni della famiglia dei fattori di
crescita TGF-β che inibiscono e stimolano la proliferazione basale delle cellule rispettivamente
a concentrazioni alte e basse. Lungo cioè un gradiente di concentrazione decrescente di TGF-β,
con una distanza crescente dalla fonte, la proliferazione cellulare è gradualmente inibita, e poi
gradualmente stimolata generando una struttura a curva concava [Fosslien 2008]. Studi di genetica ed epigenetica hanno rivitalizzato recentemente l'importanza dei morfogeni e dei campi
morfogenetici nello sviluppo e c'è stato un aumento di interesse anche rispetto ai meccanismi di
preservazione dell'architettura dei tessuti determinati dagli stessi meccanismi. Si è detto, per
esempio, che morfostati deniti come morphogen-like controller molecules - possano contribuire a preservare l'architettura normale nei tessuti adulti [Potter 2001, Potter 2007]. Sempre
più numerosi sono, inne, gli studi che descrivono come tanto la morfogenesi dello sviluppo
che quella del cancro sembrino essere regolate da campi morfogenetici. L'importanza di questi
campi è stata illustrata anche mediante esperimenti condotti con trapianti di cellule di melanoma metastatiche in embrioni di pollo, per cui le cellule tumorali adottano morfologie simili
a quelle delle cellule normali e funzionano normalmente nell'ospite. Segnali morfogenetici che
determinano la morfogenesi dello sviluppo [Tabata e Takei 2004] sono spesso anormali nella
morfogenesi del cancro, particolarmente quelli legati alle superfamiglie dei fattori di crescita
trasformanti (TGF)-β e Wingless (Wnt) [Barker et al 2000, Edlund et al 2005].
Difetti nei
segnali possono essere dovuti alla mancanza di espressione dei morfogeni, dei componenti nel
pathway di segnali o per una risposta difettiva al gradiente di concentrazione del morfogeno
stesso.
Se l'organizzazione tessutale durante lo sviluppo è controllata da campi morfoge-
netici, la neoplasia costituisce una perdita di controllo dell'architettura tessutale dovuta ad
aberrazioni negli stessi [Sonnenschein e Soto 2000].
4 Il termine di tumore è usato da questi autori raramente perché meno accurato di neoplasia;
esso si riferisce, infatti, a masse protuberanti di tessuto che possono essere o non essere legate
a neoplasia.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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6.2. TISSUE ORGANIZATION FIELD THEORY
Bibliograa essenziale
Riportiamo a continuazione alcuni riferimenti bibliografici che ci hanno aiutato nella compilazione di questa sezione, dopo aver confrontato gli stessi con
gli autori della TOFT. In grassetto sono evidenziati i testi che loro stessi hanno
segnalato come più rappresentativi della loro teoria e riflessione epistemologica
sull’eziopatogenesi del cancro. Sulla base di questi stessi riferimenti bibliografici, verranno trattati nella Parte III alcuni aspetti più metodologici e prettamente epistemologici della TOFT. Manteniamo qui un ordine cronologico delle
pubblicazioni per i diversi autori.
• Sonnenschein C, Soto AM. The Society of Cells: Cancer and
Control of Cell Proliferation. Spinger-Verlag 1999
• Soto AM, Sonnenschein C (2005) Emergentism as a default:
Cancer as a problem of tissue organization. J. Biosci. 30:103–118
• Marcum JA (2005) Metaphisical presuppositions and scientific practices: Reductionism and organicism in cancer research.
Interantional Studies in the Philosophy of Science 19:31-45
• Baker SG, Kramer BS (2007) Paradoxes in carcinogenesis: new
opportunities for research directions. BMC Cancer 7:151–157
• Soto AM, Sonnenschein C, Miguel A (2008) On physicalism and
Downward Causation in Developmental and Cancer Biology,.
Acta Biotheor 56:257-74
• Soto AM, Sonnenschein C (2008) Theories of carcinogenesis: an
emerging perspective. Semin Cancer Biol 18:372-7
• Krause S, Maffini MV, Soto AM, Sonnenschein C (2008) A Novel 3D In Vitro Culture Model to Study Stromal–Epithelial Interactions in the Mammary Gland. Tissue Engineering Part C
14: 261-271
• Bizzarri M, Cucina A, D’Anselmi F (2008) Beyond the Oncogene
Paradigm: Understanding Complexity in Cancerogenesis. Acta
Bioth. 56:173-196
• Baker SG, Soto AM, Sonnenschein C, Capuccino A, Potter JD,
Kramer BS (2009) Plausibility of stromal initiation of epithelial
cancers without a mutation in the epithelium: a computer simulation of morphostats. BMC Cancer 9:89. Ricevuto dagli autori
il 25-3-09 .
• Gilbert SF, Sarkar S (2000) Embracing complexity: organicism for the
21th century. Dev Dyn 219:1-9
• Sonnenschein C, Soto AM (2000) Somatic mutation theory of carcinogenesis: why it should be dropped and replaced. Molecular Carcinogenesis
29: 205–11
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CAPITOLO 6. LE TEORIE EZIOPATOGENETICHE DEL CANCRO
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• Maffini MV, Geck P, Powell CE, Sonnenschein C, Soto AM (2002) Mechanism of androgen action on cell proliferation AS3 protein as a mediator of
proliferative arrest in the rat prostate. Endocrinology 143:2708–2714
• Soto AM, Sonnenschein C (2004) The somatic mutation theory of cancer:
growing problems with the paradigm? BioEssays 26:1097-1107
• Maffini MV, Soto AM, Calabro JM, Ucci AA, Sonnenschein C (2004) The
stroma as a crucial target in rat mammary gland carcinogenesis. J Cell
Sci 117:1495–1502
• Maffini MV, Calabro JM, Soto AM, Sonnenschein C (2005) Stromal regulation of neoplastic development: age-dependent normalization of neoplastic mammary cells by mammary stroma. American Journal of Pathology
67:1405-1410
• Sonnenschein C, Soto AM (2005) Correspondence: And yet another epicycle. BioEssays 28:100-101
• Sonnenschein C, Soto AM (2005) Are Times a’ Changin’ in Carcinogenesis? Endocrinology 146:11–12
• Sonnenschein C, Soto AM (2006) Carcinogenesis and Metastasis Now in
the Third Dimension – What’s in it for Pathologists? American journal
of Pathology 168:363-6
• Soto AM, Maffini MV, Sonnenschein C (2007) Neoplasia as development
gone awry: the role of endocrine disruptors. Int J Andrology 30:1-5
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6.2. TISSUE ORGANIZATION FIELD THEORY
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Capitolo 7
L'evoluzione dei modelli
interpretativi del cancro
7.1
Le prospettive cellulari del cancro
Nel Capitolo 5 abbiamo visto come, intorno alla metà del secolo scorso,
la visione predominante del cancro era quella di una malattia genetica in cui
erano specifiche mutazioni ad essere coinvolte nella progressione neoplastica.
Una malattia pertanto conosciuta, già dall’epoca di Virchow e Boveri, come
genetica nelle sue cause, ma cellulare nella sua fenomenologia. Probabilmente
fu però l’interpretazione che si fece dei dati di Boveri a sigillare il binomio tra
geni e cellula tumorale; i suoi esperimenti, infatti, sembrarono confermare una
relazione tra il cancro e l’organizzazione cromatinica delle cellule, formulando
l’ipotesi che il fenotipo neoplastico fosse trasmesso alla progenie per il difetto
genetico che lo aveva generato. Si ampliò così, poco a poco, la ricerca per
l’identificazione dei geni che giocano un ruolo principale nel cancro. All’interno
del paradigma riduzionista e dei modelli elaborati da esso, tutti gli steps della
progressione neoplastica furono ricondotti, infatti, ad un gene, ad un numero
discreto di essi -”the root causes of cancer ” [Weinberg 2006] o ad altri fenomeni
che ne possono simulare gli effetti, come quelli epigenetici.
È il termine “progressione”, più che “processo”, quello maggiormente utilizzato nella letteratura che fa riferimento alla SMT o, più in generale, ad una
prospettiva genetico-cellulare del cancro. Tale preferenza terminologica fa riferimento ad una precisa impostazione epistemologica: sono infatti componenti
lineari, spesso individuate da correlazioni necessarie e sufficienti tra mutazioni
genetiche e l’insorgenza del cancro, quelle che identificano le tappe dell’evoluzione del cancro. Quindi, cercheremo ora di seguire l’evoluzione dei modelli
evidenziandone gli aspetti più significativi. La scelta di integrare l’esposizione
anche con elementi grafici è dettata dal desiderio di una maggiore chiarezza
anche per coloro che non si sono addentrati nello studio della letteratura biomedica su questo argomento e per tenere in conto delle proposte grafiche già
presenti nella letteratura.
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7.1.1
7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
Modello Clonale
Il Modello Genetico Clonale del cancro (Clonal Genetic Model of cancer )
deriva dall’integrazione delle conoscenze che si sono accumulate dalla metà del
secolo scorso su oncogeni (Oncogene: ONG) e geni oncosoppressori (Tumour
Supressor Gene: TSG). Intorno agli anni ’70 e ’80, i primi avevano dominato il
campo della ricerca scientifica, portando con sé una visione del cancro in cui le
cause principali erano mutazioni attivanti. Successivamente, la scoperta di TSGs
integrò questa concezione completando quello che è stato poi uno dei modelli
più condivisi dell’eziopatogenesi del cancro. Nella prospettiva clonale genetica
del cancro, infatti, una cellula normale subisce una mutazione a carico di un
oncogene o di un gene oncosoppressore a cui si somma, in uno step successivo,
un’altra mutazione sempre a carico di uno dei due tipi di geni. Nella sua forma
più semplice il modello prevede che dalla compromissione funzionale di questi
geni origini una cellula tumorale da cui, per divisione clonale, deriverebbero
le altre cellule che poi costituiscono la massa tumorale e danno origine alle
metastasi.
Figura 7.1: Clonal Genetic Model
“The classical view of cancer is that it arises through a series of mutations,
including dominantly acting oncogenes (ONG) and recessively acting tumoursuppressor genes (TSG). Each mutation leads to the selective overgrowth of a
monoclonal population of tumour cells, and each significant tumour property
(invasiveness, metastasis and drug resistance) is accounted for by such a mutation. Epigenetic changes are viewed in this model as surrogate alterations for
mutations” [Feinberg et al 2006].
Per chiarezza espositiva introduciamo qui una breve parentesi chiarificatrice
sugli ONGs e i TSGs.
Gli ONGs sono geni dominanti la cui overespressione determina un’acquisizione di funzione e una maggiore capacità proliferativa e di adeguamento all’ambiente rispetto le altre cellule. Tuttavia, la relazione tra questi geni e la loro
funzione non è di 1:1, cioè alterando il gene altero la funzione, in quanto sono
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
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geni capaci di controllare o di integrare più pathways e sono coinvolti in varie
funzioni cellulari allo stesso tempo. La cosa più probabile è quindi che questi
ONGs si trovino abitualmente coinvolti in cascate di trasduzione del segnale che,
per esempio, da un fattore di crescita esterno arriva ad un fattore trascrizionale
nucleare attraverso un recettore di membrana e un segnalatore citoplasmatico.
Quando un’alterazione genetica modifica il fattore di crescita o il suo recettore
(che per esempio risulterà costitutivamente attivato), si altereranno la funzione
e l’espressione di una serie di altri geni, o dei loro prodotti proteici a valle. Il
fenotipo osservato è pertanto frutto di tutto questo processo.
Ad esempio c-Myc, oncogene implicato nel controllo della proliferazione neoplastica e anche nel controllo del differenziamento cellulare, viene attivato per
amplificazione genica. c-Myc risulta infatti amplificato enormemente sia all’interno delle “homogeneously staining regions” 1 che dei “double minitus”, piccoli
pezzi cromosomiali che contengono molte copie di uno stesso gene, oppure può
essere disregolato per effetto di una traslocazione o di una fusione con il gene
della catena pesante delle Ig [Silva et al 2005, Klein e Klein 1986].
Nella leucemia mieloide cronica, invece, si ha la traslocazione cromosomica
t(9;22) che determina la formazione del cromosoma conosciuto come “Phialdelphia” (Ph1). Sul cromosoma 22 si forma un gene ibrido bcr/abl in cui l’attività
abl, che contiene al suo interno un dominio di tirosino-chinasi, viene sottratta
dal controllo fisiologico e viene messa sotto quello di bcr. In questo modo, viene
prodotta una tirosino-chinasi costitutivamente attiva.
Un altro esempio viene dall’oncogene fins, che a causa di una singola mutazione perde la capacità di essere inattivato, con il risultato che il recettore per
cui codifica è costitutivamente attivo e non è più modulabile in senso negativo.
I TSGs sono invece geni che, se mutati, portano ad una perdita di funzione e che pertanto presentano un carattere recessivo. Tipico esempio è il
gene coinvolto nel Retinoblastoma (Rb). Cavanee e colleghi localizzarono il
gene per il retinoblastoma (RB, conosciuto anche come RB1) in una piccola regione del cromosoma 13 [Cavenee et al 1983], dimostrando che tumori sia
sporadici che ereditari di questo tipo presentavano lo stesso secondo evento genetico mutazionale su questo locus cromosomico e che questa mutazione era
responsabile dell’omozigosi per mutazioni che riguardavano la regione di RB,
confermando così l’ipotesi del secondo allele mutato (the allelic-hit hypothesis)
risalente ancora a Knudson. Nel 1986, Friend e colleghi isolarono il cDNA
umano che mappava nella regione di RB, spesso deleta in una buona percentuale di tumori. Altri gruppi, lavorando con frammenti di cDNA che ibridavano trascritti di tessuti normali, scoprirono che questo gene era espresso in
modo anomalo o deleto in tutti i retinoblastomi. Questi dati sperimentali portarono a identificare l’inattivazione di RB come causa di questo tipo di cancro [Lee et al 1987, Friend et al 1986, Fung et al 1987, Huang et al 1988]. Nella
forma familiare del tumore allora, si eredita un allele mutato che può venire indifferentemente dalla madre o dal padre per LOH, mentre la seconda mutazione
che interessa il locus Rb si deve verificare in una cellula retinica dopo la nascita,
dando origine al retinoblastoma. Invece nella forma sporadica, molto più rara,
entrambe le mutazioni sul locus RB devono essere acquisite dalle cellule retiniche dopo la nascita. Per questo, mentre ereditare l’allele alterato determina
1 Ci
sono regioni sui cromosomi che, quando colorate, sono apparentemente uniformi.
Regioni colorate omogeneamente contengono multi-copie di uno stesso gene.
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7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
un’elevata incidenza nella formazione del tumore, nel caso dei tumori sporadici i TSGs hanno una correlazione bassa con l’insorgenza del tumore, come è
dimostrato anche in tumori alla mammella legati al gene BRCA1.
7.1.2
Modello Stocastico
Oltre all’idea che il cancro avesse basi genetiche, intorno agli anni ’70 emersero alcune evidenze sperimentali che fecero ipotizzare un’origine clonale del
tumore che si realizzava mediante l’avvicendamento di tappe successive in cui
diverse mutazioni venivano accumulate. Inizialmente il cancro fu pertanto definito come “a dynamic process advancing through stages that are qualitatively different” che, partendo da stadi precancerogeni, arrivava a stadi progressivamente
più invasivi e alla fine metastatici. Il concetto preponderante di evoluzione darwiniana applicato al cancro e alla sua progressione multi-step, fu inizialmente
articolata da Peter Nowell nel 1976 [Nowell 1976]. Il suo articolo integrava l’idea
che il cancro fosse prodotto da molteplici eventi (“hits”) all’interno di un framework di sviluppo e progressione tumorale mediato dall’accumulo e selezione
di cambi genetici. Tale modello fu definito Stochastic Genetic Model.
Figura 7.2: Stochastic Genetic Model
“The stochastic model proposes that tumour cells are heterogeneous, but that
virtually all of them can function as a tumour-founding cell, although this might
happen only rarely” [Vescovi et al 2006].
Nowell identificò la prima tappa della progressione tumorale con la proliferazione e concluse che, come risultato dell’instabilità genomica acquisita all’interno
della popolazione cellulare in espansione, emergevano rare varianti genetiche che
fornivano un ulteriore vantaggio selettivo ad alcune cellule. Cicli sequenziali di
selezioni clonali sarebbero così capaci di produrre la popolazione di cellule tumorali con fenotipo più aggressivo. A sostegno di questo concetto si aggiunsero
alcune osservazioni come il fatto per cui tumori solidi spesso presentavano un
elevato grado di aneuploidia rispetto alle lesioni iniziali e la scoperta di specifiche
alterazioni cromosomiali che si verificavano durante la progressione clinica delle
leucemie. Ulteriori e successive analisi dei meccanismi coinvolti nell’instabilità
genetica, come difetti nel riparo del DNA o errori mitotici, misero in evidenza
che diversi agenti che causavano il cancro (radiazioni ionizzanti, virus) potevano indurre cambi potenzialmente mutagenici nelle prime fasi della carcinogenesi
o in quelle successive della progressione tumorale. A quell’epoca però, erano
state descritte poche mutazioni di certa consistenza, ad eccezione del famoso
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
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cromosoma Filadelfia. Appariva inoltre chiaro che sarebbe stato estremamente difficile identificare, tra la moltitudine di step probabilmente coinvolti nella
carcinogenesi, quelli significativi rispetto alla progressione stessa o distinguere
quelle variazioni che potevano essere frutto di una differente pressione selettiva.
Questi elementi però lasciarono la porta aperta ad ulteriori progetti di ricerca che investirono numerose risorse nell’identificazione dei meccanismi coinvolti
nell’iniziazione e progressione del cancro. Il modello stocastico lasciava in eredità l’idea che sebbene le cellule tumorali fossero eterogenee, tutte potessero
essere potenzialmente tumorigeniche, sebbene questo si desse con una frequenza
relativamente bassa [Vescovi et al 2006].
7.1.3
Modello Multifasico-Multigenico
Sebbene già alla metà del ’900 gli epidemiologi avanzarono l’ipotesi che il
cancro derivasse da una sequenza processuale di eventi, fu Volgelstein, come già
menzionato, che riuscì a organizzare in un modello unitario il ruolo degli ONG
e dei TSG nella carcinogenesi colonrettale. Nel loro famoso articolo del 1990
[Fearon e Volgestein 1990], proposero, infatti, una sintesi coerente che metteva
insieme le scoperte fatte fino ad allora di molti ONG e TSG che risultavano alterati in svariati tumori umani, assumendo l’idea dell’evoluzione clonale
del cancro. Centrando la loro attenzione sul cancro colonrettale (Colon Rectal
Cancer : CRC), gli autori osservarono come la patologia presentava una natura clonale e correlasse con la comparsa di determinate mutazioni. Il Multistep
Model, o Modello Multifasico-Multigenico proposto da Vogelstein, fu elaborato
sul CRC perché in questo contesto è relativamente semplice seguire tutte le fasi
della trasformazione neoplastica e perché è possibile individuare alcuni geni che
sono attivati in maniera specifica in ciascuna fase della suddetta trasformazione,
come APC, K-ras, DCC/DPC4, p53 e altri. Esistono, infatti, lesioni anatomiche
predisponenti ben descritte e definite, ed è stato dimostrato un parallelismo tra
l’insorgenza ed il succedersi delle lesioni genetiche e la comparsa ed il succedersi
di alterazioni fenotipiche, morfologiche della mucosa enterica. Tale descrizione
è stata facilitata dal fatto che le lesioni genetiche e le conseguenti vie patogenetiche molecolari 2 , determinanti le sindromi di CRC a trasmissione genetica
(Familial Adenomatous Polyposis: FAP), sono in gran parte comuni anche al
CRC di tipo sporadico (Hereditary NonPolyposis Colorectal Cancer : HNPCC)
che correla specificatamente con mutazioni nei geni hMSH2 o hMLH1 coinvolti
nella replicazione e riparazione del DNA. Nella sua forma ereditaria, inoltre, il
CRC, citato anche come modello nello studio dei processi epigenetici nella progressione neoplastica, è spesso correlato ad alterazioni sul gene oncosoppressore
APC che codifica per una proteina di 310 kD presente sia a livello citoplasmatico che nucleare. Mutato in una fase precoce e coinvolto nella modulazione
della traslocazione nucleare delle beta-catenine nonché nella regolazione dell’integrità del citoscheletro, adesione e migrazione cellulare, APC ha un ruolo nella
regolazione negativa delle vie di stimolazione della crescita. La proteina da esso codificata è di natura pleiotropica e viene definita come “shuttle-protein” in
quanto formata da porzioni funzionalmente distinte che possiedono sequenze di
localizzazione nucleare e sequenze di uscita dal nucleo e il cui prodotto è coinvolto nella regolazione di funzioni rilevanti nel differenziamento cellulare e nella
2 Le
vie di trasduzione del segnale compromesse nel processo neoplastico, tanto della FAP
che del HNPCC, sono ben conosciute (via wingless/wnt , TGFRβII pathway, ecc.)
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7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
stabilità del fenotipo attraverso, per esempio, il mantenimento dell’integrità del
citoscheletro, dell’adesione cellula-cellula e della migrazione cellulare.
Figura 7.3: Multistep Model - Vogelgram3
Modificato
da
“A Genetic Model for Cancer Tumorigenesis”
[Fearon e Volgestein 1990].
Tumorigenesis proceeds through a series of
genetic alterations involvrng oncogenes (ras) and tumor suppressor genes
(particularly those on chromosomes 5q, 17p, and 16q). The three stages of
adenomas are defined in the legend to Figure 1 and, in general, represent tumors
of increasing size, dysplasia, and villous content. In patients with familial
adenomatous polyposis (FAP), a mutation on chromosome 5q is inherited. This
alteration may be responsible for the hyperproliferative epithelium present in
these patients. In tumors arising in patients without polyposis. the same region
may also be lost and/or mutated at a relatively early stage of tumorigenesis.
Hypomethylation is present in very small adenomas in patients with or without
polyposis, and this alteration may lead to aneuploidy, resulting in the loss of
suppressor gene alleles (see text). ras gene mutation (usually K-ras) appears to
occur in one cell of a preexisting small adenoma and through clonal expansion
produces a larger and more dysplastic tumor. The chromosomes most frequently
deleted include 5q. 17p, and 18q; the putative target of the loss event (i.e.,
the tumor suppressor gene) on each chromosome is indicated as well as the
relative timing of the chromosome loss event. Allelic deletions of chromosome
17p and 18q usually occur at a later stage of tumorigenesis than do deletions of
chromosome 5q or ras gene mutations. However, the order of these changes is
not invariant, and accumulation of these changes, rather than their order with
respect to one another, seems most important (see text). Tumors continue to
progress once carcinomas have formed, and the accumulated loss of suppressor
genes on additional chromosomes correlates with the ability of the carcinomas
to metastasize and cause death.
Sebbene certe mutazioni e geni fossero preferenzialmente associati con stadi
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
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specifici della progressione della malattia, gli autori via via documentarono una
moltitudine di cambi, altrettanto frequenti, a livello cromosomiale e di altro
tipo, come l’ipometilazione del DNA in regioni specifiche. Ipotizzarono allora
che l’accumulo totale dei cambi osservati, piuttosto che la loro sequenza, fosse
più importante per la progressione tumorale, salvaguardando l’idea che cinque o
più alterazioni genetiche specifiche fossero richieste comunque per l’inizio della
tumorigenesi. L’identificazione di geni che conferivano una certa suscettibilità
al cancro aveva fatto riflettere sul loro ruolo e funzione biologica. Infatti, la
maggior parte di essi era stata originariamente identificata per la loro capacità di
controllare direttamente la proliferazione cellulare, agendo come “gatekeepers”.
Intorno agli anni ’90 però, altri geni che mantengono l’integrità del genoma,
chiamati “caretakeres”, furono ugualmente segnalati come altrettante cause di
frequenti predisposizioni ereditarie ad alcuni tumori. Pertanto, un merito che
deve essere riconosciuto a Vogelstein è stato anche quello di sottoclassificare gli
oncosoppressori in gatekeepers, che controllano un pathway di differenziamento
ben specifico in fasi che possono essere più o meno precoci della formazione
dell’organismo, come per esempio quelle che coinvolgono i geni BRCA1 e Rb, e
caretakers che sono legati, invece, al concetto di instabilità genetica e genomica
e abitualmente coinvolti nella riparazione del DNA o comunque correlati al
controllo dell’integrità del patrimonio genetico e della sua struttura. Vogelstein
sostenne che la condizione minore par arrivare a una trasformazione neoplastica
è avere due caretaker e due gatekeeper alterati [Kinzler e Vogelstein 1997].
Figura 7.4: Gatekeeper e Caretakers
“Pathways to neoplasia. Milner and Sharon describe different properties of the
breast-cancer susceptibility gene BRCA2, which could be consistent with its acting as gatekeeper or a caretaker gene. Inherited mutation of either type of gene
can predispose a person to neoplasia, but additional genetic changes are needed
to convert a predisposed cell to a neoplastic cell. In the caretaker pathway, three
additional mutations are usually required, although the genetic instability that
follows inactivation of the second carataker allele accelerates the accumulation
of the latter mutations. In the gatekeeper pathway, only one aditional mutation
(inactivation of the second gatekeeper allele) is needed to initiate neoplasia. (Although the concepts depicted apply to all inherited cancer susceptibilities, there
are variations. For example, inherited mutations of both alleles of a caretaker gene occur in recessively inherited diseases such as xeroderma pigmentosum, and a
single dominant-negative mutation can substitute for two inactivation mutations
of gatekeeper gene)” [Kinzler e Vogelstein 1997].
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
Il Modello Multigenico e Multifasico ebbe il merito di includere i meccanismi genetici e il loro ruolo nell’insorgenza e progressione tumorale, in una
progressione in cui la componente temporale acquisiva una nuova importanza.
La definizione dei geni gatekeeper e caretakers risponde anche a questa esigenza.
Nella loro identificazione, infatti, un significato biologico diverso è attribuito a
diversi ONG o TSG, dipendente dai pathways o contesto funzionale in cui operano e il cui ruolo e causalità nella progressione neoplastica è correlata anche
alla dimensione temporale. Come abbiamo già avuto modo di analizzare, l’idea
che il cancro più che un evento fosse un processo che coinvolgesse pathways importanti relazionati con la proliferazione e il differenziamento cellulare era già
stata discussa a partire dagli anni ’70, quando i sostenitori della SMT iniziarono
ad adottare la nomenclatura, suggerita da Peyton Rous negli anni ’40, di iniziazione, promozione e trasformazione per distinguere le fasi che danno origine
ad un tumore maligno. A partire da un evento, necessario ma non sufficiente
per l’insorgenza neoplastica, si arrivava alla trasformazione maligna, passando
attraverso un periodo di latenza a cui un altro evento poteva mettere termine,
determinando la fase intermedia di promozione tumorale. Le lacune che si erano venute a creare in seguito allo spostamento delle argomentazioni esplicative
sulla carcinogenesi da eventi molecolari a processi biologici, vennero colmate
scomponendo la progressione neoplastica in una sequenza lineare di tappe che,
negli anni successivi, diverranno i concetti di riferimento principali della discussione scientifica e dello studio delle componenti molecolari in esse coinvolte.
Fu il Multistep Model a riuscire a formalizzare questa visione, fornendo una
base scientifica a quei concetti di iniziazione, promozione, trasformazione e progressione che fino ad allora erano rimasti fondamentalmente teorici e trovando
così ampio riconoscimento [Vogelstein e Kinzler 2004]. Al Modello di Vogelstein
venne inoltre riconosciuto il merito di includere e chiarire i meccanismi genetici
e il ruolo nell’insorgenza e progressione tumorale in un modello che risultava più
unitario dei precedenti, integrando il ruolo di oncogeni e di geni oncosoppressori
in un quadro dove i vari attori genetici interagiscono all’interno di pathways
ben identificati. Si venne quindi a strutturare una precisa visione del cancro
che considerava la carcinogenesi come una progressiva disregolazione funzionale
dei geni che portava prima all’espansione ed eterogeneità clonale delle cellule
iniziate promotrici, quindi l’invasione tessutale e finalmente alla metastasi.
7.1.4
Il Modello Epigenetico
Il ruolo dell’epigenetica nel processo neoplastico venne preso in considerazione quando si cominciarono a individuare varie associazioni tra il fenotipo
neoplastico e aberrazioni nei meccanismi epigenetici. È il caso, per esempio,
della metilazione del DNA responsabile dell’aumento dell’instabilità cromosomica. Infatti, tanto la metilazione del DNA come l’acetilazione degli istoni
sono coinvolte nel normale processo di sviluppo e di organizzazione cromatinica e nel rimodellamento dei nucleosomi, come di alcune forme di LOI descritta inizialmente in relazione all’insorgenza di tumori ereditari come i tumori
di Wilms che possono attivare l’espressione di un allele abitualmente silente
[Feinberg 2007]. Si iniziò così ad ipotizzare che i suddetti meccanismi potessero
avere un ruolo importante nell’inizio del processo neoplastico perché spesso deputati al silenziamento di TSGs, fisiologicamente mediato da meccanismi come
l’ipermetilazione delle CpG islands localizzate a livello del promotore, o come
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
89
il reclutamento di fattori trascrizionali inibitori o di enzimi tipo l’istone deacetilasi, che producono modificazioni funzionali sugli istoni, e delle Metil Binding
Protein [Jones e Baylin 2007]. Sulla scia inoltre del Modello Multistep, negli
ultimi anni furono identificati una serie di geni che presentano ipermetilazione
del DNA (generalmente sul promotore) in stadi preinvasivi del cancro del colon
ed di altri tumori, ma che sono raramente mutati. Tali geni furono denominati
“epigenetic gatekeepers”, ipotizzando che il loro normale funzionamento, mediante regolazione epigenetica, impedisca ad una cellula di acquisire un fenotipo
immortale e la capacità di auto rinnovamento [Jones e Baylin 2007] tipiche del
fenotipo maligno. Questa possibilità sarebbe coerente, inoltre, con la presenza
di aree displasiche che compaiono a livello dell’epitelio intestinale prima che un
tumore benigno sia rilevabile clinicamente, attribuibili non tanto già ad alterazioni nella sequenza genomica quanto nel programma epigenetico che regola il
differenziamento del compartimento staminale di quel tessuto.
L’Epigenetic Progenitor Model (EMP) include, quindi, uno step chiave di
natura epigenetica prima dell’inizio della neoplasia mediata dall’accumulo di
mutazioni genetiche. D’accordo con questo modello, il cancro insorgerebbe in
tre tappe [Feinberg et al 2006].
Figura 7.5: Epigenetic Progenitor Model
“According to this model, cancer arises in three steps. First is an epigenetic
alteration of stem/progenitor cells within a given tissue, which is mediated by
aberrant regulation of tumour-progenitor genes (TPG). This alteration can be
due to events within the stem cells themselves, the influence of the stromal compartment, or environmental damage or injury. Second is a gatekeeper mutation
(GKM) (tumoursuppressor gene (TSG) in solid tumours, and rearrangement
of oncogene (ONC) in leukaemia and lymphoma). Although these GKMs are
themselves monoclonal, the expanded or altered progenitor compartment increases the risk of cancer when such a mutation occurs and the frequency of subsequent primary tumours (shown as separately arising tumours). Third is genetic
and epigenetic instability, which leads to increased tumour evolution. Note that
many of the properties of advanced tumours (invasion, metastasis and drug resistance) are inherent properties of the progenitor cells that give rise to the primary tumour and do not require other mutations (highlighting the importance
of epigenetic factors in tumour progression)” [Feinberg et al 2006].
1. La prima sarebbe un’alterazione epigenetica di una cellula progenitrice (o
staminale) all’interno di certo un tessuto, mediata da una regolazione aber-
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7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
rante di geni oncosoppressori (TSG). Questa alterazione può essere dovuta a eventi all’interno della cellula stessa, all’influenza del compartimento
stromale, al danno ambientale o ad altri tipi di insulto.
2. La seconda implicherebbe una mutazione iniziante: una mutazione su un
gene gatekeeper (GKM) (geni oncosoppressori [TSG] in tumori solidi, e
riarrangiamenti di oncogeni [ONC] in leucemie e linfomi). Sebbene queste GKMs siano monoclonali in se stesse, lo scompartimento progenitore
ampliato sulla base del modello epigenetico aumenta tanto il rischio di
cancro quanto la frequenza con cui tumori primari possono insorgere separatamente. Alterazioni epigenetiche, inoltre, possono sostituire l’attivazione di un oncogene indotta da mutazione o il silenziamento di un gene
oncosoppressore.
3. La terza consisterebbe nell’instabilità genetica ed epigenetica che porta
ad un avanzamento dell’evoluzione tumorale, mediata dalla plasticità cellulare. Molte delle proprietà che favoriscono il tumore (invasione, metastasi, resistenza ai farmaci) sono proprietà tipiche della cellula progenitrice che dà origine al tumore e non richiede altre mutazioni, sottolineando ulteriormente l’importanza del fattore epigenetico nella progressione
tumorale.
La relazione del EPM con la CSCT, per cui il cancro originerebbe in cellule progenitrici o staminali dopo alterazione epigenetica, è supportata dalla descrizione
di cambi epigenetici ubiquitari nel cancro (ipometilazione, LOI, etc.) come dalla presenza di cellule progenitrici alterate in tessuti normali di pazienti affetti
[Feinberg 2007]. Sebbene quindi le alterazioni epigenetiche siano viste comunemente come surrogati di cambi genetici nel cancro, esse costituiscono in questo
modello i primi steps della progressione neoplastica, distruggendo il normale
programma di una cellula progenitrice o staminale da cui deriva poi il tumore,
per esempio stimolando la proliferazione cellulare al di fuori del microambiente
normale [Feinberg et al 2006]. Nasce in seno a questo modello anche il concetto
di epigenetic field for cancerization. La presenza di mucose che sono in qualche
modo predisposte all’insorgenza del cancro era stata originariamente descritta
per la cavità orale con il termine di field cancerization [Slaughter et al 1953],
ma zone di questo tipo sono state successivamente descritte anche in altri organi come lo stomaco, il tratto alto dell’apparato digestivo in fumatori, l’esofago
in fumatori e alcolisti e la vescica [Ushijima 2007]. Questo concetto descrive
la chiara relazione che c’è tra i livelli di metilazione, per esempio nella mucosa gastrica, senza che ci sia ancora evidenza istologica di alterazioni maligne,
e fa riferimento alla capacità dell’ipometilazione di indurre instabilità genomica –e progressione tumorale- oltre che la trascrizione aberrante di diversi geni
[Eden et al 2003].
D’altro canto, ripetuti dati sperimentali avevano messo in evidenza come la
trasformazione di una cellula normale in uno stato precancerogeno, o la reversione da un fenotipo neoplastico a normale, avvenga con una frequenza tale che
sembra difficilmente attribuibile a meccanismi che coinvolgano solo il danno del
DNA o il suo riparo. Anche l’intervallo di tempo, abitualmente di mesi o anni,
che intercorre tra una lesione oncogenica e la comparsa di mutazioni rilevabili
mediante PCR, fornirebbe un’ulteriore prova che altri meccanismi oltre a quelli
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
91
genetici devono essere implicati nell’iniziazione e progressione neoplastica: questo, infatti, è un periodo troppo lungo per poter ammettere che i primi steps
cancerogenetici coinvolgano mutazioni, mentre l’espressione proto-oncogenetica,
che si rileva nell’arco di pochi minuti o ore dopo un evento critico per la normale attività genomica, è facilmente compatibile con cambi nell’espressione genica
mediati da eventi epigenetici che sarebbero quindi più facilmente correlabili ai
primi steps del processo neoplastico [Jaffe 2005]. Altre osservazioni empiriche
a favore della relazione causale del fattore epigenetico rispetto all’insorgenza
del cancro, furono le seguenti [Feinberg 2007]: (1) cambi epigenetici precedono
l’insorgenza del cancro e conferiscono un rischio più elevato per lo sviluppo di
neoplasie; (2) l’ipometilazione del DNA; (3) l’aumento dell’instabilità genomica che sembra decisiva nelle prime fasi della progressione tumorale, successiva
anche a trattamenti con cancerogeni. Negli ultimi anni, diverse evidenze sperimentali hanno supportato la plausibilità di questo modello [Feinberg et al 2006]
come:
• casi descritti in letteratura della reversibilità del fenotipo tumorale dimostrato sia per leucemie che per tumori solidi;
• nuclei di cellule di melanoma di topo clonati possono differenziare in topi
normali, facendo pensare che le cellule tumorali possono essere riprogrammate in vista di un normale sviluppo, cioè che sono controllate epigeneticamente (anche se non completamente dato che questi cloni manifestano
una maggiore incidenza di melanoma rispetto ai normali, per cui mutazioni
genetiche stabilizzate sembrano fungere da fattore di predisposizione);
• trapianti seriali di tumore che mettono in evidenza come le cellule figlie
mantengano, a livelli diversi, markers originari del tumore primario rimandando non solo al EPM, ma anche alla teoria delle CSC per cui cellule
con proprietà staminali (auto rinnovamento e differenziamento) sarebbero
presenti nei tessuti tumorali.
7.1.5
Il Modello Gerarchico
Una delle idee che sono alla base di questo modello è che il cancro, seppur
considerato come un gruppo eterogeneo di malattie o disordini genetici, abbia una caratteristica fondamentale comune. Essa sarebbe caratterizzata dalla
distruzione epigenetica policlonale di cellule progenitrici, mediata da geni progenitori tumorali (tumor-progenitor genes) che sono coinvolti a loro volta nei
pathways di segnale associati tanto alle cellule staminali normali come a quelle
tumorali. Mutazioni allora in cellule staminali o progenitrici darebbero origine
alle CSC che, oltre ad essere auto-rinnovanti, presentano la capacità di espandersi clonalmente. Questo darebbe ragione delle seguenti previsioni proposte
dal modello gerarchico:
a) cellule staminali che sopravvivono a lungo nei tessuti sono più esposte
ad accumulare le mutazioni iniziali che portano al cancro; questo sarebbe
plausibile se si considera che lo stato di default di questo tipo di cellule
è di quiescenza o un basso tasso proliferativo, con un ciclo cellulare che è
mediamente più lungo di quello delle altre cellule;
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7.1. LE PROSPETTIVE CELLULARI DEL CANCRO
b) le cellule figlie ereditano le mutazioni di queste cellule staminali, fornendo
un terreno più predisposto agli eventi di trasformazione finali tipici delle
neoplasie maligne;
c) i tumori presentano una gerarchia cellulare che è una caricatura della loro
controparte normale in quanto riflettono la pluripotenzialità della cellula
trasformata originaria;
d) i pathways sregolati nei tumori sono gli stessi che sono coinvolti nello
sviluppo di vari organi durante l’embriogenesi (sonic hedgehog, Notch,
PTEN, BMI-1, WNT e p53) [Boman e Wicha 2008, Lobo et al 2007].
A differenza quindi del Modello Clonale, il Modello Gerarchico del cancro (Hierarchical Model of cancer ) suppone che solo una piccola sottopopolazione di
cellule tumorali possano proliferare estensivamente e sostenere così la crescita e
la progressione del clone neoplastico. Suddette cellule sono state definite CSCs.
Figura 7.6: Hierarchical Model
“The Hierarchical Model of cancer implies that only a small subpopulation
of tumour stem cells can proliferate extensively and sustain the growth and
progression of a neoplastic clone” [Vescovi et al 2006].
In questo modello, che ha raggiunto in alcuni momenti lo status di vera e
propria teoria sulla cancerogenesi, il cancro prenderebbe quindi origine da cellule progenitrici o staminali e, di conseguenza, sarebbero coinvolti i processi di
auto-rinnovamento (cioè, capacità di produrre altre cellule staminali) e di differenziamento tipici di questo tipo di cellule [Lobo et al 2007]. Il cancro, cioè,
non insorgerebbe a causa di una mutazione in una cellula somatica, come per la
SMT, con un conseguente aumento della proliferazione, ma in poche cellule che
permangono per lungo tempo nei tessuti. Esso sarebbe quindi legato, in prima
analisi, ad una regolazione aberrante delle caratteristiche biologiche delle cellule
staminali e della loro organizzazione gerarchica. Le proprietà di queste CSCs
possono essere riassunte nella capacità di auto rinnovamento e differenziativa,
nella capacità proliferativa lungo tutta la vita dell’ospite, nella presenza in basso
numero in tessuti normali o masse tumorali e nello stato quiescente o a basso
tasso proliferativo come default. Anche il ruolo prioritario nel rinnovamento
tessutale giustificherebbe le analogie dei tumori con altri fenomeni sopra riportati come lo sviluppo embrionale e la rigenerazione dopo ferite o lesioni di vario
tipo, che troverebbero così in questo modello una loro più chiara spiegazione
[Boman e Wicha 2008].
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
93
Le evidenze empiriche che fungono da premesse per la teoria sulle CSCs
riguardano l’eterogeneità funzionale delle cellule tumorali per cui solo una piccola parte di cellule tumorali all’interno di ogni tumore è portatrice di un
potenziale tumorigenico in vivo, quando trapiantata in topi immunodeficienti
[Bruce e Van Der Gaag 1963]. Inoltre, non tutte le cellule di un tumore primario sono capaci di proliferare e formare una colonia in vitro
[Hamburger Salmon 1977] e molti tumori presentano una citoarchitettura che
ricorda quella embrionale (per esempio nei teratocarcinomi) [Clarke et al 2006].
Le analogie di questo comportamento con quello di cellule staminali normali
hanno giustificato l’utilizzo del concetto di CSC, per cui le cellule tumorali che
presentano capacità clonogenica condividerebbero con le cellule staminali normali la capacità di auto-rinnovamento, di differenziamento in varie linee cellulari,
l’espressione attiva della telomerasi, l’attivazione di pathways anti apoptotici,
un’attività di trasporto di membrana più elevata e la capacità di migrare e metastatizzare [Clarke et al 2006]. Per la CSCT sono quindi le CSC a guidare la
crescita neoplastica di un tumore. Questo darebbe anche ragione del fatto che
i chemioterapici e le radiazioni utilizzate abitualmente in terapia, agendo su
cellule in attiva proliferazione e differenziate, che costituiscono la maggior parte
della massa tumorale, non arriverebbero ad eliminare le CSCs che, per questo,
sarebbero responsabili della resistenza ai farmaci frequentemente osservata nei
tumori [Boman e Wicha 2008]. D’altra parte, che le cellule all’interno di un
tumore presentassero fenotipi apparentemente corrispondenti a diversi stadi di
sviluppo era anche un dato accertato per lo meno nei tumori epiteliali; ciò voleva dire che, anche se originariamente monoclonali, la maggior parte dei tumori
sembrava contenere una popolazione eterogenea o parzialmente differenziata di
cellule, che rispecchiava quella degli organi normali [Pierce et al 1977].
Tale osservazione, inizialmente attribuita a cambi del microambiente tumorale e alla coesistenza di subcloni genetici, creati dal progressivo accumulo di
mutazioni somatiche indipendenti, sembra invece trovare attualmente una giustificazione più soddisfacente alla visione del cancro non come una semplice
espansione clonale delle cellule trasformate, ma come tessuto con complessità tridimensionale in cui le cellule divengono funzionalmente eterogenee per
risultato di una differenziazione organogenetica [Dalerba 2007].
In quest’ottica, i tumori sembrano funzionare come organi complessi che hanno subito uno sviluppo aberrante e che agiscono come caricature dei loro tessuti
normali e sarebbero sostenuti nella crescita da una controparte patologica delle
cellule normali staminali adulte, le CSCs. Questo è coerente con il concetto
che le CSCs, come le cellule staminali normali, diano origine ad una organizzazione gerarchica di popolazioni cellulari che sono alla base dell’organogenesi
[Reya et al 2001, Pardal et al 2003].
7.2
Le prospettive sistemiche del cancro
Ci inoltriamo ora in una sezione che presenta una certa eterogeneità di modelli. Più che stare in una concatenazione sequenziale tra di loro, si presentano,
infatti, come diversi approcci metodologici che studiano il fenomeno neoplastico
all’interno di una prospettiva sistemica. Questa ne evidenzia la componente
dinamica e l’organizzazione gerarchica di alcuni elementi, mediante spiegazioni
accomunate da un approccio non-lineare al fenomeno stesso (cfr. Fig. 1.1.).
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7.2. LE PROSPETTIVE SISTEMICHE DEL CANCRO
94
L’inadeguatezza di un approccio riduzionista, molecolare, costituisce la principale premessa di tutti i modelli che verranno ora presentati. Come esposto
nel Capitolo 6, Sezione 6.2., è solo la TOFT che attualmente ha affrontato in
maniera esplicita le questioni epistemologiche che sottendono un approccio sistemico al cancro, mentre molti dei modelli riportati qui a continuazione, si
rifanno alla TOFT o cercano un’integrazione delle due teorie principali per dare
delle risposte, a livelli di complessità biologica superiore a quella dei geni, alle
questioni che la SMT non sembra riuscire ad integrare in modo coerente nei
propri modelli. Ne elenchiamo alcune:
a) Le evidenze sperimentali per cui anche meccanismi non-genetici possono
stare alla base del processo neoplastico in tutte le sue fasi e per cui il
fenotipo neoplastico risulta essere reversibile tanto in vivo come in vitro
[Bizzarri e Cucina 2007].
b) L’importanza che gioca il ruolo del contesto (micro)ambientale, tessutale o organico nell’iniziazione e progressione neoplastica. Cellule normali
infatti, collocate in un tessuto improprio, degenerano in un tumore, mentre cellule neoplastiche, inserite in un embrione o trattate con citochine
embrionali, evolvono verso la normalità [Biskind e Biskind 1944], per cui
un fenotipo normale può essere ripristinato ristabilendo un campo morfogenetico forte e normale che fornisca alle cellule segnali adeguati per
l’integrazione e coordinamento tessutale.
c) L’esistenza di networks endogeni molecolari e cellulari che presentano
un’intrinseca componente dinamica e non lineare e che reagiscono ai cambi di condizione dell’ambiente cellulare, modificando le proprie dinamiche
mediante meccanismi di regolazione e omeostasi plasmati dall’evoluzione
in centinaia di milioni di anni negli organismi multicellulari [Greaves 2001]
d) La natura stocastica dell’espressione genica e del differenziamento cellulare
[Laforge et al 2005].
e) L’eterogeneità funzionale, oltre che fenotipica, delle cellule tumorali.
Come già menzionato, infatti, a livello cellulare solo raramente sono state descritte alterazioni fenotipiche, morfologiche, immunochimiche o biochimiche comuni per le cellule tumorali, mentre nessun nuovo pathway metabolico, o specificatamente compromesso, è stato mai descritto per esse. La componente
funzionale, più che molecolare, è quindi presa di mira da questi studi e il concetto di campo (morfogenetico, funzionale, ecc.) è quello tra i più utilizzati per
individuare il livello di complessità biologica che costituisce il loro oggetto di
studio.
7.2.1
Una prospettiva genomico-centrica
La prospettiva riduzionista ha cercato di spiegare l’eterogeneità del cancro
ricostruendo una progressione lineare degli eventi che lo determinavano. Ciò nonostante, concetti come quelli di CSC e di differenziamento cellulare rimandano
continuamente alla necessità di una spiegazione, non solo genetica e molecolare,
che dia ragione delle dinamiche intrinseche che guidano il processo neoplastico.
Senza uscire da una visione cellulare del cancro, sono stati fatti pertanto dei
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
95
tentativi per analizzare, anche in termini quantitativi, il grado di eterogeneità
a livello genomico ed epigenomico all’interno di una visione del cancro che pone
l’attenzione sui meccanismi macroevolutivi coinvolti nella progressione neoplastica [Ye et al 2007]. In contrapposizione, infatti, ad altri studi precedenti, che si
erano centrati sull’analisi di geni specifici senza però monitorare l’intero sistema
genomico, questo modello suggerisce che la misurazione del livello di eterogeneità
di un genoma, considerato nella sua condizione dinamica, sia molto più adeguato nello studio del cancro e di altre patologie complesse. Ponendo l’attenzione
sul pattern di evoluzione del sistema più che sui specifici pathways compromessi
nel processo neoplastico, è possibile infatti un approccio più globale e sintetico
alla questione.
Se comparati sulla base dei livelli di eterogeneità, i pathways molecolari individuali hanno una predicibilità e penetranza limitata durante l’evoluzione stocastica del tumore dove invece dominano dinamiche genomiche riflesse dall’eterogeneità cariotipica delle cellule [Heng et al 2009]. I presupposti di questo modello
sono: (1) che la progressione tumorale è un processo evolutivo dove la riorganizzazione del sistema genomico, piuttosto che quella di un singolo pathway, costituisce la forza trainante [Heng et al 2006a, Heng et al 2006b, Heng et al 2006c];
(2) che il numero potenzialmente illimitato di alterazioni genetiche ed epigenetiche lungo l’evoluzione del cancro rende praticamente implausibile che si possa
identificare un meccanismo comune a quel livello; (3) che l’eterogeneità pertanto
è da considerare una caratteristica chiave del cancro e non un rumore di fondo da eliminare nell’approccio epistemologico ad un fenomeno complesso come
quello neoplastico.
D’altra parte, la variabilità (i rumori) sono qualcosa di estremamente comune
nei sistemi biologici. Nelle scienze fisiche classiche si è più volte cercato di
ridurli aumentando semplicemente la grandezza dei campioni (numero di parti),
ma in sistemi complessi come quelli biologici questo non risolve la questione
dell’eterogeneità, perché questa caratteristica non è semplicemente un “rumore”
di fondo legato a determinati approcci sperimentali [Heng et al 2008]. Detto
in altre parole, l’eterogeneità rappresenta una caratteristica dei sistemi biologici
conferendo loro quella complessità che è strettamente legata alla loro robustezza.
Pertanto “the true challenge is to understand the system behavior (stability or instability)” [Heng et al 2009], mediante un’adeguata comprensione del
ruolo che l’eterogeneità sistemica a livello genomico gioca nell’evoluzione del
cancro. I pattern identificati da questi autori sono definiti dal contesto genomico e ambientale [Heng et al 2009]: cambiando l’ambiente, un pattern specifico
può diventare più raro –un rumore- in quanto cessa di essere essenziale ad un
dato processo e viceversa [Hillenmeyer et al 2008]. L’eterogeneità, cioè, fornisce
una maggiore possibilità di successo al sistema di adattarsi all’ambiente e di sopravvivere. “Heterogeneity is the reason universal mutations cannot be found ”
[Heng et al 2009] e del perché la maggior parte dei pazienti presentano un panorama di mutazioni che coincidono solo in minima parte e che hanno frequenze
che non si possono considerare significative da un punto di vista epidemiologico.
“From a system point of view, significant karyotypic changes represent a ‘‘point
of no return” in system evolution, even though certain gene mutations and most
likely epigenetic changes can influence karyotypic changes” [Heng et al 2009].
La prognosi sarà quindi legata alla stabilizzazione di determinati cariotipi tra le
cellule tumorali.
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7.2. LE PROSPETTIVE SISTEMICHE DEL CANCRO
96
7.2.2
Il fenotipo neoplastico e le reti regolatrici cellulari
Questo modello può essere sintetizzato nei seguenti termini: agenti molecolari e cellulari come gli oncogeni e i geni oncosoppressori, fattori di crescita,
citochine, ecc. formano un network dinamico, non-lineare, stocastico e collettivo, che viene identificato come network endogeno molecolare-cellulare. Le
interazioni dinamiche non lineari degli agenti endogeni possono generare diversi
stati stabili (stable states) locali con funzioni biologiche più o meno evidenti.
Alcuni di questi stati tuttavia possono essere normali, mentre altri no (come
la crescita cellulare che induce un’elevata risposta immune o un elevato consumo energetico tipico delle masse neoplastiche o come l’attivazione di funzioni
particolari quando le cellule vengono sottoposte a situazioni di stress). La stocasticità a cui questi stati sono sottoposti possono produrre incidentalmente
una transizione da uno stato stabile ad un altro, per cui solo quando una data
condizione di un network endogeno non è ottimizzato per l’interesse dell’intero
organismo, quest’ultimo può essere considerato “ammalato”. Ci sono infatti alcuni stati che, seppur non ordinari, possono essere considerati “normali” in altre
condizioni organiche [Ao et al 2008].
Le proprietà di questi network possono essere compromesse geneticamente,
per esempio mediante mutazioni, o epigeneticamente, in seguito, per esempio,
ad interazioni anomale tra i tessuti o le loro parti. Ciò che comunque questo
modello sostiene è che i fattori cellulari e molecolari che intervengono in un network endogeno cellulare non possono essere prodotti dalle cellule stesse se non
per mediazione fisica o chimica che causa uno spostamento degli equilibri cellulari e di interazione tra cellula e cellula. Questo permetterebbe di riconciliare
le teorie di un’origine genetica ed epigenetica del cancro con quelle sistemiche:
l’analisi, infatti, verte sul numero di possibili stati stabili all’interno di un “functional landscape” del network endogeno. Il cancro viene allora visto come uno
stato robusto del network endogeno cellulare che non viene però ottimizzato a
beneficio dell’intero organismo.
Figura 7.7: Tre tipiche situazioni del functional landscape [Ao et al 2008]
Sono stati quindi proposti modelli matematici che studiano la trasformazione
neoplastica non considerando solo il mutamento delle cellule tumorali in sé, ma
anche delle cellule non ancora tumorali e il loro comportamento. Se infatti
il cancro è considerato uno stato robusto intrinseco del network endogeno, la
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
97
modellizzazione matematica può iniziare anche dallo stato fenotipico delle cellule
normali. Una descrizione ed interpretazione quantitativa di alcuni aspetti della
genesi tumorale e della progressione neoplastica, dove la componente stocastica
ha pure un ruolo importante, vengono presentati a supporto di questa ipotesi
[Ao 2007, Ao et al 2008].
Altri modelli sono stati elaborati sulla base dei dati provenienti dagli studi fatti sull’espressione genetica in seguito a modulazione della concentrazione di regolatori trascrizionali e del differenziamento cellulare. Essi integrano
l’espressione genica stocastica -mediante simulazioni computerizzate- con modelli che tengono conto delle analogie di queste con quelle attese per modelli
derivanti dalle teorie morfogenetiche. L’assunzione, infatti, è che meccanismi
basati sulla stocasticità nella scelta del destino cellulare possano produrre una
struttura cellulare organizzata. In questo nuovo modello però, conosciuto come
autostabilization-selection model [Laforge et al 2005] le molecole agiscono solo
come stabilizzanti di uno stato previo raggiunto stocasticamente e non come promotrici di un cambio di stato cellulare, come avviene invece nella morfogenesi.
I risultati mostrano che questo sistema è capace di produrre un’organizzazione
tessutale e che le interazioni cellulari non possono essere semplicemente basate su
una banale selezione tra varie cellule. Il coordinamento tessutale, infatti, includerebbe almeno due componenti basiche: 1) l’auto stabilizzazione fenotipica per
cui cellule differenziate stabilizzano il loro stesso fenotipo; 2) l’interdipendenza
per la proliferazione per cui cellule differenziate stimolano la proliferazione di
fenotipi diversi. La formazione tessutale, cioè, non è il risultato di una singolo
tipo di interazione cellulare ma coinvolge molteplici e complementari molecole
che esercitano vari effetti su di esse. Questo concorderebbe con le conoscenze
basiche che ci provengono dalla fisiologia cellulare. In questo modello, l’organizzazione cellulare e l’arresto della crescita derivano da un equilibrio quantitativo
tra i parametri che controllano questi due processi. Uno sbilanciamento porterebbe ad una disorganizzazione tessutale e ad una crescita invasiva come quella
che si dà nel cancro. Il cancro, pertanto, non deriverebbe solo da mutazioni nelle cellule tumorali, ma da una progressiva aggiunta di molte piccole alterazioni
dell’equilibrio tra auto-stabilizzazione e interdipendenza per la proliferazione4 .
In questo contesto, non sarebbe solo la cellula cancerogena ad essere anomala, ma l’intero organismo. La crescita tumorale, cioè, è un effetto locale
di uno sbilanciamento tra tutti i fattori coinvolti nell’organizzazione tessutale. Questo modello costituirebbe un’alternativa integrativa alla SMT in quanto
qualunque modificazione all’interno della cellula che cambi il bilanciamento tra
auto-stabilizzazione e interdipendenza cellulare potrebbe plausibilmente portare
alla disorganizzazione dell’organizzazione tessutale e del controllo delle attività
cellulari, espressione genetica inclusa. In quest’ottica, l’organizzazione tessutale deriva da un equilibrio tra le influenze derivanti sia dal genoma che dalle
interazioni cellulari. L’embriogenesi è allora l’evoluzione della prima cellula,
4 La
valenza terapeutica di questo modello per applicazioni predittive viene discussa nel se-
guente modo: se l'organizzazione tessutale non deriva da alcuni valori normali dei parametri
in gioco, ma da un rapporto che deve essere rispettato tra questi due valori per mantenere l'equilibrio, sarebbe plausibile che un cambio in uno dei suddetti parametri possa essere
controllato mediante la modica di un altro per restaurare l'equilibrio. Mentre allora la gene
theraphy restaurerebbe la variante mutata agendo sullo stesso fattore.
L'autostabilization-
selection model suggerirebbe di modicare i parametri di diusione della stessa proteina sia
inserendo altre mutazioni sia modicando il mezzo in cui diondono (proteina di membrana,
per esempio) [Laforge et al 2005] .
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7.2. LE PROSPETTIVE SISTEMICHE DEL CANCRO
98
zigote, verso questo equilibrio e il cancro invece la distruzione dell’equilibrio
stesso: l’organismo pertanto non può più essere visto solo come un semplice ecosistema cellulare in cui l’interdipendenza trofica per la proliferazione tra
cellule porti all’auto-organizzazione cellulare, in quanto la soppressione della
autostabilizzazione fenotipica impedisce l’organizzazione cellulare.
7.2.3
Attractor landscape e attrattori auto-organizzanti
Nella SMT e altre teorie affini è assunto che l’evoluzione somatica guida
il processo multi-step che produce un cancro metastatico, ma è difficile riconciliare l’inesorabile progressione verso la metastasi, virtualmente presente in
tutti carcinomi, e il cambio di fenotipo associato a questo da parte delle cellule
tumorali, caratterizzato dalla transizione epitelio-mesenchimale- con mutazioni random. Inoltre, per la loro natura irreversibile è difficile anche spiegare
come certe metastasi rimangano dormienti e possano formare legami normali
con i tessuti circostanti. La proposta è allora che un nuovo framework concettuale, basato sulle dinamiche a livello sistemico (system-level dynamics) dei
networks regolatori dei geni, possa aiutare a ricomporre queste incongruenze
[Ingber 2008, Huang e Ingber 2000]. Esso sarebbe in grado di spiegare come
cambi coerenti nel fenotipo cellulare, che sottostanno alla progressione neoplastica verso il fenotipo metastatico, possano derivare da transizioni dinamiche
(switch-like) all’interno dell’intero genome-wide gene regulatory network. Concetti come quello di gene expression state space -che manifesta le dinamiche
globali del network regolativo- e attractors vengono introdotti costituendo una
base matematica e molecolare per un “epigenetic landscape”. Una distorsione di questi paesaggi (landscape), causata da una mutazione che riarrangia le
connessioni del network regolativo, intrappola il cancro in attrattori strani.
Le implicazioni di questo nuovo framework sono:
a) Questo modello consente di unificare il determinismo genetico con un’idea
alternativa che enfatizza l’importanza di componenti non-genetiche sui
meccanismi cellulari e delle dinamiche di alterazione dei legami cellulari
nell’architettura tessutale. Ciò implica integrare ed ampliare visioni lineari
dei meccanismi e processi biologici con nuove dimensioni.
b) Lo state space tuttavia è forgiato dalle interazioni regolative che esistono
tra i vari geni o molecole per cui le dinamiche del circuito non sono arbitrarie, ma esistono constrains biologici. Esiste, cioè, una stretta relazione
tra l’architettura particolare del network e il modo in cui lo state space
è costretto e mantenuto. La specifica architettura del circuito genetico
genera una specifica sub struttura dello state space, rappresentata dalla
forma di una superficie.
c) Un tipo di struttura di state space è costituita dagli attrattori quando
si dà una convergenza di linee verso un punto che funziona da attrattore
di tutte le traiettorie che provengono da uno state space nelle vicinanze
(attractor state).
Si dice, cioè, che uno stato S funziona da attrattore quando, se spinto verso
uno stato S*, torna regolarmente verso S. Ora l’idea che i destini cellulari, o
più specificatamente, i vari tipi cellulari differenziati del corpo fossero attrattori
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
99
è coerente con una serie di evidenze biologiche che sono difficili da spiegare
mediante dinamiche lineari di causalità rappresentate dalle cascate di segnale o
dai pathways genetici. Gli attrattori codificano quindi per “programmi genetici”
che rendono conto anche della loro robustezza [Huang e Ingeber 2006].
Figura 7.8: Attractor landscape representation of cell fate
“A hypothetical “potential landscape” representing the N-dimensional state space
compressed into two dimensions (xy) for visualization purposes. Every position
in the xy plane would correspond to a network state. The vertical axis (z) represents a potential function, an “energy equivalent,” representing some distance
measure of a network state to the attractor state. Lowest points in the valleys
correspond to attractor states that represent cell fates in our model. In this
example, the apoptosis state is the deepest and broadest valley, reflecting the
fact that apoptosis often appears as a default program which is triggered by a
large variety of stimuli ” [Huang e Ingber 2000].
Può essere postulato allora che attrattori embrionali rimangano presenti nell’età adulta, seppur difficilmente accessibili da parte delle cellule dell’organismo
in questo stadio vitale. Non si può escludere, tuttavia, che possano fungere da
attrattori tumorali nei casi di sviluppo di neoplasia. L’esistenza di “cancer attractors” suggerirebbe che lo sviluppo di tumori è una questione di regolazione
dell’espressione genica e di selezione di un programma stabile, preesistente, come
è la maturazione del tipo cellulare e il suo differenziamento durante lo sviluppo
[Ingber 2000]. Il carattere epigenetico tipico delle cellule tumorali, evidenziato
da molti ricercatori, sarebbe coerente con questa ipotesi sulla base anche delle
teorie già elaborate da Waddington all’inizio del secolo scorso. Sarebbe quindi
adeguato parlare del cancro come un problema di “riprogrammazione”. Il cancro, cioè, corrisponderebbe ad attrattori preesistenti e la transizione EMT delle
cellule metastatiche può essere vista come una riattivazione di un programma
embrionale codificato da un attrattore embrionale. Il fenotipo mesenchimale
dunque dovrebbe essere considerato un diverso e coerente programma cellulare
più che la somma di effetti di geni individuali che separatamente codificano per
particolari caratteristiche di questo tipo di cellule fibroblastiche. Sono diverse, infatti, le molecole che possono indurre il fenotipo mesenchimale in cellule
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7.2. LE PROSPETTIVE SISTEMICHE DEL CANCRO
100
trasformate, suggerendo che la trasformazione maligna stessa abbia causato un
cambio nel comportamento regolatorio del network più che essere il meccanismo effettore reale. La distorsione del paesaggio (landscape) può essere quindi
indotta sia da mutazioni che dal cambiamento in altri fattori molecolari che contribuiscono allo spostamento del sistema verso un attrattore strano (tumorale)
[Huang e Ingeber 2006, Fogarty et al 2005].
Figura 7.9: Attractor landscape for a high-dimensional State Space
“Purely schematic representation of an “attractor landscape” for a highdimensional state space, and the underlying hypothetical 10-gene network and
associated expression profile. Again, each point represents a network state (expression profile). The large arrow represents an attractor state transition. Note
that states S∗(t2) and S∗(t3) are attractor states, while S(t1) is a transient,
instable state” [Huang e Ingeber 2006].
7.2.4
Dynamic Reciprocating Model
La questione che sta alla base del Dynamic Reciprocating Model (DRM) è
la domanda su quanto dell’informazione posizionale e funzionale sia codificato
dalla sequenza primaria dei geni e quanto il contesto influenzi invece l’espressione genica per costituire un organismo con una moltitudine di tessuti e funzioni.
Queste questioni, che sono centrali in molti campi della ricerca delle scienze
naturali, hanno acquisito un interesse particolare quando i progressi della biologia molecolare hanno rivelato la presenza di complessi citoscheletri intracellulari
che, oltre ad avere un ovvio ruolo nella forma della cellula e del suo movimento, sembra ricoprano anche un’importante funzione regolatrice a livello genetico
[Bissell et al 1982]. E’ stato infatti dimostrato come il microambiente influenzi
l’espressione genica in modo tale che il comportamento della cellula sia ampiamente determinato dalle interazioni con la matrice extracellulare, con le cellule
confinanti e con altri fattori causali solubili e sistemici [Nelson e Bissell 2006]5 .
5 Il
fenomeno per cui diverse, ma strettamente associate, popolazioni cellulari agiscano
le une sulle altre per generare nuovi e diversi tipi cellulari durante lo sviluppo era stato
inizialmente denominato embryonic induction [Grobstein 1955] ed è ora invece indicato con
il termine di tissue interaction . In concreto, per esempio, il mesenchima o la ECM, che è
una componente proteinica dello stroma, spesso gioca un ruolo predominante nell'orientare
il dierenziamento dell'epitelio e inuenza il processo dello sviluppo [Bissell et al 1982]. La
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
101
Ci sono due sottotipi di matrice extracellulare: l’extracellular matrix (ECM)
interstiziale o stromale e la membrana basale (Basement mebrane: BM), una
forma specializzata di ECM. La matrice interstiziale circonda le cellule in tessuto
connettivo, mentre la BM è presente sulla superficie basolaterale di diversi tipi di
cellule in molti tessuti. La BM è composta principalmente da laminine, collagene di tipo IV e proteoglicani come le eparine solfate che sono depositate da molti
tipi di cellule diverse [Kalluri 2003]. Le cellule epiteliali basali sono strettamente
aderenti alla BM, per esempio nelle ghiandole mammarie, ed essa non solo fornisce un supporto meccanico e separa le cellule epiteliali dallo stroma, ma determina anche la polarità cellulare, la proliferazione, il differenziamento e l’espressione
genica delle singole cellule [Hagios et al 1998, Liu et al 2004, Bissell et al 2005].
L’integrità pertanto dell’ECM, per le dinamiche reciproche con il nucleo che
presenta, è necessaria per stabilizzare la normale architettura tessutale e funzionale [Xu et al 2009a]. Ipotizzando, infatti, che questa reciprocità dinamica
sia coordinata da un asse di segnali che sono canalizzati attraverso il citoscheletro [Bissell et al 1982], l’ECM è costantemente influenzata da agenti fisiologici
come fattori di crescita, citochine e ormoni, cambiando così nell’arco dello sviluppo di un organismo, nella fase di invecchiamento o in seguito a fenomeni
di riparazione tessutale o di progressione tumorale [Spencer et al 2007]. Questi
cambi danno origine ad una serie di segnali meccanici e biochimici all’interno
delle cellule che, in ultima analisi, modificano il programma dell’espressione genica e influenzano i processi cellulari come l’attivazione di fattori di trascrizione
per la sopravvivenza, l’apoptosi, attraverso l’attivazione di elementi di risposta
della ECM (ECM-Response Elements:ECM-RE). Inoltre, l’attivazione indotta
dall’ECM di questi elementi coinvolge meccanismi che implicano un cambio nella struttura cromatinica [Spencer et al 2007]. Il DRM postula cioè che esista
una reciprocità dinamica (dynamic reciprocity 6 ) di inter-relazione tra la matrice extracellulare da una parte e il citoscheletro e la matrice nucleare dall’altra.
La stabilità pertanto dei diversi stati cellulari differenziati dipendono non tanto
dalla cellula, ma dalla cellula più la sua ECM (che può essere originata o no
dalla cellula stessa).
Il modello che può essere descritto come “the minimum required unit for expression of tissue-specific functions” costituisce l’estensione di altri modelli già
esistenti per l’interazione tra membrana-citoscheletro [Bissell et al 1982]. Esso
enfatizza però l’aspetto più tipico di questi modelli, non facile da rendere graficamente, ma più efficace nel descrivere la natura di queste interazioni, cioè la componente di reciprocità dinamica tra le cellule e la loro matrice, che evolve continuamente durante vari tipi di processi biologici. L’ECM agisce sulle cellule che
rispondono mediante processi sintetici e degradativi, causando un cambio nella
composizione e la struttura della ECM che a sua volta influenza la cellula e così
via. Lo schema non implica l’esistenza di un link diretto tra la ECM e il nucleo.
Controlli trascrizionali possono cioè essere o meno influenzati dall’interazione
cellula-matrice. Ciò nonostante, sicuramente la ECM sembra influenzare la
capacità inoltre di esprimere funzioni tessuto-speciche è dipendente dalla natura e integrità
del contesto che funge da substrato, oltre che dal contesto extra-cellulare.
Per questo, i
microambienti tessutali, che vengono deniti dalla Bissell come i segnali biochimici e biosici
che una cellula riceve dalla ECM dalle cellule vicine, dal sistema immunitario e da fattori
solubili (fattori di crescita, ormoni e citochine), giocano un ruolo importante nella regolazione
della struttura tessutale e nelle sue funzioni [Xu et al 2009a]
6 Il
termine fu usato originariamente da Bornstein [Bissell et al 1982]
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102
7.2. LE PROSPETTIVE SISTEMICHE DEL CANCRO
macchina traduzionale e post-traduzionale che, invece, può influenzare gli eventi di trascrizione mediante feedback loops. È sempre più chiaro, infatti, come la
regolazione traduzionale giochi un ruolo importante tanto nei processi di sviluppo come nel mantenimento delle funzioni tessuto-specifiche [Bissell et al 1982].
Il modello è stato successivamente ampliato per presentare una visione integrata
dello sviluppo, del cancro e dell’invecchiamento e per affermare che i geni sono
solo come “the keys on a piano: although they are essential, it is the context
that makes the music” [Sonnenschein e Soto 1999, Nelson e Bissell 2006]. L’architettura tessutale cioè è critica per l’omeostasi cellulare e le funzioni tessuto
specifiche. Il coinvolgimento dei recettori della ECM nell’induzione della cascata
di segnali di natura sia fisica che chimica, che si trasmettono dalla membrana
cellulare al nucleo, è accompagnata da cambi nella morfologia e architettura
cellulare e tessutale. Queste alterazioni coinvolgono una riorganizzazione drammatica tanto del citoscheletro che delle strutture cromatiniche, portando a cambi
nell’architettura cellulare e tessutale e nell’espressione genica che a sua volta influenza il microambiente. Questo dialogo dinamico e reciproco tra le cellule e il
loro microambiente agisce come un circuito che include un’asse di trasmissione
di segnali che si propaga ed è regolato dal citoscheletro [Xu et al 2009a].
Figura 7.10: Dynamic Reciprocating Model
“(a) The original model of dynamic reciprocity, or the minimum required unit
for tissue-specific functions. N, nucleus; MT, microtubules; IF, intermediate
filaments; MF, microfilaments; C, collagen. Reprinted from Bissell et al. (1982)
with permission from Elsevier. (b) A more complete view of dynamic reciprocity”
[Nelson e Bissell 2006].
Il cancro si dà allora quando la dinamica e l’interazione reciproca, mediate
dal citoscheletro, dell’architettura e funzionalità tessutale vengono compromesse
e danneggiate per un periodo esteso di tempo. Il deposito dei componeti della
ECM e l’espressione degli enzimi che rimodellano la ECM sono, infatti, soggetti ad una stretta regolazione spazio-temporale, riflettendo l’importanza del
controllo del microambiente (finely-tuned ECM microenvironment) nella stabi-
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
103
lizzazione dell’architettura necessaria per l’espletamento delle funzioni specifiche
di un tessuto. Gli enzimi, per esempio, deputati al rimodellamento della ECM
come le MMPs, sono capaci di modulare l’architettura tessutale in un normale processo di organogenesi, ma è anche stato dimostrato come un’espressione forzata di questi enzimi distrugga il microambiente tessutale portando alla
tumorigenesi in vivo [Radisky et al 2005, Sternlicht et al 1999, Ha et al 2001,
McCawley et al 2008]. L’alterazione quindi del delicato equilibrio tra la ECM
e l’omeostasi cellulare, distruggendo l’architettura tessutale, è sufficiente, su un
lungo periodo, non solo a comprometterne la funzione, ma ad indurre tumorigenesi. Si può assumere che il citoscheletro sia pertanto fondamentale nella regolazione dell’omeostasi cellulare e della ECM, sebbene rimanga ancora molto lavoro
da fare per definire i meccanismi coinvolti [Xu et al 2009a]. Ciò nonostante, ci
sono dati sperimentali che dimostrano come, in colture 3D lrECM (laminin-rich
extracellular matrix ), l’espressione dei recettori di membrana, situati prevalentemente nelle aree deputate alla giunzioni cellula–cellula, si abbassi drammaticamente in cellule non maligne, mentre rimanga inalterati nelle cellule tumorali
maligne. Pertanto, il modo con cui una cellula non maligna comunica con il suo
contesto in 3D, tanto a livello di superficie cellulare come a livello di nucleo,
differisce da quella di una cellula maligna. La possibilità di convertire il fenotipo maligno mediante induzione di questi recettori di membrana e delle proteine
segnale mostra che l’acquisizione di un fenotipo maligno è accompagnato da
cambi nell’architettura tessutale e da cambi reversibili nell’espressione proteica che permette ad una cellula trasformata di aggirare gli eventi strettamente
gerarchici inerenti al normale processo differenziativo [Spencer et al 2007].
7.3
Le ipotesi evolutive del cancro
Occorre ora dare spazio ad una sezione in cui analizzare come i diversi modelli interpretativi del cancro si rifacciano a leggi biologiche esterne a quelle
prettamente molecolari per dar conto di alcuni aspetti del processo neoplastico.
Esempi sono la componente dinamica che lo caratterizza, la sua dipendenza da
fattori temporali e la comparsa di nuove attività funzionali nelle cellule tumorali. È stato anche detto che le moderne tecniche di biologia molecolare hanno
progressivamente fatto luce sulle basi molecolari e cellulari di molte fasi della
carcinogenesi che avvengono prima dello sviluppo delle lesioni invasive e metastatiche e che tali conoscenze dovrebbero consentirci di intervenire per arrestare
o convertire lo sviluppo successivo delle suddette lesioni terminali, ma che, per
far questo, è necessario passare da una visione del cancro come evento ad una
visione della carcinogenesi come un fenomeno, fondamentalmente evolutivo, di
un processo cellulare differenziativo aberrante [Sporn 1991]. Il cambio auspicato verte pertanto su tre punti che per ora enunciamo, ma che riprenderemo
nelle Parti III e IV, nella discussione dei presupposti filosofici dei diversi modelli
interpretativi del cancro: (1) se il cancro sia da considerare un evento o un processo evolutivo; (2) che cosa significhi attribuire a determinate caratteristiche
della progressione o del processo neoplastico un connotato evolutivo; e (3) quale
sia la natura del fenomeno evolutivo in questione.
Un certo livello di ridondanza dell’informazione, rispetto ai capitoli successivi, sarà anche qui ammessa per completezza e unitarietà espositiva di ogni
sezione: alcuni elementi, infatti, verranno ripresi, spesso mantenendo la stessa
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104
7.3. LE IPOTESI EVOLUTIVE DEL CANCRO
formulazione, per facilitare la lettura ed evitare i numerosi riferimenti altrimenti necessari a questi primi capitoli. Il contesto, però, sarà ovviamente diverso
come pure il valore di queste argomentazioni esplicative, una volta che verranno
analizzate da prospettive diverse.
7.3.1
Il cancro come fenomeno evolutivo somatico
“The development of cancer is an evolutionary process that is driven by multiple genetic and epigenetic changes”. Così esordisce l’editoriale di un numero di
Nature Collection sul cancro del Marzo 2009. Di fatto, un modello evolutivo somatico del cancro, che prevede lo sviluppo della patologia mediante l’accumulo
progressivo di mutazioni in ONGs e TSGs e la selezione progressiva delle cellule
più maligne, è stato assunto come default dalla maggior parte delle teorie e dei
modelli cellulari del cancro.
Nella sua formulazione più semplice, questa ipotesi evolutiva del cancro afferma che ogni mutazione porterebbe a una overcrescita selettiva di una popolazione monoclonale di cellule tumorali e che ogni proprietà significativa tumorale
(invasività, metastasi, resistenza ai farmaci, ecc.) sia riconducibile a questo tipo
di mutazioni. Cambi epigenetici, in questa prospettiva, sono da considerare un
surrogato delle suddette mutazioni o alterazioni geniche. L’iniziazione pertanto
del tumore consiste nella mutazione di un ONG o TSG a cui segue l’espansione
di un tumore benigno; ulteriori mutazioni portano al tumore primitivo, quindi all’espansione dello stesso, attraverso la perdita dell’integrità genomica delle
cellule, e alla trasformazione del tumore benigno a maligno.
Il modello stocastico aggiunge a questa prospettiva l’elemento per cui i vari
sottocloni che si vengono a formare da questo primo processo selettivo avrebbero caratteristiche peculiari, acquisendo resistenza ai farmaci o dando origine
a metastasi. Le mutazioni stocastiche cioè che si accumulano all’interno del
clone che si sta espandendo avvengono non solo a livello degli oncogeni o dei
geni oncosoppressori, ma potrebbero coinvolgere anche altri geni implicati nella
progressione neoplastica.
Il modello gerarchico completa il quadro attribuendo alle cellule staminali
tumorali la capacità di andare incontro alla proliferazione clonale e pertanto di
essere il principale target della pressione selettiva che porterebbe allo sviluppo
del cancro.
L’evoluzione somatica consiste quindi nell’accumulo di mutazioni nelle cellule del corpo (soma) durante l’arco della vita, e negli effetti di tali mutazioni sulla
sopravvivenza e riproduzione (fitness) di quelle cellule. L’idea principale è che
le cellule in una neoplasia pre-maligna e maligna evolvono mediante selezione
naturale [Nowell 1976, Merlo et al 2006] e che tale fenomeno è condiviso anche da altri processi fisiologici come quello dell’invecchiamento. Tre condizioni
necessarie e sufficienti per la selezione naturale sono state identificate:
a) Ci deve essere una variazione nella popolazione, cioè le neoplasie si presentano, di fatto, come un mosaico di diverse cellule mutate mediante cambi
sia genetici sia epigenetici che le distinguono dalle cellule normali.
b) La variazione deve essere ereditabile ossia quando una cellula tumorale
si divide, le cellule figlie ereditano le anormalità genetiche ed epigenetiche della cellula madre e possono acquisirne di nuove nel processo di
proliferazione cellulare.
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
105
Figura 7.11: Clonal selection of hierarchical organized clones
“Cancer stem cells with tumor initiating and tumor growth driving capacity give
rise to more differentiated nontumorigenic offspring. In this model selection
pressure is predicted to act on the CSC level. CSCs acquire additional genetic
alterations (here depicted by different colors) that can be beneficial for the clone
‘blue’ and ‘yellow’ or dreadful ‘red’ ” [Vermeulen et al 2008].
c) La variazione deve avere un effetto sulla sopravvivenza o sulla riproduzione nel senso che mentre molte delle anomalie genetiche ed epigenetiche
sono probabilmente neutrali rispetto all’evoluzione, molte altre hanno dimostrato di essere in grado di aumentare la proliferazione delle cellule
mutate o di diminuirne il tasso di morte apoptotica.
Muovendo anche da queste premesse, Hanahan e Weinberg suggerirono nel famoso articolo già ripetutamente citato “The hallmarks of cancer ” che il cancro
possa essere descritto mediante un numero ristretto di principi funzionali, nonostante la complessità della patologia. La progressione tumorale procederebbe
cioè secondo un processo analogo a quello dell’evoluzione darwiniana, dove ogni
cambio genetico conferirebbe un vantaggio selettivo per la crescita alle cellule
[Hanahan e Weinberg 2000] e dove l’instabilità genetica, caratteristica comune
a molti tumori, costituirebbe una “enabling characteristic” che facilita l’acquisizione di ulteriori mutazioni in seguito ai danni che la cellula avrebbe previamente
subito nel sistema di riparazione del DNA.
Le sei caratteristiche funzionali attribuite al cancro, acquisite lungo questo processo, sono state già descritte nel Capitolo 4, ma le riprendiamo qui
più estesamente per gli elementi che ci forniscono in vista della discussione
successiva.
• La prima caratteristica del cancro riguarda la "self-sufficiency in growth
signal s": essa si riferisce all’osservazione che le cellule tumorali producono
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7.3. LE IPOTESI EVOLUTIVE DEL CANCRO
106
molti fattori di crescita propri, arrivando a non dipendere più dai segnali
di crescita che provengono dal microambiente cellulare.
• Le cellule normali sono mantenute in uno stato di quiescenza da segnali
inibitori della crescita che le cellule tumorali imparano a aggirare mediante
cambi genetici che conferiscono "insensitivity to antigrowth signals".
• Un cellula normale avvia il programma di morte cellulare apoptotico in
risposta a segnali come un danno irreversibile al DNA, overespressione
di ONGs o insufficienza di fattori di crescita, mentre le cellule tumorali
imparano a "evade apoptosis", portando all’accumulo di cellule alterate.
• La maggior parte delle cellule dei mammiferi proliferano generalmente
per un numero limitato di volte a causa dell’accorciamento progressivo
dei telomeri; virtualmente tutte le cellule maligne presentano invece la
capacità di mantenere i loro telomeri, acquisendo un "limitless replicative
potential ".
• Dato che le cellule non possono sopravvivere ad una distanza superiore ai
100 μm da vasi sanguigni, le cellule tumorali devono provvedere alla formazione degli stessi per sostenere la propria crescita mediante un processo
di "sustained angiogenesis".
• Infine, durante lo sviluppo della maggior parte dei tumori, le cellule tumorali primarie acquisiscono la capacità di andare incontro a "invasion and
metastasis", per cui possono muoversi all’interno dei tessuti circostanti a
quelli di origine e a distanza, dando origine a tumori secondari all’interno
di organi anche lontani da quello di provenienza.
I pathways che le cellule intraprendono per arrivare al fenotipo maligno sono
tuttavia variabili e l’ordine con cui le “hallmarks of cancer ” possono apparire
cambia ugualmente da tumore a tumore per cui gli eventi precoci della tumorigenesi sono difficili da misurare e individuare clinicamente, ma, nell’ipotesi
dell’evoluzione somatica del cancro, questi possono essere simulati in accordo
con altri principi biologici come quelli evolutivi [Spencer et al 2006]. A supporto della validità di questa prospettiva, sono stati presentati vari dati per cui
tumori macroscopici possono essere descritti in termini di cambi genetici comuni. Pertanto, le cellule della neoplasia competerebbero per le risorse, come
l’ossigeno e il glucosio, e per lo spazio a disposizione. Per cui una cellula che
acquisisce una mutazione che ne aumenta la fitness genererà più cellule figlie che
le altre che si trovano in competizione con lei. In questo modo, la popolazione
derivante dalla cellula mutata forma un clone che si espanderebbe, costituendo
così la caratteristica (signature) della selezione naturale del cancro.
7.3.2
Il
cancro
come
macro-evolutivo
un
fenomeno
stocastico
È stato detto che nell’ottica dell’ipotesi evolutiva somatica del cancro appena presentata, il fenomeno neoplastico costituisce un esempio di quello che i
biologi dell’evoluzione chiamano “multilevel selection”: a livello dell’organismo,
il cancro è abitualmente letale per cui c’è una selezione dei geni e dell’organizzazione tessutale che sopprime il cancro [Pepper et al 2007, Cairns 1975].; a
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
107
Figura 7.12: Acquired Capabilities of Cancer
“We suggest that most if not all cancers have acquired the same set of functional capabilities during their development, albeit various mechanistic strategies”
[Hanahan e Weinberg 2000].
livello cellulare, invece, c’è una selezione per quelle cellule che maturano una
maggiore capacità proliferativa e di sopravvivenza, per cui una cellula mutata
che acquisisce tutte e sei le “hallmarks of cancer ” sarà più competitiva sulle altre
che (ancora) non le hanno acquisite.
Tuttavia c’è chi, sempre da una prospettiva cellulare, critica questa posizione. Dalla punto di vista della prospettiva genomica descritta nel Capitolo 6,
Sottosezione 6.2.1., per esempio, l’eterogeneità non è l’effetto del cancro, ma la
sua premessa. Questa sarebbe la ragione per cui, secondo quegli autori i principi scoperti, usando sistemi sperimentali semplici ed omogenei, non si possono
utilizzare nel mondo reale dove l’eterogeneità non è l’eccezione, ma la regola.
La domanda allora diventa: l’evoluzione del cancro è uno sviluppo progressivo
(stepwise development) o un fenomeno di evoluzione stocastica macroevolutiva?
Come si può dedurre dai diversi cariotipi e profili di mutazioni genetiche, ogni
tumore sembra rappresentare un esempio indipendente di evoluzione somatica
che non segue un pattern di step riproducibili, cosa che invece si da nel normale
processo fisiologico. Nel cancro una elevatissima eterogeneità di mutazioni e di
pattern di alterazioni genomiche sono stati descritti [Heng et al 2009]: “Examples include the fact that most of the karyotypes of solid tumors are drastically
altered compared with the normal human karyotype; there is a significant correlation between karyotype heterogeneity and poor prognosis; and the recent finding
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108
7.3. LE IPOTESI EVOLUTIVE DEL CANCRO
that some regions of the genome are conserved by organismal evolution but altered in cancers. In addition, there are many sub-types of the same cancer, and
it is possible that the same tumor can evolve from multiple cell lineages. It has
been proven that even a single cell can generate cells with drastically different
karyotypes as this stochastic process generates heterogeneity.”
Da questo si evince che gli eventi stocastici cui si fa riferimento qui non sono
completamente random, ma piuttosto meno predicibili per le differenze nelle
condizioni iniziali che si deducono dalle alterazioni genetiche ed epigenetiche
riscontrate a diversi livelli dell’organizzazione genomica. Pertanto, come nella
macroevoluzione, la progressione tumorale è da considerare fondamentalmente
diversa da un processo di sviluppo (developmental process). Quest’ultimo, infatti, si riferisce a un processo ben controllato di auto-organizzazione, in termini
sia spaziali che temporali, dove molti geni giocano un ruolo chiave nel mantenimento della corretta sequenza degli eventi. Nell’evoluzione del cancro invece,
sebbene alcuni casi possano presentare tratti tipici di un processo di sviluppo,
nella maggior parte dei casi le alterazioni dominanti sono “genome mediated
stochastic system replacement, which does not follow a well controlled pattern”
[Heng et al 2009, Heng et al 2006a].
Per questi autori quindi, il termine di ‘‘cancer development” implica un concetto errato. Se si accetta invece che la progressione tumorale sia caratterizzata
da un fenomeno macroevolutivo mediato dal genoma (piuttosto che microevolutivo o processo di sviluppo), anche le strategie di ricerca devono essere cambiate:
“Heavily influenced by reductionism’s view, most of the molecular analyses of
cancer have been focused on a molecule of interest, without considering the overall status of the genome system. It has been generally assumed that during molecular manipulation or specific targeting that the bio-system remains the same.
This assumption has been pushed to the extreme where genome level information
has become largely ignored by most of the molecular analyses. The fact is, however, when the overall karyotype changes, the role of the same gene may also be
altered, as the function of genes are dependent on their genetic network, which
is defined by the genome context” [Heng et al 2009, Heng et al 2006b]. “This
is truer of cancer research, as the systems continually change during progression and is illustrated by significantly altered karyotypes as well as expression
patterns” [Klein 2002, Ye et al 2007, Heng et al 2008].
In sintesi, nonostante le difficoltà per stabilire una relazione causale tra meccanismi molecolari individuali all’interno di sistemi complessi biologici, sembra
relativamente facile, per questi autori, stabilire una relazione causale tra l’eterogeneità sistemica e l’evoluzione del cancro, in quanto l’eterogeneità viene
considerata come pre-condizione necessaria per la realizzazione della evoluzione
del cancro. Questi autori, cioè, hanno definito la progressione tumorale come un
fenomeno macroevolutivo in quanto ritengono che la forza motrice del fenomeno
stesso sia costituita dall’eterogeneità cariotipica, anche se il processo è associato
ad un numero ampio di mutazioni genetiche ed epigenetiche apparentemente
random. Solo all’interno di stadi relativamente stabili, infatti, non si danno
cambi cariotipici e le mutazioni geniche come anche la regolazione epigenetica
giocano un ruolo dominante, simile a quello che avviene nella fase adattativa dei
fenomeni micro-evolutivi. Tuttavia, non sembra essere questo il caso del cancro
in cui un’instabilità generale sembra essere invece la caratteristica dominante.
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
109
7.3.3
A systemic evolutionary perspective of cancerogenesis
Facciamo ora un passo indietro per introdurre le seguenti prospettive. I
modelli cellulari del cancro sembrano essere coerenti con l’ipotesi che il cancro
origini da un processo evolutivo somatico che consiste nella capacità delle cellule
mutate di sfuggire ai limiti normalmente imposti alle stesse, per andare verso
un’espansione clonale indipendente. La soppressione, tuttavia, di cellule che
presentano un comportamento autonomo di questo tipo sembra essere un imperativo evolutivo di tutti i metazoi, specialmente in quelli che vivono per lungo
tempo e in cui le cellule pertanto permangono nei tessuti rigenerativi a lungo,
presentando una maggiore suscettibilità all’accumulo di mutazioni legate a vari
fattori. Vari tipi di meccanismi sono stati infatti sviluppati per rimuovere le cellule che hanno subito un processo di divisione cellulare anomalo; alcuni di questi
sono intra-cellulari come quelli deputati al controllo della progressione del ciclo
cellulare, mentre altri sono costituiti da segnali intra-cellulari che costringono la
cellula a rimanere all’interno del microambiente che la supporta. Assieme questi
meccanismi tumore-soppressori sono estremamente efficaci, per cui il cancro insorge meno di una volta nella vita, nonostante i trilioni di cellule potenzialmente
tumorigeniche, ognuna portatrice di centinaia di geni teoricamente responsabili
del cancro e tutte soggette a un tasso significativo di mutazioni. Inoltre, ancora più rilevante è il fatto che il nostro sistema di difesa antitumorale può
discriminare le cellule neoplastiche (in crescita anomala) da quelle normali e
può efficacemente mantenere sotto controllo le prime senza sopprimere le seconde. Approfondimenti sui meccanismi che controllano la progressione neoplastica
sono stati permessi, inoltre, dalla scoperta che molti, se non tutti, i networks
che guidano la proliferazione cellulare sono intrinsecamente muniti di propietà soppressive per la crescita. Tali funzioni inibitrici eliminano ogni vantaggio
immediato selettivo che mutazioni in questi pathways possono altrimenti conferire alle cellule. Dato che nessun pathways in particolare conferisce un netto
vantaggio selettivo in questo senso, ogni cellula pro-cancerogena che acquisisce
una singola mutazione su un ONG è di fatto intrappolata all’interno di cul-desac evolutivo. Al contrario nelle cellule normali, cause coordinate extracellulari
attivano una molteplicità di pathways in contemporanea. In questo modo, l’intrinseca attività soppressiva per la crescita di ogni pathways è controllata da un
altro, regolando in questo modo il potenziale proliferativo delle cellule.
La natura dell’accoppiamento dei programmi inibitori della crescita a di
quelli proliferativi nonché le sue implicazioni nella comprensione dell’evoluzione
e del trattamento del cancro stanno alla base delle interpretazioni evolutive del
cancro riportate a continuazione. Esse, infatti, muovono da una prospettiva
chiaramente sistemica in cui l’intera storia dell’organismo è tenuta in conto con
i suoi meccanismi morfogenetici. Particolarmente efficace ci sembra l’illustrazione, che riportiamo di seguito, dell’“autostabilization-selection model ” presentato da Laforge [Laforge et al 2005] in cui l’interdipendenza sistemica delle varie
componenti è schematicamente illustrata.
Questo modello fa luce anche sull’interpretazione della progressione metastatica presentata dai modelli di altri autori e raccolti nella Sottosezione 6.2.3, degli
attractor landscapes. La natura auto-organizzativa dei programmi di espressione
genica esposti analizza, infatti, anche le mutazioni somatiche tumorali da una
nuova prospettiva in quanto l’ontogenesi fornirebbe all’oncogenesi un punto di
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110
7.3. LE IPOTESI EVOLUTIVE DEL CANCRO
Figura 7.13: Genesis of the autostabilization-selection model
“(A) Instructive (or determinist) model of cell differentiation. (B) Selective (or
Darwinian) model of cell differentiation. According to whether the random event
a or b occurs, the cell differentiates into type A or B. (C) Autostabilizationselection model of cell differentiation. Cell differentiation and tissue organization result from stochastic gene expression, interdependence for proliferation
and autostabilization of cell phenotypes” [Laforge et al 2005].
partenza [Ingber 2008, Huang e Ingeber 2006]. Il fenotipo maligno non sarebbe
cioè una completa reinvenzione cellulare, ma costituirebbe lo spostamento verso
stati preesistenti nella cellula. Uno switch reversibile allora è ammissibile, e
diventa plausibile nel modello degli attrattori, in quanto il fenotipo metastatico può ritornare a quello normale: infatti, una delle proprietà fondamentali
dell’attractor landscape è la multi-stabilità, l’abilità cioè del sistema a tornare
indietro o ad andare avanti, tra specifici e stabili fenotipi, in risposta ad una
gamma di perturbazioni non-specifiche, incluso il “rumore” genico.
Mutazioni specifiche che compromettono la stabilità genica lasciano tuttavia aperta anche la possibilità che la selezione darwiniana possa avere un ruolo
nella trasformazione neoplastica. Mentre, infatti, attrattori preesistenti spiegano la facilità con cui mutazioni random possono produrre rapidamente l’ampia
gamma di caratteristiche embrionali, la selezione darwiniana, tanto a livello di
attrattori come di singoli geni, può costituire un elemento ugualmente importante nella progressione, modulando la proliferazione cellulare e ottimizzando la
sopravvivenza. L’aumento del numero cellulare è infatti un fattore fondamentale perché una mutazione si stabilizzi e diventi realmente vantaggiosa entro una
popolazione di individui, fenomeno che viene definito abitualmente come clonal
interference [Aranda 2002a]. L’evoluzione somatica quindi è da vedere come una
co-evoluzione tra le cellule e il loro microambiente dove sono meccanismi non-cell
autonomous a dominare e sono mediati dalla relazione cellula-cellula più che da
quella gene-gene. Anche fattori che inducono un cambio nella forma geometrica
delle cellule sono coinvolti nel cambio del destino cellulare, influenzandone l’evoluzione verso l’apoptosi, la quiescenza, la proliferazione o il differenziamento.
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CAPITOLO 7. L’EVOLUZIONE DEI MODELLI INTERPRETATIVI DEL
CANCRO
111
La prospettiva dell’attractor landscape, pur rimanendo una metafora, ha, tra
gli altri, il vantaggio di enfatizzare il contributo non-genetico della formazione
tumorale e del fenotipo metastatico, interpretando il tumore come un problema di interazioni epitelio-mesenchimali patologiche e quindi proveniente da una
rottura delle regole fondamentali che governano l’organizzazione tessutale.
7.3.4
Il cancro come un processo non adattativo
La premessa di questa ipotesi evolutiva del cancro è che gli organismi viventi complessi possiedano qualità che non possono essere ridotte a una semplice
somma di quantità. Tra queste qualità ci sono una forma specifica e una organizzazione specifica. La riflessione sugli aspetti morfologici è un primo esempio
di un approccio qualitativo a questioni biologiche e una prospettiva morfogenetica di questo tipo si è sviluppata ampiamente, teoricamente e sperimentalmente
il secolo scorso, sebbene tali tentativi siano rimasti al margine per il prevalere
della biologia molecolare. Ciò nondimeno, la prospettiva morfogenetica può essere applicata alla comprensione di fenomeni biologici complessi, come il cancro
[Aranda 2002a]. La proposta quindi è che i tumori sporadici reali, cioè fisiologici
e non-sperimentali, possano essere compresi come un conflitto tra una morfologia organizzata (organismo) e una parte di questa morfologia che vira verso uno
stato amorfo (tumore). I tumori infantili possono essere allora considerati come
il risultato della distruzione dei vincoli di sviluppo (constrains) prima che l’organismo abbia raggiunto la sua maturità morfologica; mentre i tumori in persone
anziane potrebbero sorgere come risultato di un indebolimento o esaurimento
dei legami di sviluppo che determinano la stabilità morfologica dell’organismo,
una volta che l’organismo ha superato l’età riproduttiva [Aranda 2002b].
I tumori maligni presentano due caratteristiche principali: anormalità cellulari e capacità invasiva dei tessuti circostanti e rappresentano entità dinamiche
che si manifestano mediante l’acquisizione graduale di nuovi caratteri nella progressione tumorale. Per Aranda-Anzaldo una caratteristica tipica dei tumori è
quella di aumentare la loro capacità invasiva: di andare cioè di male in peggio.
L’eterogeneità cellulare nei tumori sarebbe quindi conseguenza della progressione tumorale, mentre la metastasi è da considerarsi un processo inefficiente:
molte delle cellule rilasciate in circolazione da un tumore primario infatti non
danno metastasi distali. Non ci sono cioè specifici campi morfogenetici associati
al cancro e la morfogenesi del cancro è da considerarsi quindi aberrante. Questo
spiegherebbe la mancanza di organizzazione architettonica all’interno dei tumori
in termini di cellule, vasi sanguigni, ecc. Ritornando alla visione dell’organismo
accennata all’inizio, una delle qualità che contraddistingue gli organismi viventi
è che non possono essere ridotti alle loro parti, che esiste cioè una forma ed una
organizzazione specifica in ogni organismo e la caratteristica più evidente delle
cellule cancerose sarebbe precisamente quella di non rispettare né la morfologia
né l’organizzazione dell’ospite. “Cancer is no more a disease of cells than a traffic jam is a disease of cars. A lifetime study of the internal combustion engine
would not help anyone to understand our traffic problems” [Smithers 1962].
La posizione di Aranda è che il cancro diviene un fenomeno più intellegibile
se compreso come un fenomeno che deriva da una rottura del piano morfologico
(Gestalt) dell’organismo. Un organismo così identificato, in termini aristotelici, è caratterizzato da una specifica morphé o logos (forma) e dall’avere un
telos (fine) da realizzare. Un tumore maligno rappresenta un’entità separata
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112
7.3. LE IPOTESI EVOLUTIVE DEL CANCRO
da entrambi, la forma e il fine organico. La Semiofisica –un insieme di fisica
aristotelica e della Teoria delle Catastrofi sviluppata da René Thom- postula
che l’organismo è una forma originaria individuata da una attesa dominante che
corrisponde ai suoi campi morfogenetici. Il cancro sarebbe pertanto il risultato della perdita di coerenza morfologica all’interno dell’organismo. Da questa
prospettiva, infatti, il cancro –come ogni forma di trasformazione nell’organizzazione cellulare- può essere visto come il risultato di un conflitto tra una
morfologia organizzata e l’emergenza di un nuovo, imprevedibile, teleion verso
cui il sistema biologico scivola, portando a un nuovo e aberrante stato amorfo
[Aranda e Dent 2007, Aranda 2002a].
Il cancro come problema di proliferazione cellulare e disseminazione incontrollata diventa quindi un problema che si spiega in termini di un “formeless
phenomenon”. Fenomenologicamente parlando, un cancro è allora “senza senso”
perché non può sopravvivere come entità separata con una morfologia definita;
per questo è diverso anche da un parassita che può sopravvivere al decesso del
suo ospite e ha strategie proprie per penetrare in un ospite nuovo. Un tumore
maligno non ha un’alternativa potenziale che non sia quella di tornare alla sua
“normalità” se rimane come parte del tutto organizzato. In termini aristotelici, un tumore non ha essenza (ousia), manca di un potenziale morfogenetico e
non c’è un telos specifico per esso: tutte le sue potenziali trasformazioni sono
accidentali ma non naturali. Lo sviluppo tumorale allora deve essere considerato come un conflitto con il processo dei campi che stabiliscono e mantengono
l’intero piano corporeo e la sua organizzazione. Il cancro pertanto non sarebbe
una malattia, ma un problema derivante dall’esaurimento o alterazione delle
normali dinamiche dello sviluppo nei vertebrati e le metastasi sono l’evidenza
dell’atomizzazione caotica e senza forma di un tessuto biologico anormale, mentre risulta assurda l’assunzione che possano essere frutto di proprietà adattative
delle cellule tumorali stesse [Aranda 2002a]. La selezione naturale, inoltre, invocata per giustificare il successo delle cellule tumorali, non sembra reggere ad
un ragionamento che inquadra le cellule e le loro funzioni in un quadro organico. Il tumore pertanto non risponderebbe ad un processo adattativo, ma a
un lento spostamento dell’assetto genetico delle cellule tumorali in seguito all’
instabilità genetica indotta dall’età dell’ospite o da fattori ambientali e tessutali
[Aranda 2001].
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Parte III
Riduzionismo e
antiriduzionismo nelle teorie e
modelli interpretativi del
cancro
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Capitolo 8
I termini della sda per la
biologia moderna1
“Science is systematic organization of knowledge about the universe on the
basis of explanatory hypotheses which are genuinely testable. Science advances by developing gradually more comprehensive theories; that is by formulating
theories of greater generality which can account for observational statments and
hypotesis which appear as prima facie unrelated ” [Ayala 1974]. Questa affermazione appare nell’introduzione di un testo che, già alcuni decenni fa, cercò di raccogliere le questioni salienti riguardo le caratteristiche dell’approccio
sperimentale ai fenomeni biologici. Con il progredire della ricerca infatti, tali
fenomeni manifestavano sempre più un’intrinseca complessità di organizzazione
strutturale e funzionale che non si poteva ignorare.
Quando la scienza biologica sperimentale dovette cioè confrontarsi con sistemi biologici complessi come quelli viventi, la questione principalmente dibattuta
divenne quella relativa alla possibilità di spiegare i fenomeni biologici in termini
di fisica e chimica, le uniche discipline naturali che fino ad allora avevano detenuto il titolo di scienza. Si trattava di valutare la possibilità di operare una
riduzione della scienza biologica a queste altre scienze più basiche. Il riduzionismo infatti, tra gli scienziati, si presenta fondamentalmente come una strategia
di ricerca, affermatasi sulla base di una serie di scoperte scientifiche, su base
empirica, a partire dal secolo diciassettesimo. Di fatto, per molti la storia della
scienza appare come la storia di successive riduzioni coronate da successo in
termini di risultati sperimentali (cioè empiricamente verificabili e riproducibili)
[Rosenberg 2008]. A partire da Keplero e Galileo fino a Newton, che riuscì a
ridurre le scoperte dei suoi predecessori ad un unico insieme di leggi fondamentali del moto, la precisione nella predizione del movimento dei corpi si coniugò
con una spiegazione unitaria del movineto dei pianeti. I due secoli successivi
asistettero ad un ampliamento progressivo del potenziale esplicativo e predittivo
dei meccanismi newtoniani applicati ad altri fenomeni fisici fino a quando, alla
1 Gli
autori citati sono quelli che, nella letteratura scientica, da parte dei referee delle
riviste internazionali nonché nei workshops a cui ho partecipato, sono considerati punti di
riferimento per questa discussione. Non ignoriamo che molti altri hanno un ruolo importante
in essa, ma non è obiettivo dello studio presente un'analisi sistematica delle posizioni di tali
autori. Entrambe le cose sarebbero auspicabili: pertanto, speriamo con il presente lavoro di
fornire alcuni elementi di interesse per futuri sviluppi della ricerca in questo senso.
115
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fine del diciannovesimo secolo, persino il calore fu descritto come un processo
meccanico e la termodinamica fu assorbita nella prospettiva meccanicista newtoniana. Tuttavia, mentre la precisione nella misurazione in termodinamica e
in altre aree della fisica aumentava lungo il diciannovesimo secolo, l’accuratezza
predittiva della teoria newtoniana diminuiva e, all’inizio del ventesimo secolo,
iniziarono a sorgere una serie di questioni che misero in crisi l’epistemologia
della fisica. Questi problemi, concernenti i fenomeni su larga o piccolissima scala, cominciarono col mettere in evidenza la difficoltà di ricongiungere le teorie
meccaniche con quelle elettromagnetiche. Per alcuni la soluzione si trovò in un
ulteriore riduzione, questa volta a vantaggio della teoria della relatività e della
meccanica quantistica che assorbivano in sé parti della teoria elettromagnetica
e superavano i limiti della meccanica newtonana riducendola a casi speciali di
ciascuna di esse.
La storia della chimica mostrò una tendenza analoga quando, a partire dalle
tavole periodiche di Mendeleev, nuove regolarità furono individuate nella sintesi
chimica, che permisero di spiegare e predire la stessa in termini di leggi atomiche
e subatomiche con una valenza esplicativa e capacità predittiva che poi è stata
ampiamente sfruttata dalle moderne tecnologie.
Gli sviluppi accelerati della biologia molecolare, a partire dal 1953 quando fu
scoperta la doppia elica del DNA [Watson e Crick 1953a, Watson e Crick 1953b],
portarono anche la maggior parte dei biologi ad assumere la prospettiva riduzionista come riferimento epistemologico della loro attività di ricerca. Conseguentemente, negli ultimi decenni, gli scienziati hanno realizzato un lavoro ampissimo
per individuare le cause di molte malattie, come il cancro, a livello molecolare,
incoraggiati anche dal completamento del Progetto Genoma previsto e realizzato per l’anno 2000. Prima del 1953 le spiegazioni di alcuni processi biologici,
specialmente in fisiologia, erano mediate da teorie fisiche e chimiche, ma molti altri fenomeni, soprattutto legati all’ereditarietà ed eziopatogenesi di alcune
malattie, facevano uso di teorie biologiche generali come quella della selezione naturale, o altre più limitate, come quella delle leggi mendeliane sull’eredità
genetica determinata dai fenomeni di segregazione a assortimento dei geni. Tuttavia, leggi intese in termini di enunciati formalizzabili in termini quantitatvi e
strutturati mediante una logica deduttiva erano praticamente assenti in biologia. Prima del 1953, cioè, mancavano nella biologia teorie che presentassero le
stesse caratteristiche di evidenza sperimentale, generalità esplicativa, precisione
predittiva tipiche invece delle leggi della fisica e della chimica allora disponibili.
Per molti questo era solo un problema di tempo, un problema che attendeva
di essere corretto mediante un adeguato programma di ricerca. Come accadde
nel caso delle leggi mendeliane. Praticamente subito dopo la loro scoperta incominciarono ad emergere numerose eccezioni legate ai fenomeni di crossover,
linkage, meiotic drive, ecc. L’idea fu allora che se si fosse potuto ridurre queste
leggi alle loro basi fondamenti, molecolari, sarebbero state chiarite le eccezioni
e sarebbe stato ampliato il loro ambito di applicazione potendone controllare la
predicibilità. La scoperta della struttura del DNA fece intravvedere appunto la
soluzione a questi problemi e istanze “metodologiche”. Questo è lo sforzo che sta
alla base dell’impegno della maggior parte della ricerca biomedica dell’ultimo
secolo, tra cui quella oncologica.
La strategia riduzionista, adottata dalla fisica e dalla chimica, che si fondava sullo sforzo per derivare teorie più circoscritte, puntuali, da teorie più
ampie, per ricondurre al minimo i concetti necessari all’enunciato delle spiega-
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
117
zioni scientifiche la cui valenza è determinata dalla precisione e correttezza dei
suoi encunciati in termini esplicativi e predittivi, risultò, quindi, ugualmente
appetibile a chi stava operando nell’ambito biologico, diventando un obiettivo
razionalmente fondato e giustificato anche sulla base delle premesse filosofiche
che la scienza fece proprie a partire da Cartesio. Per cui, “biological theories,
generalizations, and the explanations that employ them ultimately need to be
grounded in theories, generalizations, and explanations to be found in molecular biology and ultimately in physical science, that is chemistry and physics”
[Rosenberg 2008]2 . Dopo tutto, infatti, se i sistemi biologici (gli esseri viventi)
non sono altro che sistemi fisici, saremmo stati in grado di implementare la nostra conoscenza degli stessi, scomponendoli nelle loro parti ed esaminando come
tali parti interagivano tra di loro. L’estensione diventa la qualità fondamentale, la quantità il parametro valutativo del valore scientifico di una proprietà
naturale e la misura e condizione del potere predittivo della stessa.
La rivoluzione della genetica molecolare finì col fornire, oltre che una giustificazione epistemologica, anche gli strumenti tecnologici per realizzare questo
disegno. Secondo un’epistemologia riduzionista, dovrebbe infatti essere sempre
possibile rimpiazzare una teoria A con un’altra B più potente da un punto di
vista esplicativo, per cui si potrebbe procedere ad una riduzione interteoretica
di A a B. Come afferma Kitcher, la riduzione della genetica alla biologia molecolare sarebbe ora possibile perché sappiamo realmente “what’s really going on”
riguardo l’ereditarietà a livello molecolare [Kitcher 1999].
Il fisicalismo prese così il sopravvento3 . Dopo il sequenziamento del DNA, i
programmi di ricerca rimasero centrati sulla nozione che i geni fossero al posto
di controllo dei programmi di differenziamento, determinando la normalità o la
patologia (genetic eductionism and genetic determinism). Più o meno esplicitamente, la maggior parte dei biologi adottò la posizione ontologica per cui ciò che
realmente esiste sono le componenti molecolari che, a seconda di quanto fossero
circoscrivibili e quantificabili, sarebbero state utili per la spiegazione (causale)
dei fenomeni osservati. Le sequenze nucleotidiche che poco a poco si andavano identificando come geni (cioè unità funzionali) fornivano una buona base per
questa ricerca. L’epistemologia riduzionista che derivò da questa posizione (materialista) portò a cercare sistematicamente e in modo analitico le spiegazioni
dei fenomeni biologici al livello più basso dell’organizzazione biologica, in modo
analogo a quanto avvenne nella chimica e nella fisica, indipendentemente dal
livello di organizzazione a cui il fenomeno è osservato. Il riduzionismo genetico,
insieme alla sua controparte del determinismo genetico, spostò definitivamente
l’attenzione sulla possibilità di ricondurre le leggi mendeliane alla struttura mo2 Il
riduzionismo, come qui inteso e difeso dai loso della biologia che lo sostengono,
deve essere distinto dall'eliminativismo cioè la posizione per cui le teorie biologiche e le sue
generalizzazioni e spiegazioni debbano essere in ultima analisi superate (eliminate) a favore
delle teorie, leggi e spiegazioni siche, in quanto quelle biologiche si rivelano spesso imprecise,
soggette ad eccezioni, insostenibili empiricamente in termini assoluti, senza potere predittivo
e pertanto spesso erronee e false.
L'eliminativismo sostiene cioè che la biologia non abbia
alcun potere esplicativo intrinseco. Il dibattito contemporaneo riconosce invece un'autonomia
della biologia rispetto alle altre scienze; infatti, ormai c'è un parere concorde sul fatto che la
biologia abbia un ambito proprio sia riguardo l'oggetto di studio sia per la capacità di fornire
spiegazioni che hanno una loro validità e predittività [Mayr 2005].
3 Il termine proviene dall'inglese physicalism
e, secondo l'accezione più comune, viene deni-
to come the thesis that the basic facts about the world are all physical facts, and that the phy-
sical facts determine and/or make up all the other facts [Rosenberg 2008] o più sinteticaente
con un'altra espressione physical fact x all the facts [Kim 1993, Soto et al 2008b].
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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118
lecolare dei geni, per cui sarebbe stato possibile descrivere e spiegare qualsiasi
fenomeno biologico in termini genetici, unici depositari dell’informazione trasmissibile. Da questo punto di vista, i geni sono allora l’unica unità di selezione
[Dawkins 1976] e lo sviluppo è semplicemente la realizzazione di un programma genetico. Detto in altre parole, i geni sono le unità costituenti l’organismo
[Griffiths e Gray 2000].
Ma è a questo punto che il riduzionismo si venne a configurare, anche nell’ambito scientifico sperimentale, non solo come una strategia di ricerca, ma
come una vera e propria posizione filosofica: “Reductionism is a metaphysical
thesis, a claim about explanations, and a research program. The metaphysical
thesis the reductionist advance is physicalism, (...) (i.e.) all facts, including the
biological facts, are fixed by the physical and chemical facts; there are no nonphysical events, states, processes and so biological events, states, and processes
are “nothing but” physical ones. This methaphisical thesis is one reductionism
share with antireductionism” [Rosenberg 2007]. Sulla base della revisione della letteratura scientifica effettuata, tuttavia, sembra che alcuni antiriduzionisti
prendano le distanze da quest’ultima affermazione. I sostenitori della TOFT,
per esempio, affermano chiaramente di dissociarsi dalla posizione fisicalista, se
con essa s’intende che i fatti fisici siano determinati esclusivamente da altri fatti
fisici preesistenti. Occorre infatti confrontarsi, sostengono, con altre questioni tipicamente biologiche come quella dell’emergenza diacronica (cfr. Cap. 11.1.2.),
al fine di comprendere la differenza tra i fenomeni biologici realmente emergenti
da quelli provenienti da un’applicazione erronea del concetto di “supervenience”
nel campo, per esempio, della biologia evolutiva.
Il concetto di “supervenience” affonda le sue radici in quello di “emergenza” ed è spesso utilizzato dai filosofi per indicare la derivazione di tipi (kind )
biologici sulla base delle divergenze (disjunction) dei tipi fisici (physical kinds).
L’assunzione è che la selezione naturale delle funzioni (intese come effetti selezionati) è cieca rispetto alla struttura, implicando che praticamente tutte le
proprietà biologiche possano essere realizzate in una certa molteplicità di modi,
e che esiste un “principio di neutralità del substrato” [Dennett 1996] per cui
‘‘the power of the procedure is due to its logical structure’4 . Tale tesi sembra
4 Entrambi
le premesse sarebbero coerenti con la conclusione che ciò che fa, per esempio,
di due sequenze geniche uno stesso gene è il loro ruolo funzionale [Rosenberg 2008].
Ora,
da questo punto di vista, l'emergenza può essere accettata come una proprietà epistemica
che implica una impredicibilità a partire dai livelli più bassi nella misura in cui sia dovuta a una mereological supervenience , come sembra essere anche per Rosenberg e Kaplan
[Rosenberg e Kaplan 2005]. Per mereological supervenience cioè si intende che . . . systems
with an identical total microstructural property have all over properties in common. Equivalently, all properties of a physical system supervene on, or are determined by, its microstructural property [Kim 1999]. Le basi per l'essenzialismo e il nichilismo biologico sono così poste.
L'emergenza non può essere pertanto una proprietà ontologica, una proprietà che implica un
qualunque tipo di novità qualitativa. Questa prospettiva è inne compatibile con l'idea che
ci sia una complete microstructural description [Kim 1999] del sistema. Le proprietà macroscopiche possono essere considerate impredicibili e in un certo qual modo inspiegabili in
quanto la relazione tra una proprietà M e P non è univoca. Per la supervenienza e divergenza,
M dipende da P o un suo derivato, ma questo solo implica che, dato un determinato sistema
sico, uno dovrebbe sempre avere le stesse proprietà macroscopiche emergenti, per cui i fatti
sici determinerebbero (would x ) tutti i fatti. A thesis of the supervenience of the biolo-
gical on the physical asserts that, however inaccessible are principles connecting lower levels
to higher levels, nevertheless, the biological depends on the physical in the sense that for any
biological system there is a physical state that constitute it, and wherever we were to nd an
identical physical state we would nd an identical biological state [Duprè 2010].
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
119
però debole davanti all’evidenza che i sistemi viventi non sono sistemi chiusi, ma
aperti [Soto et al 2008b]. Il che implica che altre componenti causali debbano
essere ammesse; esse sono dipendenti dal contesto, come vedremo sosterranno
le posizioni antiriduzioniste. Infatti, nuove proprietà sistemiche emergono ad
un tempo T2 e queste possono modificare le proprietà iniziali, per cui il modo
storico con cui un sistema di eventi naturali opera, non è conseguenza della sua
descrizione e composizione: esso agisce e produce novità (di natura strutturale e qualitativa) nel mondo reale. Ciò porta alla conclusione che l’emergenza
debba avere un significato ontologico [Bunge 2004] e pertanto non è, per gli
antiriduzionisti, semplicemente una proprietà epistemica.
L’aforisma riportato da Weinberg, ma originariamente attribuito a Jacques Monod, pioniere della biologia molecolare, nel 1954, ci fornisce allora
un esempio eloquente della posizione riduzionista e di autori come Rosenberg
per cui “Anything found to be true of E.Coli must also be true of elephants”
[Weinberg 2006].
8.1
I problemi del riduzionismo in biologia
Era stato detto e più volte ripreso [Ayala 1974, Rosenberg 2008] che due sono
le condizioni necessarie e sufficienti per realizzare una riduzione di una branca
scientifica ad un’altra [Nagel 1961, Ayala 1968]:
1) da un lato la derivabilità logica (derivability), per cui si deve dimostrare
che tutte le leggi sperimentali e le teorie della prima sono conseguenza
logica dei costrutti teorici della seconda;
2) dall’altra per realizzare questa deduzione le leggi della logica richiedono
che tutti i termini tecnici usati nella scienza che deve essere ridotta all’altra
possano essere ridefiniti utilizzando i termini utilizzati in quest’ultima.
Questa condizione è definita di “connettibilità” (connectability).
La proposta di Nagel nel suo testo “La Struttura della Scienza” appena citato
costituisce una forma di spiegazione interteoretica caratterizzata da una derivazione deduttiva di leggi della teoria ridotta da quella riduttiva, ridefinendo
i termini della prima sulla base dei concetti appartenenti alla seconda. Noti esponenti del riduzionismo come Schaffner [Schaffner 1976, Schaffner 2007] e
Ruse [Ruse 1976] notarono che il compito più difficile e creativo del riduzionismo
consisteva precisamente nello stabilire queste connessioni, formulando principi
che fungessero da ponte e legassero così concetti appartenenti alle due teorie.
Soddisfare, infatti, il requisito di derivabilità logica di una teoria da un’altra
presuppone che sia già stato in qualche modo soddisfatto il requisito di connettibilità dei termini delle due teorie mediante definizioni: il lavoro difficile
pertanto è precisamente quello di lavorare mediante definizioni adeguate. Detto
in altro modo, è l’identificazione dell’oggetto che costituisce la reale sfida della
riduzione per la biologia.
A questo iniziarono a far pensare una serie di questioni che sorsero all’interno
della ricerca sperimentale, anche oncologica. Dopo che il genoma fu caratterizzato e strumenti biomolecolari nuovi furono elaborati per identificare le funzioni
genetiche ed esplorare i processi biologici coinvolti negli stati normali e patologici, molte se non tutte le patologie si rivelarono molto più complesse di quanto
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8.1. I PROBLEMI DEL RIDUZIONISMO IN BIOLOGIA
120
non si pensasse. “By identifying the genes underlying these conditions, our
study should enable scientists to understand better how disease occurs, which
people are most at risk and, in time, to produce more effective, more personalised treatments. But many of the most common diseases are very complex, part
nature and nurture, with genes interacting with our environment and lifestyle”
[Donnelly 2007]. Il dogma della biologia molecolare fallì quando si dimostrò che
un fenotipo non è completamente determinato dal suo genotipo e che i fattori
genetici non sono gli unici responsabili delle malattie ereditarie. Inoltre, l’ottimismo dei biologi molecolari fu presto temperato dalle difficoltà incontrate quando
i nuovi approcci molecolari dovettero dar ragione della complessità intrinseca dei
fenomeni biologi che si manifestava in termini di ridondanza genetica, robustezza metabolica, polivalenza funzionale di molte proteine, ecc. Di fatto, persino
all’interno dello stesso organismo, una proteina può svolgere funzioni diverse in
diversi tipi di cellule [Gilbert e Sarkar 2000] o un pathway effettore di un segnale
può indurre l’espressione di diversi prodotti genici e pertanto programmi differenziativi diversi in diverse linee cellulari [Brisken et al 2002]. Fenomeni come
quelli morfogenetici, immunitari e neoplastici costituiscono alcuni degli esempi
più documentati al riguardo. Anche l’evidenza della storicità dell’organismo
vivente (cioè la sua evoluzione e ontogenesi) poneva importanti domande sulla
possibilità/adeguatezza di una epistemologia riduzionista nello studio degli esseri viventi. Come fece notare F. Jacob “nature is not an engineer, but a tinker
– driven by evolution, a given molecule is put to different uses” [Jacob 1982].
In altre parole, the human genome, like a good teacher raises at least as many
questions as it answers [Abbs et al 2004].
Riassumiamo nei seguenti punti le questioni principali relative alla difficoltà
di una riduzione per la biologia alla fisica e alla chimica che sono emerse negli
ultimi decenni:
1) il primo ordine di difficoltà è relazionato al fatto che sembrano poche, se
non assenti, le “leggi” in biologia tanto a livello della teoria che riduce che di
quella deve essere ridotta. L’irriducibilità della genetica mendeliana alla
genetica molecolare, sulla base dei dati sopra menzionati, non consente
di attribuire alle “leggi di Mendel” le proprietà tipiche di una legge, ma
di considerarle piuttosto come generalizzazioni, descrizioni di un ampio
numero di fatti particolari, valide in un certo contesto. Storicamente, la
questione dell’autonomia della scienza biologica rispetto alle altre scienze
furono una derivazione di questo stesso problema5 . “There are no laws of
biology to be reduced to laws of molecular biology, and indeed that there
are no laws of molecular biology, can be shown by the same considerations
that explain why genes and DNA cannot satisfy reduction’s criterion of
connection” [Rosenberg 2007].
2) Il secondo ordine di questioni è relativo invece a quelle proprietà che negli
ultimi decenni hanno richiamato l’attenzione sulla natura e specificità della
5 Per
un approfondimento di questo aspetto cfr. J.J.C. Smart's Can biology be an exact
science? (1959), Kenneth Schaner's approaches to reduction (1967), Francisco Ayala's
Biology as an autonomous science (1968) Ayala and Dobzhansky, 1974, Alexander Rosenberg's The supervenience of biological concepts (1978), Philip Kitcher's 1953 and all that:
a tale of two sciences (1984), Ernst Mayr's The autonomy of biology: the position of biology among the sciences (1996), Eliot Sober's The Multiple Realizability argument against
reductionism (1999).
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
121
complessità biologica, in particolare la multiple realizability e l’emergence.
a) Per quanto riguarda la prima, come notò D. Hull [Hull 1976] , esiste
una difficoltà reale a caratterizzare le proprietà mendeliane mediante concetti tratti solo dalla biologia molecolare dato che i geni, considerati come
le unità di base dell’espressione fenotipica, delle mutazioni e della ricombinazione, non potevano essere identificati né come la più piccola unità
di mutazione né come una sequenza di DNA costituente un gene strutturale o regolatore né come la quantità minima di sequenza nucleotidica
coinvolta nella ricombinazione. Data la ridondanza del codice genetico,
molte sequenze diverse potevano codificare per lo stesso gene, per cui la
relazione tra le sequenza di DNA molecolare e i geni identificati dalle loro funzioni è di “molti-uno” e di “uno-molti” allo stesso tempo: la stessa
sequenza di DNA cioè è coinvolta in molti diversi geni e molte sequenze diverse possono svolgere la funzione di uno stesso singolo gene. La scoperta
delle sequenze e siti regolatori, introni ed esoni, modificazioni traduzionali e post-trascrizionali, promotori, operoni, open reading frame, DNA
spazzatura, trasposoni, virus a DNA, ecc. complicano ulteriormente la
questione. È difficile, infatti, definire o persino identificare, in termini di
struttura delle molecole di DNA che li compongono, sia geni qualsiasi sia
geni connessi a determinate funzioni o prodotti genici particolari . “There
is of course no trouble identifying “tokens” –particular bits of matter we
can point to- of genes with particular “tokens” of their molecular constituents. But token identities will not suffice for reduction, even if they are
enough for physicalism to be true” [Rosenberg 2007].
b) Riguardo l’emergence, per semplicità e coerenza con la terminologia
utilizzata nella letteratura scientifica sul cancro, utilizzeremo il termine
di emergenza per indicare quelle proprietà che, ad un determinato livello di complessità biologica (per esempio tessutale), non possono essere
ascritte direttamente alle loro parti ma sorgono in virtù delle interazioni
specifiche delle parti stesse [Gilbert e Sarkar 2000]. Dato che di emergentismo si parla in molti contesti (anche riduzionisti; cfr. nota a piè di
pagina n. 4), ci sembra qui necessario chiarire ulteriormente l’accezione
con cui viene utilizzato questo termine nella letteratura analizzata, dato
che “not all emergent properties, lead to organicism. The whole is greater
than the parts when these emergent properties cannot be explained solely by using properties that can directly be attributed to individuated parts”
[Gilbert e Sarkar 2000]. Sebbene, cioè, alcuni biologi siano inclini a vedere
i fenomeni emergenti come fenomeni che coinvolgono aspetti impredicibili della materia, altri affermano che tali proprietà non possono non solo
essere predette ma nenache spiegate. Mayr, per esempio, afferma ciò sottolineando che le caratteristiche di un sistema vivente “cannot be deduced
(even in theory) from the most complete knowledge of the components, new
characteristics of the whole emerge that could not have been predicted from
a knowledge of the constituents” [Mayr 1988]. L’immagine che l’autore qui
ha in mente è probabilmente quella propria della prospettiva filosofica per
cui le spiegazioni consistono in deduzioni effettuate da leggi conosciute
[Hempel 1964]. Ma se, come suggerito da altri autori, abbandoniamo questa restrizione, dato che in biologia non sembrano esistere leggi nel senso
tradizionale (fisico-chimico) del termine, e ammettiamo altre forme di spie-
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122
8.1. I PROBLEMI DEL RIDUZIONISMO IN BIOLOGIA
gazione, le proprietà sono emergenti in quanto la loro presenza non può
essere spiegata sulla base delle proprietà delle loro parti. “Note that this
is a much stronger claim than that they cannot be predicted: we can explain a lot that we could not have predicted—think of evolutionary history”
[Gilbert e Sarkar 2000]. Altre relazioni causali (esplicative) devono essere
prese in considerazione, come vedremo, per fare questo passaggio.
3) C’è infine un’ultima questione che viene messa in rilievo, quasi come banco
di prova per la possibilità e la definizione dei termini in cui una posizione
riduzionista o antiriduzionista moderna può essere filosoficamente fondata.
Essa deriva dalla considerazione che, in ultima analisi, l’individuazione di
tipologie in biologia è sempre mediata dal concetto di funzione. In termini
generali infatti, noi chiamiamo qualcosa un’ala, un gene, un becco, in base
alla sua funzione; chiamare qualcosa cioè in un modo o in un altro è
identificarlo mediante la sua funzione che è quella che sperimentiamo (nel
senso di experire, aspetto fenomenologico).
Qui la questione si complica dato che anche il dibattito sulla definizione delle
funzioni biologiche è ampissimo. Riportiamo a continuazione una classificazione
che ci sembra propedeuticamente completa rispetto alle questioni che emergeranno nei capitoli successivi e che tiene conto della letteratura più recente sul tema
[Mossio et al 2009, Longy 2005, McLauglin 2001, Marcos 2009, Gayon 2005]: i)
la posizione più condivisa, anche nell’ambito della ricerca sperimentale, è quella
che considera le funzioni biologiche come effetti naturalmente selezionati (naturally selected effects). “Etiological approaches appeal to a historical-selective
causal process, through which the existence of current functional traits is the
consequence of the selection exerted on the effects of previous occurrences of the
trait”; ii) un’altra posizione è quella sistemica o disposizionale per cui “systemic or dispositional functions do not explain the existence of the bearer; they
refer to current contributions of functional traits to some capacity of the system to which they belong”; iii) infine, un “organizational account of biological
functions” che deriva dalla tesi che “the etiological and dispositional perspectives
can be integrated into a unique conceptual framework ”. Le funzioni appaiono
qui come relazioni causali all’opera nell’organizzazione di un sistema biologico.
L’argomento principale consiste nella constatazione che “functions are inherently related to the idea of a closed and differentiated self-maintaining organization (which provides an adequate grounding for their teleological and normative
dimensions)”.
Ora mentre nella seconda e terza posizione, la questione della selezione naturale e del ruolo che essa gioca nella definizione di una funzione rimane quasi
al margine rispetto all’entità a cui tale funzione viene attribuita, nella prima
prospettiva questo aspetto è prioritario.
Essendo questa la posizione più condivisa nella letteratura scientifica, è necessario aggiungere alcune considerazioni che ci permetteranno di comprendere
alcune questioni relative all’attribuzione funzionale a parti biologiche per la spiegazione del processo neoplastico che vedremo nei prossimi capitoli. La selezione
naturale è vista, infatti, come un agente esterno che “sceglie” varianti in base ad
alcuni dei loro effetti, quelli che favoriscono la sopravvivenza e la riproduzione.
Essa però è considerata “cieca” rispetto alle differenze di quelle strutture fisiche
che hanno lo stesso effetto o simili. Se pertanto F è un tipo funzionale, non ci
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
123
sarà una sola caratteristica fisica che sarà ugualmente e necessariamente condivisa da tutti gli Fx. Questa sarà cioè una classe fisicamente eterogenea perché
i suoi componenti sono stati selezionati per i loro effetti. I criteri di connettibilità tra una caratteristica identificata funzionalmente e strutturalmente allora
non sussisteranno. Data l’eterogeneità fisica della classe Fx non ci sarà quindi
un Gx né strutturale, né funzionale che soddisfi tutti gli Fx. Con questa argomentazione Rosenberg [Rosenberg 2007, Rosenberg 2006] porta la questione ad
un punto interessante. La spiegazione evolutiva che, osserva, è sempre stata il
cavallo di battaglia dell’antiriduzionismo, in quanto sembra potersi appellare a
leggi che non sono formulate in termini di parti ed interazioni molecolari, perde la sua forza esplicativa. Sulla base infatti dell’argomentazione precedente,
neanche a questa sembra poter essere riconosciuta una valenza di legge, descrivibile mediante catene causali lineari e complete, che sia tale da giustificare
un approccio epistemologico antiriduzionista alle questioni biologiche. I biologi
funzionali, continua l’autore, forniscono un explanandum G, per un explanans
che è ordinariamente un tipo di processo (detto PS: per “paring” e “separation”),
ma che prescinde, per sua stessa natura, dall’insieme materiale di geni di cui è
composto. Dal punto di vista di Rosenberg “The problems of course stem from
the fact that neither (PS) nor (G) is a law, and therefore an account is owned
of how non-lawlike statements such as these can explain” [Rosenberg 2007]. Se
ne conclude che, per quanto riguarda l’opposizione tra riduzionismo e antiriduzionismo, nessuna delle due visioni è rilevante per la questione concernente la
relazione tra la biologia funzionale e molecolare. “If there is a real dispute here,
it cannot be about the derivability or underivability of laws in functional biology
from laws in molecular biology, as there are no laws in molecular biology, as
there are no laws in either subdiscipline. Nor can the real dispute turn on the
relationship between general theories in molecular and functional biology. So the
question is what reductionism is now ” [Rosenberg 2007].
La proposta allora che sorge vuole combinare precisamente la biologia molecolare, appannaggio dell’antico riduzionismo, con una spiegazione evolutiva
che comunque continua a sembrare necessaria per dar ragione dell’attribuzione
funzionale in biologia alle parti (riduzionismo postpositivista). Le spiegazioni
funzionali, infatti, a cui si rifanno gli antiriduzionisti, sembrano lasciare abbastanza lacune aperte per negare la loro validità e completezza (sufficienza) e
adeguatezza esplicativa. Senza entrare nel dettaglio del dibattito ampiamente
descritto negli ultimi due libri di questo autore, ci serve qui sottolineare due
aspetti dell’argomentazione. Il primo ha a che vedere con l’assunzione che parti, processi, funzioni biologiche sono tutti fatti fisici allo stesso modo: “what the
reductionist asserts is that functional biology’s explanantia are always molecular
biology’s explananda” [Rosenberg 2007]. Il secondo è legato ai meccanismi di
feedback a cui sono ricondotti (ridotti) tutti i meccanismi capaci di stabilizzare
un fenotipo adattato nelle generazioni successive. Emerge allora la questione
fondamentale che riguarda la natura della catena causale capace di assicurare
e dar ragione di entrambi. “If explanation follows causation, the reductionism
has much to recomend itself as a methodology” [Rosenberg 2007]. Data l’assunzione metafisica che the basic facts about the world are all physical facts, solo
un approccio riduzionista è, per l’autore, capace di dare una risposta adeguata
e completa a queste questioni, ammesso e non concesso che le questioni appena
presentate siano le uniche in gioco nelle sfide della ricerca scientifica. Per cui ciò
che interessa alla scienza è, come afferma Rosenberg, la domanda rispetto ad
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
8.2. PROSPETTIVE SISTEMICHE E ANTIRIDUZIONISMO
124
una catena causale completa, che non debba ricorrere ad un’azione a distanza e
che non debba appellarsi ad una causalità “backwards”. La selezione naturale ai
livelli più alti dell’organizzazione organica è muta su questi aspetti trasformando, secondo questo e altri autori, un’apparente “goal directness” in una causa
efficiente. Solo invece una dimensione macromolecolare del processo può fornire
tutte le risposte adeguate. Tale attribuzione esplicativa può essere essa stessa
di natura adattativa, facendo riferimento (descrivendo) a strategie disponibili
per l’adattamento e identificando i geni o altre macromolecole che determinano
le caratteristiche degli antenati su cui l’evoluzione può agire. Si tratta quindi di spiegazioni storiche, simili a quelle evolutive dell’antiriduzionismo: tutti
d’accordo quindi con l’affermazione di Dobhzansky per cui “nothing in biology
makes sense except in the light of evolution” [Dobhzansky 1973].
Rimane da domandarsi a questo punto cosa si intenda per evoluzione o di
quali sistemi si possa parlare propriamente di evoluzione e se c’è da fare un’osservazione sul tipo di causalità che viene presa in considerazione all’interno della
prospettiva riduzionista postpositivista: è infatti solo una causalità efficiente
quella che è ammessa per la dimostrazione scientifica di un fenomeno naturale
(livello epistemologico) e per la descrizione/identificazione dello stesso (livello
ontologico), ma come avremo modo di argomentare sulla base dei dati che emergono dai modelli interpretativi del cancro, questa assunzione può essere vera solo
quando ogni fenomeno è ridotto alle sue parti cui solamente, in fondo, è riconosciuto uno statuto ontologico proprio, in quanto identificabili nello spazio e nel
tempo mediante misurazione (loro estensione). Questo però sposta la questione
da puramente epistemologica6 a quella ontologica. La domanda centrale non è
tanto quella sull’esistenza e sulla natura delle leggi biologiche, quanto sul tipo
e natura di regolarità individuate e sul Sistema di riferimento7 .
8.2
Prospettive sistemiche e antiriduzionismo
Abbiamo visto nella Parte II come nella ricerca oncologica si assiste ad uno
spostamento progressivo da modelli lineari, a modelli più complessi, sistemici, per poter dar conto della componente dinamica del processo neoplastico.
Questa tendenza sembra identificare un denominatore comune tra le posizioni
6 L'assunzione
infatti di autori come Rosenberg è che il dibattito tra riduzionismo e an-
tiriduzionismo si giochi in termini epistemologici, in quanto l'assunzione di base era che per
entrambi all facts are xed by physical facts , e che esista un'asimmetria tra le due posizioni
sulla base delle argomentazioni che ogni versante ha bisogno di condurre: Antireductionists
will dier from reductionists not on the facts but on whether the initial explanation was
incomplete, incorrect, or inadeguate. They will agree that the macromolecular genetic and
biochemical pathways are causally necessary to the truth of the original evolutionary explanation. But they do not complete an otherwise incomplete explanation. They are merely further
facets of the situation that molecular research might illuminate [Rosenberg 2007].
7 La
TOFT accettando di confrontarsi solo sul terreno empirico ed epistemologico con il
riduzionismo (preferendo parlare di spiegazioni più che di causalità), rischia di non vincere la
battaglia, non tanto perché la questione non sia anche realmente epistemologica, ma perché
non nisce di riscattare la metasica di riferimento che la sostiene, o che la dovrebbe sostenere:
che ciò che esiste , in primo luogo, è l'organismo e che è esso a dar ragione della specicità e
organizzazione, anche nel tempo, delle sue parti. The organism is primary, not secondary;
it is an individual, not by virtue of the cooperation of countless lesser individuals, but an
individual that produces these lesser individualities on which its full expression depends [Lillie 1906]. La questione storica cioè dell'organismo vivente, non riguarda solo il suo evolversi
nel mondo, ma il suo realizzarsi in esso, coerentemente con il suo essere.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
125
riduzioniste ed antiriduzioniste legato al comune accordo che non sia necessario
ricorrere a teorie vitaliste per spiegare l’organizzazione funzionale e strutturale
degli organismi viventi8 e al fatto che una prospettiva sistemica sia comunque da
tenere in conto per studiare proprietà emergenti la cui esistenza è riconosciuta
da entrambe le posizioni e per le quali un grado di indeterminazione è comunque
ammesso. “Because living organisms are nonlinear (for a strat!), any attempts
to explain their qualities as wholes by the use of analysis is doomed to failure ...
This is not to denigrate the very important work of molecular biologists who carefully unravelled the chemical processes that take place in living systems, only to
recognize that understanding such processes can not alone explain the collective,
organisational properties of the organism” [Davies 1990]. L’approccio sistemico,
la cui applicazione più concreta è attualmente rappresentata dalle metodiche di
Systems Biology9 , è già abbastanza comunemente utilizzato per l’analisi degli
ormai numerosissimi dati sperimentali a nostra disposizione, tanto all’interno
di una prospettiva riduzionista che antiriduzionista, proprio per tenere in conto
della non-linearità dei fenomeni naturali biologici.
Dove sta allora la differenza tra riduzionismo e antiriduzionismo? Quali
elementi della ricerca sperimentale ci possono venire in aiuto per identificare
l’elemento discriminatore (se esiste) tra queste due prospettive?
Seguiamo l’argomentazione della Keller a questo proposito. L’essere umano
ha sempre cercato tanto l’unità come la semplicità nel tentativo di classificare e
spiegare la realtà e questo è stato particolarmente vero nelle scienze. Il presupposto sta cioè nella considerazione che c’è una tendenza dei ricercatori a ridurre
sempre e comunque le diverse e complesse parti, i processi e i principi ai loro
componenti più basici, al loro “lowest common denominator ” [Fox Keller 2010].
Per cui, il termine di riduzionismo si riferisce fondamentalmente allo sforzo per
studiare il tutto mediante le sue parti, riconducendo i livelli superiori a quelli
inferiori, il complesso al semplice. D’altra parte, questo riduzionismo (metodologico) è la strada abitualmente seguita dagli scienziati fino a quando -e qui si
inserisce la proprietà tipica del riduzionismo epistemologico ed ontologico- ci si
8 Per
alcuni autori, questa aermazione assume il valore di postulato per cui la posizione
materialista che si vuole contrapporre a quella vitalista assume i connotati di un'ideologia, cioè di una convinzione a priori più che di un'accezione chiaricatrice di una razionalità
scientica-sperimentale il cui oggetto non può essere che materiale e le cui argomentazioni
esplicative possono non aver bisogno di appellarsi ad agenti esterni alle dinamiche proprie
dell'oggetto in studio per descriverle nei termini propri [Gilbert e Sarkar 2000]. Tra i suddetti
autori troviamo per esempio la Keller che aerma I am committed to the position that all
biological phenomena, including evolution, requiere nothing more than the working of physics
and chemistry , per cui davanti alla domanda circa la legittimità e possibilità del riduzionismo
in biologia, la risposta è del tipo: To the extent that a negative response would imply that I
believe there is something beyond physical and chemical processes involved in the formation
of living beings (...) I am obliged to reply armatively to the main question about reduction [Fox Keller 2010].
9 cfr.
What exactly is systems biology?
Molecular cell biology encompasses a growing
number of mechanistic but largely isolated insights and, increasingly, high-throughput omics
data set; both are generally semi-quantitative and specic to a particular experimental system.
The challenge is to integrate this complex and highly diverse information into a conceptual
framework- one that is holistic, quantitative and predictive. One day, this might result in
a virtual cell. Molecular cell biology seems to bring about an emancipation from a rather
informal and purely reductionist hypotesis-driven approach by embracing high-throughput data
acquisition, rigorous quantitation and mathematical modelling.
Systems Biology seems to
describe this transition. (...) The outcome is not merely a more rened picture, but oers
a new level of mechanistic understanding. Systems biology is not purely theoretical: it relies
on experimental verication of its predictions [Nature Editorial 2006].
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8.2. PROSPETTIVE SISTEMICHE E ANTIRIDUZIONISMO
126
imbatte con parti, processi o principi che non possono essere (apparentemente)
ulteriormente ridotti. Questo avviene fondamentalmente quando ci si incontra
con proprietà organiche che vengono identificate come funzioni, un concetto che
rimane ancor oggi fondamentale in biologia e che manca invece nella fisica e
nella chimica. Per i riduzionisti allora, l’approccio sistemico è semplicemente
una questione metodologica: un modo sistematico di mettere in relazione numerosi elementi diversi e di natura molecolare, tale da assumere una valenza
esplicativa nella misura in cui si dimostra predittiva [Hahn e Weinberg 2002a];
ciò che esiste in biologia sono le parti ed è a queste che devono essere attribuite
le funzioni10 .
Tuttavia “the distinction between explaining how something does what it does
and explaining what it does” continua a rimanere senza risposta all’interno della prospettiva riduzionista e questo è il punto centrale da cui muove la critica
di coloro che vi si oppongono a partire da argomentazioni fondamentalemente epistemologiche [Duprè 1993, Pigliucci e Kaplan 2006]. A livello di Systems
Biology infatti, ci sono questioni che richiedono spiegazioni che sono ben diverse
da quelle cui siamo abituati nella fisica e nella chimica:
1) l’ampio numero e inter-azioni tra le parti;
2) l’organizzazione gerarchica (multiscala) dei sistemi biologici;
3) la dipendenza dell’identità delle parti e delle interazioni tra di esse da
effetti a livelli di ordine più elevati (higher-order effects);
4) la robustezza e l’adattabilità delle strutture biologiche. “Systems biology
of any persuasion has to demonstrate that when single components come
10 È
ancora la Keller che aggiunge qui un altro elemento interessante, esplicitando la ri-
duzione fondamentale che viene operata.
Cosa si intende infatti per funzione?
I use the
term of function in the sense of a simple feedback mechanism [Fox Keller 2010]; come un
termostato, secondo l'esempio di Wimsatt, che aerma: To say that an entity is functional
is to say that its presence contributes to the self-regulation of some entity of which it is a
part [Winsatt 2002]. La Keller è coerente con la sua posizione materialista sopra accennata,
scorporando e riducendo la questione funzionale quando studiata mediante la Systems Biology. Come abbiamo visto, infatti, l'accezione più moderna di funzione, assunta nell'ambito
sperimentale, è denita in termini di selezione naturale: la funzione X è ciò which caused
the genotype, of which X is the phenotypic expression to be selected by natural selection [Neander 1998]. Ma la Keller non usa il concetto in questa accezione perché both logically
and historically, the notion of function with which I am concerned must precede the onset
of natural selection, at least as that terms is usually constructed . Esso, infatti, presuppone
l'esistenza di un singolo organismo o semplicemente di cellule stabili e autonome, capaci di
dividersi.
Il problema allora per la Keller diventa la domanda sull'organismo: What now is an orga-
nism? No longer a bounded, organic body (...). Instead it is non linear, far-from-equilibrium
system that can mindlessly (or virtually) trascend the clodlike nature of matter and emerge
as a self-organizing, self reproduing, and self-generating being.
It might be green or gray,
carbon- or silicon-based, real or virtual [Fox Keller 2004]. Le funzioni, infatti, non sono le
sole proprietà a distinguere i sistemi viventi da quelli non viventi.
C'è una questione lega-
ta alla peculiar part-whole organization of living beings o la loro self-organization , ma
la Keller dice che dovrebbe essere necessario tornate indietro a Kant per rivedere questo
aspetto telelogico dei sistemi viventi, alla luce delle nuove prospettive poste dalla Systems
Biology [Fox Keller 2010]. La domanda allora più importante è semplicemente What kinds
of analysis, in fact, are required? , ed è qui che la Systems Biology ora sembra fornire gli
strumenti adeguati per lavorare su dei sistemi in cui è necessario descrivere proprietà emergenti conosciute mediante l'identicazione degli attori principali sottostanti e delle reciproche
interazioni.
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
127
together and form a system, they engage in novel behaviour and produce
novel phenomena by the system itself constraining the components. Understanding this downward causation (or how causality operates at different
levels of organization) and the differences between units acting in aggregation and systematic organisation is the true and distinctive purpose of
systems biology. A substantive answer to this question should cash out
the definite but sometimes inchoate anti-reductionist intuitions prevalent
in contemporary molecular biology. This last question, therefore, builds
on the ontological issues to become an epistemological one that lies at the
very heart of systems science” [O’Malley e Duprè 2005].
L’antiriduzionismo, quindi, non nega solo l’argomentazione secondo cui le spiegazioni biologiche debbano essere complete, corrette, precise e fondate su spiegazioni più fondamentali da rinvenire nella biologia molecolare, ma sostiene anche
che spiegazioni non-molecolari sono ugualmente adeguate, senza bisogno di correzioni, fondamento o completamento da parte di elementi macro-molecolari;
sostiene, inoltre, che spesso le spiegazioni macromolecolari non sono necessarie
o attendibili. L’affermazione dell’emergenza come caratteristica peculiare della biologia e la difesa di una causalità downwards, che agisce dal sistema sulle
sue parti costituenti, porta alla tesi per cui “properties of constituents cannot
themselves be fully understood without a characterization of the larger system of
which they are part” [Duprè 2010].
L’antiriduzionismo cioè non è solo un’affermazione negativa, è una tesi per
cui a) ci sono generalizzazioni al livello della biologia funzionale b) queste generalizzazioni sono esplicative c) non ci sono ulteriori generalizzazioni al di fuori
della biologia funzionale che spieghino le generalizzazioni della biologia funzionale o che spieghino più pienamente ciò che le generalizzazioni della biologia
funzionale spiega.
Dagli elementi fino ad ora accumulati possiamo dire che non sarà la questione
della complessità biologica ad aiutarci, né una disquisizione puramente epistemologica sulle leggi a cui appellarsi per una spiegazione dei fenomeni biologici.
La domanda sembra invece concernere la natura e il significato della nozione
di indeterminazione in biologia, da cosa essa dipenda o a cosa debba essere ricondotta. Cosa significa infatti per il fisicalismo la nozione di determinazione
(fixing) dei fatti biologici da parte di fatti o eventi fisici? Cosa implica, dall’altra parte, per una posizione antiriduzionista affermare che proprietà emergenti
non possono essere spiegate, e non solo non predette, sulla base delle proprietà
delle parti da cui emergono? L’indeterminazione è reale o apparente? A cosa è
dovuta?
Anticipando alcuni degli aspetti che saranno discussi nei capitoli successivi, possiamo dire che, almeno intuitivamente, la questione interna al dibattito
riduzionismo-antiriduzionismo rimanda alla centralità della questione causale in
biologia e alle nozioni di causa che possano dar ragione del passaggio dall’indeterminazione sottostante a tutti processi organici all’organizzazione funzionale
esperita. La definizione del sistema in studio non sembra poter prescindere
dal tipo di causalità ad esso sottostante. L’impegno riduzionista ad attribuire un valore esplicativo (in termini causali) alle parti in cui un sistema è stato
analiticamente scomposto, non lascia spazio ad una spiegazione che procede dall’alto verso il basso (downward causation), cioè del comportamento delle parti
in termini di caratteristiche dell’insieme. L’emergentismo, come sopra descrit-
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8.3. CONTESTO DI ANALISI DELLA QUESTIONE
RIDUZIONISMO-ANTIRIDUZIONISMO NEI MODELLI
INTERPRETATIVI DEL CANCRO
128
to [Gilbert e Sarkar 2000], rimane paradigmatico per l’antiriduzionismo. L’elemento discriminate diviene il “contesto”, le caratteristiche cioè dell’ambiente di
un ente che sono necessarie per conferirgli capacità specifiche. Le interazioni
che detto oggetto è capace di stabilire sono da considerarsi semplicemente come
l’esercizio di queste capacità in relazione con altri enti che presumibilmente costituiranno tutto o parte del contesto. Esiste cioè una “dependence of identity
of biological entities on context” [Duprè 2010].
Inoltre, questo dibattito mette in rilievo la necessità/opportunità di utilizzare anche concetti (entità) teoretiche per le argomentazioni esplicative in biomedicina. È stato giustamente osservato, a nostro parere, che “Currently, among the
natural sciences, biomedicine is the last bulwark of naive empiricism, characterized by an almost indiscriminate accumulation of observational and experimental
data, which flood an amazing number of journals, but with few theoretical frameworks that may help to make sense of such data” [Aranda 2002a]. Perché,
infatti, nella biomedicina si sta ancora così scomodi con entità di natura teoretica, quando in fisica e cosmologia si utilizzano di fatto concetti di questo tipo
(‘superstrings’, ‘time-warps’, ‘gluons’ or ‘charmed quarks’) senza alcuna preoccupazione che tali entità non siano dotate, supportate, da una consistenza materiale specifica (cosità)? In fisica, il criterio prevalente per assumere l’esistenza
di tali entità è semplicemente la domanda se ci permettono di comprendere e
predire il comportamento di determinati sistemi. La tendenza invece della biologia molecolare è quella di identificare segnali in matrici di gel, o su altri tipi
di supporti con, per esempio, legami tra proteine e DNA, senza considerare che
tali interazioni molecolari sono più vicine al livello di misurazione e spiegazione
della meccanica quantistica che all’approccio ‘width, length and weight’ dell’esperienza macroscopica. “Perhaps this rather obsessive attachment to empirical
evidence in the biomedical sciences (which looks rather incongruous vis-a-vis the
widespread acceptation of Darwin’s narrative), is a remainder of late positivism
and its fear of metaphysical entities”. Sul versante biomedico, infatti, l’unica
teoria di peso che ancora riesce a sostenere la biologia moderna è quella darwiniana -supportata dall’osservazione dei fossili, della stratigrafia, delle proprietà
degli organismi viventi e, più recentemente, da alcuni dati molecolari- sebbene
la biologia evolutiva sia ben poco predittiva, essendo strettamente legata alla
sua dimensione storica che è propria degli enti viventi. È già stato dimostrato,
inoltre, come le teorie fisiche debbano gran parte del loro successo, in termini
esplicativi e predittivi, all’utilizzo di diversi livelli di astrazione, passando da
oggetti a entità microscopiche, a particelle, a campi di forza e a funzioni di distribuzione di probabilità: tutti questi costrutti teoretici sono basati su requisiti
metafisici che sono applicati de facto dagli scienziati quando scelgono costrutti
e teorie [Aranda 2002a].
8.3
Contesto di analisi della questione riduzionismoantiriduzionismo nei modelli interpretativi del
cancro
Nel 1974, un gruppo di noti studiosi e scienziati tentarono di individuare le
questioni salienti per la filosofia della biologia contemporanea nel suo confronto
con la prospettiva riduzionista ereditata dalle scienze fisico-matematiche e dalla
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CAPITOLO 8. I TERMINI DELLA SFIDA PER LA BIOLOGIA
MODERNA
129
filosofia cartesiana. Tre domini diversi furono identificati: quello del riduzionismo ontologico, metodologico ed epistemologico [Ayala 1974]. Parafrasando
l’introduzione di Ayala al testo possiamo schematizzare nel seguente modo la
questione.
Nell’ambito metodologico le questioni concernono la strategia della ricerca e
dell’acquisizione della conoscenza. In generale, possiamo dire che il riduzionismo metodologico rappresenta la strategia scientifica, altamente praticata, che
consiste nello studiare il “tutto” frantumandolo nelle parti che lo costituiscono.
Da un punto di vista epistemologico la questione generale del riduzionismo
riguarda la possibilità di considerare teorie e leggi sperimentali formulate in un
campo delle scienze come casi speciali di teorie e leggi formulate in altre aree
scientifiche: le prime sarebbero così ridotte alle seconde. Questo è il contesto
più frequente su cui i filosofi si confrontano riguardo il problema del riduzionismo. Visto da un altro punto di vista, possiamo dire che il riduzionismo
epistemologico consiste nell’affermare che concetti applicabili al tutto possono
essere interamente espressi in termini di concetti che si applicano alle parti. Sarà
questa la prospettiva che risulterà di maggiore utilità nell’analisi dei presupposti
epistemologici dei modelli interpretativi del cancro.
Dal punto di vista ontologico la questione della riduzione concerne la domanda sulla natura delle entità/processi fisico-chimici che sono oggetto dello studio.
Il riduzionismo ontologico implica che le leggi della fisica e della chimica siano
applicabili a tutti i processi biologici a livello atomico e molecolare. Quello che
propriamente esiste cioè sono le parti; il tutto è mero risultato, epifenomeno,
apparenza. In generale, possiamo assumere che ciò equivale a dire che il tutto
è la somma delle parti e che comporta che le cause agenti sul tutto producano
semplicemente la somma degli effetti delle singole cause agenti sulle parti.
Seguiremo questa impostazione per procedere nell’analisi critica dei modelli
interpretativi del cancro, alla luce delle considerazioni emerse nella breve analisi delle questioni relative al riduzionismo e antiriduzionismo in biologia. Tre
saranno le considerazioni di partenza per la rilettura delle teorie e modelli interpretativi del cancro da questo punto di vista. La prima ha a che vedere con
la visione contemporanea del processo neoplastico: il cancro, infatti, non può
essere considerato come una circostanza statica, ma come un fenomeno dinamico, un processo molecolare e cellulare/tessutale che evolve. Per questo non
ci sono molecole o pathways che identificano in modo univoco il fenotipo neoplastico, mentre le argomentazioni funzionali diventano fondamentali per dar
conto della specificità del processo neoplastico, tanto per l’approccio riduzionista che per quello sistemico. La seconda concerne la ricerca di regolarità per
individuare delle correlazioni (significative) e delle gerarchie funzionali che diano
ragione dell’elevata eterogeneità fenotipica tra i diversi tumori e persino tra le
cellule stesse di una massa neoplastica. La terza, infine, muove dalla riflessione
sulla specificità del ruolo della dimensione temporale nel processo neoplastico.
Questo implica indagare il significato biologico del fenomeno della latenza, quel
lasso di tempo che trascorre tra l’iniziazione della carcinogenesi e la sua configurazione finale, della fase invasiva e metastatica della patologia, tipica della
maggior parte dei casi tumorali. Significa cioè comprendere come e perché la
componente stocastica integrata in un contesto organico entri a far parte dei
fattori che determinano un determinato fenotipo fisio/patologico.
Parleremo pertanto di prospettive metodologiche, epistemologiche ed ontologiche in cui sarà l’analisi dei sistemi e delle regolarità identificate a spiegare
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8.3. CONTESTO DI ANALISI DELLA QUESTIONE
RIDUZIONISMO-ANTIRIDUZIONISMO NEI MODELLI
INTERPRETATIVI DEL CANCRO
il processo neoplastico che costituirà poi il filo conduttore del discorso. Come
prima approssimazione, per riflettere anche sulla distinzione/contrapposizione
presente nel dibattito in letteratura, assimileremo la posizione riduzionista alla
prospettiva genetica e cellulare del cancro (SMT), mentre quella antiriduzionista
sarà associata alla prospettiva sistemica (TOFT).
Figura 8.1: Schema delle categorie che utilizzeremo nell’analisi delle principali
posizioni interpretative del cancro, all’interno delle prospettive riduzionista e
antiriduzionista. Nel Capitolo 8 presenteremo sinteticamente l’approccio metodologico delle due teorie principali e di come esso cerchi di dare una spiegazione
alla dimensione processuale del fenomeno tumorale. Da ciò emergerà come l’attribuzione funzionale a sistemi sostanzialmente diversi crei una divergenza nel
tipo di indeterminazione che si cerca finalmente di spiegare. L’analisi poi dell’eterogeneità funzionale dei sistemi considerati, nella prospettiva riduzionista e
antiriduzionista, ci permetterà nel Capitolo 9 di evidenziare come l’irriducibilità
epistemologica di alcuni concetti esplicativi rimandi ad una irriducibilità ontologica del fenomeno in studio. A quest’ultimo aspetto dedicheremo il Capitolo
10 in cui studieremo le cause cui si fa appello per dar ragione della dimensione processuale e dell’eterogeneità fenotipica delle cellule tumorali, mettendo le
premesse per la discussione finale sul pegno ontologico che tanto la prospettiva
riduzionista che sistemica dovrebbero essere disposte a pagare.
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Capitolo 9
La prospettiva metodologica
9.1
Identicando un processo
Come abbiamo visto nella Parte I, una definizione univoca del cancro è sempre stata difficile per la complessità di questa patologia che si manifesta a livello
clinico, ma soprattutto biologico. La biologia del cancro, infatti, apparve sempre più legata alla sua componente dinamica, facendo diventare alcune caratteristiche funzionali aspetti centrali nella costruzione dei modelli interpretativi
[Bertolaso 2009b]. Infatti, mentre studi a livello molecolare andavano prendendo
piede, dati epidemiologici e sperimentali sul fenomeno tumorale rinforzavano le
evidenze che anche una componente dinamica, processuale, fosse determinante
nell’insorgenza neoplastica.
Già negli anni ’50, le analisi patologiche di un certo numero di organi, colpiti da tumore, avevano messo in evidenza lesioni che sembrano rappresentare
tappe intermedie di un processo attraverso cui le cellule progrediscono verso
lo stato di cancro invasivo [Foulds 1954]. Altre evidenze sulla centralità della
componente temporale, processuale, del fenomeno neoplastico risalgono invece
agli studi degli anni ’70. Esse concernono gli effetti cancerogenetici di sostanze
chimiche sulla pelle di topi, che da una parte sembravano dimostrare, mediante
esperimenti in vivo, che la formazione del tumore era un processo plausibilmente
guidato da una successiva sequenza di eventi che richiedevano una precisa progressione, dall’altra, mediante esprimenti in vitro, che il possibile denominatore
comune tra cancerogenesi fisica e chimica fosse riconducibile al DNA, il cui danneggiamento a livello di sequenza nucleotidica era già considerato in quegli anni
la causa principale dell’insorgenza e della progressione neoplastica [Luch 2006].
Tuttavia, alcune analogie con altri fenomeni biologici e alcuni studi dell’effetto
ormonale sul processo di formazione di un tumore e sull’insorgenza metastatica,
facevano ripensare ai presupposti epistemici, oltre che biologici, della ricerca sperimentale. L’approccio più comunemente adottato, infatti, tendeva a scomporre
i meccanismi nelle loro parti per comprenderne la funzionalità, spostando così
l’analisi del problema a livelli sempre più bassi dell’organizzazione funzionale
dell’organismo.
Come in qualsiasi altra area della scienza sperimentale, a questa evoluzione
concorsero fondamentalmente due fattori: da una parte lo sviluppo di un’ipotesi, basata su dei presupposti biologici ed epistemologici, da testare sperimental131
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9.2. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA SMT
mente, dall’altra lo sviluppo di strumenti e di metodi adeguati per verificarla.
Tutti i modelli sperimentali, infatti, sono per loro stessa natura “artificiali”: i
ricercatori scelgono abitualmente modelli che siano il più possibile omogenei al
fenomeno a cui sono interessati, in modo che questo possa essere studiato senza
interferenze legate alla sovrapposizione di altri eventi ad esso non collegati. Gli
esprimenti non sono disegnati quindi in un vuoto teorico, ma poggiano su modelli che scelgono cosa sia rilevante o meno per elaborare delle spiegazioni il più
adeguate possibile a rappresentare la “realtà” che si sta indagando. Come già
accennato, dato che sono due fondamentalmente le prospettive di ricerca che
si stanno confrontando in letteratura, ci serviremo in prima approssimazione
dell’approccio metodologico della SMT e della TOFT per analizzare i diversi
percorsi metodologici e per discutere sulla divergenza dei modelli che si rifanno
rispettivamente alla prospettiva riduzionista e sistemica.
9.2
I modelli sperimentali elaborati dalla SMT
Le premesse storiche della SMT sono riconducibili alle scoperte di Boveri
sulle aberrazioni cromosomiche in cellule uovo di riccio di mare e alle scoperte
di virus tumorali che avevano aperto lo studio del cancro alle tecniche molecolari.
Ripercorriamo schematicamente le tappe e modalità sperimentali:
1) la scoperta che certi virus, quando inoculati in animali, inducevano tumori
semplificò considerevolmente la nostra percezione del cancro: era infatti
plausibile che all’interno del genoma virale dovessero esserci le istruzioni
genetiche capaci di deviare dalla normalità il processo di crescita che si
osservava nelle cellule tumorali;
2) agli elementi genetici che erano responsabili della trasformazione cellulare
neoplastica si diede il nome di ONG, sulla base del loro carattere dominante che si manifestava come acquisizione di una funzione. Tale capacità
fu descritta fondamentalmente in termini di proliferazione cellulare, concetto che assunse in sé, almeno all’inizio della storia della SMT, quello di
crescita cellulare in quanto si prestava ad una formulazione quantitativa
che sembrava essere anche rappresentativa del comportamento dei modelli
cellulari in vitro più comunemente utilizzati per studiare la trasformazione
neoplastica;
3) gli ONG virali però, non riuscivano a dare molte risposte alle domande sui
meccanismi coinvolti nella proliferazione cellulare una volta che la transfezione era avvenuta. Alcuni esperimenti dimostrarono, infatti, che suddetti geni probabilmente codificassero per proteine complesse multifunzionali
rese idonee dall’evoluzione per lo scopo specifico di permettere la replicazione del virus, ma nessuna traccia era disponibile per poter identificare
il loro ruolo anche nella macchina molecolare delle cellule eucarioti. Altri
elementi invece emersero dallo studio dei retrovirus che dimostrò come gli
ONG identificati in essi avessero probabilmente avuto origine, o avessero
comunque un corrispettivo evolutivo, nel DNA delle cellule eucarioti. È il
caso di src (Peyton Rous, sarcoma RSV) già descritto precedentemente;
4) gli obiettivi allora divennero quelli di isolare una serie di cloni trasformati, mediante l’utilizzo di tecniche di biologia molecolare su linee cellulari
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
133
coltivate in vitro, e di isolare il c-DNA che, attraverso tecniche di ibridazione, permise di identificare il gene cellulare ritenuto responsabile della
trasformazione. Tali geni furono denominati proto-oncogeni. La scoperta
dell’esistenza di questi proto-oncogeni nel genoma dei mammiferi costituì
la principale premessa sperimentale della SMT. Deputati fisiologicamente
alla regolazione della proliferazione e del differenziamento nella morfogenesi, questi geni si dimostrarono capaci di indurre un’attività proliferativa
superiore e sregolata in cellule trasformate in vitro rispetto a quella normale, attivazione che può essere indotta mediante retrovirus o mutazioni
somatiche. Queste ultime furono successivamente suddivise in mutazioni
che modificano la struttura della proteina codificata o in mutazioni che
de-regolano l’espressione di queste proteine. Ciò rese plausibile il postulato che alterazioni in questi proto-oncogeni potessero essere responsabili
della proliferazione cellulare, giocando quindi un ruolo principale nella
patogenesi del cancro.
Quando si pone il problema in questi termini occorre rilevare che una
riduzione è già stata effettuata: infatti, discutendo di regolazione dell’espressione genica, è necessario tenere in conto che attività genetica non
significa necessariamente trascrizione genica. La regolazione del prodotto genico, infatti, e pertanto della sua attività funzionale, può avvenire
a diversi stadi della maturazione di una proteina. Diversi esempi sono
descritti in letteratura [Gilbert 2005]. Ciò nonostante, nella definizione di
ONG, si compie un’identificazione tra una molecola di basi nucleotidiche e
una funzione, in qualsiasi modo essa sia mediata. Il concetto di mutazione cioè non è più quello mendeliano che faceva riferimento ad una entità
che rappresentava una variante informazionale; nel paradigma riduzionista
che viene elaborato nella ricerca oncologica è quest’ultima a poter essere
finalmente identificata su base molecolare.
C’è, inoltre, un presupposto biologico che da qui in poi viene postulato
all’interno del paradigma riduzionista: che lo stato di default cellulare
sia quello quiescente e che pertanto la proliferazione sia la caratteristica
specifica del fenotipo neoplastico, giustificando l’utilizzo di modelli in vitro di trasformazione cellulare per testare le proprietà oncogenetiche delle
sequenze nucleotidiche che furono, di volta in volta, isolate. Infatti, la
trasformazione di cellule in coltura presentava caratteristiche analoghe a
quelle di un processo multistep, mediato da fattori genetici ed epigenetici,
come era ipotizzabile che avvenisse in vivo e in concordanza con l’interpretazione che fino ad allora era stata data del cancro e della sua origine
[Hahn et al 1999, Bergers et al 1998].
5) Mentre allora i retrovirologi andavano a caccia dei “geni sospetti”, altri
incominciarono a dare la caccia direttamente ai colpevoli. Mediante metodi di trasferimento genico in cellule di mammifero, il DNA isolato da
cellule tumorali poste in coltura veniva trasfettato in cellule normali (generalmente NIH 3T3, fibroblasti murini). Una piccola quota di cellule che
riusciva ad inglobare il DNA iniziava a proliferare presentando un fenotipo trasformato. Da queste veniva a sua volta isolato il DNA e trasfettato
nuovamente fino ad isolare la sequenza nucleotidica, il gene ritenuto responsabile della trasformazione. Questa metodica permise di isolare tutta
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9.2. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA SMT
134
una serie di geni associati alla trasformazione neoplastica anche dopo aver
indotto un tumore in vivo mediante uso di cancerogeni chimici.
Un’altra assunzione veniva fatta: che il DNA isolato doveva essere quello
mutato dall’agente chimico e pertanto responsabile del fenotipo neoplastico di cui la trasformazione in vitro rappresentava una fedele riproduzione. Non furono approfonditi successivamente tutti i meccanismi sottostanti a questi processi in vivo. Il punto è che, per molto tempo,
l’ipotesi fu che le sostanze cancerogene agissero perché mutagene - ipotesi efficacemente sintetizzata nell’aforisma di Ames degli anni ’70, per
cui “ogni cancerogeno è mutageno”- [Ames et al 1973], ma molti cancerogeni conosciuti, e tra questi i più importanti, non sono affatto mutageni [Lijinsky 1989, Ashby e Purchase 1988]. Inoltre, anche per le sostanze cancerogene dotate di azione mutagenica non è evidente “che sia
implicato nella cancerogenesi un evento mutagenico [. . . ] l’azione mutagenica di un cancerogeno può coincidere piuttosto che essere causale:
bisogna considerare l’esistenza di meccanismi cancerogenici alternativi”
[Bizzarri e Cucina 2007].
6) Anche i geni tumore soppressori, definiti per la loro capacità di sopprimere il fenotipo neoplastico e pertanto a carattere recessivo, furono identificati per la loro capacità di dare, come gli oncogeni, un fenotipo trasformato, in termini di proliferazione cellulare, in modelli sperimentali
[Bishop Weinberg 1996]. L’approccio metodologico della teoria cellulare
elaborata da Harris [Harris et al 1969] è infatti fondamentalmente legata
allo studio in vitro dei meccanismi cellulari legati alla soppressione della
tumorigenicità. Una reversione del fenotipo maligno si dava quando cellule tumorali altamente maligne venivano fuse con fibroblasti e le analisi
citogenetiche di quegli ibridi rivelarono poi che la soppressione coinvolgeva una regione genetica localizzata in un cromosoma specifico donato
all’ibrido dal fibroblasto1 ;
7) la scoperta poi che ONG e TSG erano straordinariamente conservati nel
corso dell’evoluzione suggerì che, in un contesto normale, questi oncogeni
dovessero avere funzioni importanti nel controllo della crescita. In effetti,
successivamente fu descritto come questi proto-oncogeni codificassero per
proteine che partecipano alle vie di trasduzione del segnale attraverso le
quali i segnali di crescita (o di non crescita) vengono trasferiti dall’esterno della cellula fino al meccanismo regolativo interno. I proto-oncogeni
1 L'identità
di questo gene rimase comunque sconosciuta per lungo tempo no a quando
evidenze successive dimostrarono che quel gene codicava per il collagene XV, un proteoglicano
legato alla membrana basale [Harris 2003]. Esperimenti di transfezione sono stati condotti su
cellule di carcinoma cervicale umano dimostrando come elevati livelli di collagene XV alterano
le proprietà di crescita delle cellule in colture tri-dimensionali. Inoltre, secondo una modalità
che è dose dipendente, il collagene XV sopprime completamente la tumorigenicità in cloni che
sintetizzano questa molecola ad elevati livelli.
Studi immunoistochimici suggeriscono come
la soppressione sia associata alla deposizione extracellulare del proteoglicano, alla periferia
della cellula [Harris et al 2007]. Interessante è notare che da allora in poi la denominazione
di tumour supressor fu ugualmente attribuita tanto al gene che al collagene XV, per le
proprietà anti-tumorali che presenta. L'identicazione funzionale quindi è quella signicativa
indipendentemente dalla parte molecolare cui possa essere attribuita. Riteniamo che da un
punto di vista epistemologico, della connettibilità dei concetti, questo passaggio sia tutt'altro
che secondario: mette in luce, infatti, una questione fondamentale, relazionata con la non
identità ontologica di parti e funzioni in biologia.
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
135
codificavano fondamentalmente per fattori di crescita, per i loro recettori
o per fattori trascrizionali. La sfida divenne allora quella di ricostruire
i meccanismi di integrazione e interazione di questi geni e molecole lungo i pathway già individuati come critici nell’iniziazione e progressione
neoplastica;
8) la possibilità infine che si sviluppò negli anni ’70 di produrre topi transgenici fornì dei modelli sperimentali adeguati per testare criticamente l’ipotesi
dell’azione degli ONG in vivo. Infatti, un topo che nasceva con un oncogene attivato sviluppava tumori in età precoce. La considerazione però che,
benché tutte le cellule fossero portatrici di questi ONG, non tutte quelle
che lo esprimevano andavano incontro a trasformazione, non distolse dal
presupposto per cui una determinata funzione fosse identificabile con una
molecola. Tali evidenze, infatti, facevano pensare alla nostra ignoranza su
ulteriori variabili molecolari che qualora identificate avrebbero dato ragione di queste eccezioni e contestualizzazioni. La visione cioè che si andava
rafforzando era che i tumori insorgessero sporadici e di natura clonale,
facendo pensare che altri eventi precedenti erano stati necessari per la trasformazione. Iniziò allora la ricerca di altri elementi genetici o epigenetici
che messi in sequenza fossero capaci di dar conto della progressione neoplastica tanto in vivo che in vitro. Il Modello di Vogelstein sembrò costituire
la sintesi più efficacie di questa prospettiva. A suo sostegno, vennero anche quegli studi sull’iniziazione del processo tumorale che, partendo dal
presupposto che un cancro non iniziava da una cellula già completamete
invasiva, dimostravano come, insieme ai meccanismi genetici, altri di natura epigenetica dovessero essere presi in considerazione. Ad essi vennero
successivamente attribuiti i fenomeni di latenza ed eterogeneità tumorale
come vedremo più avanti con maggior dettaglio. Il modello del cancro al
colon retto, in modo speciale, diede l’opportunità ai ricercatori di studiare
gli eventi epigenetici che correlavano con l’insorgenza neoplastica nei tumori umani [Wong et al 2007]. I dati sperimentali a disposizione, infatti,
permettevano di ricostruire una correlazione significativa tra le alterazioni
del genoma cellulare tumorale e cambi nell’organizzazione cromosomiale
[Kinzler e Vogelstein 1996]. Così, fu definitivamente postulato che tanto
la genesi come la progressione neoplastica fossero mediate da una sequenza di numerose cause molecolari responsabili in ultima analisi delle stesse
[Hanahan e Weinberg 2000].
All’interno del paradigma riduzionista che ha dominato l’impostazione della
ricerca sul cancro degli ultimi 60 anni, permane tuttavia una certa riluttanza a
trattare il cancro fondamentalmente come un processo [Sporn 2006] che inizia
ben prima che il paziente se ne renda conto, diventando sintomatico, e a riferirsi
pertanto a questa patologia in termini di cancerogenesi più che di cancro o
tumore. Le colture bidimensionali diventano il principale strumento e oggetto
di ricerca, riducendo cioè il cancro ad un fenomeno cellulare e la carcinogenesi
essenzialmente ad un aumento di proliferazione cellulare in vitro mediata da
ONG e TSG. La neoplasia, una struttura fisio-patologicamente organizzata su
tre dimensioni, fu ridotta a un fenomeno in due dimensioni in cui quantità ed
estensione erano controllabili mediante i parametri proliferativi.
Coerentemente, la terminologia più utilizzata è quella di progressione neoplastica (più che di processo neoplastico) e la tendenza è quella di considerare il
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136
9.2. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA SMT
cancro come un’entità identificabile e circoscrivibile. Le strategie terapeutiche
che emergono allora da questo approccio sono fondamentalmente centrate su interventi volti ad aggredire chirurgicamente la massa tumorale o alla distruzione
delle cellule tumorali mediante chemioterapici o, infine, ad interferire specificatamente su componeti molecolari inibendone o alterandone la funzione per
riorientare così la cellula all’apoptosi o al differenziamento. Anche il concetto
di sviluppo del cancro viene comunemente adottato per indicare la componente
attiva delle cellule neoplastiche nella loro progressiva trasformazione verso stadi
di malignità maggiore.
“Nevertheless, despite these difficulties to look at cancer as a process, the
very name, "cancer" -a term widely used by clinicians, laboratory scientists,
and laypersons alike to describe this disease- is indeed a misnomer. The disease
in reality is a process, namely "carcinogenesis," rather than a state, as implied
by the term, "cancer"” [Sporn 1991].
9.2.1
La prova funzionale
Il trattamento di cellule in coltura mediante agenti carcinogenici, come abbiamo visto, è stato uno dei modelli più adottati per studiare eventi discreti di
natura biochimica che portano alla trasformazione maligna. Ciò non di meno,
studi sulla trasformazione delle cellule in vitro presentano numerosi problemi e
possibili bias. Questi artefatti di colture tessutali in vitro, infatti, presentano
caratteristiche di crescita (generalmente overcrescita) delle cellule che non sono
tipiche del tessuto di origine (un esempio è dato dall’overcrescita di fibroblasti
in coltura che erano originariamente cellule epiteliali), presentano la selezione di
una piccola popolazione di una variante cellulare dovuta ai continui passaggi in
vitro o la comparsa di cellule con un numero o struttura aberrante cromosomiale (cariotipo). Tali cambi nelle caratteristiche delle cellule in coltura possono
portare a trasformazione “spontanea” che mima alcuni dei cambi descritti in
popolazioni di cellule in coltura trattate con agenti oncogenetici. Pertanto è
difficile spesso distinguere gli eventi maligni da quelli che invece non presentano
alcuna criticità rispetto al processo di trasformazione neoplastica.
Trasformazioni maligne possono essere indotte anche in vivo mediante trattamento di animali da esperimento suscettibili con carcinogeni chimici o virus
oncogenetici o irradiazione, ma cambi biochimici critici in vivo sono più difficili
da individuare, essendo problematico discernere gli eventi maligni da quelli tossici e determinare il ruolo di una miriade di fattori -come lo stato immunitario e
nutrizionale dell’animale, il livello ormonale o la presenza di infezioni endogene
dovute a parassiti o microorganismi- nella carcinogenesi in vivo. Inoltre, i tessuti in vivo sono un misto di tipi cellulari diversi, per cui è difficile determinare
in quali cellule avvengano gli eventi critici della trasformazione e quale ruolo il
microambiente giochi. La maggior parte degli studi disegnati per identificare
i suddetti eventi biochimici sono stati pertanto effettuati in cellule in coltura
dove l’ambiente cellulare è controllato articficialmente e dove si ottengono cloni
di cellule relativamente omogenee che possono essere studiate più facilmente.
Recenti tecniche di biologia molecolare hanno consentito di generare linee
cellulari “normali” immortalizzate di un determinato fenotipo differenziato a
partire da cellule staminali embrionali umane, fornendoci così ulteriori modelli in vitro che ci consentano di studiare cellule che provengono da una unica
fonte [Thomson et al 1998]. Tali linee cellulari possono anche essere generate
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
137
mediante transfezione del gene della telomerasi nelle cellule per mantenere la
lunghezza cromosomica e assicurare così la possibilità di propagare quella linea
cellulare in modo indefinito in vitro. Sebbene la disponibilità di questi cloni
faciliti l’aspetto tecnico della manipolazione in vitro delle cellule, essa rende
però ancor più difficile identificare i cambi essenziali che producono il fenotipo
maligno in vivo. Ci sono infatti alterazioni che le cellule subiscono una volta
coltivate in vitro e che sono comuni alle linee cellulari tanto wt che di origine
neoplastica. Esse consistono in [Ruddon 1995] cambi citogenetici, cambi nella
struttura e funzione della membrana; includono alterazioni relazionate con il
differenziamento cellulare e i meccanismi modificati di trasduzione del segnale
compresi la funzione costitutiva piuttosto che regolativa dei recettori per i fattori di crescita, le cascate di fosforilazione e i meccanismi di defosforilazione.
Alterazioni nelle caratteristiche della crescita sono pure comuni alle cellule in
coltura e riguardano la loro “immortalità”, nel senso che possono essere passate in coltura indefinitamente. Tuttavia, quando cellule maligne trasformate
divengono “immortali”, la loro capacità di crescita appare comunque superiore
rispetto la loro controparte normale coltivata ad elevata densità, richiedendo,
inoltre, concentrazioni più basse di siero o di fattori di crescita. Coerentemente,
l’acquisizione della capacità di crescere in soft-agar, l’incapacità di fermarsi nella
crescita e la resistenza all’apoptosi sono altre caratteristiche che, come abbiamo
già visto, sono frequentemente descritte per il fenotipo trasformato.
Ciò nonostante, l’ultimo criterio che stabilisce se una cellula è stata trasformata o meno è la sua capacità di dare origine ad un tumore in vivo, generalmente
mediante inoculazione in animali da esperimento adeguatamente selezionati. La
prova funzionale cioè, testata come capacità di produrre tumori in animali, è
comunque sempre richiesta per definire l’identità di una trasformazione in vitro
come “maligna” e pertanto per identificare un gene mutato come ONG o TSG.
D’altro canto però, l’incapacità di alcune cellule trasformate di crescere in
un determinato ospite, dando origine ad un tumore, non significa che esse non
siano tumorigeniche in altri tipi di animali (per esempio singenici invece che
alogenici), lasciando aperta una questione fondamentale rispetto all’importanza del contesto per l’espletamento di una determinata capacità funzionale a
livello cellulare o genetico. È la stessa conclusione cui si perviene cercando
delle regolarità nell’insorgenza del cancro legate alla produzione di fattori di
crescita angiogenetici, ematopoietici, ecc. che si associano abitualmente al fenotipo maligno: nonostante infatti, la over espressione di queste proteine, occorre
spesso appellarsi ad altre capacità delle cellule trasformate di evitare la risposta immunitaria antitumorale dell’ospite, per poter dar ragione dell’insorgenza
neoplastica. Il contesto funzionale cioè appare ugualmente importante come la
funzionalità (intesa come presenza o attivazione) di una molecola. Gli studi delle
alterazioni fenotipiche delle cellule tumorali in vivo, come quelle appena citate,
sembrano fornire ulteriori elementi a questo proposito. Descritte fondamentalmente in termini di un aumento dell’espressione delle oncoproteine, conseguenza
della traslocazione cromosomiale, amplificazione o mutazione, le alterazioni in
vivo sono state classificate principalmente come alterazioni nei patterns di metilazione del DNA, come perdita dei prodotti proteici di TSG dovuti a delezione
o mutazione del gene e come errori di imprinting che portano alla overproduzione di sostanze coinvolte nel progresso di crescita e instabilità genetica. La
conseguenza di tali circostanze è una progressiva perdita di regolazione della
proliferazione cellulare, un aumento dell’invasività e del potenziale metastatico.
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138
9.2. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA SMT
Geni mutati continuano ad essere al centro dello studio di questi meccanismi e
le cellule tumorali continuano ad essere identificate dall’acquisizione di funzioni.
Ma alcune delle caratteristiche sopra elencate possono essere osservate anche in tessuti in rapida proliferazione o in popolazioni di cellule staminali di
fenotipi indifferenziati. Anche condizioni di iperproliferazione cellulare in alcuni
pazienti, come nei casi di infiammazione, possono presentare alcune di queste
caratteristiche. Pertanto l’utilità principale di queste classificazioni sembra essere circoscrivibile a fini prettamente diagnostici dove abitualmente abbiamo
bisogno di un numero di caratteristiche che insieme sono sì sufficienti per definire lo stato maligno, ma non per identificare una relazione di causalità diretta
(efficiente) tra una alterazione molecolare e la sua attività funzionale.
9.2.2
Il controllo delle variabili della progressione neoplastica
Considerando il cancro come un fenomeno legato ai geni e alle loro mutazioni, quindi come un fenomeno che si da principalmente a livello cellulare, i
modelli in vitro di trasformazione di cellule umane rappresentarono un sistema
estremamente utile per studiare i meccanismi neoplastici, a partire dagli anni
’60. Nell’impossibilità di studiare una cellula da sola, le colture in vitro consentono di avere un sistema che può essere ritenuto sufficientemente omogeneo per
considerare tutte le unità in esso contenute come intercambiabili. Quando però
alcune evidenze sperimentali iniziarono a mettere in rilievo che le condizioni del
microambiente potevano fortemente condizionare il processo di trasformazione,
ragion per cui il test funzionale in vivo divenne presto indispensabile, si lavorò
alla preparazione di nuovi modelli animali, specialmente murini, che permettessero di ricostruire i meccanismi fondamentali della progressione neoplastica
[Hahn e Weinberg 2002a]. Tuttavia, differenze specie specifiche rendono ancora
difficile questo tipo di approccio. Non ultimo il fatto che rimane ancora molto
elevato il numero di fattori molecolari e genetici che nei tumori umani sembrano
essere fondamentali per ottenere i vari tipi di fenotipi tumorali: almeno da 4
a 6 mutazioni sono infatti richieste per il fenotipo neoplastico e con un’elevata eterogeneità tra i vari tipi di tumori [Hahn Weinberg 2002b]. Sembra però
plausibile che il basso numero di cambi genetici critici per l’insorgenza di un
cancro, identificati nel topo, debbano avere un loro corrispettivo anche nell’uomo. L’umanizzazione progressiva del genoma murino –realizzato mediante la
sostituzione di sequenze funzionalmente importanti del topo con le loro controparti umane- potranno fornirci dei modelli di topi che mimino il cancro umano
in modo sempre più efficace. Animali chimerici, in cui tessuti complessi umani
possono essere trapiantati e seguiti nella loro evoluzione nei topi, dovrebbero
anche fornire risposte importanti a domande sulla patologia neoplastica umana, nonostante l’uso di xenotrapianti sia ancora limitato date le incompatibilità
interspecie mediate dalle interazioni recettori-ligandi [Hahn e Weinberg 2002a].
L’evidenza che il contesto cellulare e tessutale è fondamentale per il mantenimento del fenotipo neoplastico, sta richiedendo, inoltre, l’elaborazione di
sistemi sperimentali che consentano una manipolazione anche in vitro delle dinamiche molecolari a livello di recettori di membrana e di segnali molecolari.
Le interazioni tra cellule epiteliali –normali e tumorali- e la matrice extracellulare che le circonda si stanno rivelando, per esempio, fondamentali nel fornire
informazioni sulle decisioni di vita e di morte cellulare [Jacks e Weinberg 2002].
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
139
Sistemi tri-dimensionali (3D) di colture in vitro –oltre ai già menzionati modelli murini in vivo- costituiscono le principali prospettive della ricerca attuale.
Modelli 3D vengono di fatto già utilizzati per studiare i pathways molecolari,
responsabili dell’influenza della matrice extracellulare (ECM) sulla progressione
tumorale, e quelli biochimici che trasmettono i segnali derivati dalle interazioni cellule-matrice per promuovere la sopravvivenza cellulare. La costituzione,
infatti, della polarità apico-basale in questi modelli promuove la sopravvivenza
cellulare in risposta a stimoli apoptotici, mentre l’assenza di interazioni con la
ECM induce apoptosi nelle cellule all’interno delle strutture 3D e delle formazioni luminari. La perturbazione della proliferazione e dei segnali di sopravvivenza
inducono pertanto la perdita della formazione luminare e portano ai primi eventi
della carcinogenesi epiteliale [Jacks e Weinberg 2002].
Infine, si stanno realizzando anche nuovi modelli computazionali che consentano di processare la quantità di dati che si stanno accumulando sui meccanismi
molecolari sottostanti al fenomeno neoplastico secondo uno schema sistemico.
Il progresso fatto per selezionare i pathways cellulari coinvolti ha già iniziato a far emergere un circuito che simulerà probabilmente circuiti elettronici
integrati, in complessità e finezza, laddove i transistors sono rimpiazzati, per
esempio, da proteine (chinasi, fosfatasi, ecc.) e gli elettroni da fosfati e lipidi
[Hanahan e Weinberg 2000]. Non sembra essere più adeguato studiare le componenti del sistema isolatamente per comprendere la complessità del fenotipo neoplastico: sebbene, infatti, i pathway di segnale siano abitualmente descritti come
una cascata lineare che dalla membrana citoplasmatica arriva al nucleo, con biforcazioni occasionali, evidenze sperimentali dimostrano come cross-connessioni,
punti di snodo e convergenze siano l’ordinario più che lo straordinario nella trasmissione di segnali intracellulari. Diventano allora necessari diagrammi come
minimo bi-dimensionali che costituiscano il primo passo verso la realizzazione
del circuito integrato cellulare completo. L’obiettivo prioritario della ricerca
sperimentale continua ad essere quindi, nel paradigma della SMT, quello di
individuare nuovi componenti molecolari responsabili dei vari steps della progressione neoplastica e di chiarirne le interazioni. Infatti, è l’identificazione dei
pathways coinvolti nella patogenesi di ogni tipo di cancro umano che faciliterà il disegno razionale di terapie tese a massimizzare gli effetti terapeutici ed
a minimizzare la tossicità e lo sviluppo di resistenze [Hahn e Weinberg 2002a].
L’integrazione cioè di tutte le informazioni molecolari a nostra disposizione in un
“complex interacting systems” -il cui comportamento deve poter essere predetto mediante strumenti informatici- sarebbe plausibilmente prossimo, se fossimo
già in grado di colmare le lacune ancora numerose sulle dinamiche del circuito regolatorio cellulare e avessimo avanzato molto di più nel dipanare l’enorme
complessità del cancro; con parole di Weinberg, le pretese del System biology
sono ancora a “pipe dream” [Weinberg 2006].
9.3
I modelli sperimentali elaborati dalla TOFT
A partire dal 1999 [Sonnenschein e Soto 1999], sulla base dell’ipotesi che il
cancro fosse un fenomeno emergente legato ad una situazione aberrante nell’organizzazione tessutale, gli autori della TOFT hanno messo a punto una serie
di esperimenti volti ad analizzare la natura dell’interazione tra stroma ed epitelio e dell’organizzazione tessutale, e di come essa venga modificata mediante
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140
9.3. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA TOFT
l’azione degli ormoni o di altri fattori fisici o chimici tradizionalmente legati all’insorgenza tumorale. Non assistiamo qui ad una ricerca progressiva di elementi
che vengono giustapposti, ma al disegno di esperimenti che volti ad analizzare
la funzionalità di un determinato livello della complessità biologica, pone delle domande sulla sua (dis)organizzazione e reattività nel fenotipo neoplastico.
La revisione dei paradossi emergenti all’interno del paradigma riduzionista e la
variabilità di risposta delle cellule a seconda del contesto in cui si trovano ad
operare, aveva portato già negli anni ’80 a rivedere le premesse della SMT. La
conclusione fu che considerare lo stato di default cellulare quello proliferativo
piuttosto che quiescente dava ragione di molte contraddizioni che emergevano
all’interno del paradigma riduzionista.
I primi dati incoraggianti, ottenuti sullo studio dell’effetto ormonale a livello dell’organizzazione tessutale e nell’insorgenza neoplastica, hanno portato
all’elaborazione di modelli sperimentali che consentano l’analisi del fenomeno
neoplastico a partire dalla struttura tridimensionale dei tessuti e delle modalità
di comunicazione intercellulare all’interno degli stessi. Le componenti cellulari, infatti, una volta integrate nella trama tessutale, interagiscono in un modo
nuovo e peculiare che presenta una caratteristica di intrinseca reciprocità di
relazione tra ogni cellula e il tessuto di cui forma parte. Di fatto, quando si
separano artificialmente le componenti del tessuto -le cellule che formano l’epitelio e quelle dello stroma sottostante- esse smettono di espletare le funzioni
che eseguivano quando erano assemblate nella loro peculiare organizzazione tridimensionale. Una volta invece ricombinate, esse formano un tessuto simile a
quello di origine.
Questi studi sui meccanismi di regolazione ormonale hanno anche consentito
di chiarire il ruolo del parenchima e dello stroma nell’organizzazione tessutale [Soto et al 2008b] facendo pensare che era biologicamente fondato studiare
fenomeni complessi come il cancro sulla base di una causalità che procede da
livelli sistemici più alti a quelli più bassi, senza pretendere di spiegare invece i
processi sulla base delle proprietà e composizione di parti inferiori. Gli autori citano a questo proposito anche altri esempi biologici che confermano come
questa dinamica non sia rara nello sviluppo di organismi superiori e nell’organizzazione di diversi tipi di tessuti. Lo sviluppo degli arti per esempio inizia
mediante l’organizzazione della struttura scheletrica e l’espansione delle parti
cartilaginee all’interno del mesenchima; proteine della famiglia dei fattori di
crescita (TGF-β) regolano questo processo. Anche lo sviluppo dei denti offre
un esempio di questo tipo di causalità circolare: l’epitelio mandibolare induce,
infatti, il mesenchima sottostante a condensare, capacità che però viene persa
successivamente e che invece viene espletata dal mesenchima condensato stesso.
Anche la membrana basale, che è interposta tra l’epitelio e lo stroma, si
costituisce mediante un’attività sinergica di questi ultimi due, ma a sua volta,
quando costituita, gioca un ruolo importante nell’organizzazione tessutale delle cellule [Soto e Sonnenschein 2005]. Prova ne è il fatto che quando le cellule
epiteliali sono collocate in un piatto di coltura, esse formano uno strato uniforme di tessuto molto diverso da quello originario, mentre se vengono collocate
su di una superficie previamente coperta con proteine della membrana basale,
esse si associano tra di loro e recuperano l’originaria struttura tridimensionale
dell’epitelio da cui provenivano. Le cellule cioè, aderendo le une alle altre, formano foglietti e dotti in cui la forma delle cellule stesse cambia in termini, per
esempio, di collocazione intracellulare degli organuli.
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
141
La ricostruzione del contesto funzionale, del microambiente tessutale, è quindi, nell’approccio sistemico al processo neoplastico, condizione fondamentale per
studiarne la specificità e le dinamiche concrete di questa teoria sistemica. A differenza della SMT, la TOFT studia le (dis)funzioni osservate ad un determinato
livello di organizzazione biologica invece di presupporle per spiegare quest’ultima. I modelli hanno sempre un carattere dinamico, non-lineare, e multidimensionale, caratteristica che accomuna la TOFT alle altre teorie sistemiche. Hanno
senso allora quegli esperimenti che studiano l’insorgenza tumorale mediata da
molecole che scompigliano l’ordine dei segnali endocrini e implicazioni pratiche
e teoretiche vengono tratte anche da questi dati sperimentali [Soto et al 2008a]:
• da un lato si apportano evidenze che gli esseri viventi sono sensibili all’esposizione ambientale e a composti chimici ormonalmente attivi a livelli
che prima erano considerati irrilevanti, dall’altro se ne deduce che lo sviluppo dei mammiferi è molto più malleabile di quanto non si pensasse,
tenendo conto che l’esposizione agli estrogeni durante lo sviluppo termina
in effetti morfologici e funzionali che permangono nella vita adulta;
• dall’altro si afferma che il livello di analisi adeguato per il fenomeno neoplastico sia quello dell’organizzazione tessutale, in coerenza con la definizione
del cancro quale processo organogenetico che non va a compimento.
I modelli animali occupano ovviamente un posto privilegiato nell’approccio metodologico di questa prospettiva sistemica al cancro. Per studiare tuttavia,
quando necessario, questo tipo di interazioni in vitro, i modelli sviluppati cercano di ricostruire la tridimensionalità tipica del fenomeno in vivo. Vengono quindi
utilizzati strutture sintetiche 3D che consentono la formazione, per esempio, di
ghiandole mammarie alquanto simili a quelle in vivo: infatti, se sono le interazioni stroma-epitelio quelle che mediano lo sviluppo della ghiandola mammaria,
la formazione e la progressione del cancro alla mammella saranno ugualmente
influenzate da esse. Colture di cellule epiteliali mammarie -fibroblasti mammari umani immersi in matrici di collagene- presentano, dopo alcune settimane,
strutture alveolari e duttali all’analisi istologica e ultrastrutturale. Questi modelli sembrano fornire quindi un eccellente sistema per studiare l’organizzazione
tessutale, la morfogenesi epiteliale e la cancerogenesi della mammella, mediante
un nuovo inquadramento concettuale che tenga conto dell’esistenza di proprietà
emergenti [Soto e Sonnenschein 2005].
Le colture cellulari stabilizzate in vitro invece non offrono, secondo questi
autori, un modello sperimentale adeguato in quanto riducono la complessità dei
(presunti) fenomeni proliferativi osservati in vivo. La pretesa di comparare la
rilevanza dei risultati in coltura con quelli ottenuti in animali, che sono in ultima
analisi quelli che si cercano di comprendere, può spesso pertanto, a ragion veduta, essere considerata scorretta2 . L’analisi genetica delle cellule neoplastiche
passa completamente in secondo piano, mentre simulazioni al computer sono
2 Un
esempio
chiaricatore
viene
oerto
a
partire
dai
dati
sulle
cellule
[Soto e Sonnenschein 1985], cellule derivate da un tumore mammario umano.
MCF7
Queste cel-
lule sono una delle tipiche linee cellulari tradizionalmente utilizzate per studiare il controllo
della proliferazione cellulare indipendentemente dalle premesse che vengono adottate. I sostenitori di un'ipotesi positiva sull'attività cellulare, per cui sono le unità cellulari a determinare
in prima istanza il loro comportamento in termini di proliferazione e dierenziamento (come
avviene quando la SMT assume lo stato quiescente come default cellulare), interpretano la
proliferazione cellulare delle MCF7, in assenza di siero, come un indicatore della loro capacità
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
142
9.3. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA TOFT
state realizzate per descrivere come il disordine e scompiglio dei gradienti di
morfostati nello stroma generi precursori epiteliali del cancro in assenza di mutazioni genetiche [Baker et al 2009]. Il modello parte dall’organizzazione di un
tessuto normale e ne segue il cambiamento morfogenetico, legato a fenomeni di
diffusione, dimostrando come la distruzione dei gradienti morfogenetici sia sufficiente a creare cellule aberranti il cui fenotipo non è più sotto il controllo del
gradiente stesso, indipendentemente dalla presenza o meno di mutazioni nelle
cellule iniziali al processo neoplastico.
9.3.1
Lo studio delle basi della componente dinamica del
processo neoplastico
Largamente influenzati dalla visione riduzionista, la maggior parte dei ricercatori si sono focalizzati sulle molecole ritenute di interesse nella progressione
neoplastica, senza considerare lo stato generale del genoma. È stato inoltre assunto che durante la manipolazione molecolare il biosistema in analisi rimane
lo stesso. Questa assunzione è stata portata agli estremi quando l’informazione raccolta a livello genomico è stata praticamente ignorata per il sopravvento
delle analisi molecolari. Il fatto è tuttavia che quando il cariotipo cambia, il
ruolo dello stesso gene può essere ugualmente alterato, dato che le funzioni dei
geni dipendono dal loro network genetico che è definito dal contesto genomico [Heng et al 2006a, Heng et al 2009]. Questo è ancora più vero nella ricerca
oncologica, dato che il sistema cambia continuamente durante la progressione
neoplastica, illustrata dall’alterazione dei cariotipi come dal cambio dei patterns
di espressione [Klein 2002, Ye et al 2007, Heng et al 2008].
Quale è il significato biologico delle grosse alterazioni che si riscontrano a
livello del genoma? Come abbiamo già visto diversi modelli sistemici del cancro cercano di dare una risposta, anche mediante formalizzazioni matematiche
a questa domanda. La risposta sembra dare diversi spunti capaci di spiegare
molti dati contraddittori che si danno a livello dei pathways, quando cellule con diversi cariotipi sono analizzate3 , oltre che la reversibilità del fenotipo
di produrre i loro stessi fattori di crescita, aermando che, essendo queste linee cellulari derivate da un tumore, esse abbiano trovato il modo di comportarsi anormalmente superando lo
stato di default di quiescenza [Lippman et al 1987]. Tuttavia, queste cellule non proliferano
in ospiti animali ovariectomizzati a meno che non siano somministrati estrogeni al topo in cui
sono state inoculate [Soule e McGrath 1980]. L'ipotesi positiva non riesce a riconciliare questi
dati in vivo e in vitro. Viceversa, l'ipotesi di un'azione indiretta e negativa dei fattori di crescita riconosce che quando rimosse da un organismo le cellule esercitano la loro capacità innata
di proliferare. Un siero pertanto senza estrogeni sarà capace di inibire la loro proliferazione
in coltura, mentre l'aggiunta degli stessi darà ragione del superamento di questa inibizione.
Solo adottando la premessa che la proliferazione è lo stato di default, il comportamento delle
MCF7 in coltura può essere riconciliato con quello in animali.
3 Riportiamo
un esempio citato in letteratura. Il pathway di p53 è stato relazionato con
diversi meccanismi molecolari e almeno 50 diversi enzimi possono modicare covalentemente
questa proteina alterandone la funzione [Kruse e Gu 2008]. Inoltre, diverse migliaia di geni sono stati identicati per la loro capacità di regolare direttamente la p53 [Soussi e Wiman 2007].
È interessante notare che ognuna di queste capacità regolatorie rappresenta una potenziale
funzione denita dal contesto genomico, compresa la regolazione epigenetica dello stesso genoma ma in diversi tipi tessutali [Murray-Zmijewski 2008]. Chiaramente, per una data cellula, la
maggior parte dei meccanismi conosciuti di mutazione per la p53 non possono funzionare contemporaneamente. Una delle ragioni per cui la lista funzionale delle mutazioni di p53 continua
a crescere è che questa molecola è stata ampiamente studiata utilizzando sistemi che dierivano ampiamente per il loro genoma.
La maggior parte delle linee cellulari e dei campioni
tumorali che sono stati utilizzati nei diversi esperimenti presentano, infatti, diversi carioti-
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
143
neoplastico, una delle questioni più difficili da risolvere invece all’interno della
prospettiva riduzionista ma ormai ripetutamente descritte anche in letteratura
[Nathanson 1976, NCI 1976, Challis e Stam 1990].
Le metodologie utilizzate partono dalla considerazione che per ogni biosistema, i pattern comportamentali identificati sono definiti dal contesto genomico
e sono ambiente/contesto dipendenti [Heng et al 2009]. Cambiando il contesto, un pattern specifico può divenire più sporadico e meno essenziale per un
determinato processo e viceversa [Hillenmeyer et al 2008, Heng et al 2009]. L’eterogeneità è pertanto la ragione per cui mutazioni universali non possono essere
trovate, mentre è proprio la variabilità dei patterns genetici che conferisce una
maggiore probabilità di sopravvivenza alle cellule, mediante adattamento all’ambiente. La maggior parte dei pazienti con uno stesso tumore presentano
un’unica serie di mutazioni che si sovrappongono solo minimamente. In un
sistema altamente complesso e dinamico come il cancro, ogni pattern dato rappresenta di fatto solo un numero limitato di casi, dato che i casi tumorali sono
contingenti da un punto di vista genetico e ambientale. Un pattern specifico di
mutazioni può essere cioè utilizzato solo all’interno di una popolazione specifica
con genoma simile e con composizione mutazionale e microambiente analoghi.
Pertanto è difficile identificare, e ancora più difficile applicare, pattern specifici
di mutazioni geniche al trattamento di tumori solidi, dato che la caratteristica
più comune nei tumori è un livello elevato di variazione genica che spesso cambia
la funzione di specifiche mutazioni genetiche.
Da queste considerazioni ne deriva la necessità di cambiare il modo di approcciarsi al problema, centrando il lavoro nel monitoraggio del livello di eterogeneità piuttosto che tentando di identificare pattern specifici. Nascono così
i diversi modelli sopra presentati a partire da quello genomico-centrico. “The
true challenge is to understand the system behavior ” [Heng et al 2009], la sua
stabilità o instabilità e i cambi impredicibili che si danno tra i diversi pathways
durante la progressione neoplastica e, in particolare, durante il trattamento terapeutico tradizionale mediante chemioterapici. Questo permette di studiare
come l’eterogeneità del sistema determina l’evoluzione del cancro. Nel modello
genomico-centrico lo sforzo è imperniato sulla ricerca di pattern coinvolti nella
risposta e relazioni di causa ed effetto fissando le condizioni iniziali del sistema. In questo modo il modello non solo permette alle dinamiche del sistema
di cambiare, ma il sistema stesso può continuare a cambiare durante l’evoluzione tumorale. La componente dinamica del processo neoplastico può essere
così studiata a livello dei network endogeni delle cellule tumorali e della loro
regolazione. Le interazioni dinamiche non lineari degli agenti endogeni possono
generare diversi stati stabili locali con funzioni biologiche più o meno evidenti.
La stocasticità a cui questi stati sono sottoposti possono produrre incidentalmente una transizione da uno stato stabile ad un altro, mentre le proprietà del
network possono essere compromesse geneticamente o epidemiologicamente.
Quando particolare rilievo viene dato alla componente differenziativa, abbiamo invece l’autostabilization-selection model of cell differentiation and cancer
pi. L'ampio spettro funzionale della p53 e dei suoi pattern all'interno del network patologico
[Goh et al 2007], riette perciò l'eterogeneità del sistema, oltre che la complessità del network
in ogni sistema studiato. L'eterogeneità a livello genomico rende, inoltre, la funzione di p53
mutato più versatile e quindi più visibile di quanto probabilmente sia realmente, dato che
ognuna delle funzioni individuali può essere stocasticamente selezionata in una popolazione
eterogenea.
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9.3. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA TOFT
[Fogarty et al 2005]. In questo caso, è l’equilibrio tra autostabilizzazione e interdipendenza per la proliferazione che viene studiato, in quanto identificato come
responsabile dell’organizzazione tessutale e del controllo della proliferazione cellulare. Partendo da questo livello di analisi e di complessità sistemica, qualunque
modificazione all’interno della cellula che cambi il bilanciamento tra gli effetti
di autostabilizzazione e interdipendenza proliferativa potrebbe portare alla disorganizzazione, geni inclusi. I modelli di differenziamento cellulare utilizzati
integrano l’espressione genica stocastica, attraverso simulazioni computerizzate
[Laforge et al 2005], con modelli che manifestano le proprietà analoghe a quelle
attese da una teoria della morfogenesi. L’assunzione, infatti, è che meccanismi
basati sulla stocasticità nella scelta del destino cellulare possano produrre una
struttura cellulare organizzata.
L’organizzazione tessutale viene attribuita da quest’ultimo modello all’equilibrio tra le influenze derivanti sia dal genoma che dalle interazioni cellulari.
Come abbiamo visto, la TOFT invece prescinde completamente dalla componente genetica, utilizzando un approccio sistemico al fenomeno direttamente
sulla base delle altre variabili quali le relazioni cellula-cellula-, stroma-epitelio,
ecc. Più specificatamente, la ricerca di queste relazioni interattive sta procedendo ora per la TOFT mediante l’uso della Systems Biology che, attraverso,
la parametrizzazione e modellizzazione di alcuni aspetti del fenomeno, consente lo studio della sua componente dinamica [Soto et al 2009]. L’idea è quella
di sviluppare modelli matematici mediante simulazioni computerizzate capaci
di generare predizioni testabili dell’effetto di determinate sostanze a livello organico (sistemico) o su organi diversi. Essi dovrebbero, inoltre, promuovere
l’identificazione di effetti simili e unici di diversi distruttori endocrini e le loro
inter-relazioni.
Due elementi, che già introducono alcuni spunti di riflessione epistemologica,
ci sembrano emergere come significativi da questi approcci metodologici. Entrambi sono relazionati con un potenziale ruolo causale dell’elemento stocastico
in questi modelli. Ricostruire, infatti, una sequenza di eventi lineari risulta praticamente impossibile quando si ha a che fare con fenomeni biologici complessi
come il cancro. Per stabilire pertanto una relazione causale tra i diversi eventi, i modelli sopra presentati cercano correlazioni significative, date determinate
condizioni iniziali, piuttosto che connessioni di causa-effetto univoche tra diverse
componenti molecolari del sistema. Infatti, durante l’evoluzione stocastica del
cancro, a cui sembrano concorrere un numero illimitato di fattori, è impossibile
stabilire una relazione di causalità diretta tra i fattori ambientali e specifiche
alterazioni genetiche/epigenetiche, cosa che invece sembra possibile per molti
eventi illustrati in letteratura sulla morfogenesi e lo sviluppo (anche se questa
correlazione di 1:1 si perde appena il sistema diventa più complesso). Solo all’interno di stati relativamente stabili dove il cariotipo non cambia, mutazioni
genetiche e regolazioni epigenetiche possono giocare un ruolo dominante, analogamente a quanto avviene nella fase adattativa della micro-evoluzione. Da un
punto di vista sistemico però, solo cambi cariotipici significativi rappresentano
dei “punti di non ritorno” nell’evoluzione del sistema.
Per le stesse ragioni che vigono quindi nella macro-evoluzione stocastica, la
progressione tumorale è considerata, allora, fondamentalmente diversa da un
processo di sviluppo. La progressione dello sviluppo (developmental progression), infatti, si riferisce ad un processo ben controllato di auto organizzazione
-sia nella sua componente spaziale che temporale- dove molti geni hanno un ruo-
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
145
lo preciso, mentre nell’evoluzione del cancro, sebbene in alcuni casi le parti del
processo morfogenetico siano coinvolte, nella maggior parte di essi le alterazioni
dominanti sono genomiche e mediate da un rimpiazzamento stocastico del sistema, che non segue un pattern ben definito [Heng et al 2006a, Heng et al 2009].
La terminologia pertanto di “cancer development” implica, dal punto di vista
dei modelli sistemici, un concetto scorretto. Poiché la progressione tumorale è
caratterizzata dalle sue analogie con i fenomeni macro-evolutivi mediati genomicamente (piuttosto che microevolutivi o di morfogenesi/sviluppo), essa richiede
un cambio di strategia di ricerca.
9.3.2
La centralità del concetto di campo (funzionale) nel
recupero della prospettiva sistemica
La prospettiva riduzionista aveva cercato di spiegare il cancro ricostruendo
una sequenza lineare di progressione degli eventi in termini sia spaziali che temporali. L’evidenza tuttavia di fenomeni come quello della latenza e dell’eterogeneità tumorale portò ad elaborare, partendo dal concetto di CSC, un modello
gerarchico del cancro che metteva in evidenza 1) come la componente dinamica
del processo neoplastico richiedesse un livello sistemico per essere spiegata e 2)
come la componente strutturale (gerarchica) e processuale non potessero essere
scisse. Tale modello si presenta, all’interno della SMT, come un efficace sintesi dei modelli genetici ed epigenetici precedenti per dar conto dell’origine delle
funzioni specifiche individuate nel cancro [Hanahan e Weinberg 2000].
Anche se l’epigenetica del cancro è più comunemente vista come responsabile
della compromissione del programma di una cellula staminale [Feinberg 2007],
all’interno della prospettiva riduzionista, non mancano altre interpretazioni di
natura sistemica che integrano i dati dell’epigenetica del cancro con una visione
più tessutale che cellulare del processo neoplastico. Un primo passo verso questa integrazione viene da quei modelli che vedono il cancro come una patologia
cellulare del differenziamento, legata a proprietà delle cellule tumorali, analoghe a quelle delle cellule staminali, ma indotte da fattori extracellulari –mediati
da meccanismi epigenetici- più che da mutazioni specifiche [Capp 2006]. Evidenze a supporto di questa ipotesi vennero dall’osservazione che caratteristiche
maligne compaiono con frequenza stocastica, mediata da regolazione dell’espressione genica, in seguito alla distruzione delle interazioni cellulari per azione di
cancerogeni di varia natura che normalmente stabilizzano l’espressione genica e
mantengono uno stato ben differenziato. D’accordo con questa ipotesi la mancanza di differenziamento in cellule staminali, e forse probabilmente anche nelle
cellule tumorali, è conseguenza di una espressione genetica controllata stocasticamente e non l’esecuzione di un programma genetico [Mikkers Frisen 2005].
Questa prospettiva interpretativa inoltre dava ragione dei numerosi studi che
mostrano come le cellule cancerogene possono essere normalizzate se poste in un
microambiente normale [Mintz e Illmensee 1975, Hochedlinger et al 2004] e che
le cellule cancerogene mantengono la loro capacità di differenziare nonostante
le alterazioni genetiche [Kenny e Bissell 2003, Lotem e Sachs 2002].
I cambi nel genoma sarebbero allora una conseguenza della destabilizzazione globale dell’espressione genica [Capp 2005], come sembrano dimostrare gli
studi sull’instabilità genetica di cellule staminali quando coltivate senza controllo del microambiente [Maitra et al 2005]. Lo stesso potrebbe succedere nelle
cellule pre-maligne dopo la compromissione degli effetti stabilizzanti intermedi
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9.3. I MODELLI SPERIMENTALI ELABORATI DALLA TOFT
legati all’organizzazione tessutale. La de-regolazione successiva dei pathways di
mantenimento del DNA, generati dall’alterazione del microambiente, sarebbe
sufficiente a generare i difetti che si osservano nelle cellule tumorali, per cui
le mutazioni che inattivano geni specifici coinvolte nel differenziamento cellulare possono essere più generalmente conseguenza di uno degli altri meccanismi
previsti, per esempio, da Harris per il differenziamento cellulare.
Due elementi emergono quindi da questo percorso: da una parte l’estensione del processo lineare a uno contestuale (non-lineare), dall’altra l’importanza
primaria del microambiente nella determinazione del fenotipo neoplastico (stato
funzionale patologico).
Tali elementi sono assunti esplicitamente come presupposti epistemologici
dalla TOFT che considera la persistenza dei campi morfogenetici lungo l’arco
della vita dell’organismo come un’argomento centrale per la teoria sull’organizzazione tessutale del cancro; questi campi orchestrano l’istogenesi e l’organogenesi prima della nascita, come il mantenimento dell’organizzazione tessutale e
la loro rigenerazione nella vita post natale. L’esposizione in età fetale a sostanze
endocrine che interferiscono e disturbano la normale morfogenesi possono contribuire ad un aumento dell’incidenza di malformazioni nei tratti genitali maschili,
ad una diminuzione della qualità dello sperma e a diverse neoplasie. Sulla base
degli studi previ sull’effetto di alcuni ormoni a livello dell’organizzazione tessutale e guidati dalle premesse epistemologiche sviluppate con la TOFT, alcuni
studi hanno analizzato come l’esposizione a xenoestrogeni in utero aumenti l’incidenza di cancri alla mammella nell’età adulta, dato che questi interferiscono
con la morfogenesi mammaria [Soto et al 2009]. I dati sperimentali sembrano
confermare le ipotesi sul ruolo di questi e altri ormoni sull’organizzazione delle
ghiandole mammarie e nell’insorgenza di iperplasie intraduttali, quando somministrati nel periodo perinatale [Vandenberg et al 2007, Vandenberg et al 2008,
Munoz de Toro et al 2005].
Il processo differenziativo, che è parte di quello morfogenetico, caratterizzato dall’introdurre un dimensione che non è più autoreferenziale per la cellula
tumorale ma relativa tra due stati cellulari, si arricchisce così della componente contestuale che viene ad essere il determinante della specificità funzionale
del fenotipo neoplastico. Tale componente viene identificata fisicamente dalla
TOFT nei campi morfogenetici, mentre viene formalizzata da altri modelli sistemici mediante concetti come quello di functional landscape. La stocasticità
diviene caratteristica dominante di un sistema che non è più lineare. Gli eventi
non seguono pertanto più una logica meccanicistica, ma di emergenza per cui
esistono aspetti dell’organizzazione della materia biologica che non possono essere predetti [Gilbert e Sarkar 2000], ma che possono essere descritti mediante
formalizzazioni matematiche non-lineari.
Questo nuovo framework concettuale fornisce una descrizione ed interpretazione anche quantitativa di alcuni aspetti della genesi tumorale e della progressione neoplastica, altrimenti difficilmente spiegabili all’interno della prospettiva riduzionista, in cui la componente stocastica gioca un ruolo importante
[Laforge et al 2005, Ao et al 2008]. Basato sulle dinamiche a livello sistemico
(system-level dynamics) dei network regolatori dei geni, il modello elaborato da
Ingber [Huang e Ingeber 2006], per esempio, sembra essere capace di dar ragione
della progressione verso la metastasi e del cambio fenotipico associato a questa,
nonché della latenza delle metastasi. Un nuovo significato biologico quindi viene
attribuito a questi fenomeni. Il fenotipo maligno non è una completa reinven-
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
147
zione cellulare, ma è lo spostamento verso stati che preesistono nella cellula.
Uno switch reversibile può essere ammesso -ed è plausibile nel modello degli
attrattori- in quanto il fenotipo metastatico può ritornare normale: infatti, una
delle proprietà fondamentali dell’attractor landscape è la multi-stabilità, l’abilità cioè del sistema di tornare indietro o di andare avanti tra specifici e stabili
fenotipi, in risposta ad una gamma di perturbazioni non-specifiche, incluso il
“rumore” genico. L’ontogenesi fornisce così, ancora una volta, all’oncogenesi un
punto di partenza.
Concetti come quello di gene expression state space, attractors ed epigenetic
landscape possono essere riassunti in quello di functional landscape, spostando
l’attenzione sulla componente funzionale di questi concetti biologici più che su
quella molecolare. Questa astrazione permette in qualche modo di riconciliare
le teorie di origine genetica ed epigenetica del cancro e l’analisi verte ora sul numero e identità dei possibili stati all’interno del campo funzionale del network
endogeno, per cui il cancro viene visto come uno stato robusto di quest’ultimo
non ottimizzato per l’intero organismo. Il concetto e le proprietà funzionali del
cancro vengono così astratte dalla loro componente biologica specifica. Riteniamo che questo passaggio racchiuda un significato e un potenziale per una
ridefinizione delle funzioni biologiche in senso proprio.
La TOFT e altri modelli sistemici sembrano quindi essere coerenti con alcune
evidenze empiriche per le quali invece continui paradossi e dicotomie si generano
all’interno della SMT [Sporn 2006]: cellule embrionali normali, quando poste
in ambiente ectopico, danno origine a teratocarcinomi; quando cellule di un
teratocarcinoma vengono poste in una blastocisti normale, il fenotipo maligno
va incontro a reversione; lo stesso accade quando cellule di epatocarcinomi sono
poste in contatto con un parenchima normale di fegato, ecc.
In tali modelli, l’identificazione del livello di complessità biologica, a cui si
genera un determinato fenomeno (fisio)patologico, diviene presupposto fondamentale per i modelli sistemici. L’identificazione del campo è cioè prioritario
per lo studio di una (dis)funzione e la dimensione processuale viene assunta
come componente intrinseca del sistema, non più “spiegata” dal modello, ma
(parte della) sua spiegazione: essa è reale e capace di dar ragione delle proprietà del fenotipo neoplastico. Quest’ultimo non è più definibile sulla base delle
caratteristiche molecolari, ma è identificato come stato funzionale di un sistema,
definito, appunto, mediante la nozione di campo.
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148 9.4. CONCLUSIONE: DUE DIVERSI TIPI DI INDETERMINAZIONE
9.4
Conclusione: due diversi tipi di indeterminazione
Le difficoltà ad accettare una visione della patologia neoplastica come un
evento circoscrivibile e spazio-temporalmente identificabile si possono fondamentalmente ricondurre alle seguenti constatazioni:
1) da un lato, alla difficoltà di ricondurre l’origine del cancro ad una componente molecolare intracellulare unica o a un fattore esogeno specifico che
ne determina l’insorgenza. Mentre per l’insorgenza di alcune malattie il
fattore eziologico è chiaramente individuato in un fattore ambientale o genetico, è difficile invece collocare il cancro all’interno di una sola di queste
due categorie. Infatti, fin dai primi studi sistematici, era apparso evidente
il legame di questa patologia tanto con fattori ambientali come genetici ed
ereditari in senso più ampio.
2) Un’altra ragione si può individuare nel fatto che nonostante lo sforzo per
individuare la sequenza delle componenti molecolari responsabili della progressione neoplastica, difficilmente si è riusciti a ricostruire tappe discrete,
circoscrivibili mediante una serie di marcatori che consentissero una descrizione e spiegazione lineare del fenomeno. “The molecular components and
their interactions are mainly unvaried, but the functional activity changes, due to internal and external factors that eventually involve multiple
DNA-damaging events, e.g., mutations and alterations in gene expression
through hypermethylation of promoter sequences” [Bertolaso 2009a]. Questo implica che al di là dell’apparente semplicità della progressione neoplastica nei modelli tumorali meglio studiati come quello del colon retto, i
pathways necessari per superare i normali limiti omeostatici sulla divisione
cellulare sono alquanto complessi.
3) Alcuni elementi interessanti sui meccanismi responsabili del processo neoplastico che emersero in contemporanea alle numerose scoperte sui ONG
e TSG contribuiscono pure alla constatazione iniziale. È apparso infatti sempre più chiaro come centinaia di questi geni sono alla fine implicati sia nei processi regolativi normali sia nei meccanismi di deregolazione che possono dar ragione del fenotipo metastatico, mediato principalmente da meccanismi differenziativi che non interagiscono più in modo coordinato [Weinberg 1989, Marshall 1991]. In ogni singolo paziente questo è anche manifestato da un ampio spettro di genotipi e fenotipi all’interno della popolazione di cellule tumorali [Fidler e Kripke 1977,
Poste e Greig 1982, Heppner 1984], facendo pensare che diversi processi
fisiologici siano implicati.
Per queste ragioni, come è stato notato [Wakefield e Sporn 1990], la patologia
non può che essere vista come un processo (molecolare e cellulare) che evolve,
non una circostanza statica la cui prima manifestazione clinica può essere datata, per i tumori solidi ad esempio, al momento in cui l’anatomopatologo alla fine
diagnostica uno stato invasivo delle cellule tumorali che oltrepassano la membrana basale del tessuto analizzato su un vetrino. Ad una prima analisi delle
metodologie riduzioniste e sistemiche potrebbe sembrare che la differenza tra le
due sia riconducibile all’organizzazione dei dati sperimentali, componendoli in
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CAPITOLO 9. LA PROSPETTIVA METODOLOGICA
149
una sequenza lineare (per cui si parla di progressione neoplastica) o integrandoli
in un sistema in cui le inter-relazioni dinamiche divengono i principali oggetti
dello studio (per cui si parla di processo neoplastico). Il riduzionismo procede
cioè per giustapposizione degli elementi, per cui la conoscenza esaustiva delle
parti è condizione della conoscenza del tutto; la prospettiva sistemica avanza
invece per approssimazione, mediante l’individuazione di campi, per cui un elemento di un sistema non si può comprendere se non sulla base delle relazioni
specifiche che instaura con tutti gli altri elementi strutturali e funzionali dello
stesso. Per questo il problema metodologico fondamentale del riduzionismo diviene quello del controllo delle variabili, mentre per i modelli sistemici è quello
dell’individuazione del corretto livello di analisi del fenomeno patologico nella
gerarchia della complessità organica.
Tuttavia, anche se la patologia classica e l’oncologia clinica si sono spesso
cimentate con il cancro come una realtà tridimensionale e definita nello spazio
(misura e localizzazione delle lesioni descritte), l’importanza della dimensione
critica del tempo nello sviluppo della carcinogenesi ha spostato l’attenzione della
ricerca oncologica su una questione di grande interesse, forzando le due prospettive a dar prova della loro solidità e potenziale euristico ed interpretativo del
fenomeno neoplastico. Infatti, per comprendere il processo di carcinogenesi, che
è in realtà la vera patologia, occorre considerare la componete temporale da
un’altra prospettiva, cioè quella della dinamicità del fenomeno. La carcinogenesi è da considerare come un processo endemico patologico, per cui nessuno
è in qualche modo completamente estraneo ad esso [Sporn 1991]. Almeno per
quello che riguarda le premesse genetiche, ognuno è a rischio nonostante la progressione dalle fasi iniziali a quelle finali abbia una natura stocastica. È questa
componente stocastica allora che ha bisogno di una spiegazione e che sta alla
base, in ultima analisi, della divergenza dell’impostazione epistemologica delle
prospettive riduzioniste e antiriduzioniste o sistemiche della carcinogenesi.
Facciamo allora un passo indietro. All’interno del paradigma riduzionista la
definizione del cancro e la spiegazione della sua origine è sempre stata data a
livello (genetico) molecolare. Il processo neoplastico è stato pertanto comunemente spiegato come un accumulo di mutazioni somatiche di certi geni a cui è
legato il fenotipo cellulare tumorale, con la conseguente attribuzione di funzione a quei geni coinvolti. La ricerca tuttavia di una definizione essenziale della
patologia ha spostato l’attenzione dalle componenti molecolari alle proprietà
funzionali del tumore stesso [Hanahan e Weinberg 2000] che emergono lungo il
processo, per cui un test funzionale è sempre richiesto per testare le proprietà
di determinati geni relazionati con l’insorgenza tumorale. L’analisi dell’attribuzione funzionale nel paradigma riduzionista ha messo già in evidenza la sua
inadeguatezza e alcune ragioni dei paradossi che emergono quando si attribuiscono funzioni a delle parti del sistema per spiegare lo stesso [Bertolaso 2009b],
ma ciò che interessa qui sottolineare è come, nel passaggio che parte dall’individuazione di regolarità a livello molecolare alla loro identificazione a livello
funzionale, la domanda sul perché del cancro divenga fondamentalmente una domanda sul come. Non si rinuncia all’impostazione epistemologica meccanicista:
la patologia neoplastica continua ad essere studiata dalla prospettiva delle sue
componenti e la questione funzionale è puramente strumentale alla spiegazione
della sua origine. Le funzioni biologiche presentano allora le caratteristiche delle
forze fisiche: variabili esplicative dell’origine del sistema.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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150 9.4. CONCLUSIONE: DUE DIVERSI TIPI DI INDETERMINAZIONE
Dall’altra parte invece, ragionare in termini sistemici vuol dire sempre e
comunque ragionare in termini processuali, per cui la componente strutturale
(gerarchica) non può mai essere scissa da quella dinamica. Le proprietà funzionali del cancro pertanto forzano a riconsiderare il livello di analisi del fenomeno.
L’individuazione del corretto sistema in studio diviene premessa necessaria per
l’elaborazione dei vari modelli sistemici, per cui la componente stocastica è parte
intrinseca del fenomeno stesso. L’indeterminazione pertanto con cui si confronta
la prospettiva sistemica non è tanto quella dell’origine del sistema, ma quella del
suo comportamento, della sua funzione4 . Esiste un’asimmetria tra le due posizioni che ha i suoi presupposti epistemologici e le sue implicazioni ontologiche,
come vedremo nei prossimi capitoli.
4 Il
concetto di indeterminazione sta qui al concetto di determinazione come il concavo
sta al convesso e non come il bianco sta al nero, nel modo in cui cioè un termine sta al
suo opposto. Nonostante l'ampio dibattito sulla questione del determinismo, in questo studio
ci riferiamo a questo concetto solo per quegli elementi che può fornire, eventualmente, in vista
di una migliore comprensione dei presupposti losoci delle dottrine deterministe che hanno
dominato anche la ricerca scientica negli ultimi secoli. Nessuna dottrina determinista infatti
è conseguenza solo di un'osservazione fenomenica, lo è anche e soprattutto di una serie di
condizioni previamente stabilite [Ferrater Mora 1994] che non sono indierenti, soprattutto
quando si ha a che vedere con la nozione di indeterminazione in un sistema vivente. Una certa
indeterminazione infatti caratterizza la morfogenesi, l'evoluzione, la progressione neoplastica.
Essa si pone come condizione del processo di sviluppo ed organizzazione funzionale di un organismo vivente, presupposto per la manifestazione fenotipica, intesa come stato funzionale,
dello stesso. La specicità di quest'ultimo è quindi l'altra faccia della medaglia (determinazione) e le condizioni al contorno [Giuliani e Zbilut 2009] che vi contribuiscono, le condizioni
per la progressiva realizzazione dello stesso.
La domanda pertanto relativa alla natura di questo concetto di indeterminazione ha più a
che vedere con la nozione di causa formale (blueprint ) e con la natura del sistema di riferimento
che con la questione della predicibilità (tipica del dibattito tra determinismo e indeterminismo)
o, come vedremo più avanti, con l'ontologia più che con l'epistemologia. Perciò, il contributo
di questo concetto nel presente studio non è tanto nella linea della distinzione tra sistemi
deterministici e indeterministici, quanto alla natura del sistema per il quale la dipendenza
(determinazione-indeterminazione) funzionale risulta esplicativa di un determinato fenomeno
osservato, per esempio come quello neoplastico.
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Capitolo 10
La prospettiva epistemologica
10.1
Arontando l'eterogeneità tumorale
In nessun altro contesto le posizioni epistemologiche tra biologi molecolari e
sistemici sono più divergenti che nell’interpretazione di fenomeni (fisio)patologici
dello sviluppo, dell’invecchiamento e della trasformazione neoplastica. “The
broader concept of networks can in principle account for all aspects of biology,”
disse Bert Vogelstein, famoso oncologo della Johns Hopkins University (Baltimora) già ripetutamente citato per i suoi lavori sul cancro del colon retto. “But
it will be no easy task to understand the cell-type specificity associated with, for
example, cancer cell mutations. In addition to the tremendous complexity of the
human organism, many of the differences are likely to emanate from relatively
small changes in biochemical parameters” [Longtin 2005]. La specificità fenotipica (comportamentale) del sistema biologico identificato come responsabile del
cancro rimane, infatti, il banco di prova della domanda scientifica. L’importanza della prova funzionale, evidenziata nel capitolo precedente, rappresenta in
modo significativo questo problema da un punto di vista sperimentale.
Nei primi capitoli era emerso come la specificità del processo neoplastico,
analizzata nella sua componente temporale oltre che spaziale, sia riconducibile
all’eterogeneità dei fenotipi tumorali tanto a livello cellulare che di masse neoplastiche. È emerso, inoltre, come l’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro
sia stata legata in gran parte proprio al tentativo di includere questo aspetto
nella spiegazione del fenomeno tumorale. Entreremo ora più nel dettaglio di come i modelli elaborati all’interno delle due prospettive riescano effettivamente a
dar ragione dell’eterogeneità tumorale. Infatti, quest’ultima rimane comunque
la prima evidenza fenotipica del cancro tanto per i ricercatori di base come per
coloro che hanno a che vedere con la patologia da un punto di vista clinico.
Per la SMT, l’eterogeneità clonale delle cellule iniziate e promotrici del cancro insorge in tappe avanzate della trasformazione neoplastica, precedendo l’invasione locale del tessuto e la fase metastatica finale. La plasticità è invocata per
spiegare lo sviluppo del cancro (cancer development), in quanto sembra essere
in grado di dar ragione dell’eterogeneità di fenotipi tra i diversi tumori e cellule
tumorali. L’epigenetica ha dato una risposta interessante a questa questione,
fornendo le basi molecolari della plasticità che poteva essere così ricomposta
con l’evidenza dell’eterogeneità. In questo modo il cancro condivide un aspet151
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152
10.1. AFFRONTANDO L’ETEROGENEITÀ TUMORALE
to fondamentale con altre patologie epigenetiche relazionate con difetti nella
plasticità fenotipica e l’abilità delle cellule di cambiare il proprio comportamento in risposta a fattori ambientali [Feinberg 2008]. Tuttavia per la “multiple
realizability”, dato di fatto quando si parla di organismi viventi, “tokens identities will not suffice for reductionism even if they are enough for physicalism”
[Rosenberg 2008]. Questo giustifica l’evoluzione dei modelli riduzionisti verso
il modello gerarchico in cui l’eterogeneità sembra trovare finalmente una sua
spiegazione come caratteristica, fin dalle sue origini, più specifica del fenomeno
neoplastico.
La prospettiva riduzionista considera il processo di carcinogenesi fondamentalmente come un processo di deregolazione della funzione genica che, qualsiasi
ne sia la causa -una mutazione, delezione, amplificazione o traslocazione- porta,
in ultima analisi, all’espansione clonale delle cellule trasformate. L’assunzione,
nonostante le obiezioni che già si potrebbero muovere sulla base della necessità della prova funzionale, è che i “functional biological explanantia” (oggetti
biologici in studio) siano sempre “molecular biology explananda”, secondo anche
la prospettiva già difesa da Rosenberg. Si postula, pertanto, un’identità tra
le parti molecolari e le loro funzioni. La complessità biologica è considerata un
epifenomeno che si risolve mediante un approccio epistemologico che riduce questo concetto a quello di inter-azioni tra parti molecolari, per cui l’eterogeneità
tumorale può essere spiegata alla luce del sistema molecolare identificato. In
questo modo, la componente stocastica può essere considerata come apparente
e pertanto presumibilmente riconducibile a descrizioni di sequenzialità.
Le prospettive organiciste invece hanno elaborato modelli interpretativi centrandosi precisamente sulla componente dinamica del processo neoplastico. L’eterogeneità tumorale viene assunta come un dato di fatto e diviene parte integrante della spiegazione del fenotipo tumorale. Essa è riconducibile alla stocasticità e alla sua specificità nel processo neoplastico, come mostra il fenomeno
della latenza tumorale [Baker et al 2010]. Ciò è quanto si evince tanto da quei
modelli che guardano al cancro principalmente in termini di network molecolari
in cui la relazione tra proliferazione e differenziamento diviene il primo oggetto di studio [Lowe e Cepero 2004], tanto da quelli che spiegano il tumore come
un’organogenesi che non va a compimento. In nessuno dei due casi il lavoro di ricerca è orientato, in prima istanza, alla ricerca e definizione di entità biologiche
molecolari specifiche a cui possa essere ricondotto il fenomeno. L’eterogeneità, qui, non è un problema e le componenti temporali e spaziali del processo
neoplastico sono spiegate in termini di campi morfogenetici. All’interno dalla prospettiva sistemica lo sforzo esplicativo è centrato, cioè, sulla componente
dinamica del processo, che non è ridotta a pura sequenzialità. Diverse metodologie possono essere approntate per studiare il comportamento del sistema. Un
bio-sistema infatti può essere classificato a diversi livelli; compete al ricercatore
scegliere quello adeguato per l’analisi da svolgere sulla base dei concetti e delle
metodologie disponibili. In accordo con un concetto di complessità che assume
l’emergentismo come default, le proprietà dei livelli inferiori sono spesso diverse
da quelle che compaiono a un livello superiore di un sistema biologico nel suo
insieme1 . La questione epistemologica delle prospettive sistemiche non ha allora
1 Da
notare qui che anche le teorie sull'informazione suggeriscono che la selezione del livello
che controlla il sistema è realmente cruciale per uno studio che voglia avere delle implicazioni signicative in termini di predicibilità, mentre il livello più accessibile dal punto di vista
dell'estrazione dell'informazione, non necessariamente è utile nel controllo del sistema. Per-
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
153
tanto a che vedere con l’identificazione del sistema (presupposto metodologico
delle stesse), ma riguarda piuttosto il tipo di spiegazione (explanans). L’interesse non è tanto per le parti (molecolari) quanto per la specificità delle loro
inter-azioni.
Analizzeremo attraverso quali concetti (connettibilità) gli approcci riduzionisti e sistemici diano ragione della specificità del processo neoplastico, laddove le
dinamiche temporali non ammettono un’unica spiegazione causale del processo
stesso. Nonostante infatti alcuni processi biologici siano ugualmente considerati
da entrambi, diverse spiegazioni sembrano confrontarsi. Ciò che ne emergerà
tuttavia è che la questione epistemologica suscitata dalla stessa evidenza empirica (dato fenomenologico di un comportamento specifico del cancro) è fondamentalmente diversa. Il riduzionismo infatti costruisce sistemi che possano
essere capaci di dar conto dell’eterogeneità, mentre la prospettiva sistemica lavora sulla spiegazione del fenomeno mediante di essa. Dimostreremo così perché le
posizioni riduzioniste e sistemiche presenti in letteratura non rappresentano due
reali alternative nella spiegazione del processo neoplastico. Metteremo inoltre
alcune premesse per le implicazioni ontologiche delle spiegazioni epistemologiche
quando si devono confrontare con gerarchie biologiche: il confronto con una causalità circolare, infatti, non sembra essere eludibile per dar ragione dei fenomeni
biologici.
10.2
Presupposti epistemologici della SMT
“Anything found to be true of E.Coli must also be true of elephants”
[Monod 1954]. La citazione in apertura del primo capitolo dell’ultimo testo
pubblicato da Weinberg sembra descrivere adeguatamente la prospettiva da cui
i dati sperimentali vengono analizzati e che sottende la ricerca sul cancro promossa all’interno della SMT. L’auspicio è, infatti, che la ricerca sperimentale
possa evolvere sempre più in una scienza logica (derivabilità), dove la complessità della patologia possa essere finalmente compresa in termini di pochi principi
comuni [Hanahan e Weinberg 2000].
Un primo gruppo di questi principi sono quelli che governano la trasformazione delle cellule umane normali in cellule tumorali maligne; la ricerca sperimentale ne avrebbe già descritto un certo numero in termini di caratteristiche
molecolari, biochimiche e cellulari condivise da molti, se non tutti, i cancri umani. La fiducia in questa semplificazione deriva direttamente dagli insegnamenti
della biologia cellulare per cui virtualmente tutte le cellule dei mammiferi hanno
un meccanismo molecolare simile (molecular machinery) che ne regola la proliferazione, il differenziamento e la morte [Hanahan e Weinberg 2000]. La visione
dell’organismo propria della SMT è quella di un insieme di cellule che, mediante la semplice realizzazione di un programma genetico, sono capaci di formare
tessuti ed organi ed essere così responsabili dell’assetto finale dell’intero organismo. Il problema fondamentale è allora quello di individuare i meccanismi
che permettono alla compagine genetica di una cellula, o di un organismo, di
determinare il suo fenotipo e le sue funzioni [Weinberg 2006].
tanto, secondo Waddington per esempio, una comprensione più approfondita di come le teorie
della complessità e dell'informazione si applichino ai bio-sistemi determinerà chiaramente le
strategie di ricerca [Waddington 1977].
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154
10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
Le strategie tradizionali della ricerca oncologica si sono quindi centrate sull’identificazione e caratterizzazione di patterns di aberrazioni genetiche, in generale, e di mutazioni somatiche chiave, in particolare, che fossero causalmente
significative. Da questo sforzo sono emersi concetti come quelli di “cancer genes”.
Il principio sottostante è quello per cui tipi specifici di cancro sono causati da
una sequenza di eventi genetici che si susseguono durante la progressione neoplastica [Hahn Weinberg 2002b, Vogelstein e Kinzler 2004, Heng et al 2006a]. La
plasticità, evidente nell’organizzazione degli organismi viventi, è attribuita alle
cellule individuali, che costituiscono gli elementi di costruzione fondamentali dell’organismo in quanto dotate di grande autonomia e versatilità. La loro
capacità proliferativa è, all’interno di questa prospettiva, controllata da programmi genetici e rimane tale in molti tessuti anche dopo il completamento
dello sviluppo.
Se il cancro è allora relazionato con la capacità proliferativa incontrollata
delle cellule, il fenotipo di queste ultime dovrà essere compreso mediante l’analisi di geni e proteine che si trovano al loro interno. L’origine di questa idea è
ugualmente semplice: rimanda direttamente alla genetica dei batteri e a quella
dei lieviti. Gli studi genetici in questi organismi, infatti, servirono per la formulazione del postulato per cui il genotipo cellulare determina tutti gli aspetti
del fenotipo e l’applicazione di questo stesso criterio ai metazoi si è rivelato
già estremamente utile ai biologi. La complessità di questi organismi ha creato
non poche difficoltà nella ricerca di risposte che fossero conclusive. Per questo,
molti biologi molecolari e biochimici hanno abbracciato il credo di una scienza
riduzionista: quando si lavora con sistemi complessi, il miglior modo per arrivare a conclusioni solide e rigorose è quello di ridurre questi sistemi ad altri più
semplici e di studiarne le componenti, ciascuna separatamente. “Simple ideas
are wrong. Complicated ideas are unattainable” [Valere 1942]. Le conclusioni
che derivano, seppur circoscritte a porzioni ridotte e piccole del sistema che è
ben più complesso, sono solide e definitive, non cambieranno cioè per nuove
prospettive delle generazioni future di ricercatori [Weinberg 2006].
Grazie a questa impostazione riduzionista, dopo la scoperta degli oncogeni,
sono stati fatti grandi progressi nella ricerca sul cancro e numerose sono le
informazioni che sono state accumulate. Il “patto riduzionista” firmato da molti
ricercatori si declina nelle due seguenti assunzioni:
1) tutti gli attributi del cancro possono essere compresi in termini di geni
appartenenti alle cellule tumorali;
2) tutte le caratteristiche di un tumore possono essere ricondotte direttamente al comportamento delle singole cellule neoplastiche all’interno della
massa tumorale [Weinberg 2006].
Entrambe sottostanno all’assunzione principale della SMT per cui il cancro è
da considerarsi “a cell-autonomous process”.
La seconda assunzione tuttavia è stata ripetutamente messa in crisi dalle
evidenze cliniche, e ora anche molecolari, sull’eterogeneità fenotipica dei tumori e delle loro cellule più recentemente interpretata sulla base dell’importanza
della comunicazione intracellulare e del ruolo che cellule normali –dello stroma
per esempio- hanno nell’organizzazione e mantenimento del fenotipo neoplastico
delle cellule tumorali. Sebbene questo significa che la patologia neoplastica è ben
lungi dall’essere un monologo senza fine di cellule cancerogene che parlano tra sé
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
155
e sé, l’affermazione è che questo fenomeno e quello metastatico, come ogni altro
fenotipo biologico, debbano essere diretti dall’azione dei geni [Weinberg 2006].
A livello dei geni pertanto e dell’interazione dei loro prodotti sono da ricercare ulteriori informazioni che ne esplicitino i meccanismi di comportamento
ed integrazione. “Cancer biology and treatment (. . . ) will become a science
with a conceptual structure and logical coherence that rivals that of chemistry
or phisics” [Hanahan e Weinberg 2000] e la costruzione di un circuito integrato
cellulare, mediante le informazioni che andremo accumulando nei prossimi decenni, ci fornirà gli strumenti per questa scienza razionale: “With holistic clarity
of mechanism, cancer prognosis and treatment will become a rational science”
[Hanahan e Weinberg 2000].
10.2.1
La spiegazione dell'eterogeneità fenotipica del cancro
Prima dell’era genetica del cancro, molteplici evidenze di eterogeneità erano
state descritte per diversi fenomeni neoplastici in termini di morfologia cellulare, istologia tumorale, markers cariotipici e citogenetici, tassi di crescita cellulare, prodotti cellulari, recettori, enzimi, caratteristiche immunologiche, capacità metastatica e sensibilità ad agenti terapeutici [Foulds 1954, Heppner 1984,
Heppner e Miller 1998, Dexter et al 1978]. Sebbene i limiti delle metodologie
molecolari sicuramente avranno contribuito a questa imprecisione e generalità descrittiva, l’importante informazione che vi sottostava è stata ampiamente
ignorata. Nonostante a livello cellulare caratteristiche fenotipiche comuni siano
state raramente descritte per le cellule tumorali e la proliferazione sregolata delle cellule possa presentarsi a tassi diversi, molti genetisti centrarono il proprio
lavoro nell’identificazione di patterns comuni di mutazioni geniche che permettessero di ridurre la percezione di eterogeneità [Bielas et al 2006] e spigassero il
fenomeno proliferativo, dando per scontato che di per sé questo costituisse una
caratteristica di default delle cellule tumorali.
Questo spostò la ricerca sull’identificazione di pathways eliminando, ancora una volta, la questione dell’eterogeneità mediante una riduzione del piano
funzionale a quello molecolare, e demandando le spiegazioni funzionali alle questioni evolutive già presentate. L’idea generale che si consolidò fu quella che
l’accumulo “clonale” di mutazioni genetiche e cambi epigenetici rappresentassero un pattern significativo di identificazione del fenotipo tumorale nella maggior
parte dei cancri. L’assunzione del Modello Multistep come paradigmatico del
processo di insorgenza tumorale, rinforzò inoltre l’ipotesi che i cambi genetici
siano la causa principale dell’evoluzione fenotipica delle cellule aberranti che si
formano nei tumori, mediante un meccanismo analogo a quello dell’evoluzione darwiniana. “In the survival of favoured individuals and races, during the
constantly-recurring struggle for existence, we see a powerful and ever-acting
form of selection” [Darwin 1859, Weinberg 2006]. D’accordo con il modello
darwiniano, i tumori evolvono verso un grado di malignità più elevato lungo
il tempo, come risultato di una espansione di cloni di cellule individuali che
presentano lesioni genetiche sempre nuove e che conferiscono un vantaggio selettivo alle cellule neoplastiche all’interno del microambiente del tumore primario
[Gupta et al 2005].
Ma anche se il paradigma darwiniano viene utilizzato per giustificare la presenza di molte lesioni genetiche comunemente osservate nel cancro
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10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
[Gupta et al 2005], e pertanto dell’eterogeneità funzionale dei tumori, sei caratteri comuni sono identificati su base funzionale per identificare i tumori umani
[Hanahan e Weinberg 2000]. Le regolarità che definiscono il fenomeno non sono
più descritte in termini genetici o molecolari, ma vengono identificate come nuove capacità acquisite dalle cellule neoplastiche: - autonomia rispetto ai segnali di
crescita - insensibilità ai segnali inibitori della crescita - evasione del programma
apoptotico e potenziale replicativo illimitato - angiogenesi auto sostenuta - invasione tessutale e metastasi. Una volta ancora però, la prospettiva non cambia,
il maggiore si spiega -logicamente- per la sua derivazione storica dal minore: le
regolarità funzionali sono considerate comunque causalmente legate alla componente genetica delle cellule che le presentano. Ciò che è biologicamente più
complesso può sempre essere spiegato e descritto mediante concetti derivati da
livelli di organizzazione biologica minori: “Any living cell carries with it the experiences of a billion years of experimentation by its ancestors. You can expect
to explain so wise and old bird in a few simple words” [Delbrück 1966].
Da un punto di vista metodologico, però, l’eterogeneità di geni potenzialmente coinvolti in suddette capacità tumorali poneva evidenti difficoltà epistemologiche, amplificate dalla elevata eterogeneità genetica tra i pazienti affetti
da uno stesso tipo di tumore e dal fatto che ogni elemento genetico può di
fatto interagire con altri per formare una combinazione praticamente illimitata
di patterns funzionali. Per uscire da queste (apparenti) contraddizioni -il cui
principio biologico peraltro era già stato ben identificato mediante il concetto di
multiple realizability- è stato proposto il sequenziamento sistematico del genoma
tumorale per identificare i geni comuni ad esso [Collins e Barker 2007]. La speranza era che il sequenziamento dei geni tumorali avrebbe fornito un diagramma
sempre più completo e chiaro al di là del panorama complesso delle neoplasie
umane, mentre l’assunzione era che l’eterogeneità tumorale tra pazienti fosse in
definitiva un “rumore” di fondo eliminabile mediante validazione dei dati, sulla
base dell’analisi di un numero sempre più elevato di campioni [Heng et al 2009].
L’idea infine che l’eterogeneità tumorale fosse legata alla natura clonale della massa tumorale, in cui la legge che governava la progressione tumorale era
quella della dominanza genetica, rimandava a sua volta ad altri due problemi: il
primo relazionato alla questione di come alcune cellule si potessero differenziare
mentre altre continuavano a mantenere lo stato staminale, cuore del problema
del differenziamento cellulare; il secondo inerente alla domanda su cosa realmente non funzionasse quando veniva perso il bilanciamento tra morte cellulare
e rimpiazzamento delle cellule perse.
10.2.1.1
Un punto di snodo: la questione del differenziamento cellulare
Un cambio di prospettiva di rilievo si verificò quando esperimenti successivi
alla definizione degli ONG misero in evidenza come un fenotipo tumorale poteva
essere mantenuto anche dopo la rimozione di un oncogene che lo aveva provocato
inizialmente e che la fusione di una cellula tumorale con una normale induceva
la reversione del fenotipo neoplastico [Harris et al 1969]. Se ne concluse che i
meccanismi sottostanti alla reale trasformazione tumorale dovessero essere molto
più complessi di quelli adducibili alla dottrina della dominanza genetica. Gli
oncogeni cioè predispongono alla neoplasia, ma essa richiede altri eventi che
avvengono in modo stocastico. Numerosi studi si susseguirono dimostrando
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
157
come cellule normali contenevano geni oncosopressori capaci cioè di sopprimere
la tumorigenicità [Harris 2005].
Questa nuova Cellular Theory (CT) del cancro spostò l’attenzione sull’insorgenza di una neoplasia dal processo cellulare proliferativo a quello differenziativo
[Mechler et al 1985, Mechler et al 1989]. Anche se i geni comunque rimangono
gli attori e le loro mutazioni identificate un elemento critico per l’insorgenza
e progressione neoplastica, si affaccia la possibilità che altri meccanismi, oltre
a quello proliferativo, possano essere eventualmente coinvolti nell’insorgenza e
progressione neoplastica. In questo modo, la visione del cancro degli ultimi
cinquanta anni è passata da considerare i tumori come il risultato di cambi dinamici nel genoma che produce dei difetti nei circuiti regolatori che governano
la normale proliferazione cellulare, a considerarli come “a disease of cell differentiation rather than multiplication” [Harris 2004], mettendo nuovi presupposti
alla spiegazione dell’eterogeneità tumorale.
Le premesse della teoria cellulare, differenziativa, del cancro [Harris 2004]
considerano che un blocco in steps critici del normale processo di differenziamento cellulare sia responsabile della sua insorgenza [Capp 2005], per cui:
• lo stato di default (stationary state) delle cellule nei metazoi non è quello
quiescente,
ma
quello
di
moltiplicazione
esponenziale
[Huebner e Todaro 1969]; conseguentemente, e sulla base di osservazioni
evolutive, le cellule, quando mantenute in un ambiente adeguato e provviste di sostanze nutritive, proliferano senza bisogno di stimoli aggiuntivi;
• prescindendo da fattori come tossicità dovuta a fattori esterni, c’è solo un
meccanismo che può trattenere la proliferazione cellulare durante lo sviluppo di un organismo e questo è il differenziamento cellulare; come risultato
dell’evoluzione, la macchina cellulare è orientata, mediante la conversione
dei nutrienti in energia, alla moltiplicazione cellulare, aspetto che permette anche di comprendere come la selezione naturale possa realizzarsi.
Se in determinate condizioni ambientali o di supporto alimentare alcune
cellule non si moltiplicano, non è pertanto possibile affermare che sono
quiescenti, ma che sono represse [Harris 2004]. Che cosa fa sì che le cellule
allora si moltiplichino o no? È il differenziamento cellulare a determinare
la specificità tessutale e, facendo questo, può sopprimere la moltiplicazione cellulare o la può consentire controllandola però a condizioni precise e
inducendo persino, in casi estremi, la morte cellulare [Harris 2004];
• per cui, se le cellule non richiedono stimoli per proliferare esponenzialmente, allora i disordini nella moltiplicazione cellulare possono derivare solo
da un errore nel differenziamento.
Le mutazioni del DNA vengono tuttavia ancora identificate come un elemento
necessario [Harris 2004, Harris et al 1996, Steel e Harris 1989, Harris 1995] alla
tumorigenesi2 : “The data at present available indicate that this is usually a mutation that inactivates a specific gene, but it is possible that other mechanisms
may eventually emerge” [Harris 2005]. Non sembra sostenibile, infatti, che l’evoluzione abbia creato geni deputati alla formazione o alla soppressione dei tumori
in quanto tali, mentre è molto più plausibile che la moltiplicazione cellulare nei
2 Gli
autori della TOFT considerano per questo la posizione di Harris come a cell
dierentiation variant della SMT [Sonnenschein e Soto 2006b]
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158
10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
tumori sia soppressa dagli stessi set di geni che sopprimono la proliferazione
delle cellule normali durante il processo di differenziamento. C’è allora solo un
modo in cui gli oncogeni (secondo l’accezione della SMT) possono influenzare
la proliferazione cellulare in condizioni fisiologiche: impedendo l’attività di quei
geni che sopprimono questa moltiplicazione durante il corso del differenziamento, cioè dei geni onco soppressori [Harris 2004]. È il programma differenziativo
quindi che risulta essere critico nel mantenimento del fenotipo normale, mentre
quando questo programma differenziativo è perso, appare il fenotipo neoplastico. Esiste cioè un nesso causale tra il differenziamento e il controllo della
moltiplicazione cellulare, cosa che sembra essere soddisfacentemente delucidata
in termini molecolari dalla CT [Harris 2004].
Sebbene quindi la CT sembri portare ad una revisione dei presupposti biologici della SMT (stato di default quiescente vs proliferativo delle cellule) e ad uno
spostamento dell’attenzione da parti molecolari a processi biologici (come quello del differenziamento), l’impostazione del problema non cambia. La domanda
sull’identità delle parti molecolari identificate (geni) continua ad essere intrinsecamente funzionale (attribuzione funzionale invece che contestualmente funzionale, come sarebbe per altro richiesto dalla prospettiva del differenziamento
cellulare che sempre è mediata da fattori fisici e chimici del microambiente.
La ridefinizione della funzione degli ONG richiede quindi un chiarimento
sulla loro interazione funzionale con i TSG. Dopo la scoperta dei TSG infatti, un tentativo è stato fatto affermando che i tumori sono determinati da un
equilibrio (balance) tra l’attività degli ONG e dei TSG senza, tuttavia, che sia
ancora chiara la natura di questo bilanciamento. Il coinvolgimento di geni oncosopressori nella repressione del cancro è dimostrata, ma quali e quanti geni
siano necessari per indurre un tumore rimane ancora poco chiaro. Tuttavia, per
quanto complesso sia il fenotipo definitivo di una cellula tumorale, la confusione
può essere ridotta se si concorda con il fatto che il cancro, in prima battuta,
non è una patologia legata alla proliferazione cellulare ma ad un problema del
differenziamento cellulare [Harris 2004].
La domanda che si pone allora è una trasposizione del ruolo dei ONG e TSG
al fenotipo maligno: è esso una caratteristica dominante o recessiva del cancro?
[Harris 1985] Ovviamente, se si mantiene il principio di continuità nella catena
causale identificata, in opposizione alla nozione che la malignità sia un carattere
dominante e un’acquisizione di funzione -come sostenuto dalla SMT- i dati della
CT sembrano indicare che il fenotipo maligno sia un carattere recessivo e che
la base genetica, cioè della malignità di un tumore, sia dovuta ad una perdita
di una funzione normale [Harris 2005]. “As things now stand, it seems to be
possible that the key cellular events determining malignancy are heritable losses
of function and in particular, loss of the ability to complete specific patterns of
differentiation. This may be true not only for genetic lesions involving tumours
suppressors genes, where the evidence is in some cases compelling, but also for
mutated oncogenes. The two great peaks that somatic cells geneticists have long
been attempting to scale, cancer and differentiation, seem to have merged into one” [Harris 1995]. I disordini cariologici quindi che si descrivono in tutti i
tumori, benché precedano il fenotipo maligno, non sembrano poter essere considerati la causa principale dall’insorgenza neoplastica [Harris 2005] e neanche
l’aneuploidia di molte cellule tumorali ha quindi un carattere di primaria importanza nel cancro tanto che, in alcuni epiteli, può verificarsi indipendentemente
dal fatto che un tumore insorga o meno [Harris 2004].
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
159
Nonostante i limiti che la CT ancora presenta, dal punto di vista della nostra
analisi riteniamo che questo cambio di prospettiva sia stato davvero cruciale per
una comprensione più approfondita del processo neoplastico. Mettere al centro
della questione un processo di differenziamento cellulare invece che proliferativo implica, infatti, spostare l’attenzione da meccanismi quantitativi (parti)
ad altri qualitativi (processi) e mettere in evidenza l’importanza di un primo
livello di relazionalità tra le parti. Pur rimanendo le componenti molecolari
quelle che sono identificate come responsabili della trasformazione neoplastica, il concetto di differenziamento cellulare aggiunge una dimensione “relativa”
(qualcosa è differenziato sempre rispetto a qualcos’altro), lasciandosi alle spalle
l’autoreferenzialità tipica dell’impianto epistemologico della SMT.
In secondo luogo, con la teoria cellulare del differenziamento riemerge, contestualizzata, l’idea che il fenomeno neoplastico sia legato intrinsecamente ad
eventi di tipo stocastico3 . La ricerca si volse allora a identificare quei meccanismi che potessero dar ragione dei diversi gradi di differenziamento che le cellule
tumorali presentavano: l’eterogeneità tumorale smetteva di essere considerata
“rumore”, ma cominciava ad essere stimata caratteristica della massa neoplastica. Riemergeva così la necessità di arrivare ad una spiegazione biologica della
varietà e organizzazione gerarchica di molti tumori.
Infine, la considerazione che il fenotipo neoplastico potesse essere più legato a
perdite di funzione che ad un’acquisizione delle stesse, è ugualmente interessante.
Questo implicherebbe, infatti, considerare il cancro come un fenomeno passivo
più che attivo, lasciando aperto un dubbio sulla completa autoreferenzialità del
comportamento delle cellule neoplastiche, in concordanza per altro con alcuni
approcci terapeutici differenziativi che però saranno sviluppati solo sulla base
delle teoria delle CSC.
Il patto riduzionista non permise tuttavia di trovare nella CT una via adeguata per un’interpretazione più corretta del processo neoplastico. La tendenza
a riportare il fenomeno sempre comunque entro schemi quantitativi, misurabili,
in cui la spazialità rimane la dimensione predominante, precluse l’apertura verso
una prospettiva più integrale del fenomeno, generando paradossi e contraddizioni che ancor oggi sono fonte di dibattito. Ci soffermiamo per ora a considerare
quali risposte furono individuate a livello molecolare per dar ragione delle ultime
caratteristiche del fenotipo neoplastico: l’identificazione di tratti acquisiti da un
tumore prima inesistenti, come la capacità metastatica o la resistenza a determinati farmaci, era infatti ritenuta in grado di rivelare ancora nuovi meccanismi
a livello cellulare e molecolare.
3 Harris
concorda con Boveri su questo punto [Harris 2007]. Argomenti a favore provengono
da esperimenti sulla Drosola: per cui tumori insorgono in momenti e luoghi concreti durante
lo sviluppo di un organismo per mutazioni che bloccano l'esecuzione di step critici nel processo di dierenziamento normale [Mechler et al 1985, Mechler et al 1989].
Una quarantina
di geni sono stati identicati [Mechler 1994] con le seguenti caratteristiche: 1) le mutazioni
che producevano una crescita sproporzionata generavano una perdita di funzione e non una
acquisizione di funzione; 2) la perdita funzionale è parte integrante del normale programma
di dierenziamento cellulare del tessuto colpito; 3) l'inattivazione di questi geni produce uno
spettro di reazioni iperplastiche (da tumori benigni a maligni); 4) nei luoghi dove non danno
una overcrescita cellulare questi geni, quando inattivati, danno altre anomalie dello sviluppo.
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160
10.2.1.2
10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
Le componenti molecolari messe in sistema per spiegare
l’eterogeneità tumorale
La nuova prospettiva introdotta all’inizio dal concetto di TSG, per render
conto del cancro dalla prospettiva del differenziamento cellulare più che da quello proliferativo, fu incoraggiata dalle scoperte successive sui cambi epigenetici
riportati per molti TSG [Greger et al 1989]. La questione principale nacque
dall’idea che la metilazione potesse contribuire direttamente al silenziamento
dei TSG. Infatti, sebbene fosse generalmente assunto che le proprietà neoplastiche fossero completamente dovute all’acquisizione di nuovi genotipi -mediante
alterazione genica all’interno del tumore che si stabiliva attraverso l’evoluzione clonale e la selezione per i fenotipi tumorali che presentavano un vantaggio
adattativo rispetto all’ambiente, dando inoltre ragione dell’eterogeneità cellulare del cancro- è stato dimostrato come l’eterogeneità tumorale e la progressione
neoplastica potessero essere spiegate indipendentemente dall’evoluzione genetica
clonale4 [Feinberg et al 2006].
Dalla prospettiva molecolare, il modello epigenetico ebbe fondamentalmente
il merito:
(1) di render conto del fattore temporale nell’insorgenza del cancro. Infatti, i dati epidemiologici sembravano in contraddizione con quelli statistici quando applicati all’insorgenza delle mutazioni in correlazione con il
fenotipo neoplastico;
(2) di integrare la prospettiva genetica fino ad allora dominante con quella
epigenetica, tenendo in conto che le alterazioni epigenetiche nelle cellule
staminali precedono le differenze che distinguono così chiaramente i tipi
tumorali [Feinberg et al 2006], e conferendo a questi primi step della iniziazione e progressione tumorale un’importanza di particolare rilievo. Tali
cambi epigenetici possono fungere da alternative, surrogati, di alterazioni
genetiche [Egger et al 2004] su gatekeepers, come nel caso di inattivazione
di TSG, o su caretaker, come nel caso di attivazione di alcuni ONG. I meccanismi genetici non sono allora l’unico cammino verso la compromissione
genetica nel cancro.
All’interno della prospettiva riduzionista, una componente epigenetica quindi
potrebbe essere ugualmente responsabile della selezione clonale, del vantaggio
selettivo, di alcune cellule su altre nella progressione tumorale. La questione epigenetica portò con sé, inoltre, quasi necessariamente e fin dall’inizio, l’ipotesi che
l’iniziazione tumorale fosse legata a cellule staminali (Stem Cells : SC): è infatti
a questo livello che il processo differenziativo viene fondamentalmente regolato
4 L'eredità
epigenetica è mediata da [Bjornsson et al 2004]: metilazione del DNA, modica-
zioni post-traduzionali degli istoni (metilazione, acetilazione, ecc.), alterazioni della cromatina
che possono avere ripercussioni anche a lunghe distanze modicando, per esempio i siti di legame per proteine speciche o le proteine stesse. L'epigenoma si troverebbe così ad agire in
uno snodo critico di molti meccanismi biologici, nell'intersezione cioè tra fattori ambientali e
variazioni geniche che possono modicare il comportamento cellulare e organico. L'epigenoma
può modulare l'eetto delle mutazioni geniche sia agendo sull'espressione dei geni mediante
metilazione del DNA o sull'azione delle proteine cromatiniche, oppure modulando il folding
proteico del prodotto genico del locus modicato o delle proteine cromatiniche. A sua volta l'epigenoma può essere modicato da variazioni nucleotidiche di geni che codicano per proteine
cromatiniche o chaperonine. Fattori ambientali (farmaci, ormoni, ecc.) possono ugualmente
cambiare genoma ed epigenoma [Feinberg 2007].
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
161
e mediato attraverso meccanismi epigenetici. Il fatto che i cambi epigenetici si
possano rilevare nei primi step della tumorigenesi, o persino nei tessuti normali
prima dell’insorgenza tumorale, indica che cambi epigenetici precoci in cellule
staminali possano provvedere ad una visione unificata dell’eziologia tumorale:
a questo livello infatti il processo differenziativo viene biologicamente regolato
e determinato mediante meccanismi epigenetici. “We suggest that epigenetic
disruption of progenitor cells is a key determinant not only of cancer risk, but
of tumour progression and heterogeneity late in the course of the tumours that
arise from these cells. Epigenetic changes can provide mechanistic unity (sottolineatura nostra) to understanding cancer, they can occur earlier and set the
stage for genetic alterations, and have been linked to the pluripotent precursor
cells from which cancers arise. Importantly, early epigenetic changes could explain many of the heterogeneous properties that are commonly associated with
tumour cell-growth, invasion, metastasis and resistance to therapy. To integrate
the idea of these early epigenetic events, we propose that cancer arises in three
steps: an epigenetic disruption of progenitor cells, an initiating mutation, and
genetic and epigenetic plasticity” [Feinberg et al 2006].
L’ipotesi dell’esistenza di progenitori cellulari del cancro epigeneticamente
compromessi ha ugualmente delle implicazioni interessanti per quanto riguarda
la sua biologia: le alterazioni (pre) neoplastiche sono intrinsecamente policlonali
e ciò lascia aperte due possibili vie di progressione neoplastica.
Una suppone che le cellule tumorali somiglino alle cellule progenitrici iniziali, cioè che le proprietà che la cellula tumorale acquisisce nella progressione
neoplastica siano presenti sin dalla cellula progenitrice iniziata e nelle cellule
progenitrici del tumore. In questo modo, la latenza e l’eterogeneità tumorale
diventano una manifestazione, differenziazione dipendente, dei caratteri epigenetici sottostanti, spiegando così il perché insorgenze metastatiche tardive presentino proprietà chiaramente diverse dal tumore primario. La differenziazione
giustificherebbe, inoltre, il fatto che le proprietà metastatiche non richiederebbero successive mutazioni e selezione clonale all’interno di una massa tumorale
per realizzarsi. La capacità e le caratteristiche metastatiche sarebbero piuttosto
una caratteristica intrinseca della cellula progenitrice da cui deriva il tumore,
sin dai primi stadi della patologia, determinata da cambi epigenetici (più che
genetici) comuni.
L’altra via di progressione neoplastica ipotizza che cambi epigenetici possano avvenire in cellule progenitrici, ma che rimangano silenti in assenza di una
risposta a stress causata dal microambiente tumorale o indotta da terapie di vario genere che possono smascherare la sottostante eterogeneità epigenetica nella
cellula progenitrice. Molti esperimenti sembrano supportare questo modello per
l’eterogeneità tessutale. Il modello dovrebbe inoltre spiegare perché i tumori
spesso si ripresentano in situ molti anni dopo che la prima lesione è stata asportata e spesso presentano un fenotipo molto meno differenziato. Questo è vero
tanto per i tumori solidi che per le leucemie, indicando che il modello possa realmente unificare quanto descritto per diversi tipi di tumori [Feinberg et al 2006]5
5 Riportiamo
come annotazione un'ultima considerazione rispetto al signicato biologico
che può essere attribuito alla relazione tra l'epigenetica e il cancro in un quadro interpretativo
più ampio di altre patologie dell'organismo. Fu Waddington a coniare il termine di epigenetica,
facendo riferimento all'idea che il fenotipo sorga da un genotipo mediante cambi programmati
[Van Speybroeck 2002]; una denizione più moderna fa riferimento all'informazione ereditabile
durante le divisioni cellulari oltre a quelle del DNA stesso [Feinberg 2007]. L'EPM sembra dare
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10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
162
6.
È questa ipotesi che mette le fondamenta ad un’ulterioriore integrazione dei
modelli mediante il concetto di cellula staminale tumorale (CSC).
Ci troviamo davanti ad una questione principale del riduzionismo epistemologico: dall’impossibilità infatti di ricondurre alle parti molecolari le funzioni
specifiche del fenotipo tumorale, sorge l’esigenza di identificare una nuova “parte” capace di spiegare lo stesso. La questione diventa allora se introducendo il
concetto di CSC, la componente “vitale” che la caratterizza aggiunge qualcosa
alle altre proprietà delle parti molecolari che la compongono o se per salvaguardare la connettibilità dei concetti, questa parte viva verrà ridotta semplicemente
a “parte” con un nuovo epiciclo che troverà la sua giustificazione nella coerenza
logica (derivabilità) del sistema epistemologico.
10.2.1.3
Costruendo gerarchie
Nonostante l’integrazione delle componenti genetiche con quelle epigenetiche, la prospettiva riduzionista molecolare doveva ancora dar ragione di un’altra
evidenza della sequenzialità temporale del processo neoplastico, che rimaneva
implicita in un modello esplicativo dell’eterogeneità fenotipica basato sul concetto di differenziamento. La sua componente gerarchica richiedeva infatti ancora
una risposta.
Storicamente fu Virchow che, nel 1858, fornì una base scientifica del cancro
su base cellulare, correlando le osservazioni cliniche con le scoperte microscopiche dell’epoca. Per spiegare l’origine delle formazioni patologiche nuove rilevate
in concomitanza della febbre tifoide o alla tubercolosi, Virchow comparò le iperplasie osservate con cellule in differenziamento in epiteli in sviluppo. Da questa
osservazione, emerse l’idea che il cancro potesse essere una patologia che ha inizio
da una cellula immatura. Quel lavoro preparò il terreno alle scoperte scientifiche successive introducendo il concetto di gerarchie cellulari, un principio di
primaria importanza per l’ipotesi delle cellule staminali tumorali.
Le differenze morfologiche e architetturali di un tumore rispetto alla sua controparte sana, infatti, erano già state descritte sulla base di analisi istologiche
al microscopio ottico e ancora oggi continuano ad essere i parametri fondamentali utilizzati nella pratica clinica dagli anatomopatologi per definire l’origine
anatomica di un tumore. Inoltre, che le cellule all’interno di un tumore presentassero fenotipi apparentemente corrispondenti a diversi stadi di sviluppo era
anche un dato accertato, per lo meno nei tumori epiteliali. Ciò voleva dire che,
anche se monoclonali originariamente, la maggior parte dei tumori sembrava
contenere una popolazione eterogenea, o parzialmente differenziata di cellule,
che rispecchiava quella degli organi normali [Pierce et al 1977].
Tale osservazione, inizialmente attribuita a cambi del microambiente tumorale e alla coesistenza di subcloni genetici creati dal progressivo accumulo di
mutazioni somatiche indipendenti, sembra invece trovare attualmente una giuunità a queste due formulazioni della denizione di epigenetica. Si stanno infatti moltiplicando
le evidenze che cambi epigenetici siano coinvolti in malattie umane come nel normale processo
di sviluppo, entrambi legati a un difetto nella plasticità fenotipica, cioè nella capacità cellulare
di cambiare il proprio comportamento in risposta a segnali interni o esterni [Feinberg 2007].
6 If the tumourprogenitor cell itself has the capacity for pluripotent dierentiation that
is, these properties do not require continued clonal evolution from the primary malignancy
then it might be necessary to identify and treat the tumour-progenitor cell population that
remains after a primary tumour is resected, either by conventional or epigenetic therapy
[Feinberg et al 2006].
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
163
stificazione più soddisfacente alla visione del tumore visto non come una semplice espansione clonale delle cellule trasformate, ma come tessuto con una complessità tridimensionale e in cui le cellule divengono funzionalmente eterogenee
per risultato di una differenziazione organogenetica. In quest’ottica, i tumori sembrano funzionare come organi complessi che hanno subito uno sviluppo
aberrante [Brabletz et al 2005] e che agiscono come caricature dei loro tessuti normali: “Tumors act as a caricatures of their corresponding normal tissues
and are sustained in their growth by a pathological counterpart of normal adult
stem cells, cancer stem cells” [Dalerba 2007] e sarebbero sostenuti nella crescita
da una controparte patologica delle cellule normali staminali adulte. Questo
sembrerebbe coerente con il concetto per cui CSCs, come la loro controparte
normale, diano origine ad una organizzazione gerarchica di popolazioni cellulari
che sostengono una sorta di organogenesi [Reya et al 2001].
Le prime informazioni sulla possibile esistenza delle CSC vengono dai tumori ematopoietici. I primi studi mostrarono che una singola cellula leucemica
fosse capace di trasmettere la patologia a livello sistemico quando trapiantata
in un topo [Furth 1937, Gatenby e Vincent 2003]. Ciò nonostante fu necessario
aspettare che Dick e colleghi fornissero una prova concreta dell’esistenza di CSC
affinché il modello gerarchico (o delle cellule staminali tumorali) del cancro potesse essere proposto [Bonnet e Dick 1997]. Numerosi studi successivi suggerirono come circa il 25 % delle cellule all’interno di un tumore avessero le proprietà
di CSCs [Quintana et al 2008, Kelly et al 2007] e che tale concetto fosse estendibile a tumori mammari e del cervello [Singh et al 2003, Al-Hajj et al 2003],
mostrando come fosse possibile separare fisicamente da un singolo campione
tumorale due diversi tipi di popolazioni di cellule tumorali che differivano nel
profilo di antigeni di superficie proteici e nella loro capacità di dare origine a
nuovi tumori in vivo [Gupta et al 2009].
Questi primi studi, insieme ad altri che seguirono, permisero di definire l’eterogeneità cellulare chiaramente in termini di eterogeneità funzionale; non ogni
cellula cioè è capace di proliferare per formare una colonia in vitro o di originare un tumore quando trapiantata in vivo. Per questo, il concetto di CSCs
diviene utile per la spiegazione dell’eziopatogenesi tumorale sulla base del suo
ruolo funzionale. Questa è la ragione per cui l’ipotesi delle CSCs sembrò essere
capace di incorporare molti aspetti differenti dell’iniziazione e progressione tumorale inclusa la latenza, l’eterogeneità, le recidive e l’origine di popolazioni di
cellule target per la selezione di mutazioni oncogeniche. Nel Modello Gerarchico
i tumori maligni pertanto sorgono da tessuti contenenti cellule staminali che si
autorinnovano, che sono organizzate gerarchicamente, che sopravvivono lungo la
vita dell’ospite e la cui proliferazione peculiare è comunque mediata in qualche
modo dal microambiente.
Le CSC possono pertanto derivare da cellule staminali vere e proprie o da
cellule che hanno elaborato la capacità di auto-rinnovamento [Lobo et al 2007].
Anche se mutazioni responsabili di quest’ultima trasformazione non sono ancora state identificate -cosa che ha importanti implicazioni anche da un punto
di vista terapeutico7 - sono stati descritti marcatori epigenetici specifici quali,
7 Avendo
le linee di cellule tumorali un'elevata percentuale di cellule nel ciclo cellulare e
un'elevata capacità clonogenica, si può assumere che abbiano anche una frequenza di cellule
staminali tumorali più elevata [Lotem e Sachs 2006]. La quiescenza e la resistenza sviluppata
da molti tumori potrebbe essere attribuita a queste CSCs e dar ragione del fallimento delle
terapie. Molti dei chemioterapici attuali, infatti, puntano a distruggere le cellule in elevata
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164
10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
per esempio, alterazioni nella metilazione (dimetilazione dell’Istone H3 (Lys4),
la trimetilazione inibitoria dell’Istone H3 (Lys27) -che conducono abitualmente
a instabilità genomica- ipoacetilazione della cromatina e ipometilazione o ipermetilazione di geni specifici coinvolti nella regolazione dei promotori e nel loro
silenziamento nei tumori legati a geni oncosopressori [Feinberg e Tycko 2004].
Tutto ciò ha fatto pensare che un’unificazione funzionale del ruolo di questi
fattori potesse essere legittimata attraverso il concetto di CSC.
Inoltre, l’ipotesi delle CSCs sembrava consentire il superamento di alcune
contraddizioni del modello più antico che prevedeva la natura monoclonale del
tumore legata all’insorgenza di mutazioni. Abbiamo già visto come l’assunzione
di eventi epigenetici, come causa dell’innesco del processo neoplastico, prevedano
la natura policlonale dell’origine tumorale. Con l’ipotesi delle CSCs le cellule
tumorali acquisirebbero progressivamente proprietà di cellule staminali come
conseguenza della plasticità indotta dagli oncogeni. Ci sono dati sperimentali
che vengono addotti a supporto di questa visione che descrivono eventi di riprogrammazione legati a specifiche combinazioni di oncogeni (descritte per modelli
in vivo e vitro) i quali a loro volta guidano non solo il cambio di linea cellulare, ma anche la reversibilità del fenomeno ontogenetico nelle progenie cellulare
durante la progressione tumorale verso la metastasi. La specificità del processo neoplastico potrebbe essere formulata in termini di una riprogrammazione
cellulare [Rapp et al 2007].
L’ipotesi delle CSCs renderebbe conto, oltre che dell’eterogeneità cellulare
dei tumori e della loro organizzazione simil-gerarchica, anche della relazione tra
l’esposizione dell’ambiente a sostanze cancerogene e l’insorgenza del tumore o
delle infiammazioni che possono indurre lo stesso processo di deregolazione epigenetica. Un esempio è la compromissione della funzione delle chaperonine o di
pathways chiave nella trasmissione dei segnali deputati all’ancoraggio cellulare,
come nel caso dell’HSP90 che agisce da capacitatore dell’evoluzione morfologica,
attraverso meccanismi genetici ed epigenetici [Sollars et al 2003], e dell’eziologia
del cancro [Hans et al 2004] in relazione con l’età: infatti, l’età dipendenza del
cancro non poteva essere spiegata soddisfacentemente da un semplice accumulo
di mutazioni.
Questa ipotesi punta, quindi, ad integrare i modelli interpretativi del cancro precedenti e tra loro altrimenti incompatibili [Boman e Wicha 2008]: quelli
che guardano al cancro come una patologia che sorge mediante l’accumulo di
mutazioni genetiche specifiche e quelli che lo vedono come un problema che
coinvolge un’organizzazione aberrante dei tessuti e della proliferazione cellulare. Essa fornisce un meccanismo cellulare che può spiegare come cambi genetici
ed epigenetici possano dare origine a cambi nei tessuti e di come tutti questi
meccanismi possano essere attivi in tutte le fasi della tumorigenesi: iniziazione,
progressione, trasformazione e metastasi. I tumori maligni pertanto sorgono da
tessuti contenenti cellule staminali che si autorinnovano, che sono organizzate
gerarchicamente e che sopravvivono lungo la vita dell’ospite. Normalmente questa peculiare forma di proliferazione cellulare è mediata dal microambiente. Le
CSCs possono pertanto derivare da cellule staminali vere e proprie o da cellule
che hanno elaborato la capacità di auto-rinnovamento [Lobo et al 2007].
proliferazione e le cellule dierenziate che formano la massa del tumore, ma non cellule, come
le CSCs, che dovrebbero essere relativamente quiescenti.
Inoltre le SCs sono resistenti ai
farmaci e anche le CSCs sembrano tali, facendo pensare che l'unico modo allora di distruggere
veramente il cancro sia quello di puntare alla popolazione di CSCs [Boman e Wicha 2008].
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
165
Occorre, tuttavia, fare molta attenzione quando si vogliono generalizzare dei
concetti derivati da specifici casi biologici, come in questo caso. Applicare a
tutti i tipi di tumore un modello biologico verificato per una neoplasia concreta
come quella ematopoietica, rischia di formalizzare una realtà che non necessariamente ha un suo riscontro negli altri tipi tumorali. Meno ancora nel cancro
dove abbiamo già visto che è precisamente l’eterogeneità fenotipica, morfologica e funzionale delle cellule tumorali che costituisce il connotato patologico del
fenomeno. Il rischio, infatti, è quello di costruire così un modello che finisce con
l’essere considerato più reale del reale stesso, per il potenziale esplicativo che gli
si conferisce: derivabilità logica, ma impossibilità di connettibilità concettuale.
In biologia, infatti, anche se i concetti esplicativi sono sempre funzionali, la loro
realizzazione e fenomenologia è sempre legata ad un’entità biologica reale. Lo
sforzo, pertanto, per compiere quel passaggio -dal caso reale al modello idealepuò spesso portare con sé contraddizioni intrinseche, nell’assunzione del modello come esplicativo del fenomeno in generale, nonché mettere in crisi la validità
dei suoi presupposti epistemologici sulla base della liceità di attribuzione di
determinate funzioni alle parti (molecolari) [Bertolaso 2009b].
10.2.2
Da sequenze causali a gerarchie funzionali: i problemi epistemologici del Modello Gerarchico
Tutte le cellule del corpo discendono da un uovo fertilizzato e in quasi tutti
i casi contengono lo stesso patrimonio genetico. Ciò nonostante c’è un’enorme
differenza tra le cellule normali che svolgono diverse funzioni. Queste proprietà
specifiche sono determinate dall’attivazione dell’espressione e dalla repressione
di un set di geni mediante cambi epigenetici. Tali cambi epigenetici riprogrammano il genoma nello sviluppo normale in diversi tipi di cellule somatiche differenziate. Il fatto che cambi epigenetici siano rinvenuti nelle fasi precoci della
carcinogenesi, e persino nei tessuti normali, prima che questa abbia inizio, indica
che i cambi epigenetici nelle cellule staminali possa fornire una visione unitaria
dell’eziologia del cancro, in cui la plasticità epigenetica costituisce uno dei tre
steps necessari per l’insorgenza tumorale [Feinberg et al 2006], nell’ipotesi che il
tumore derivi da cellule progenitrici epigeneticamente compromesse. All’interno della prospettiva riduzionista allora, viene suggerito che la compromissione
epigenetica delle cellule progenitrici sia un elemento determinante non solo del
rischio dell’insorgenza del cancro, ma anche della progressione tumorale e della
successiva eterogeneità nei tumori che derivano da quelle cellule. “Taking into
account that epigenetic changes are involved in human disease as well as during
normal development, a unifying theme of disease epigenetic should be defects in
phenotypic plasticity, that is to say, cell’s ability to change their behaviour in
response to internal or external environmental cues” [Feinberg 2007].
Il Modello gerarchico del cancro che, su questa base, portò all’elaborazione
del concetto di CSCs, introduceva così due nuovi elementi nella discussione sulla
specificità del processo neoplastico:
(1) A differenza dei primi modelli, per cui mutazioni genetiche casuali si accumulavano determinando la progressione neoplastica, qui assistiamo ad uno
“shift to the view that cancers originate in tissue stem or progenitor cells
through dysregulation of the self-renewal process” [Boman e Wicha 2008],
mediante un programma differenziativo aberrante. Il meccanismo di pro-
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166
10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
gressione neoplastica non è più un meccanismo casuale, ma acquisisce
una nuova componente di specificità (deterministica). Infatti, sono le
CSCs, con il loro programma differenziativo aberrante, che guidano la
tumorigenesi e la crescita tumorale.
(2) In questo modo non sono più mutazioni casuali a fornire un vantaggio selettivo, ma è la cellula staminale che si adatta e cerca un genotipo/fenotipo
più vantaggioso, che si manifesta mediante un programma di commitment
specifico. Il sistema identificato come portatore di questo programma non
è più una sequenza genica, ma una cellula.
Il sistema sembra reggere: infatti, anche se non ci sono ancora dati definitivi sulla capacità delle CSCs di dare origine a molti tipi cellulari differenziati,
come avviene invece per le SC normali, il modello delle gerarchico tumorale
prescinde da questa analisi interessandosi invece più specificatamente alla capacità delle CSCs di autoriprodursi, di rigenerare i tessuti e di dare origine
a cellule tumorali non-staminali che sono più differenziate e che hanno perso
in gran parte, se non completamente, la capacità di rigenerare un tumore. A
favore inoltre dell’ipotesi che le cellule da cui origina un tumore fossero tutte cellule staminali, come riportato inizialmente per le leucemie mieloidi acute
[Bonnet e Dick 1997], c’è il fatto che l’accumulo multiplo di mutazioni lungo
l’arco vitale e le successioni clonali osservate nei tumori umani non sembrano
essere compatibili con la breve durata della maggior parte delle cellule somatiche differenziate [Bach et al 2000, Cairns 2002]. Varie di queste pubblicazioni
dimostrano anche come, in seguito all’impianto in vivo, le popolazioni arricchite di CSCs generano tumori e popolazioni di cellule tumorali che non sono
ulteriormente arricchite di CSCs, facendo pensare che le cellule tumorali all’interno di un singolo tumore possano effettivamente presentare molti stati di
differenziamento con proprietà diverse rispetto alla capacità di generare altri
tumori.
Ma il successo di questa ipotesi è legato soprattutto al potenziale intrinseco del concetto stesso di CSC: si stabiliva infatti una relazione causale tra un
processo e una nuova “parte molecolare” (la cellula staminale) che portava in sé
tutte le proprietà che potevano dar ragione dei vari step della sua progressione.
La capacità potenziale infatti di una cellula staminale di dividersi asimmetricamente, di differenziare dando origine a stadi di differenziamento organizzati
gerarchicamente, e di utilizzare per questo basi genetiche come epigenetiche
facevano intravvedere nelle CSCs un modello molto adeguato per dar ragione
di alcune caratteristiche del fenomeno neoplastico che erano rimaste irrisolte
all’interno dei modelli della SMT precedenti.
Da una parte l’eterogeneità era stata fino ad allora spiegata mediante differenze genetiche, epigenetiche o del microambiente o come grado differenziativo
delle cellule tumorali individuali, mentre ora l’ipotesi è che l’eterogeneità possa
essere dovuta alla natura intrinseca di un determinato tipo di cellula, per cui
il tumore, logicamente, avrebbe rappresentato un’organizzazione gerarchica di
qualche tipo. Dall’altra, la progressione tumorale per la SMT dovrebbe essere
irreversibile: una sequenza lineare descritta da diversi steps, perfettamente predicibili sulla base delle interazioni molecolari. Tuttavia, le evidenze della sua
reversibilità metteva in crisi questa conclusione [Clark 1991]. Infatti, è stato
spesso dimostrato che il fenotipo neoplastico può essere indotto a reversione
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
167
sperimentalmente mediante interazioni cellulari -come dimostrato per cellule di
un carcinoma quando iniettate in una blastocisti [Mintz e Illmensee 1975] e per
cellule derivate da epatocarcinomi quando iniettate in fegati di normali- e mediante la modificazione delle componenti extracellulari [McCullough et al 1998,
Bissell e Radisky 2001]. Il concetto di CSC aggiungeva così un nuovo livello di
complessità del sistema utilizzato come spiegazione del fenomeno, racchiudendo
tanto le condizioni che rendevano possibile la trasformazione maligna come la
preservazione della tumorigenicità, dello stato maligno stesso.
Tali considerazioni incoraggiarono ad estendere questo concetto che aveva mostrato la sua utilità per spiegare tanto la componente gerarchica, oltre
che differenziativa, attribuita al processo neoplastico a tutte le cellule da cui
originava un tumore. Pertanto nel 2006 fu adottata una posizione più ampia per cui “in the cancer stem cell model of tumors, there is a small subset of cancer cells, the cancer stem cells, which constitute a reservoir of selfsustaining cells with the exclusive ability to self-renew and maintain the tumor ”
[Gupta et al 2009, Clarke et al 2006], senza entrare ulteriormente nella questione dell’origine biologica di queste CSCs. Non ci soffermiamo qui sulle evidenze
sperimentali che mostrarono come CSCs potevano essere riconosciute all’interno
di diversi organi, già riportate nella Parte II, quanto sulle implicazioni epistemologiche di questo approccio. I problemi, infatti, che sorgono dalla questione
sulle CSCs non mettono tanto in discussione l’esistenza o meno delle CSCs in
alcuni tipi di tumori, quanto la validità esplicativa generale di questo concetto
all’interno del paradigma riduzionista.
Fu convenuto che il termine CSC non facesse riferimento alla cellula di origine
(alla cellula normale cioè che viene trasformata e dà origine al tumore) ma,
seppur in modo imperfetto, sottendesse la nozione che il tipo di cellula che
sostiene la crescita tumorale di molti cancri possiede proprietà tipiche delle
cellule staminali, come la capacità di auto-rinnovamento, e si trova al vertice
della gerarchia neoplastica, dando origine ad una progenie “differenziata” che
manca di queste stesse caratteristiche [Clarke et al 2006]. Perciò per alcuni
il termine di cancer (tumour) initiating cell sarebbe più adeguato per evitare
confusioni [Rapp et al 2007, Vermeulen et al 2008]. Il termine CSC rimarrebbe
una working definition [Dalerba 2007] o operational term [Bjerkvig et al 2005]
almeno per il fatto che non è ancora possibile definire con sicurezza la relazione
genealogica tra CSCs e le SC normali dei tessuti corrispondenti. Ma proprio
perché prescinde dalla corrispondenza reale con un’entità biologica concreta SC
→ CSC, la coerenza e pertanto l’utilità di questo concetto viene messo in crisi
da un punto di vista epistemologico come working concept.
D’altra parte, all’interno del paradigma riduzionista, condizione della consistenza esplicativa del concetto viene ad essere precisamente la possibilità di
definire il sistema materialmente (molecular biological explananda) sulla base
della sua origine (reale esistenza) e della sua specificità funzionale (biological
explanantia).
1) “Having founded an explanatory concept (sottolineatura nostra) to deal
with functional heterogeneity of cancer cells in the CSC concept, discussion went
back to their real existence and which factors actually determine their specific
behaviour (sottolineatura nostra). Why tumours growth needs to be driven by
rare cancer stem cells? Empirical evidences have disputed the idea that CSCs
exist only as rare subpopulations within tumors and have raised questions about
the general applicability of the CSC model and even the very existence of CSCs”
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10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
168
[Kelly et al 2007]. La prospettiva riduzionista infatti non può rimandare ad
un riferimento immediato ad un sistema molecolare che sostenga le spiegazioni
biologiche funzionali.
I dati sperimenatali che hanno dimostrato che nelle leucemie, in cui vari tipi cellulari sono presenti, il progenitore mieloide da cui deriverà il tumore (committed) acquisisce delle proprietà tipiche delle cellule staminali per la
leucemia, senza cambiare la loro identità generale, hanno suggerito l’ipotesi
che le cellule progenitrici tumorali non abbiano bisogno di divenire o di essere cellule staminali, ma piuttosto di sviluppare un comportamento (programma) analogo a quello delle cellule staminali mediante la riattivazione di un
set di geni altamente espresso nelle cellule staminali ematopoietiche normali
[Krivtsov et al 2006, Rapp et al 2008].
2) Non sembra però esistere un programma che identifica specificatamente
una cellula staminale tumorale, neanche in un contesto fisiologico. Le cellule
staminali sono considerate uniche nella loro capacità di autorigenerarsi e di generare una progenie differenziata per mantenere l’organizzazione tessutale lungo
la vita, ma un programma molecolare unico sembra continuare a rimanere elusivo. Le difficoltà (apparenti) per trovare un fingerprint comune molecolare per
diverse cellule staminali rimanda alla questione, già accennata per la questione
del differenziamento, su come alcune cellule potessero differenziare mentre altre continuano a mantenere lo stato staminale, cioè se è possibile trovare delle
proprietà comuni che siano uniche per le SCs rispetto a quelle di altre cellule,
prescindendo dal contesto in cui si trovano. In un preparato istologico, si può
infatti dedurre quali siano le SCs dalla loro posizione, ma una volta distrutta
l’organizzazione tessutale è difficile riconoscerle e distinguerle dalle altre cellule8 .
8 Dire
infatti che tutte le cellule in un organismo adulto sono dierenziate non è una que-
stione semantica: ogni cellula anche se staminale- deve aver i propri segnali e recettori che
controllino la sua crescita specica. Questo inoltre suggerisce che, quando intatta, un'organizzazione tessutale verrà mantenuta in ordine strutturale e funzionale, mentre quando si riduce
l'inibizione, inizieranno a vericarsi eventi proliferativi [Sonnenschein e Soto 1999].
Da una prospettiva dello sviluppo The most commonly used denition of a stem cell is a
cell that can give rise to multiple dierentiated cell types, that is, multipotency, and has the
ability to self-renew [Potten e Loeer 1990]. La capacità di autorinnovarsi e di dare origine a
una molteplicità di cellule dierenziate è considerata pertanto centrale alla loro funzione. Ma
queste proprietà non sono esclusive delle cellule staminali e identicare i programmi molecolari
per suddette caratteristiche non sembra nemmeno utile per fornire un quadro completo su cosa
faccia una cellula staminale.
Una caratteristica che identica le cellule staminali in modo più preciso potrebbe essere
invece quella per cui questo tipo di cellule sono in un certo qual modo sospese nella loro progressione verso il dierenziamento. Questa non è una proprietà strettamente cell-autonomous,
ma piuttosto una che è mantenuta e imposta dall'interazione con la nicchia dove le cellule staminali risiedono.
Lo stato staminale cellulare appare così legato ad una specica struttura
cromatinica accessibile alla trascrizione. The stem cell state appears to be linked to an accessi-
ble chromatin structure. Such a chromatin organization creates accessibility for transcription
factors and allows expression of a large number of genes involved in distinct dierentiation
programs. Consequently, the common logic for stem cells will be having access to several differentiation programs. However, as the dierence between distinct stem cells is their capacity
to give rise to divergent cell types, they will have access to dierent dierentiation programs.
The molecular logic for stem cells is then rather quantitative, with access to several genetic
programs, than qualitative with one shared transcriptional code [Mikkers Frisen 2005].
Ciò che gli autori suggeriscono allora è che la logica molecolare delle cellule staminali non
possa essere relazionata a proprietà cellulari come l'autorinnovamento o la multipotenzialità,
ma piuttosto ad una sospensione stabile ad un determinato stadio dello sviluppo delle stesse.
Da questa prospettiva, la nicchia delle cellule staminali permette ad una cellula di mantenere un'accessibilità trascrizionale della cromatina consentendo la generazione di una progenie
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
169
Per questo, ancora una volta, è un test funzionale quello che identifica anche
le CSCs (stemness), e una attribuzione funzionale quella che le identifica. La
questione ancora una volta si capovolge, l’altro epiciclo: se l’entità non garantisce una funzione, può la funzione definire l’entità? “Is a stem cell a concrete,
cellular entity, or possibly a more functional entity? ” [Vermeulen et al 2008].
3) Le CSCs sono state infatti comunque definite sulla base di una loro funzionalità, sulla base della loro abilità a rigenerare tumori in animali ospiti9 , ad
autoriprodursi e a dare una progenie tumorale che non presenti più le caratteristiche di una CSC [Clarke et al 2006]. Coerentemente, la rappresentazione delle
CSCs all’interno di una popolazione di cellule tumorali può essere misurata dal
numero di cellule che sono richieste, a diluizioni limitate, per seminare nuovi
tumori. Questa definizione dovrebbe applicarsi, sempre ragionando dall’interno
della prospettiva riduzionista, tanto alle popolazioni primarie che alle cellule
coltivate in vitro: le proprietà di una CSC appartengono infatti intrinsecamente
alla cellula stessa, per cui i modelli in vitro dovrebbero essere rappresentativi
di quelli in vivo, come abbiamo già visto nella discussione della questione metodologica. Ma l’interconvertibilità, e nel fondo coincidenza, che a questo punto
il concetto teorico dovrebbe avere con le realtà biologiche specifiche, crea una
serie di nuovi epicicli esplicativi che si rincorrono, con il rischio di incorrere in
continui paradossi.
Un esempio viene dalla considerazione che all’interno del modello gerarchico, basato sul differenziamento, si deve assume che CSCs originino da un aumento della plasticità di alcune cellule all’interno della popolazione tumorale.
Teoricamente questo renderebbe eventualmente possibile la interconvertibilità
bidirezionale tra CSCs e non-CSCs [Gupta et al 2009]. Da un punto di vista
metodologico, sperimentale, infatti le proprietà delle CSC sono in gran parte
definibili in base al tasso di turn-over e all’incremento della quantità relativa
di queste cellule nel tessuto neoplastico. Tale possibilità di interconversione
tuttavia non è contemplata nel modello, in quanto per definizione le CSCs e
le non-CSCs presentano proprietà fenotipiche e funzionali specifiche, in termini
assoluti e relativi, cioè in ogni step della progressione tumorale. D’altra parte
l’intero concetto di CSCs verrebbe trivializzato se le due popolazioni potessero
continuamente intercambiarsi, se cioè il tasso cinetico in entrambi le direzioni
fosse così alto che le cellule potessero muoversi continuamente in numero elevato
da un compartimento all’altro di CSCs e non-CSCs.
Anche le similarità che studi più recenti hanno messo in evidenza tra il
programma differenziativo della EMT e la trasformazione maligna delle cellule
tumorali verso la metastasi, fanno leva sull’acquisizione di una maggiore plasticità delle CSCs rispetto alla loro controparte non-CSCs [Gupta et al 2009].
Ma la reversibilità osservata nell’EMT, nel processo neoplastico, ha delle precise
implicazioni nella percezione delle CSCs stesse. In particolare se CSCs possono
differenziare in non-CSCs, il processo contrario deve essere pure considerato.
Non-CSCs, avendo ricevuto certi segnali contestuali, possono riprogrammarsi
mediante un processo affine a quello dell’EMT per le CSCs. Se è così, questa
specica dierenziata [Mikkers Frisen 2005].
Per questo le SC sono denite mediante un saggio funzionale, e questo implica che il concetto
stesso non possa essere che una denizione (no entità) operazionale.
9 Questo
concetto è abitualmente espresso in inglese con il termine di stemness abi-
lity to generate a phenocopy of the original malignancy in immuno-compromised mice [Vermeulen et al 2008]
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10.2. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA SMT
170
inversione pone il modello delle CSC in disaccordo con la descrizione convenzionale delle SC normali, che prevede il differenziamento delle SC in non-SC ma
non il contrario. Pertanto, una plasticità fenotipica molto più elevata deve essere presente nelle popolazioni di cellule tumorali di quanto sia convenzionalmente
pensato per le popolazioni di SC normali. Questa plasticità fenotipica suggerisce che un equilibrio dinamico debba esistere tra CSCs e non-CSCs nei tumori.
Inoltre, questo equilibrio può sciftare in una direzione o in un’altra a seconda dei
segnali contestuali del microambiente tumorale che influenza la probabilità di interconversione tra i due compartimenti [Till et al 2009, Santisteban et al 2009].
Tuttavia un sistema in cui ogni elemento (CSC) e il suo opposto (non-CSC) devono render conto allo stesso modo del fenotipo osservato sembra difficilmente
esplicativo di alcunché10 .
Da qui emergono nuove complicazioni. La qualità, infatti, del tessuto dell’ospite in cui viene testata la capacità di dare origine ad un tumore diviene di
estrema importanza: animali che offrono un ambiente ospitale per l’innesto di
cellule tumorali produrranno quantità di CSCs molto più alte di quegli ospiti che non sono in grado di farlo. Alcuni aspetti della biologia dell’ospite che
possono influenzare queste caratteristiche includono la vascolarizzazione del sito
di impianto, la costituzione della matrice extracellulare, l’accessibilità di fattori
di crescita e l’immunocompetenza dell’ospite. “These considerations give rise
to the thorny issue of choosing an appropriate animal model to measure CSC
representation” [Gupta et al 2009]11 .
Il fronte riduzionista della letteratura scientifica finisce cioè col sostenere che
“the CSC model seems to be still a useful representation (sottolineatura nostra))
to account for different features of tumours; differences in the observed frequencies of CSCs within tumors reflect the various cancer types and hosts used to
assay these cells” [Gupta et al 2009]. Un sistema è stato identificato. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva per l’attribuzione funzionale a livello delle
parti molecolari soltanto, i paradossi che qui emergonono non riguardano solo
la necessità di un riferimento al sistema nel suo insieme per la definizione di
funzioni, ma anche al tipo di sistema a cui ci si riferisce. Un sistema chiuso autoreferenziale, come quello delle CSCs, le cui proprietà (funzionali) dovrebbero
essere organizzanti, capaci cioè di dar ragione della organizzazione e struttura
del fenotipo neoplastico, sembra incorrere in continui paradossi e contraddizioni.
Non solo “functional biological explanantia” non sono sempre “molecular biological explananda”, ma “molecular biological explanantia” possono avere diversi
“functional biological explananda”.
10 Segnali
contestuali sono allora utilizzati per evitare dicoltà relazionate con la qui men-
zionata possibilità dell'interconvertibilità delle CSCs e non-CSCs. CSCs devono esistere in uno
stato metastabile per cui possono perpetuare se stesse indenitivamente e il usso di non-CSCs
in CSC è in molte condizioni basso se non nullo [Clarkson e Strife 1993]. Per cui popolazioni
di non-CSCs da vari tipi di tumori presentano una diversa suscettibilità a divenire CSCs in
risposta a segnali contestuali.
Questo può spiegare in parte dati sull'elevato tasso di cellu-
le promotrici del tumore in melanomi [Quintana et al 2008]. È possibile che la biologia delle
CSCs, e più specicatamente il ruolo che gioca il livello basale di CSC e la cinetica che governa
l'interconvertibilità, dierisca notevolmente tra diversi tipi di tumori [Santisteban et al 2009].
11 Il
modello ideale animale dovrebbe rappresentare accuratamente la biologia delle CSCs
come si da nell'uomo.
Siamo però ben lungi dal poter supportare questa evidenza e dal
poter dare una stima accurata della loro rappresentanza rispetto alle dinamiche delle CSCs
nell'uomo. In light of these complexities, we propose an alternative solution: CSC numbers
cannot presently be stated in absolute terms, but only relative to the animal model used to
measure CSC representation [Gupta et al 2009].
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
171
Paradossalmente e contrariamente a quanto avveniva quando alle parti si
attribuivano funzioni per cui il massimo controllo delle variabili circostanti era
necessario, qui è che solo un’astrazione del concetto sembra mantenere una sua
utilità epistemologica. “In the end, the CSC model can be readily adapted
(sottolinatura nostra) to allow for these various possibilities by positing only that cancer cells can exist in at least two alternative phenotypic states that
show markedly different tumor-seeding potentials, without imposing any requirements on the relative proportions of the aforementioned phenotypic states”
[Gupta et al 2009].
La conclusione è che, in accordo con la definizione precedente e le scoperte precedenti [Kelly et al 2007, Quintana et al 2008], “CSC representation may
be a function of the cell type of origin, stromal microenvironment, accumulated somatic mutations and stage of malignant progression reached by a tumor.
Accordingly, the CSC model must stand or fall on the basis of punctual experimental characterizations of cancer cell populations”. La generalizzazione del
concetto sembra essere incompatibile con la sua identificazione molecolare. Il
problema è che il sistema sperimentale costruito è composto da un programma è assunto come reale, mentre il sistema cui appartiene è ideale. È cioè un
contesto che deve essere altamente controllato per dar conto della specificità del
programma stesso. In questo modo, un sistema che nasceva come oggetto di studio diventa uno strumento argomentativo delle prove sperimentali: “The study
of CSC biology is predicated on the ability to accurately assess CSC representation within cancer cell populations” [Gupta et al 2009]. Il problema biologico
sembra ancora una volta passare in secondo piano nella ricerca di una coerenza logica interna che però finisce con l’essere esplicativa solo della costruzione
del sistema molecolare organizzato ad hoc per la stessa, mentre rimane ancora
muto rispetto al fenomeno neoplastico quando considerato nel suo insieme. La
generalizzazione concettuale della parte sembra essere incompatibile ed inutile
rispetto al tentativo della riduzione epistemologica dell’insieme alle sue parti.
10.3
Presupposti epistemologici della TOFT
Gli autori della TOFT esplicitano sempre le premesse epistemologiche per
consentire a chi li legge una valutazione del lavoro sperimentale che svolgono
anche dal punto di vista dei suoi fondamenti. L’assunzione o il rifiuto infatti
di determinate premesse cambia il quadro interpretativo dei dati sperimentali e
muove la ricerca in direzioni diverse [Sonnenschein e Soto 2000].
Essendo il postulato principale della TOFT che cancerogenesi e neoplasia sono fenomeni emergenti che si danno a livello sopracellulare
[Sonnenschein e Soto 2000], lo studio del cancro e del suo sviluppo non può
essere ridotto a una serie complessa di interazioni tra proteine, ma richiede
piuttosto una spiegazione a più livelli e ammette la definizione di un’altra causalità che si dà al livello in cui questa patologia è osservata: quello tessutale
appunto. Sebbene in alcuni casi le molecole e forze fisiche hanno un ruolo esplicativo, al centro della questione del cancro e della sua origine rimane il problema
dell’organizzazione tridimensionale tessutale.
Come già accennato, i geni mutati responsabili di errori ereditari nello sviluppo e nel cancro trovano il loro posto nella TOFT [Soto e Sonnenschein 2004],
ma è il ruolo attribuito a questi geni che è specifico: il contesto interpretativo,
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172
10.3. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA TOFT
infatti, è quello tessutale, dello sviluppo, e non cellulare laddove la cellula è
concepita come un’entità praticamente autonoma, governata internamente dai
suoi geni. Nella TOFT sono infatti le interazioni esterne quelle che rendono
una cellula normale o aberrante. Muovendo quindi dal livello di organizzazione
tessutale, gli autori della TOFT nel lavoro sperimentale, procedono poi gradualmente nell’esplorazione dei livelli inferiori di organizzazione e complessità
organica, senza ammettere salti che dal fenotipo vanno al genotipo, assumendo
che a quest’ultimo sia completamente riconducibile il primo.
L’organicismo (denominato anche “olismo materialista” in letteratura
[Gilbert e Sarkar 2000] e dagli autori della TOFT ) costituisce il più ampio inquadramento epistemologico di riferimento della TOFT. Esso si articola in una
visione sistemica [Bunge 2004] del fenomeno biologico mediante la combinazione
di un approccio analitico e di uno sintetico del fenomeno emergente, il cui studio
a livelli inferiori deve essere seguito da una sintesi che consenta di comprendere
come fenomeni che si osservano a questi livelli, producano altri che si danno
a livelli superiori. Ciò implica che per comprendere un determinato fenomeno
biologico ogni livello gerarchico deve essere studiato, senza aspettarsi che livelli inferiori di indagine possano contribuire necessariamente alla comprensione
dello stesso.
Ponendo l’enfasi sulle proprietà emergenti (cioè di proprietà che non possono
essere spiegate mediante quelle dei loro singoli componenti), la TOFT sostiene
che una causalità dall’alto verso il basso rappresenta un presupposto più adeguato tanto nella ricerca su fenomeni complessi, come il cancro, quanto per spiegare
i meccanismi causali sottostanti ad essi. Infatti, alla causalità dal basso verso
l’alto, piuttosto diffusa in natura, si aggiunge, nella visione organicista, un altro tipo di emergenza laddove l’organismo come un tutto influenza e determina
prima di ogni altra cosa le proprietà delle sue parti [Sonnenschein e Soto 1999].
“As biological complexity is not the work of an engineer but that of a tinkerer,
the blueprint for this complexity is unavailable to researchers”
[Sonnenschein e Soto 1999]. Una catena causale per cui un evento molecolare induce un evento organico e questo a sua volta altri eventi molecolari appare
come un’attività emergente (per esempio come aumento del numero di cellule
in movimento) agendo come una causalità che muove dall’alto verso il basso.
Assumendo l’emergentismo come default, gli organismi pluricellulari vengono
visti come enti che simultaneamente coordinano e controllano la proliferazione
dei diversi tipi di cellule ontogeneticamente e storicamente legate all’insieme di
cui sono parte. Le cellule presentano cioè un sistema di memoria per cui sanno da dove provengono (informazione storica) e dove si trovano (informazione
posizionale) ed è questa informazione che vincola il loro futuro e restringono
le opzioni di differenziamento e movimento a loro disposizione. Le interazioni tra stroma e parenchima mantengono il fenotipo cellulare adeguato, ai vari
livelli di organizzazione cellulare e tessutale nell’adulto, come dimostrato dagli esperimenti di trapianto o di ricombinazione tessutale. L’architettura del
tessuto è una proprietà emergente della società cellulare e non una semplice funzione delle proprietà collettive delle cellule che costituiscono il tessuto:
non può essere ridotta pertanto a cause proprie dei livelli sottostanti. Nell’eziopatogenesi del cancro allora ciò che risulta critico è il mantenimento delle
interazioni tra cellule e tra queste e il tessuto di cui sono parte. Le mutazioni costituiscono un epifenomeno che non si può mettere in relazione con
la causa del cancro [Sonnenschein e Soto 2000]: “just a secondary phenomena”
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
173
[Sonnenschein e Soto 1999]. Se infine la carcinogenesi e la neoplasia si realizzano completamente mediante fenomeni emergenti, la visione organicista, su cui si
basa la TOFT, costituisce un buon punto di partenza da cui esplorare fenomeni
emergenti e inquadrare la carcinogenesi e le metastasi in un modo comparabile
con quello che i biologi dello sviluppo hanno adottato nello studio dell’istogenesi e dell’organogenesi [Sonnenschein e Soto 2005a]. “The critical decisions made
at the nodal points of organismic development and organismic life are not made
by a prewritten script, program, or master plan but rather are made on the spot
by an ad hoc committee”.
10.3.1
L'eterogeneità come spiegazione: plasticità
specicità, simmetria versus asimmetria
versus
Il dibattito riduzionista sulla questione dell’eterogeneità aveva portato in
prima istanza a ridurla a rumore di fondo per cui un numero più elevato di
campioni sarebbe stato sufficiente a ridurre quest’ultimo e a considerare pertanto
l’eterogeneità come un fenomeno legato all’inadeguatezza delle misure effettuate.
Abbiamo visto però che non è cosi: più campioni si analizzavano, più aumentava
l’eterogeneità riportata. Infatti, la variabilità è una caratteristica intrinseca
dei bio-sistemi e non può essere ridotta a rumore o semplicemente ignorata
[Heng et al 2008]. Ancor più, possiamo dire che, da una prospettiva sistemica,
l’eterogeneità del fenotipo neoplastico fornisce le premesse per la comprensione
del fenomeno stesso sulla base delle caratteristiche di complessità e robustezza
tipiche dei sistemi biologici.
Riprendiamo l’argomentazione dal punto di vista della plasticità. Nel paradigma riduzionista l’origine della malignità coinvolge cambi genetici nel DNA,
sollevando però la questione se le cellule maligne possano recuperare il loro
fenotipo normale. Anche questa possibilità è stata delegata, all’interno della
prospettiva riduzionista alla capacità differenziativa delle CSCs, alla loro plasticità, ma non senza andare incontro a contraddizioni. Come poteva infatti un
programma in cui la plasticità era una proprietà acquisita ed attiva dare ragione
allo stesso tempo dell’eterogeneità tumorale e della reversibilità del suo fenotipo? Sebbene, infatti, le anomalie genetiche producono difetti nella crescita e
differenziamento nelle CSC, queste cellule non sempre hanno perso la capacità
di andare incontro a differenziamento mediante cambi epigenetici che superano
le anomalie genomiche di cui sono affette.
Come abbiamo visto per alcuni autori “changes in the genome of pre-malignant
and malignant cells may only be consequence of the global destabilization of gene expression” [Capp 2005]. Le caratteristiche della malignità appaiono così in
modo stocastico mediante una deregolazione globale dell’espressione genica in
seguito alla distruzione delle interazioni cellulari dovuta ai carcinogeni che abitualmente stabilizzano l’espressione genica e mantengono lo stato differenziato.
Si tratta di una riprogrammazione epigenetica per cui “epigenetics wins over
genetics” [Lotem e Sachs 2002]. Perciò anche una revisione dei meccanismi che
mantengono lo stato staminale deve essere attuata: “In accordance with this
hypothesis, undifferentiation in stem cells, and probably also in cancer cells, is
the consequence of a highly stochastic gene expression, and not the execution of
a specific genetic program” [Mikkers Frisen 2005].
Questa proposta aderisce meglio ai i numerosi studi che dimostrano come
le cellule tumorali possano essere normalizzate una volta poste in un ambien-
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174
10.3. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA TOFT
te normale [Mintz e Illmensee 1975] e di come le cellule tumorali mantengono una certa capacità di differenziare nonostante le loro alterazioni genetiche
[Kenny e Bissell 2003, Lotem e Sachs 2002]. È stato mostrato recentemente che
l’instabilità genetica si può di fatto dare comunque quando le cellule sono coltivate senza controllo del microambiente [Maitra et al 2005], per cui lo stesso
processo si da probabilmente nelle cellule premaligne in seguito alla distruzione
degli effetti a livello tessutale. La successiva deregolazione del mantenimento
dei pathways genetici, generata dalle alterazioni microambientali, potrebbe essere così sufficiente a generare difetti genetici, quali quelli osservati nelle cellule
tumorali. Pertanto, mutazioni che inattivano i geni specifici coinvolti nel differenziamento cellulare possono essere conseguenza di uno o più meccanismi,
dovuti alla perdita di funzione, tra quelli già ipotizzati da Harris.
Il problema della plasticità allora si capovolge: nella prospettiva riduzionista
essa veniva vista come una proprietà attiva delle cellule (SCs e CSCs), mentre
in quella sistemica, che assume il differenziamento come un processo integrativo
di quello morfogenetico, cioè contesto-dipendente, essa viene data per scontata,
considerata cioè una proprietà passiva delle cellule e dei sistemi viventi e analizzata pertanto in termini di accessibilità del patrimonio genetico di una cellula
a svolgere determinate funzioni sulla base di segnali extracellulari mediati internamente dai vari pathways molecolari e genetici fino ad ora identificati. Ciò
che deve essere spiegato all’interno della prospettiva sistemica non è tanto la
plasticità, ma la specificità cellulare tessutale e come questa sia mantenuta e
caratterizzata nei diversi sistemi biologici. La domanda diverrà allora: quale
livello di specificità viene compromesso in una patologia come il cancro?
Ci soffermeremo qui su alcune considerazioni che emergono dal DRM che
studia la specificità cellulare mediante un carattere fenotipico che ci sembra di
particolare interesse. È la polarità cellulare, infatti, un aspetto caratterizzante
della specificità biologica a livello dell’organizzazione tessutale, primo livello
della complessità biologica di un organismo vivente. Date le premesse non sono
più le parti infatti ad interessare lo studio di un fenomeno fisio-patologico, ma
le caratteristiche (o la mancanza di esse) che compaiono al livello a cui lo si sta
studiando.
Per definizione, le cellule polarizzate presentano una distribuzione asimmetrica delle proteine all’interno delle cellule, inclusi i recettori di membrana e altri
fattori che mediano il differenziamento e la funzione tessutale. Alcuni studi sui
recettori per la prolattina [Xu et al 2009b, Ben-Jonathan et al 1996], localizzati sulla superficie basolaterale delle cellule epiteliali mammarie, hanno messo in
evidenza come, in colture 2D, le cellule non esprimono le proteine del latte in
risposta al trattamento ormonale perché i recettori basolaterali sono inaccessibili alla prolattina presentata apicalmente. L’asimmetria della distribuzione
proteica in cellule polarizzate sottrae anche ligandi inibitori ai loro effettori per
regolare l’espressione genica tessuto-specifica [Xu et al 2009a]. Questi studi, nel
loro insieme suggeriscono che la localizzaizone asimmetrica di modulatori importanti del segnale nei tessuti è cruciale per l’attivazione e mantenimento delle
funzioni tessuto-specifiche.
È interessante notare come il ruolo del citoscheletro viene presentato in questi studi. Esso costituisce un’asse di segnale tra il microambiente e il genoma
che sostiene la “dynamic reciprocity” [Xu et al 2009a]. Le cellule eucariotiche
contengo tre tipi di componenti del citoscheletro: i microfilamenti, i filamenti
intermedi e i microtubuli. Le proteine citoscheletriche formano un complesso
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
175
macromolecolare nei punti di adesione tra la cellula e la ECM attraverso adattatori e modulatori del segnale. Il coinvolgimento di integrine mediato dalla ECM
induce la riorganizzazione tanto dell’actina che dei filamenti intermedi. Le laminine, proteine strutturali che costruiscono l’involucro nucleare, sono connesse
ai filamenti di actina del citoscheletro mediante la nesprina che salda il nucleo
al citoscheletro per regolarne la localizzazione, il movimento e altre funzioni
[Berrier e Yamada 2007, Hetzer et al 2005, Zhang et al 2001].
In questo modo il citoscheletro funziona come una struttura di connessione
della ECM al nucleo, permettendo interazioni dinamiche e reciproche tra l’ambiente extracellulare e il nucleo per coordinare l’espressione genica e mantenere
l’omeostasi tessutale [Xu et al 2009a]. La riorganizzazione citoscheletro dipendente cioè contribuisce alla trasduzione del segnale biochimico che stabilisce il
mantenimento dell’architettura e funzione tessutale.
In aggiunta ai segnali biochimici originati dai recettori ECM, le proprietà
biofisiche e meccaniche del microambiente tessutale sono necessarie per il differenziamento cellulare, la sua funzione e il mantenimento dell’architettura. Questi studi mostrano elegantemente che l’architettura e la funzione tessuto specifica
sono regolati dalle proprietà biofisiche della ECM, in particolare la consistenza
della matrice, indipendentemente o in aggiunta alle altre proprietà del microambiente. D’altro canto, meccanismi cellulari hanno anche un’influenza profonda
sul microambiente ECM mediante la regolazione dell’espressione genica e l’assemblaggio della ECM attraverso l’azione delle integrine sull’assemblaggio della
fibronectina e la trascrizione delle MMPs [Xu et al 2009a].
La forma cellulare è allora da considerare una causa o un effetto? Nella
maggior parte degli studi ora presentati è difficile separare l’effetto della ECM e
dei suoi componenti dai cambi indotti nella forma cellulare. In alcuni casi, come
la modulazione della funzione delle ghiandole mammarie in vitro, il collagene in
vivo non svolge chiaramente la stessa funzione di quello utilizzato in vitro. Alcuni approfondimenti furono effettuati per analizzare quattro fattori che potevano
influenzare il differenziamento ultrastrutturale delle cellule epiteliali mammarie: l’accesso ai nutrienti dalla superficie basolaterale, la prossimità cellulare
alla superficie del mezzo e alla fase gassosa, le interazioni delle cellule epiteliali con gli elementi dello stroma e la flessibilità del substrato permettendo alla
forma cellulare di cambiare [Bissell et al 1982]. La ECM come organizzazione
sovramolecolare di molecole di collegamento probabilmente servirebbero come
ligandi multilevel che possono influenzare il clustering di recettori di fattori di
crescita. Questa caratteristica spiegherebbe la capacità dell’ECM di simulare
l’azione di fattori di crescita. Il clustering di per sé, cioè anche oltre l’interazione
con i fattori di crescita si è dimostrato capace e sufficiente a indurre la crescita
cellulare [Kahn et al 1978, Schlessinger 1980, Bissell et al 1982].
Altre forme di perdita di polarità possono essere inoltre riconosciute in altre
proprietà nel cancro. L’insorgenza del cancro, per esempio, è spesso correlata a LOH. Inizialmente identificata per dar conto della teoria di Knudson dei
two hits [Knudson 1971] relativi al retinoblastoma e ai tumori di Wilms, servì
per formulare l’idea che tanto i tumori familiari come quelli sporadici fossero
determinati da mutazioni recessive sullo stesso locus, ma che nei casi familiari
uno fosse mutato o deleto nella linea germinale. Nonostante successivamente
altre evidenze sperimentali dimostrarono come anche tumori benigni potevano
correlare con la LOH [Harris 2005], essa continua a rimanere uno dei fattori dia-
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10.3. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA TOFT
gnostici utilizzati soprattutto per l’identificazione della predisposizione a tumori
ereditari.
Infine, studi recenti hanno messo in evidenza come le CSC perdono la capacità di dividersi asimmetricamente. Utilizzando modelli transgenici per ErbB2
per il tumore alla mammella, è stato trovato che le divisioni di autorinnovamento
di CSCs sono più frequenti che le loro controparti normali, illimitate e simmetriche, contribuendo così all’aumento del numero di SCs nei tessuti tumorali.
Le SCs con mutazioni su p53 posseggono le stesse capacità di autorinnovamento
delle CSCs e il loro numero aumenta progressivamente nelle ghiandole mammarie negli stadi premaligni di topi p53null. La riattivazione farmacologica
di p53 si correla con il restauro delle divisioni asimmetriche nelle CSCs e con
la riduzione di crescita del tumore, senza effetti significativi sulle altre cellule
tumorali. Questi dati dimostrano come p53 regola la polarità della divisione
cellulare nelle SCs della mammella e suggerisce che la perdita di p53 favorisce la
divisione simmetrica delle CSCs, contribuendo così all’aumento della divisione
cellulare [Cicalese et al 2009]. D’altro canto, da un punto di vista morfologico,
c’è una perdita generale di ordine ed eterogeneità. Un esempio viene da dati
che suggeriscono come la cancerogenesi [Malins et al 1998], in particolare il comportamento [Coffey 1998] dei tumori solidi [Calin et al 2003], siano un processo
caotico deterministico caratterizzato dalla ridotta complessità, come indicato
dalla perdita del determinanti “golden mean” e dalla scomparsa della “selfsimilarity” (frattalità) [Sedivy 1999]. La dimensione frattale cambia durante la
transizione dalla fase proliferativa a quella differenziativa: la progressione tumorale porta la popolazione primaria del cancro a uno stato stazionario degenerato
mediante dinamiche alterate dell’espressione genica, la perdita di connettività
(connectivity) e collettività (collectivity) [Waliszewski et al 2001]. Queste caratteristiche peculiari portano ad un aumento dell’instabilità e alla perdita di
‘‘ordered heterogeneity” a livello genetico, strutturale, temporale e funzionale
[Rubin 2007, Posadas et al 1996].
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
10.3.1.1
177
I concetti biologici di robustezza e omeostasi
“Tissue architecture is than both a consequence and a cause, the end and the
beginning” [Nelson e Bissel 2005]. La struttura di un organo è critica per la sua
funzione e pertanto un’architettura normale può agire come un potente “tumor
supressor ”, come in qualche modo era già arrivato ad ipotizzare Harris definendo una delle forma di collagene con lo stesso termine. Essa sarebbe così capace
di prevenire il fenotipo maligno anche in cellule compromesse da grosse anomalie genetiche [Mintz e Illmensee 1975, Weaver et al 1997, Howlett et al 1995,
Wang et al 2002, Kirshner et al 2003].
Ma se la funzione di un organo e la sua omeostasi sono guidate dall’architettura dell’organo stesso e se ogni cellula in ciascun organo porta la stessa
informazione genetica, come si strutturano la forma e la funzione tessuto specifiche? Alcuni esperimenti dei biologi dello sviluppo ne danno spiegazioni molto
eleganti, postulando che la funzione tessuto specifica si raggiunge mediante interazioni tra le cellule e il loro contesto (ECM), presupposto che è poi alla base
del modello già presentato del DRM [Bissell et al 1982].
Questa ipotesi implica che le molecole dell’ECM possano inviare segnali al
nucleo e che l’unità di funzione negli organismi più alti non è la cellula da sola, ma la cellula più il suo microambiente [Spencer et al 2007]. Se il contesto
dirige lo sviluppo, organi che sviluppano strutture simili lo fanno utilizzando
gli stessi fattori ambientali? La risposta sembra essere positiva, almeno per
organi di mammiferi placentati. Gli RE-ECM (responsive elements) sono evolutivamente conservati, almeno funzionalmente, anche se non nella loro sequenza
nucleotidica per cui sembra evidente che il contesto tessutale e cellulare giochi
un ruolo importante e analogo nel processo dello sviluppo, del differenziamento e dell’omeostasi in molti organismi [Nelson e Bissel 2005]. La distruzione
della struttura tessutale abitualmente va di pari passo con la perdita di differenziamento cellulare tessuto specifica, suggerendo che la architettura tessutale
è intimamente unita alla funzione [Hagios et al 1998, Bissell et al 2003].
L’ECM è considerata come un determinante integrale delle specificità tessutale stessa. La funzione di un organo poggia sui costituenti cellulari e sulla loro
organizzazione generale. È la ovvia unicità di questa struttura che caratterizza,
per esempio, una mammella da un rene e che dirige le cellule del primo a produrre latte mentre le seconde filtrano il sangue per produrre l’urina; e questo
nonostante il fatto che tutte le cellule condividano lo stesso genoma. Sebbene
però la specificità tessutale è assodata, c’è ancora poca evidenza sperimentale
che possa contribuire a definire lo stato di differenziamento terminale ad eccezione di quegli organi in cui il differenziamento è definito dalla morte cellulare
o alla perdita del nucleo.
L’instabilità e la plasticità allora degli stati differenziati permettono l’evoluzione fenotipica lungo la vita della cellula, del tessuto, dell’organo e dell’organismo per assicurare la sua capacità a sopravvivere. Questo fenomeno è a carico
del fenotipo differenziato presentando allo stesso tempo caratteristiche di:
a) robustezza ossia stabilità rispetto a perturbazioni minime (per cui, in vivo,
una mammella mai diviene un rene)
b) plasticità o reattività alle perturbazioni esterne. Durante la gravidanza,
per esempio, la mammella subisce trasformazioni notevoli in vista della
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178
10.3. PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI DELLA TOFT
funzione da svolgere dopo il parto e cellule aggressive di carcinomi possono essere riorganizzate per formare tessuti normali cambiando il loro microambiente o semplicemente i segnali microambientali [Weaver et al 1997].
Il fenotipo maligno può ritornare normale quindi senza cambiare il genotipo. “Thus phenotype can be dominant over genotype; signaling pathways
are context dependent; maintenance of homeostasis requires maintenance
of form” [Nelson e Bissel 2005].
Anche nel modello genomico-centrico il concetto di eterogeneità genetica ed
epigenetica finisce con l’essere l’elemento chiave per spiegare la progressione tumorale e la robustezza del fenotipo tumorale. Il contesto genomico permette ai
vari possibili contesti/ambienti di selezionare certe forme di cambio stocastico
dalle possibili potenziali risposte. Lasciando da parte i dettagli di controllo a
livelli più bassi, il sistema può operare un controllo più efficace e meno conflittuale a livelli più alti [Heng et al 2009]. Questo indipendentemente dal fatto che
alcune mutazioni geniche o più spesso epigenetiche promuovono un’instabilità
che è responsabile a sua volta delle alterazioni genomiche e dell’evoluzione del
cancro. Questa prospettiva che muove dalla considerazione della eterogeneità
genomica come causa del cancro riconcilia alcune delle teorie sui meccanismi di
progressione neoplastica. Le condizioni iniziali dell’evoluzione del cancro iniziano da uno squilibrio tra l’eterogeneità del sistema e l’omeostasi. L’omeostasi
del sistema cioè può essere considerata come una forza opposta all’eterogeneità,
sebbene molti livelli di omeostasi/eterogeneità sono chiaramente legati alla stabilità/instabilità genetica del sistema12 , tenendo anche in conto che non ci sarebbe
evoluzione darwiniana delle cellule senza ereditarietà del patrimonio genetico.
Analogamente a quanto avviene per i meccanismi della riproduzione sessuata
che limita le alterazioni genomiche per prevenire la macroevoluzione, così la molteplicità di livelli di omeostasi costituisce il limite che il sistema oppone per prevenire la macro-evoluzione a livello sistemico [Heng et al 2008, Heng et al 2009],
anche se l’evoluzione continua del sistema è una caratteristica di ogni organismo vivente per cui non può essere mai completamente evitata. In questo senso,
il cancro può essere considerato come il prezzo che paghiamo per l’evoluzione
intesa come interazione tra l’eterogeneità del sistema e la sua omeostasi.
È pertanto altamente istruttivo combinare le nostre conoscenze della biologia dello sviluppo con i concetti emergenti sulla specificità tessutale in modo
da integrare la nostra conoscenza sullo sviluppo, l’omeostasi, il cancro e l’invecchiamento all’interno di un framework biologicamente coerente e significativo.
Il punto della questione è che l’integrazione dei segnali agisce sulla struttura dell’organo, in quanto la struttura contiene una sua componente informativa che è
diversa da quella del blueprint genomico. “When one considers all of the signaling pathways involved in differentiation, the complexity is staggering. There is
clearly more than one way of integrating the same combination of signals into
a phenotype [Bissell et al 2003]. (...) this is precisely why development is so
miraculously robust” [Nelson e Bissel 2005].
Come per la TOFT e altre prospettive sistemiche sembra quindi logico argomentare a favore di una omeostasi a più livelli che è più importante dei fattori
12 Interestingly, when each layer of homeostasis is broken down by cancer cells, the
genome contexts are dierent from the constrained cell populations
[Heng et al 2008,
Heng et al 2009]. Anche nella resistenza ai farmaci le nuove cellule sopravvissute presentano
cariotipi alterati. In questo caso, nuovi sistemi vengono formati dall'eterogeneità cariotipica
che rompe i limiti del trattamento terapeutico farmacologico.
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
179
genetici per controllare il cancro, dato che alterazioni dell’omeostasi sistemica piuttosto che alterazioni genetiche sono responsabili della maggior parte dei
cancri. Coerentemente, la robustezza di un network, la reversibilità delle proprietà della regolazione epigenetica, l’architettura tessutale e il sistema immunitario giocano un ruolo più importante che le altreazioni genetiche individuali [Soto e Sonnenschein 2004, Jaffe 2005, Feinberg et al 2006, Heng et al 2006a,
Harris 2005, Huang 2002, Martien e Abbadie 2007].
Future directions: decoding the language of form.Così inizia uno dei paragrafi
di un recente articolo della Bissel “Organ architecture is thus both a consequence
and a cause for development, differentiation, and homeostasis. But how does the
architecture of an organ (or tissue, or cell) make itself heard? We understand
something about the alphabet (ECM, receptors, cytoskeleton, nuclear matrix,
chromatin) and even less about the rules of grammar that turn random words
into commands (activation of tissue-specific response elements).We believe that
decoding this language requires abandoning the currently fashionable “moleculecentric” style of inquiry and adopting a more interdisciplinary approach that
takes into account dynamic changes, spatial segregation of events, and tissue
architecture”. I diversi tessuti hanno diversità consistenti tanto nella loro composizione che nella loro architettura generale e chiaramente presentano diverse
specificità funzionali, per cui è il microrambiente tessutale che dirige lo sviluppo
di un organo e la specificità tessutale13 .
10.4
Conclusione:
explanans
e
explananda
Nel paradigma riduzionista la specificità del processo neoplastico, identificata nell’eterogeneità tumorale, è in principio dovuta alla nostra ignoranza su
meccanismi intracellulari che ancora non siamo riusciti a comprendere. Lo sforzo è allora quello di individuare nuove entità (biologiche, in quanto funzionali)
esplicative delle proprietà emergenti del cancro, attribuendo ad esse capacità
che diano ragione del fenomeno osservato.
Il perseguimento di un rigore logico nel paradigma riduzionista è innegabile, ma questo non sembra garantire l’altro aspetto, ugualmente richiesto dal
riduzionismo epistemologico, che ha a che vedere invece con la connettibilità
dei concetti. La riduzione, infatti, di concetti tipici dei livelli di organizzazione biologica superiore -come quello di funzione- inciampa in una serie di
contraddizioni e complicazioni che richiedono integrazioni ad hoc dei modelli
e che portano, in ultima analisi, all’evidenza dell’insufficienza del paradigma
riduzionista. Le funzioni che dovrebbero essere spiegate dato che sono l’unica
evidenza fenomenologica specifica di un sistema biologico, scompaiono per divenire spiegazioni molecolari. Tuttavia, in questa riduzione ciò che viene perso
non è solo il significato biologico del concetto di funzione, ma scompare anche la
causa efficiente: ciò che doveva rappresentare il fondamento dell’argomentazione
esplicativa svanisce, non perché rifiutato, ma perché non si ammettono risposte
13 Anche
i tipi più comuni di cellule provenienti da due tessuti diversi presentano un pat-
tern di espressione genica unico che da origine a diversi comportamenti biologici nonostante
l'identica informazione genomica. Per esempio, broblasti che derivano da due localizzazioni diverse (cutanea e viscerale, per esempio) presentano diversi e caratteristici pattern di
trascrizione [Chang et al 2002]. Due studi recenti mostrano inoltre come cellule testicolari e
neuronali possono dierenziare in cellule mammarie funzionali dopo essere state trapiantate
in una ghiandola mammaria [Booth et al 2008, Boulanger et al 2007].
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10.4. CONCLUSIONE: EXPLANANS E EXPLANANDA
Figura 10.1: Comparison of the reductionist and organicist approach to causality. In the reductionist approach, the lower level determines the upper level
(left panel) while in the organicist / systemic approach, a given phenomenon
should be first studied at the level of organization at which it is observed. Then,
both bottom-up and top-down causes should be accounted for. To illustrate the
organicist viewof development,we choose the tissue level of organization, as most organs start to develop by cell–cell interaction within a tissue compartment
(right panel) [Soto et al 2009].
diverse alle stesse domande e una loro diversità in termini di potenziale euristico ed esplicativo. Ci sono infatti varie entità biologiche che hanno una loro
consistenza e correlazione con il fenomeno, ma che non esauriscono, né devono
sempre costituire la spiegazione causale prima dello stesso. La domanda cambia
così formulazione: si passa dal perché (causale) al come (procedurale) di cui le
parti molecolari possono invece dar sempre conto.
Il contesto esplicativo invocato è di tipo meccanicistico: i ricercatori rispondono al perché spiegando il come. La doppia assunzione è che lo stato di default
delle cellule è quello quiescente e che poteva essere assimilata alla componente
molecolare dei geni, quella funzionale e quindi biologica (che include quella regolativa, informazionale). Le gerarchie individuate sono ordinanti, non ordinate.
Inoltre, se per gerarchia si intende ordinabilità, il fenotipo neoplastico dovrebbe
alla fin fine dimostrarsi ordinato e non disordinato (cioè patologico) secondo le
osservazioni anatomopatologiche dei tessuti tumorali. Per questo il paradigma
riduzionista finisce col parlare del cancro mediante verbi attivi: il cancro è una
macchina, come l’organismo nel suo insieme probabilmente dovremmo dedurre
che sia, se seguiamo la stessa logica.
Nella prospettiva sistemica invece, nonostante le difficoltà a stabilire una
relazione causale tra meccanismi molecolari individuali con un sistema complesso, sembra relativamente facile stabilire una correlazione, una relazione causale
tra l’eterogeneità del sistema e l’evoluzione del cancro. L’eterogeneità non deve
essere spiegata, ma spiega le dinamiche sottostanti al processo neoplastico. Pertanto è l’analisi di questa ed altre proprietà che risulta più efficace nello studio
del fenomeno, piuttosto che il soffermarsi sulle parti che avranno per questo un
basso potere predittivo.
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CAPITOLO 10. LA PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA
181
La posizione riduzionista si centra così sulle modalità con cui si realizza la
progressione neoplastica, mentre quella sistemica da più importanza alla reale
spiegazione dello stesso. La SMT e la TOFT pertanto non sono incompatibili, nel senso che una teoria non esclude l’altra, ma “semplicemente” non sono
alternative: non rispondono infatti alla stessa domanda in quanto il tipo di
indeterminazione analizzato è diverso. La metodologia riduzionista sarà utilizzata da una come dall’altra, spesso ottenendo risultati comparabili, sebbene
interpretati in modo differente. La prospettiva sistemica, per suo canto, non
ha motivo di “falsificare” quella riduzionista che ha già i suoi sistemi interni di
falsificazione, come mettono in evidenza i paradossi e le difficoltà a cui il modelli
interpretativi del cancro riduzionisti vanno incontro. Si tratta piuttosto di ampliare il discorso scientifico, cercando di trarre alcune conclusioni dal percorso
già intrapreso dalla prospettiva sistemica. La TOFT studia i sistemi biologici in quanto organizzati mediante causalità reciproche (reciprocal causality), la
SMT costruisce sistemi che possano essere esplicativi in quanto organizzanti. In
quest’ultimo l’emergentismo è da spiegare (predire) mediante le proprietà delle
parti costituenti il sistema, per la TOFT l’emergentismo è assunto come default
e sono le proprietà del sistema individuato come oggetto di studio ad essere
spiegate alla luce di questo.
Come vedremo però nel capitolo successivo, la TOFT intuisce e fonda la
logica sottostante al fenomeno neoplastico, ma non esplicita tutte le sue implicazioni metafisiche, sviluppando differenti nozioni di causalità cui per altro fa
riferimento. La sfida logica che l’esistenza di una causa sistemica comporta non
fornisce ancora alcuni elementi che invece sembrano critici per definire come le
due prospettive differiscano nel far riferimento alla realtà dell’evoluzione e alle
sue leggi nella spiegazione del cancro. La questione principale che fin qui emerge
è relazionata al fatto che i presupposti epistemologici della TOFT confermano
la necessità di identificare il sistema, oggetto dello studio (object of inquiry), ad
un determinato livello della complessità biologica e di cercare quindi una spiegazione dei fenomeni fisio-patologici osservati attraverso la formulazione di nuovi
concetti (biologici). I presupposti invece della prospettiva riduzionista portano
ad affrontare lo stesso problema identificando entità (biologiche) che siano una
prova, che diano ragione cioè del fenomeno osservato, in termini meccanicistici.
Le proprietà associate ai concetti che la prospettiva sistemica cerca di spiegare
vengono qui attribuiti arbitrariamente a suddette identità. Se quindi abbiamo
detto che le due prospettive presentano un’asimmetria per il tipo di indeterminazione che affrontano, ora possiamo dire che esse differiscono pure per la
natura dell’entità in studio che le caratterizza.
L’irriducibilità epistemologica (connettibilità) in cui incorre il paradigma
riduzionista sembra riflettere, in ultima analisi, l’impossibilità del riduzionismo
ontologico. Cos’è cioè il cancro? Come si origina il cancro? L’impostazione
della domanda e la natura del problema portano necessariamente ad inoltrarci
nelle questioni ontologiche per finire di analizzarlo anche dal punto di vista
dei presupposti filosofici che hanno più direttamente a che vedere con l’unità e
identità di un Sistema biologico. In altre parole, la ricerca oncologica sembra
fornirci alcuni elementi utili alla comprensione dell’organismo vivente nel suo
insieme, la sua natura, i suoi aspetti evolutivi, la sua complessità specifica, unità
e gerarchia peculiare e, probabilmente può mostrare quali di questi concetti sia il
più basilare, da un punto di vista ontologico, per la comprensione e un adeguato
studio degli stessi.
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182
10.4. CONCLUSIONE: EXPLANANS E EXPLANANDA
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Capitolo 11
La prospettiva ontologica
11.1
Ordinabilità gererchica e la stocasticità del
processo neoplastico
Che i problemi filosofici nelle scienze bio-mediche siano spesso relazionati
con l’organizzazione gerarchica dei sistemi biologici non è una novità. Storicamente c’è chi tuttavia ha visto questo come un problema fondamentalmente
epistemologico: “some of these problems stem from the simple point that, in
hierarchies, objects and events at the lower levels of organization comprise the
objects and events at higher levels; but at the same time we employ different
and in some degree independent languages in the description of the different
levels” [Morton 1974]. Questo è ciò che, ad uno primo sguardo, si potrebbe
dire anche per i modelli interpretativi del cancro. C’è infatti una tendenza a
costruire gerarchie, tipica della prospettiva riduzionista, o a ricorrere ad esse,
identificando il livello di organizzazione biologica da studiare, come avviene nell’approccio sistemico. C’è cioè una relazione d’ordine (ordinabilità) tra i vari
livelli dell’organizzazione biologica a cui si fa riferimento a cui è collegata la
complessità reale del cancro che si manifesta fenotipicamente nell’eterogeneità tumorale. Ora questa relazione d’ordine, descritta in termini di regolarità
che identificano il fenomeno neoplastico, ha una sua ragion d’essere e una sua
specificità, all’interno delle due posizioni epistemologiche dominanti, nel tipo di
causalità gerarchica, il cui risultato è un’organizzazione gerarchica. Come già
schematizzato nelle figura 6.1. e 10.1. c’è un riferimento predominante ad una
causalità bottom-up, nella prospettiva riduzionista, e a una top-down e middleout, in quella sistemica, ma il ruolo dei vari tipi di causalità nella descrizione del
fenomeno neoplastico in termini di ordinabilità gerarchica rimanda a questioni
di ordine ontologico relative all’unità del sistema e alla sua identità, che saranno
oggetto di questo capitolo.
Waddington osserva che si è giustificati ad analizzare un sistema più o meno
complesso, mediante strutture gerarchiche che coinvolgono diversi livelli, come
avviene nei vari modelli e teorie interpretative del cancro, “when, having analysed
the complex into a number of more elementary units, we look at the relationships
of these units and find that the inter-relations fall into a few separate classes with
few intermediates” [Waddington 1977]. Ora, sulla natura delle regolarità, le due
prospettive dominanti sembrano convergere facendo riferimento a regolarità di
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184
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
Figura 11.1: Funzionalità analizzate dalla prospettiva riduzionista e sistemica
tipo funzionale. Tuttavia, secondo l’analisi già effettuata ci sono delle divergenze
che rivelano delle asimmetrie tra le due posizioni e che riassumiamo, per quello
che riguarda la prospettiva funzionale, in tabella (cfr. Fig. 11.1).
In continuità con le considerazioni del capitolo precedente sulla divergenza
epistemologica delle due posizioni, i tipi di relazioni che danno ragione di suddette regolarità divergono sostanzialmente: appare infatti evidente la differenza
tra l’attribuire alla cellula tumorale una funzione o attribuire al cancro, nel suo
insieme, la perdita di essa. Da un punto di vista epistemologico questo è coerente con la natura delle unità biologiche identificate come oggetto di studio: nella
prospettiva riduzionista queste sono autoreferenziali (cell autonomous), in quella sistemica sono sinergiche (non cell autonomous), per cui anche la prospettiva
da cui si analizza e descrive la carcinogenesi e il ruolo o significato biologico
dell’eterogeneità tumorale divergono. Riportiamo a continuazione una tabella
(cfr. Fig. 11.2) che riassume alcune delle caratteristiche già emerse nei capitoli
precedenti e che mettono in evidenza l’asimmetria tra la posizione riduzionista
e antiriduzionista da questo punto di vista.
C’è però un altro elemento che si aggiunge in questa analisi: alla relazione
d’ordine si aggiunge un ordinamento temporale che emerge dalle caratteristiche
dinamiche del processo neoplastico. Se l’eterogeneità era la proprietà che caratterizzava la prima, il secondo presenta una sua specificità nella stocasticità con
cui si danno determinati eventi nella progressione (prospettiva riduzionista) o
nel processo (prospettiva sistemica) carcinogenico. L’impossibilità di determinare o correlare infatti in modo univoco la comparsa di determinate funzioni
o disfunzioni nei diversi stadi di trasformazione tumorale (prospettiva riduzionista) o di stabilizzazione del fenotipo neoplastico (prospettiva sistemica) ha a
che vedere con la casualità con cui determinati fattori genetici, cellulari o di
organizzazione e strutturazione tessutale si danno. In che modo questa componente stocastica entra nella configurazione del fenotipo neoplastico? In che
modo essa contribuisce, all’interno delle due prospettive, a definire il tipo di
entità che in ultima analisi da ragione dello stesso? Questo equivale a porsi una
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
185
Figura 11.2: Riduzionismo e Antiriduzionismo a confronto per la descrizione di
alcune proprietà che identificano il fenomeno neoplastico.
domanda sulla natura dei legami delle relazioni (relationships) a cui si faceva
riferimento pocanzi citando Waddington. La risposta a queste domande pone
una questione di natura ontologica che concerne non solo il tipo di causalità
coinvolto nella carcinogenesi, ma anche la nozione di causa stessa a cui ci si
appella, a fondamento delle ragioni esplicative presentate. Il punto è che né
gli elementi molecolari né strutturali, da soli o isolatamente, sembrano essere
sufficienti a descrivere e a spiegare il fenomeno del cancro nelle sue caratteristiche fenotipiche. Allo stesso tempo non si può evitare un confronto con una
componente stocastica che sembra essere strettamente relazionata alla dinamica
temporale della strutturazione del tumore e delle sue proprietà funzionali. La
specificità funzionale analizzata da questo punto di vista sposta più definitivamente l’attenzione verso la definizione dell’identità sistemica del cancro e sulla
natura dei legami che la definiscono.
Come vedremo l’irriducibilità epistemologica che la prospettiva sistemica
mette in evidenza, sulla base dei limiti e contraddizioni di quella riduzionista,
rimanda ad una irriducibilità ontologica basata sulla nozione di causa e analizzabile mediante il ruolo che la stocasticità ha nella definizione del fenotipo
neoplastico. Si tratta quindi di due epistemologie che nell’approccio sperimentale possono essere alternative, ma che sono sottese da due ontologie che alternative non sono. È da questo punto in poi che quanto abbiamo appreso sul
cancro potrà realmente dare un contributo alla comprensione anche di altri fenomeni (fisio)patologici, perchè ci fornisce degli elementi che contribuiscono ad
una comprensione più profonda dell’essere vivente, non come insieme di parti
molecolari e nemmeno come processo, ma come Ente1 .
1 Le considerazioni che seguiranno non si fondano sulla presunzione
che la scienza empirica
possa fornire gli elementi necessari verso una denizione essenziale di un organismo vivente
e pertanto della sua natura. Non ci sfugge infatti che ci sono questioni complesse quando il
concetto di natura è posto di fronte all'epistemologia. La nozione di natura, tipicamente di
natura metasica, inciampa infatti in varie dicoltà quando ha a che vedere con i problemi
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186
11.1.1
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
Casualità e determinismo nella prospettiva riduzionista
La spiegazione dell’ordinamento temporale della progressione neoplastica
nella prospettiva riduzionista si basa sulla capacità delle cellule tumorali di moltiplicarsi e di generare diversità fenotipiche che devono essere in qualche modo
trasmesse alla progenie cellulare. La base esplicativa di questo fenomeno, come
abbiamo visto alla fine della Parte II, è la visione del cancro come processo evolutivo Darwiniano in cui la selezione naturale gioca un ruolo fondamentale nella
definizione e costruzione del fenotipo neoplastico cellulare. La base genetica per
interpretare il cancro come processo evolutivo somatico è l’elevata variabilità
genotipica, epigenetica e fenotipica delle cellule che costituiscono la massa tumorale, laddove la natura stocastica delle alterazioni genetiche introdotte nel
DNA delle cellule tumorali costituisce una caratteristica peculiare anche dei
processi evolutivi, così come descritti mediante il principio della varianza genetica e della selezione naturale [Calotta 2008]. La stocasticità, che effettivamente
gioca un ruolo fondamentale in qualsiasi processo evolutivo, sembra averlo, secondo questa prospettiva, a maggior ragione in quello neoplastico che la associa
abitualmente all’instabilità genetica ampiamente descritta per tutte le cellule
tumorali maligne. La plasticità del DNA, suscettibile a mutazioni, fornisce le
premesse biologiche perché sia possibile la stocasticità. Sia che le mutazioni
abbiano colpito ONG o TSG o geni regolatori del riparo del DNA o della sua
espressione, lo stato a cui la cellula va finalmente incontro è di instabilità, per
cui il patrimonio genetico subisce ulteriori modificazioni casuali sia nella sequenza nucleotidica che nel numero e struttura dei cromosomi, amplificando così i
epistemologici che riguardano il nostro modo specico di conoscere il mondo. Ciò nonostante,
dato che la nostra immagine della natura dipende in gran parte dalle conoscenze che ci derivano
dalla scienza e le scienze sperimentali in concreto sono costruzione nostra, è necessaria una
analisi epistemologica meticolosa per determinare quello che nelle scienze corrisponde alla
natura e quello che invece è un nostro modo di concettualizzarle.
non ci forniscono una semplice fotograa della natura.
I dati empirici infatti
Dobbiamo costruire un linguaggio
che permetta di porre le domande alla natura in modo che questa possa rispondere mediante
l'unico linguaggio che conosce, quello dei fatti, ma come ogni linguaggio questo implica sempre
una componente interpretativa che appartiene alla prospettiva adottata.
Quello però che sosteniamo è che nella scienza sperimentale raggiungiamo conoscenze alle
quali si possono attribuire, quando ben fondate, una verità che è contestuale e parziale ma
autentica. La verità scientica è contestuale perché si riferisce ad enunciati che si formulano
all'interno di conni teorici che non sono imposti dalla natura, ma che invece includono fattori
convenzionali, per cui ogni teoria scientica adotta una prospettiva speciale che si fonda
sulla denizione di concetti basici e sull'elezione di criteri sperimentali.
Dato quindi che
nessun concetto scientico può denirsi se non alla luce di piani e interpretazioni, la verità
scientica è parziale e questo è una conseguenza del suo carattere contestuale. Nessun punto
di vista particolare esaurisce ciò che si può conoscere sulla natura. Inoltre, dato che le teorie
includono fattori convenzionali, sarà sempre possibile ottenere concettualizzazioni migliori
[Artigas 1992].
Nell'epistemologia contemporanea c'è unanimità sugli aspetti sopra citati e come conseguenza si da una forte tendenza a posizioni strumentaliste secondo le quali non ci sarebbe
verità scientica: la scienza solo fornirebbe strumenti per il dominio pratico della natura, ma
il carattere contestuale e parziale della verità scientica non impedisce che si tratti di una
verità autentica. Di fatto otteniamo conoscenze autentiche sulla natura, cioè la nostra rappresentazione della natura contiene costruzioni che in parte sono convenzionali, ma disponiamo
di risorse per ottenere, mediante queste costruzioni conoscenze autentiche sulla realtà.
È su queste premesse che avanzeremo nello studio ritenendo che la scienza, e l'analisi delle
epistemologie adottate nella ricerca sul cancro, possano dare un contributo reale verso una
conoscenza più adeguata e approfondita della natura dell'organismo vivente, mediante un
lavoro interpretativo e di sintesi che sarà poi compito della losoa portare a compimento.
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
187
meccanismi che configurerebbero progressivamente il fenotipo neoplastico metastatico2 . La teoria somatica evolutiva poggia precisamente sul fatto che questo
stato di instabilità genetica consente alle cellule di presentare nuove modificazioni di replicazione, a livello del patrimonio genetico nelle generazioni successive.
La casualità con cui a volte questi meccanismi colpiscono geni deputati al controllo del fenotipo cellulare normale è pertanto quella che determina l’insorgenza
del fenotipo neoplastico mediante selezione naturale3 .
2 Si distinguono in genere vari tipi di instabilità genetica:
il sistema MMR (mismatch repair )
[Jascur e Boland 2006] che si riferisce a quelle proteine che dovrebbero garantire la riparazione delle alterazioni della sequenza nucleotidica del DNA è quello principalmente coinvolto
nella MIN (Microsatellite Instability ) che si riferisce all'instabilità genetica a livello nucleotidico dovuto al mancato funzionamento del sistema MMR [Perucho 1996]; l'incapacità delle
cellule tumorali invece di segregare in maniera accurata i cromosomi tra le due cellule glie
si chiama CIN (Chromosome Instability ), tipica per esempio dell'87% dei tumori del colon
[Lengauer et al 1998].
3 Quando
non si dice un'altra cosa, nel contesto della ricerca sperimentale con il termine
di causalità ci riferiamo alla nozione di causa eciente. Nella storia della losoa antica il
concetto di causa, con quello connesso di causalità o relazione causale, ha indicato l'esistenza
di una condizione necessaria tra i fatti dell'esperienza che vengono interpretati come tra loro
collegati da un rapporto di causa-eetto. La losoa dell'età moderna fece coincidere poi il
concetto di causa eciente con quello di legge o connessione causale dove il rapporto causaeetto è rappresentato da grandezze misurabili matematicamente. È a questo tipo di causalità
(eciente) che si rifà la prospettiva riduzionista.
Dal momento in cui si impiegò la nozione di causa, losocamente si assunse che non solo
qualcosa poteva essere imputato a qualcosa o a qualcun altro, ma anche, e specialmente, la
produzione di qualcosa in relazione ad una determinata norma che vige per tutti gli avvenimenti della stessa specie. Dato che la causa permette allora di spiegare come un certo eetto
si è prodotto, si suppose spesso che la causa è o può essere, una ragione o il motivo della
produzione dell'eetto [Ferrater Mora 1994].
Non vogliamo entrare nella trattazione che segue nel dibattito, per altro ampissimo e ancora
aperto, sulla relazione di causa e spiegazione da un punto di vista losoco. Ci sembra che per
ora un contributo valido venga dal tentativo di fare un po' di ordine tra i vari concetti utilizzati, attraverso l'analisi delle nozioni di causa che sottendono le principali teorie sul cancro e
mediante la distinzione che emerge tra la posizione riduzionista e antiriduzionista, nella relazione tra il concetto di causa e spiegazione. Come si evidenziava nella Fig. 5.2, a partire dalla
metà del secolo scorso, assistiamo ad una progressione in parallelo di diversi modelli interpretativi, che vogliono essere esplicativi, del cancro. La questione causale rimane strettamente
legata ad essi solo nella prospettiva riduzionista, mentre la prospettiva sistemica preferisce far
riferimento soprattutto al concetto di spiegazione e non a quello causale. Quest'ultima però,
come vedremo nei seguenti capitoli, non può evitare un confronto con questa nozione e inizia
così ad accennare a nuovi tipi di causalità (top-down o middle-out, per esempio) contribuendo
così ad una riessione, più tipicamente ontologica, sulle accezioni causali che sono in gioco
nella (de)strutturazione e congurazione di un organismo vivente.
Anticipando una delle conclusioni, per ragioni di chiarezza di questa nota, quello che emerge dallo studio dei presupposti epistemologici delle teorie interpretative del cancro è che la
relazione causa-eetto (di natura eciente nella specicità dell'approccio sperimentale) non è
una mera relazione. La contestualizzazione di questa relazione risulta determinante e aggiunge
una dimensione, che per ora chiameremo sistemica o organica, alla nozione di relazione per
cui ciò che fa si che una cosa abbia la possibilità di produrne un'altra non è tanto il fatto
di essere causa quanto quello di essere un ente vivente individuale (cfr. concetto della PSI,
sezione 11.2), per cui diverse nozioni di causalità entrano in gioco, come diversi modi in cui
quest'ultimo può manifestarsi e denire così la specicità del proprio fenotipo, organizzazione
funzionale e strutturale.
Riconsiderare allora anche la relazione causa-eetto da un punto di vista ontologico (e non
solo, né principalmente logico, tipica della losoa razionalista ed empirista), ci permetterà di
individuare alcune ragioni della contraddittorietà della posizione riduzionista e di valorizzare il
contributo della prospettiva sistemica verso il recupero e l'ampliamento della nozione causale
anche nel lavoro di ricerca empirica. La riduzione, inoltre, nella prospettiva riduzionista della
nozione causale a quella eciente, riduce la spiegazione a descrizione del come degli eventi;
nella seconda invece la comprensione degli stessi è mediata da una spiegazione che punta
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188
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
Figura 11.3: Casualità e determinismo nella prospettiva riduzionista
La stocasticità agendo sulla plasticità del materiale genetico cellulare genera
quelle varianti che mediante selezione naturale finiscono con il configurare in
modo deterministico il fenotipo neoplastico.
Ora, proprio perché il processo è stocastico, è il caso che genera la “combinazione giusta” di geni in grado di conferire un fenotipo trasformato, combinazione questa che può essere diversa e che ammette quindi l’eterogeneità osservata.
Occorre riconoscere però che la sola casualità nella generazione delle varianti genetiche porterebbe a disordine ed estinzione: la casualità allora delle alterazioni
generate nei processi evolutivi, e ancor più nel cancro data l’elevata frequenza di
questi eventi, diventa strategia efficace, cioè esplicativa della progressione neoplastica, solo grazie al determinismo della selezione naturale4 che, agendo sul
fenotipo e non sul genotipo, tra innumerevoli varianti favorisce solo quelle vantaggiose, in termini di sopravvivenza e riproduzione [Gatenby e Gillies 2008].
“Il caso diviene così un elemento critico nel determinare il cancro” (...) ma
“la causalità si intreccia con il determinismo dei processi selettivi che mettono
ordine e conferiscono una logica là dove la causalità da sola genererebbe solo
disordine e indeterminatezza” [Calotta 2008].
Ecco ricostruito un sistema di coerenza logica in cui ancora una volta la relazione causale, efficiente, è assunta come esplicativa di un fenotipo come quello
neoplastico. Tale relazione causale tuttavia è delegata non più alle parti molecolari, ma ad un principio esterno quale la selezione naturale. Le funzioni che
definiscono una neoplasia, coerentemente ad una logica deterministica di questo
tipo, si strutturano mediante casualità e selezione naturale che agisce come legge
al che cosa e pertanto ad una denizione essenziale del fenomeno.
Da un punto di vista
epistemologico, come abbiamo già visto, l'individuazione del corretto livello di analisi diventa
allora prioritario nell'approccio sperimentale.
4 Le
leggi evolutive qui vengono invocate per ricostruire quella catena di eventi meccani-
cistici su cui si fonda il riduzionismo contemporaneo nella ricerca sperimentale. Cfr. anche
nota a piè di pagina n.4 della sezione 9.4.
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
189
esterna, stabilizzando le inter-azioni (più che rel-azioni) tra le parti, organizzate
in una sequenza lineare oppure poste in sistema. Questa riduzione del concetto
di funzione a quella già descritta dalla Keller (cfr. cap.8) consente ai modelli
riduzionisti di non occuparsi ulteriormente dell’origine e della natura delle funzioni esperite, operando invece una semplificazione della complessità mediante
l’identificazione di un sistema che dia conto della stessa. Da qui l’evoluzione
dei modelli come descritti precedentemente. Le funzioni alla fine non hanno più
bisogno di essere spiegate, ma divengono spiegazione. Il sistema di riferimento è
ideale, non reale, costituito da una serie di parametri (micro)ambientali controllabili e riproducibili per giustapposizione. La riduzione del concetto di funzione
biologica alla relazione di causalità efficiente spiega perché i sistemi identificati sono sistemi “capaci di”, macchine che una volta definite le condizioni e le
proprietà specifiche possono realizzare determinate funzioni.
L’aspettativa allora è quella di poter alla fine definire tutte le componeti di
questo sistema per controllarlo e farlo funzionare meglio (cfr. Fig. 6.2). Se
si guarda però all’evoluzione dei modelli riduzionisti interpretativi del cancro,
risulta particolarmente attuale quello che disse Waddington anni fa: “I doubt if
there has ever been a period in history when a greater proportion of people have
found themselves frankly puzzled by the way the world reacts to their best efforts
to change it, if possible for better ” [Waddington 1977]. I tentativi infatti di interagire con sistemi complessi come il cancro mediante inter-azioni molecolari
finemente e sofisticatamente integrate tra di loro hanno mostrato i loro limiti:
l’evoluzione dei modelli sopra esposti della cancerogenesi monoclonale e multistep forniscono un chiaro esempio. I dati molecolari sembrano essere sempre
insufficienti per dar conto delle caratteristiche emergenti del fenomeno neoplastico, come d’altra parte la muliple realizability rimane comunque un problema
irrisolto e fonte di continui paradossi nelle spiegazioni di impianto riduzionista.
L’identità (funzionale) infatti delle singole parti viene continuamente messa in
discussione dalle evidenze empiriche: tipico è il caso di p53 che a seconda dei
tumori sembra presentare funzioni addirittura opposte.
Introdurre un principio esterno al sistema, come è la selezione naturale, per
dar ragione della stabilizzazione di un fenotipo che è considerato dominante,
come quello neoplastico, richiede allora un’ulteriore riflessione sul ruolo causale
delle parti molecolari. Se la scala temporale della progressione neoplastica è la
dimensione su cui agisce la selezione naturale, deterministica, nella costruzione
del fenotipo neoplastico, in che termini può essere comunque attribuito ai fattori
di natura molecolare (genetici, epigenetici, ecc.) un ruolo esplicativo (causale)
nelle tappe di trasformazione tumorale?
È Feinberg che ci fornisce alcune considerazioni che riteniamo chiarificatorie delle implicazioni del riduzionismo filosofico. Il modello multistep che aveva
messo in sequenza gli elementi molecolari aveva infatti avuto bisogno di integrare
lo schema di insorgenza neoplastica mediante un modello policlonale in cui componenti non solo genetiche, ma anche epigenetiche, regolatorie dell’espressione
genica, nel senso più ampio del termine, devono essere prese in considerazione5 . Il Modello Epigenetico sembrava aver dato una risposta ai problemi della
5È
infatti dicile riconciliare la cinetica tumorale con l'idea di mutazioni selezionate sulla
base di cloni multipli in quanto, da una prospettiva epidemiologica, la maggior parte dei
comuni tumori adulti richiedono molti anni di esposizione, che includono tanto l'età che insulti
ambientali, per emergere anche solo nella loro forma riconoscibile più semplicemente all'analisi
anatomopatologica. Il Modello di mutazioni multiple richiede cioè un tempo troppo lungo per
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11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
190
latenza ed eterogeneità tumorale che i modelli precedenti non erano invece riusciti a spiegare per cui, secondo una citazione già riportata “Epigenetic changes
might than provide mechanistic unity to understanding cancer” [Feinberg 2007].
Ora, quasi a garanzia della validità del modello e della sua legittimità all’interno del paradigma riduzionista, il riconoscimento di un ruolo causale della
componente epigenetica è fondato sulla priorità temporale della comparsa delle alterazioni epigenetiche rispetto a quelle genetiche. “How an argument for
causal argumentation of epigenetics changes can be supported? The establishment of a causative relationship has been always molecular biology’s goal and
passion, but the argument for causality have been always posed in terms of temporal priority. So that a convincing causal argument is made mainly through
different arguments, like the evidence that constitutional epigenetic alterations
are linked to cancer risk, as it has been demonstrated in Beckwith–Wiedemann
syndrome and Wilms’ tumour, etc. Thus, the epigenetic change precedes cancer
and confers risk for cancer, a strong argument for causality” [Feinberg 2007].
L’identificazione spaziale e la priorità temporale divengono così le due componenti definitorie nell’identificazione dei sistemi a cui attribuire l’organizzazione
funzionale del cancro. Tale impostazione è coerente con una visione meccanicistica dei fenomeni biologici, con cui pertanto identificheremo definitivamente la
logica della posizione riduzionista6 .
La riduzione del fenomeno neoplastico ad una mera sequenza temporale di
eventi descrivibili mediante cambi molecolari, retrogiustifica la necessità di indar conto della progressione tumorale: se si assume che un tumore ci impiega anni a sorgere,
ci impiegherà anche anni a svilupparsi dato che le cellule della maggior parte dei tumori solidi
non si dividono ad una velocità signicativamente più alta di quella delle cellule dei tessuti
normali.
6 Il
meccanicismo ebbe i suoi antenati negli atomisti greci e nel secolo XVII, fu difeso dagli
scienziati e loso che lo consideravano una losoa coerente con la nuova scienza ed ebbe una
grande inuenza nei secoli successivi. La principale dottrina, infatti, che ha negato il dinamismo interno di ciò che è naturale è l'atomismo meccanicista il quale pretendeva di spiegare la
natura mediante il movimento locale di particelle o enti elementari immutabili e passivi la cui
attività procedeva completamente da cause esterne. Si dovette aspettare vari secoli anché
nell'ambito scientico si manifestassero chiaramente le dicoltà del meccanicismo. Le rivoluzioni scientiche, specialmente la sica quantica e la teoria della relatività, mostrarono che i
modelli meccanici sono solo un possibile modello, in quanto rappresentano alcuni aspetti della
natura e risultano inapplicabili allo studio di molti fenomeni.
Fu Cartesio che formulò in modo più esplicito la dottrina meccanicistica. Le aermazioni
centrali del meccanicismo cartesiano sono che la sostanza corporea si riduce ad estensione, che
tutte le proprietà della sostanza corporea si riducono a quantitativo, cioè alla grandezza, alla
forma e al movimento, e che ogni movimento si riduce a movimento locale cioè a spostamento
delle parti della materia [Adam e Tannery 1964]. L'approccio matematico che derivava dalla
visione del movimento come spostamento e scontro fu particolarmente fecondo per ottenere
nuove conoscenze. Fu all'ombra di questi successi che il meccanicismo concettualizzò la materia
in funzione di alcune proprietà che risultano però insucienti per comprendere il dinamismo
e la strutturazione del mondo naturale. Infatti secondo il meccanicismo, la natura sarebbe
il risultato di una combinazione estrinseca di enti immutabili che sarebbero soggetti a un
dinamismo riducibile allo spostamento delle parti, e di processi di strutturazione frutto di una
pura congurazione spaziale che non implica un cambio intrinsico dei componenti. Ma questa
rappresentazione non corrisponde alle conoscenze attuali sulla natura e, sulla base dello studio
del fenomeno neoplastico, ancor meno a quelle della natura dei fenomeni biologici.
Ciò nonostante la grande quantità di risultati positivi che sono stati ottenuti ha ulteriormente centrato l'attenzione sui criteri pragmatici che dominavano l'empirismo, facendo dimenticare l'importanza dell'orientamento verso una verità unicatrice dei fenomeni in studio; la
linea di condotta che si utilizza è quella allora dell'ecacia tecnica per cui, anche nella ricerca
oncologica, si moltiplicano le pubblicazioni sui dati molecolari del cancro e del suo fenotipo,
si punta sulle target therapy, ecc., ma si perde di vista il quadro nel suo insieme.
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
191
tegrare il modello multistep e policlonale con la teoria evolutiva somatica del
cancro cui facevamo riferimento sopra. La stocasticità del modello policlonale doveva infatti trovare una sua spiegazione coerente in un modello che desse
ragione di come la progressione neoplastica potesse avanzare nonostante le perturbazioni e gli eventi casuali che colpiscono varie delle sue parti verso l’epilogo,
praticamente ineludibile, dell’invasione tessutale e della metastasi. Come in un
sistema meccanico, il risultato (metastasi) diviene necessario (come contrario
di possibile) una volta definite le condizioni iniziali (componenti molecolari) e
le leggi di funzionamento (selezione naturale per la sopravvivenza). Tuttavia,
l’evoluzione biologica qui invocata è in realtà pure di carattere meccanicistico,
intesa cioè semplicemente come “cambio nel tempo”. La natura e la specificità di
questo cambio non viene definita: un cambio cioè di qualunque tipo è sufficiente
ad essere preso in considerazione come potenziale causa efficiente del processo.
Sarà poi la priorità temporale a definirne l’importanza o la relatività all’interno
dello stesso: ONG, TSG, fattori epigenetici in fondo si equivalgono veramente
nella prospettiva riduzionista.
Ci troviamo quindi di fronte ad un terzo livello di riduzione ontologica: quello
dell’equivalenza delle parti7 . Le componenti del sistema diventano intercambiabili. È questo livello di riduzionismo che in fondo sta alla base dei paradossi
che emergevano dal modello delle CSCs. Se infatti un’attribuzione funzionale
implica sempre una relazionalità, cioè una reciprocità di inter-azioni nella diversità delle parti che costituiscono una struttura d’insieme come avviene nella
costituzione del tessuto normale, in un sistema in cui le parti sono omogenee per
definizione e intercambiabili, qualsiasi specificità funzionale che venga attribuita
ad esse perde di consistenza. In questo caso, neanche la priorità temporale delle
CSCs, identificata come argomentazione della loro relazione causale con l’insorgenza del cancro, risulta allora più sufficiente a sostenere il modello gerarchico.
La capacità, inoltre, ad esse attribuita, di rispondere adattativamente ai continui cambi ambientali, a buona ragione diviene paradossale dato che si potrebbe
dare in entrambi i sensi senza incorrere in contraddizioni logiche. Ma è la logica
biologica e sono le evidenze fisiologiche che ne fanno emergere il controsenso e
che non rimangono appagate.
L’ordinabilità del sistema esplicativo richiede cioè una dimensione relazionale che non si esaurisce in un sistema autoreferenziale. Le funzioni biologiche
che spiegano il fenomeno neoplastico non possono essere dissociate dal loro contesto operativo definito in prima istanza dal sistema più ampio cui anche le
singole parti della gerarchia funzionale disegnata dalla prospettiva riduzionista
appartengono. I sistemi così identificati, in quanto autoreferenziali, non sono
7 Si
comprendono meglio, alla luce di queste considerazioni, alcune conclusioni ed epici-
cli a cui alcuni modelli riduzionisti devono ricorrere.
Un esempio all'interno della biologia
del cancro viene dalle considerazioni sulle alterazioni nella metilazione del DNA. Come già
menzionato nella descrizione del modello epigenetico, nonostante il ruolo ad esso attribuito
nell'insorgenza del cancro, soprattutto del colon, non sembra che ci siano mutazioni nelle parti
molecolari coinvolte nel meccanismo di modicazione e riconoscimento delle metilazioni che
siano state identicate univocamente nei cancri umani. Fra l'altro, cambi epigenetici possono
essere conseguenza di un'espressione genica alterata e l'attivazione di TSG può non essere
stabile, suggerendo che la metilazione alterata possa essere ugualmente un eetto più che
una causa del silenziamento genico.
Ora, anche se complessivamente il tasso di mutazioni
puntiformi non sembra essere superiore, almeno nel tumore al colon retto, rispetto al tessuto
normale, l'Instabilità Genetica viene spesso chiamata in causa per superare questo problema
[Feinberg et al 2006]: si ricorre cioè ad un fattore intrinsecamente casuale per dar ragione di
una proprietà che richiede invece per essere tale un certo livello di determinazione.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
192
capaci di render conto del commitment progressivo tipico del differenziamento
cellulare e del mantenimento della sua organizzazione funzionale e strutturale
propria dell’organismo vivente. Al massimo può essere in grado di spiegare come
si creano alcuni livelli di (dis)ordine e di far chiarezza sulle basi molecolari di
come scompare un fenotipo recessivo, ma non sarà in grado di dar ragione della
comparsa di un fenotipo dominante né di spiegare come esso si mantiene. La
questione è che “funtional biological explanantia are NOT (always) molecular
biological explanda” (cfr. cit. analoga di Rosenberg per cui “funtional biological
explanantia are always molecular biological explanda”). Ci sono cioè proprietà
che appartengono al sistema e che si manifestano nello spazio e nel tempo, ma il
sistema ha una priorità ontologica rispetto all’espressione delle stesse e un ruolo
nella definizione dei meccanismi anche evolutivi.
11.1.2
Causalità e indeterminazione nelle prospettive sistemiche
Della multiple realizability e di una emergenza effettiva sembrano invece tenere conto le prospettive sistemiche quando propongono studi di correlazione
più che di relazione causale [Ye et al 2009]. L’intento è infatti quello di sfuggire ai rischi di una riduzione delle relazioni causali a cause meccanicistiche che,
come abbiamo visto, aggiungono alla corrispondenza di un determinato evento
con un altro la sua priorità temporale e l’inclusione di entrambi ad un sistema
autoreferenziale chiuso. Nei modelli sistemici prevale quindi una logica duale:
una logica interna per cui ogni fattore molecolare, ogni volta costituito funzionalmente mediante le sue interazione con il resto, contribuisce al mantenimento
del sistema e all’efficienza del suo funzionamento e una logica esterna per cui le
componenti molecolari presentano una potenzialità reale (possibilità non necessità) di svolgere un ruolo, a volte drasticamente diverso a seconda dello stato
genetico ed epigenetico della cellule e del loro microambiente, nella definizione
di alcuni meccanismi che possono avere effetti simili in termini di comportamento sistemico [Ye et al 2007] e nell’integrazione di quest’ultimo con quello
dei sistemi adiacenti. All’interno della prospettiva sistemica, infatti, i sistemi
biologici sono aperti, non solo perché un organismo vivente ha un metabolismo,
cicli biochimici e una sensibilità alla selezione naturale [Soto et al 2008b] che
lo rende sensibile alle variazioni ambientali e suscettibile di adattamento, ma
anche perché il suo fenotipo (inteso come stato funzionale o comportamento)
non è mai completamente definito a priori dalle condizioni iniziali8 . Allo stesso
modo, la sua attività funzionale non è mai completamente definita da vincoli
interni 9 . Esistono cioè dei gradi di libertà nell’organizzazione funzionale la cui
8 Questo
è quello che è stato chiamato contextually non separable system [Perovic 2007].
Con non separabilità, Perovic assume che una proprietà contestualmente aperta N ``is not in-
stantiated in each individual constituent but rather in the context of the system's (individual)
constituents .
9 Da
un punto di vista metodologico questo aspetto è ben colto dagli autori della TOFT
[Sonnenschein e Soto 2006a] che aermano che occorre assumere che i vincoli interni di un
sistema sono sempre disturbati da quelli esterni, per cui per comprendere che cosa succede in
un sistema, è necessario saltare simultaneamente a diversi livelli a cui il sistema è integrato
[Stengers 1997].
Per esempio una cellula, integrata in un insieme come quello tessutale, si
comporta in modo diverso da come si comporterebbe in vitro. Esiste un'orchestrazione esterna
che denisce le proprietà funzionali delle parti, come nel muscolo cardiaco dove esiste un
pacemaker.
Le componenti del sistema sono proteine che veicolano ioni e creano così un
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
193
Figura 11.4: Causalità e indeterminazione nella prospettiva sistemica
La rottura dell’equilibrio tra i tipi di causalità in gioco per la costituzione e
mantenimento di un organ-o/ismo vivente e l’indeterminazione dei vincoli che
ne permettono la realizzazione effettiva porta all’insorgenza del fenotipo neoplastico, laddove l’eterogeneità tumorale mette in luce la perdita di specificità delle
parti in relazione al tutto e mostra, in un certo qual modo, la plasticità sottostante della materia vivente su cui si struttura l’organizzazione di un sistema
biologico mediante i processi morfogenetici.
sintesi finale compete al sistema nel suo insieme. È il sistema cioè nel suo complesso che definisce il contesto funzionale delle parti per cui il concetto evolutivo
a cui anche le prospettive sistemiche fanno riferimento non è semplice “cambio”,
ma consolidamento di uno schema strutturale e funzionale che rende significativo e conferisce un’identità al sistema in questione, mediante la definizione e
l’integrazione di campi funzionali. Nel processo neoplastico dove tutto questo
viene compromesso, l’eterogeneità fenotipica mette in luce la stocasticità su cui
tutti i processi fisiologici, abitualmente orientati e ordinati al differenziamento
e alla morfogenesi attraverso meccanismi di feedback e forward, sono comunque
basati. Esiste cioè una sorta di indeterminazione della materia biologica che da
ragione della plasticità a cui si faceva riferimento nel capitolo precedente, ma
non è questa che genera quell’ordine gerarchico che appartiene invece al sistema
e che, una volta compromesso, si manifesta nella disorganizzazione funzionale e
strutturale delle sue parti.
Cosa significa allora studiare un fenomeno fisio-patologico attraverso correlazioni invece che cause efficienti? Quali i presupposti ontologici che ne garantiscono il potenziale esplicativo ed euristico oltre che la consistenza logica? Occorre
usso di corrente che cambia il voltaggio cellulare. Questo però a sua volta modica i canali
ionici. Le componenti molecolari cioè cambiano il comportamento del cuore e il cuore altera
il comportamento delle sue componenti, le due saranno pertanto da considerare integrate in
una struttura multicellulare superiore dell'organismo [Noble 2006].
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194
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
riconoscere che le risposte a queste domande non sono doverose all’interno della
ricerca empirica dove è fondamentalemente la coerenza dell’impostazione epistemologica quella che guida i programmi di ricerca e giustifica la loro affidabilità
ed eventualmente la loro utilità pratica. Di fatto, una riduzione epistemologica
del problema ontologico, conformandosi all’individuazione del corretto livello di
analisi biologica e sperimentale e dando per scontata la reale esistenza di proprietà emergenti, è la posizione assunta in molti casi dalla TOFT, che spesso
preferisce non confrontarsi con la nozione di causalità sottostante ai concetti
teoretici che pure utilizza.
Riassumiamo brevemente come si può realizzare questo appiattimento della questione ontologica su quella epistemologica. Nella TOFT che più di ogni
altra ha riflettuto sul suo statuto e sui suoi presupposti filosofici, esso nasce
fondamentalmente dalla preoccupazione di giustificare la priorità del livello tessutale su quello molecolare nella spiegazione del fenomeno neoplastico e della
ragionevolezza di considerare l’organizzazione strutturale e funzionale a questo livello come esplicativa della patologia. La preoccupazione argomentativa
di questa teoria è quindi centrata principalmente sulla riflessione biologica e
sperimentale, per individuare il mesosistema adeguato di indagine, e sull’individuazione dei presupposti epistemologici che possano confermare l’adeguatezza
dello stesso nella pratica sperimentale (emergentismo e organicismo come default [Soto e Sonnenschein 2005]). Come affermano Soto e Sonnenschein “Organicism, by admitting the existence of emergent phenomena and reciprocal,
apparently non-linear relationships, is better suited to study these complex phenomena” [Soto e Sonnenschein 2005, Soto e Sonnenschein 2006b]. Un’opportunità di impostazione epistemologica quindi: “the problem is to develop an epistemology that takes into consideration evolutionary and developmental history,
elements that play a central role in biology but not in chemistry or physics”
[Soto e Sonnenschein 2006a]. Questo lascia però aperte all’indagine due questioni: la prima che ha a che vedere con lo statuto ontologico delle proprietà
emergenti, la seconda con i tipi di causalità in gioco per dar ragione dello stesso.
Ma c’è anche la possibilità di andare oltre, analizzando quali tipi di causalità sottostanno alle correlazioni individuate ed eventualmente capendo quale
nozione di causa è più adeguata a dar ragione delle stesse. Il caso che stiamo
studiando ci fa pensare che valga la pena intraprendere questo sforzo per le implicazioni che può avere non solo per la scienza, in termini di valorizzazione di
alcuni approcci piuttosto che di altri, ma anche per il contributo che possono
dare alla filosofia della biologia verso la comprensione dell’organismo vivente e
delle sue patologie.
Muoviamo quindi dagli elementi, numerosi e già ampiamente presentati nella
Parte II, che la TOFT ci offre nella sua analisi dell’eziopatogenesi del cancro:
la componente patologica di questo fenomeno è legato alla compromissione delle interazioni tra le cellule e tra queste e il tessuto di cui formano parte, e
all’esistenza di campi morfogenetici che consentono e conferiscono specificità
a tali interazioni in quanto portatori di un’informazione posizionale e storica
[Sonnenschein e Soto 1999]. L’architettura del tessuto è quindi una proprietà
emergente della società cellulare e non una semplice funzione collettiva delle
proprietà delle cellule che costituiscono il tessuto: la sua spiegazione (causale)
non può essere ridotta pertanto a proprietà delle parti (anche cellulari) proprie
dei livelli sottostanti che pur al loro livello possono svolgere un ruolo causale efficiente, ma che non risulta significativo nell’analisi del fenomeno nel suo insieme.
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
195
Non è sufficiente dire ad una cellula che cosa deve fare, ma è necessario chiarire
cosa deve fare in un preciso momento e non in un altro mediante i suoi segnali
cellulari e molecolari nel suo ambiente: questo è il ruolo degli ormoni e ha una
sua manifestazione concreta nella collocazione spaziale di determinate cellule
all’interno di un tessuto. Questo anche spiega perché le proprietà biologiche
delle cellule in un organismo non possono che essere tempo/spazio-dipendenti,
come nel caso delle cellule staminali, e perché la storicità dell’organismo -cioè
la sua evoluzione e ontogenesi- costituisca un reale ostacolo al successo del riduzionismo [Soto e Sonnenschein 2005, Soto e Sonnenschein 2006b] che lavora con
unità la cui identità è logica, ma non bio-logica. Questo è anche il motivo per
cui, da questa prospettiva sistemica, la questione funzionale è intrinsecamente
associata a quella del contesto.
Introducendo il concetto di campi morfogenetici (o più ampiamente di campi
funzionali) insieme alla componente storica dell’organismo, la TOFT coglie ed
utilizza così adeguatamente un aspetto importante dell’organicismo riscattando allo stesso tempo l’utilità di entità teoretiche nella spiegazione di fenomeni
naturali anche in biologia. Questo permette di riformulare le questioni prima
enunciate sulla natura dei tipi di causa in gioco e della loro relazione con la dimensione evolutiva dell’organismo vivente. All’interno di una prospettiva sistemica organica, quindi, l’interpretazione della componente dinamica, temporale,
del fenomeno neoplastico assume dei connotati diversi da quelli che aveva nella prospettiva riduzionista. In quest’ultima, infatti, la progressione neoplastica
avanza inesorabilmente e in modo necessario ogni qual volta le “giuste combinazioni” si danno casualmente e l’insuccesso non è contemplato come possibilità
reale. La non-linearità con cui a volte è pure descritto il fenomeno ha allora a
che vedere nella SMT con l’impredicibilità del percorso, ma non con il suo epilogo né con la possibilità di definire le cause intese come condizioni originarie la
cui evoluzione terminale è aprioristicamente determinata. Il fenomeno è visualizzabile, almeno virtualmente, dall’inizio alla fine. All’interno della prospettiva
sistemica invece l’insuccesso è ammesso, in concordanza con i dati sperimentali
sulla reversibilità del fenotipo neoplastico: il processo neoplastico si realizza nel
tempo, ma la dimensione temporale non è semplice progressione, ma è realizzazione di uno sviluppo. Causalità non significa quindi necessità. Per questo
è possibile fare riferimento alla nozione causale senza incorrere in contraddizioni. Quando analizziamo il fenomeno neoplastico, infatti, siamo di fronte ad un
processo in fieri di cui non vediamo mai la fine (l’organismo muore prima che
il cancro abbia potuto realmente costituirsi come entità autonoma e integrata
funzionalemente, cosa che, nel caso si desse, costituirebbe la prima evidenza
empirica di un processo evolutivo biologico che va a termine!), ma possiamo
spiegarlo in quanto patologia di un fenomeno fisiologico che riguarda l’intero
organismo e di cui invece conosciamo per esperienza l’inizio e la fine10 .
Quali tipi di causalità allora vengono invocati per dar ragione della complessità di un fenomeno che non va a compimento in quanto patologico? All’interno
10 Per
questo è più facile dire che cosa non è il cancro piuttosto che cosa è. Sulla base di
queste stesse argomentazioni Waddington sostiene che nelle scienze embriologiche, che pure
si confrontano con fenomeni in eri, le domande più adeguate per avere risposte sperimentali
soddisfacenti e signicative, non soggette a contraddizioni ma eventualmente ad integrazioni,
sono quelle impostate in modo tale che la risposta da vericare sia negativa [Waddington 1977].
Riteniamo, inoltre, che da questo punto di vista tanto l'uso delle metafore nella descrizione
dello stesso come la molteplicità delle sue denizioni abbia una sua giusticazione razionale.
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196
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
della prospettiva sistemica [Bunge 2004] e ponendo l’enfasi sulle proprietà emergenti, la TOFT sostiene che una causalità dall’alto verso il basso rappresenti un
presupposto più adeguato per fornire una risposta. Per spiegare i meccanismi causali che sottostanno all’organizzazione funzionale dei fenomeni biologici
complessi, all’emergenza dal basso verso l’alto, piuttosto diffusa in natura, si
aggiunge un altro tipo di emergenza laddove il tessuto, nella fattispecie della
TOFT, come un tutto influenza e determina, in ultima istanza, le proprietà delle
sue parti [Mayr 1982, Sonnenschein e Soto 1999]. Ma qui viene il punto. Come
abbiamo visto infatti, anche l’epistemologia riduzionista sembra essere capace
di dar ragione di alcune forme di emergenza (in termini di nuove attività cellulari per esempio che compaiono nella varie fasi della progressione neoplastica)
riconducibili al fatto che le cellule, considerate letteralmente come parti inferiori
del livello più alto tessutale, presentano dei meccanismi di regolazione che dipendono anche dalla loro contestualizzazione. L’affermazione del riduzionismo
genetico per cui la morfogenesi è controllata dal patterning genetico del piano
corporeo mediato da una cascata di induzione genetica, unidirezionale e lineare
che può essere adeguatamente modificata ed integrata per includere anche forze
meccaniche, stress fisico, ecc. che inducono a loro volta una specifica espressione
genica [Farge 2003], ne costituisce un esempio. Questa catena causale appare
come una emergenza (descritta per esempio in un numero più elevato di cellule
in movimento) che poi agisce come una causalità dall’alto verso il basso, ma c’è
qualcosa più che un controllo di feedback e non è solo questione di tempo. “In a
general and perhaps trivial sense, molecules mediate these high-level phenomena.
However, there are many interactions that occur simultaneously to maintain the
structure of a tissue; hence, it is practically impossible to sort out causes and
effects in a way that would precisely reveal whether emergents have true causal
agency. Hence, biologists who take for granted that emergent phenomena exist
adopt an organicist stance” [Sonnenschein e Soto 2006a], concludono gli autori
della TOFT. La dimensione temporale cioè, di per sé, non è sufficiente a spiegare come diversi livelli di indeterminazione possano finalmente dare origine ad
una organizzazione funzionale. Lo stesso dicasi per il cancro: l’indeterminazione
funzionale che presentano le cellule tumorali non è semplicemente questione di
tempo, ma è nel tempo che essa si manifesta per la relazione che questa ha con il
tipo di causalità che, altrimenti, la farebbe convergere verso forme gerarchiche
organizzate funzionalmente. Un tessuto, infatti, deriva da una lunga serie di
interazioni durante le quali le cellule si muovono in relazione le une alle altre nel
processo e acquisiscono identità diverse a seconda di queste nuove relazioni. Dal
tempo in cui un tessuto è formato, le parti che noi identifichiamo in esso non
sono più le parti che interagivano nella sua formazione. Le componenti cellulari
ora presenti non pre-esistevano al tessuto stesso: interagiscono ora in un modo
nuovo che è reciproco.
Per questo, come evidenziato da alcuni, la preoccupazione principale dei filosofi sull’emergentismo sembra essere relazionata, più che con l’emergentismo
in generale, con un aspetto particolare della causalità dall’alto verso il basso
(downward causation) tipica degli organismi viventi. Come afferma Kim: “. . .
apart from any recondite metaphysical principle that might be involved, one
cannot escape the uneasy feeling that there is something circular and incoherent about this variety of downward causation” [Kim 1999]. Come nel caso
della formazione di altre parti del nostro organismo, come quella della mandibole e dei denti [Sonnenschein e Soto 2006a], le cellule epiteliali insieme alle
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
197
cellule stromali producono la membrana basale, mentre allo stesso tempo questa membrana produce l’architettura del tessuto (stroma ed epitelio). In questo
contesto, è impossibile isolare l’attività di un gene o di una cellula dalle interazioni tessutali. Ma questa reciprocità sembra essere centrale anche nella
comprensione del cancro. Infatti, il fenotipo neoplastico non è fissato dall’interno delle cellule. La capacità dell’organo ospite di normalizzare cellule tumorali
è influenzato da fattori di differenziamento e di sviluppo, come dimostra la variabilità della capacità di un fegato normale di normalizzare cellule tumorali a
seconda che appartenga ad animali più o meno giovani o il diverso potenziale
dello stroma mammario di normalizzare cellule di un carcinoma a seconda dell’età dell’ospite ricevente e la concomitanza per questi di una gravidanza recente
[Hendrix et al 2007, Maffini et al 2005, Coleman et al 1997]. Il differenziamento cioè è conseguenza della somma dei processi di sviluppo e non il suo contrario
dato che è la singola cellula, lo zigote, l’organismo quindi nel suo insieme, che
riesce a generare le diverse strutture adulte (le cellule, i tessuti, gli organi) e le loro funzioni specifiche. “How can causation be studied here? Is the tissue causing
the formation of a basement membrane? And then, is the basement membrane
causing the normal architecture of the epithelium- and thus the tissue? This
looks like circular causation” [Soto e Sonnenschein 2006a].
Una spiegazione completa di questa apparente causalità circolare è fuori
dalla portata della scienza sperimentale dato che diversi livelli si intersecano tra
di loro e ogni approccio sperimentale richiede l’individuazione di un livello di
analisi che riduce il fenomeno alle dinamiche tipiche del mesositema prescelto.
Per questo allora, il problema che la TOFT si pone è semplicemente quello di
giustificare l’adozione di determinato livello di organizzazione gerarchica come
spiegazione di un fenomeno come quello neoplastico quando è evidente che la
reciprocità della interazione dinamica delle parti di fenomeni biologici complessi
rende difficile stabilire tutte le cause efficienti, relazioni di causa effetto, come
richiesto dal metodo sperimentale. “Acknowledging these problems does not seem
an exercise in nihilism, but a first step in trying to devise ways of studying
organisms while taking into consideration the problems posed by their historicity”
[Soto e Sonnenschein 2006a].
La storicità diviene il vero strumento esplicativo per la reale causalità circolare che è presente nell’organizzazione di un campo morfogenetico e dà ragione
della reciprocità o della “apparente causalità circolare” spesso menzionata negli studi che muovono da prospettive sistemiche del fenomeno neoplastico. In
questo contesto, la dipendenza di determinate proprietà dal contesto è allora
effetto di una emergenza diacronica11 e l’emergenza non è semplicemente una
questione epistemica. Riscattare però uno statuto ontologico delle proprietà
emergenti sulla base della storicità dell’organismo, senza indagare la nozione di
causa in essa implicate, rischia talvolta di far cadere la TOFT paradossalemente
in un riduzionismo ontologico sulla base di una epistemologia relativista (cfr.
nota 6). L’importanza della causalità downward dipende da un problema logico, enunciato in termini di correlazione con l’emergenza diacronica: “This is
11 Per
emergenza diacronica intendono the fact that in specic natural or formal systems
the initial relations and properties of elements cannot teach us how they would be applied as
the system evolves. Thus, the historical way by which a system of natural events operates is
not a consequence of its description. It acts and it produces novelty (novel qualities and novel
structures) in the real world, which leads to the conclusion that emergence has an ontological
meaning [Bunge 2004].
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198
11.1. ORDINABILITÀ GERERCHICA E LA STOCASTICITÀ DEL
PROCESSO NEOPLASTICO
so because if systemic properties depend on basic properties; the former cannot
complete or modify the basic properties simultaneously without contradiction”
[Soto et al 2008b]. Ma porre la questione in questi termini implica ancora una
volta caratterizzare il fenomeno dell’emergenza principalmente sulla base della
componente temporale, eludendo la questione sulla specificità dello stesso all’interno di un organ-o/ismo concreto dove invece realmente si da. La conclusione
a cui pertanto pervengono gli autori della TOFT è significativa: “That is, the
system is a process, not a thing” [Soto et al 2008b].
Alcune considerazioni interessanti vengono invece dal DRM (Dynamic Reciprocity Model, cfr. Parte II), permettendoci di andare oltre nella comprensione
della nozione di causalità circolare e reciprocità emersa sino ad ora. Come abbiamo già visto questo modello studia l’effetto che l’ECM ha non solo sulla forma
cellulare individuale, ma anche sull’organizzazione delle cellule all’interno della
configurazione tessutale [Bissell et al 1982, Bissel e Inman 2008] e sull’espressione di funzioni differenziate. Come nel caso del processo di differenziamento, i
componenti della ECM (Extra Cellular Matrix, cfr, Parte I) possono avere un’influenza sia positiva che negativa sul mantenimento della specificità tessutale. La
comprensione del ruolo della ECM sulla regolazione della crescita, come la proliferazione cellulare, è ugualmente importante. La regolazione della crescita in
vivo è un aspetto importante della specificità tessutale e il mantenimento della
“normale” omeostasi. “Tissue architecture is both a consequence and a cause
(the end and the beginning)” [Nelson e Bissell 2006]. La struttura di un tessuto
o di un organo è quindi, anche in questo caso, critico per la sua funzione. La
perdita di architettura del tessuto è un prerequisito per, e una delle caratteristiche definitorie di, la maggior parte dei cancri. In accordo con questo modello,
il cross talk bidirezionale dinamico dalla ECM con la membrana cellulare non
esclude il regno dell’espressione genica studiando le connessioni tra le interazioni tra ECM e recettori della ECM al citoscheletro e alla matrice nucleare e
alla cromatina e viceversa. Una caratteristica importante di questo modello è
che esso prende, dal ruolo che era stato attribuito all’ECM nello sviluppo come
possibile scaffold, la visione della ECM come di un determinante della specificità cellulare stessa. Esso costituisce una rappresentazione biologica del concetto
teorico di campo funzionale adottato già nella TOFT. “As such, organ structure
and consequently organ function are determined by the dynamic and reciprocal
interactions between the organ’s constituent tissues, the structure and function
of which are determined by the dynamic and reciprocal interactions between the
cells and ECM comprising a given tissue” [Nelson e Bissel 2005]. La funzione
di un organo poggia pertanto sui tipi cellulari costituenti dell’organo e sulla sua
organizzazione complessiva. È l’ovvia unicità di questa struttura che distingue,
per esempio, una mammella da un rene e che dirige le cellule all’interno del
primo organo a produrre latte e del secondo a filtrare il sangue e a espellere
le urine. Questo è così nonostante il fatto che le cellule condividano lo stesso
genoma. I processi di specificità tessutale pertanto possono essere estesi ai vari
organi. Le interazioni tra una cellula e il suo contesto determinano allora il
pattern di espressione genica e i suoi fenotipi differenziati a dispetto del fatto
che il blueprint del genoma non cambia. “In the end, the unit of functional
differentiation is the organism itself ” [Nelson e Bissell 2006].
La causalità circolare allora di cui si parla non è altro che una proiezione di una reale causalità sistemica che in ultima istanza risponde al principio dell’organizzazione funzionale e strutturale dell’organismo vivente e del suo
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
199
mantenimento.
11.2
Conclusione: dalle teorie degli insiemi (si-
stemi) alle teorie degli enti (Sistemi)12
L’equilibrio tra una visione degli organismi viventi come cose o processi è
molto antico. Prima del tentativo di Democrito (460-360 a.C.) di spiegare il
mondo reale in termini di “cose”, fu Eraclito (535-484 a.C.) che sottolineò particolarmente l’altra componente, definendo gli organismi viventi principalmente
come “processi”. Anche all’interno del metodo scientifico moderno, un tentativo
di sostituire l’allora dominante materialismo meccanicista con un materialismo
dialettico fu fatto da Marx e Engels, e teorizzato prima da Hegel, ma senza nessun successo nel superamento dei limiti imposti dal dualismo creato da Cartesio.
Il processo vitale, storico, è ridotto ad evoluzione dove è la componente casuale che domina mentre quella causale, determinata dall’individualità (biologica),
rimane irrilevante.
Così la prospettiva riduzionista fallisce omettendo la domanda fondamentale che sottostà alla componente temporale del processo neoplastico. Costruire
gerarchie mediante unità omogenee e intercambiabili in termini funzionali significa costruire un mondo per cui, essendo tutto autoreferenziale, ogni cambio
implica una minaccia all’identità del sistema o una nuova sfida logica per includere nuove varianti nel sistema esplicativo dell’organizzazione del sistema di
riferimento. La natura è modulare e il sistema è costruito come un insieme, per
giustapposizione di elementi in cui è solo la posizione reciproca che ne difinisce
la funzionalità, mentre l’appartenenza ad un sistema concreto e l’identità specifica di quest’ultimo rimangono completamente neutri rispetto alla spiegazione
del funzionamento delle parti. In questo modo però, anche le funzioni biologiche
finiscono con lo scomparire, in quanto implicano una componente di relazionalità che non può sussistere in un semplice insieme di parti, in un sistema chiuso.
Scomparendo le relazioni, alla fine svanisce la vera nozione di causalità efficiente
e si deve ricorrere ad una nozione meccanicistica di causa che riduce le relazioni
a inter-azioni e si deve riscattare la specificità funzionale dei sistemi mediante
principi esterni allo stesso, come quello della selezione naturale. Infatti, se il
sistema è chiuso in se stesso, le rel-azioni sono ignorate, la loro significatività
persa, mentre le inter-azioni diventano necessarie per costruire e mantenere il
sistema: inter-azioni temporali e spaziali, come nel caso delle CSCs13 . Il pro12 Introduciamo
tra parentesi i termini di sistema con la maiuscola e minuscola per eviden-
ziare già nel titolo una delle conclusioni di questa sezione che ci permetterà poi di unicare la
terminologia pur sottolineando la dierenza ontologica della natura dei sistemi di riferimento
nella prospettiva riduzionista e antiriduzionista.
13 Questo
è un problema allora di livelli ontologici: se un'azione particolare non esiste ad
un determinato livello, non vuol dire che che non esista aatto.
Identicarla può essere
relativamente facile, una volta eettuato lo shift esplicativo adeguato, individuando in contesto
in cui le funzioni esistono ed operano.
Una spiegazione scientica, nella complessità biologica, è cioè possibile solo al livello adeguato, mentre non sembrano esistere programmi capaci di determinare il comportamento di
un sistema. Nella prospettiva riduzionista invece reconstructing a movement is not necessa-
rily reconstructing an action ma continua it gave the impression that the issue at stake, the
distinction between actions and movements, is an empirical one. It is not. It is conceptual [Noble 2006].
Il Sistema cioè non è neutrale a questa valutazione e quel modo di pensare
confonde livelli ai quali diversi enti possono essere detti di esistere.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
11.2. CONCLUSIONE: DALLE TEORIE DEGLI INSIEMI ALLE TEORIE
200
DEGLI ENTI
Figura 11.5: Rappresentazione grafica dei diversi tipi di causalità nella
prospettiva riduzionista e sistemica
a) La prospettiva riduzionista appiattisce la tridimensionalità, spaziotemporale del fenomeno biologico mediante una proiezione degli elementi
che lo costituiscono su di un piano verticale. La causalità bottom-up risulta essere allora la più esplicativa della progressiva giustapposizione degli
elementi che integrano la proiezione, elementi che per altro una volta proiettati diventano omogenei e praticamente intercambiabili tra di loro: una
proiezione di questo tipo, infatti, da qualunque piano venga generata, darà
sempre la stessa struttura sequenziale, lineare.
b) La prospettiva sistemica invece, assumendo l’emergentismo come default
e pertanto la causalità top-down come reale, si confronta con il fenomeno
biologico identificando il mesosistema da cui studiarlo. Anche in questo
caso viene operata una riduzione metodologica, ma la causalità con cui
si deve confrontare è di natura (apparentemente) circolare e dà ragione
della reciprocità (reale) delle interazioni delle parti molecolari con cui deve
confrontarsi nonché della necessità di adottare concetti come quello di
campo funzionale che in ultima istanza sta alla base della non-linearità
specifica dei fenomeni biologici.
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
201
blema è cioè relazionato con il tipo di sistema che si sta studiando e non tanto
con le implicazioni, anche teleologiche, del suo funzionamento, che in qualche
modo invece trovavano una sintesi di una certa utilità nel modello delle cellule
staminali tumorali.
Il problema è che in un sistema modulare ci sono, almeno teoricamente,
infinite possibilità di combinazione. Ma eludere la questione di come la natura,
chiamiamola qui pure selezione naturale, declina e concreta queste possibilità e
opzioni significa perdere la possibilità di dar ragione della specificità che fa di un
movimento un’azione che, in un sistema biologico, si chiama funzione. I limiti
della spiegazione causale del paradigma riduzionista sorgono pertanto quando,
una volta identificato il sistema, questo non è preso come reale, per cui anche le
cause efficienti reali (che avrebbero un loro potenziale esplicativo a determinati
livelli della complessità biologica) diventano apparenti per la pretesa di spiegare
l’insieme.
Ignorare allora una causalità complessa a livello ontologico, porta ad una
complessità delle cause a livello epistemico. Così si moltiplicano, infatti, il
numero e il tipo di fattori causali che devono dar ragione della progressione
neoplastica e il problema scientifico diviene quello di spiegare come questi stiano in sistema gli uni con gli altri nella costituzione dell’insieme a cui, per un
principio esterno, viene attribuita la specificità funzionale. Quando il sistema in
studio è considerato un insieme modulare di parti e pertanto non ha una realtà
ontologica indipendente da esse, si moltiplicano le spiegazioni, ma non si sa più
cosa si sta realmente spiegando. Ecco che così sappiamo dire molte cose sul
cancro, ma non sappiamo né definirlo e quindi ancor meno spiegarlo. Negando
l’esistenza reale di un sistema cellulare capace di integrare in modo significativo
questi segnali, il paradigma riduzionista si condanna all’insuccesso.
In un sistema aperto invece, fattori di diverso tipo possono passare nel sistema dall’esterno, vengono processati e qualcos’altro viene espulso all’esterno
nuovamente. Il sistema permane qui nelle sue proprietà fondamentali nonostante i cambi e movimenti delle parti. Le spiegazioni sono operazionali e il mondo
biologico è compreso in termini di forme e di comportamenti (cfr. DRM). Il
principio di integrazione funzionale è l’organismo stesso e la selezione naturale è
uno degli aspetti che intervengono nel fenomeno evolutivo. La selezione naturale, infatti, non è sufficiente a giustificare il passaggio per cui un movimento, un’
attività biologica qualsiasi (proliferazione, produzione di determinati anticorpi,
ecc.) può essere considerata una funzione. C’è un prezzo metafisico da pagare
nell’attribuzione funzionale, anche per i riduzionisti, che ha a che vedere con
la reale sussistenza del Sistema (ente) che agisce come causa proprio nell’integrazione funzionale delle parti. Per questo inoltre, la prospettiva sistemica non
ha bisogno di identificare il principio di selezione naturale con quello di adattamento (cfr. Cap. 7), perché quest’ultimo non coincide da un punto di vista
biologico con il concetto di fitness. La cellula tumorale in un certo qual modo
sta bene (fitness), ma non è adattata e per questo è patologica (cfr. la posizione,
esposta alla fine della Parte II per cui il cancro è un fenomeno non-adattativo).
Questo significa allora che le proprietà di un Sistema biologico, che dal punto di
vista del suo comportamento risulta completamente determinato dalla sua identità specifica, presentano un certo grado di indeterminazione perché poggiano
sulle proprietà e interazioni delle loro parti che ammettono un certo grado di
plasticità, ma sono finalmente strutturate mediante altri tipi di cause di natura
sistemica. Il processo differenziativo allora è regolato da diversi segnali interni
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11.2. CONCLUSIONE: DALLE TEORIE DEGLI INSIEMI ALLE TEORIE
202
DEGLI ENTI
ed esterni, ma sempre contestuali14 , relativi cioè al Sistema di riferimento.
Il determinismo come tale è perciò completamente neutrale rispetto alla
questione riduzionismo/antiriduzionismo15 . Ci sono, infatti, due posizioni epistemologiche, ugualmente deterministe, che possono spiegare come le proprietà
o il comportamento di un sistema (completamente definito) appaiono in un certo qual modo indeterminate dalle proprietà intrinseche e dalle interazioni delle
parti, per spiegare cioè il fenomeno di organizzazione di un sistema vivente
[McLauglin 2001]:
(1) una prospettiva meccanicistica che si rifà all’idea o alla rappresentazione
dell’insieme per spiegare come l’origine del sistema possa essere completamente determinato dalle proprietà intrinseche delle sue parti senza rifugiarsi in qualunque tipo di causa finale che non sia quella mimetizzata
dietro al concetto di selezione naturale adottato, per esempio, per spiegare
il cancro;
(2) una Prospettiva che chiameremo Sistemica Individuale (PSI)16 che si appella all’insieme reale per conferire proprietà esplicativamente rilevanti che
14 Utilizzando
il termine contestuale indichiamo qui la necessità ma non la sucienza,
per esempio, dei fattori dierenziativi nel processo di strutturazione dell'organismo.
Come
anche il modello della Bissel fa pensare, questo pone una questione anche sul concetto di
informazione biologica. Se il processo di strutturazione funzionale di un organismo, infatti, è
determinato da fattori anche contestuali, ne deriva che i fenomeni biologici non sono regolati
solo dal patrimonio informativo contenuto nei geni della cellula o che almeno il concetto di
informazione biologica deve essere rivisto alla luce di una comprensione più ampia e meno
molecolare (genetica) dell'organismo vivente [Marcos 2010a]. Ad una idea analoga era pervenuto già Waddington quando pose l'accento sul concetto di istruzione per ampliare quello di
informazione. Egli osservò che la teoria dell'informazione è, alla n ne, il concetto utilizzato
per il discorso causale nella ricerca empirica: Unfortunately (. . . ) the denition, although
precise, is also very limiting, and excludes most of what we are really interested in. The world
does not work by information ; when it operates in any way, it does so by instructioon or
programs , which involve something more than can be accommodated within Information [Waddington 1977]. Information Theory's weakness is that it tried to dene this specicity
in essentially non-active terms [Waddington 1977]. È pertanto più facile ed ecace avere
un'idea adeguata della natura reale dei sistemi complessi con cui abbiamo a che fare se pensiamo ad essi non in termini statici (sulla base per esempio della quantità di informazione in essi
contenuta in termini di fattori genetici, epigenetici o cellulari), ma ponendo la domanda sulla
componente dinamica che può essere esplicitata secondo quella dualità logica che avevamo
messo in evidenza nell'interpretazione della componente stocastica del processo neoplastico
dal punto di vista sistemico. Seguendo una logica interna, ci domanderemmo infatti quanta
informazione è necessaria a produrre sistemi biologici complessi, seguendo quella esterna quale
tipo di informazione essi tendono ad imporre al loro contesto: ogni sistema, infatti, tende a
massimizzare la propria ordinabilità, inclusa quella del suo habitat. È questa la caratteristica
peculiare degli organismi viventi.
15 Il
determinismo nella sua varietà materialistica aerma che gli eventi materiali (processi,
enti, ecc.) sono completamente causati e esaustivamente spiegati da un complesso antecedente
di stati o eventi materiali.
L'aermazione per cui le proprietà di un determinato sistema
sono spiegate dalle proprietà che sono indipendenti dal sistema stesso e dall'interazione delle
sue parti è un postulato addizionale fatto da un determinismo specicatamente meccanicista
o riduzionista.
Le cause nali sarebbero esplicative necessariamente solo se alcuni eventi
materiali (processi, enti, stati, ecc.)
risultassero essere indeterminati dalle loro condizioni
materiali iniziali (identicate come cause ecienti).
Rosenberg identica qualsiasi tipo di
spiegazione teleologica come una negazione del determinismo. Allora l'esclusione operata da
Cartesio delle cause nali è semplicemente un altro modo di aermare il determinismo, di
aermare che il mondo materiale è causalmente chiuso.
16 Intendiamo
qui per Sistemica Individuale quella prospettiva che in contrapposizione a
quella riduzionista intende l'ente vivo come un Sistema realmente esistente alla cui costituzione
concorrono diverse nozioni di causalità e che si presenta esso stesso come causalità eciente
rispetto alle proprietà di alcune sue parti o rispetto ad altri Sistemi; esso inoltre presenta
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CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
203
siano sistema-dipendenti alle parti. Non è tanto questione di considerare
l’insieme come causa finale o formale delle proprietà delle parti, ma di
assumere che il sistema reale agisce come una causa efficiente delle sue
parti stesse. Tuttavia, come abbiamo visto, l’indeterminazione apparente
che genera l’alternativa PSI non è quella dell’origine del sistema, quanto
quella del suo funzionamento.
Si chiude così il cerchio: l’approccio riduzionista (meccanicista) e quello sistemico della PSI per spiegare diverse caratteristiche dei sistemi biologici non sono
speculari, cioè rispondono solo in parte alla stessa domanda e presentano delle
asimmetrie. Il tipo di indeterminazione che cercano di spiegare è diverso e non
sono quindi alternative da un punto di vista epistemologico. I limiti invece della prospettiva riduzionista sono relazionati, non tanto con il determinismo che
ostinatamente cercano di affermare, ma con l’interpretazione del ruolo causale
dell’insieme che è preso come ideale. Il determinismo della prospettiva materialistica afferma che gli eventi materiali (prorecessi, enti, ecc.) sono completamente
causati e soddisfacentemente spiegati dagli stati fisici antecedenti della materia
o degli eventi. Ma prospettive deterministiche sono alquanto compatibili anche
con la PSI, per cui alcune “properties and interactions of the parts are determined and thus explained by the properties of the containing system, that is, that
at least some of the relevant explanatory properties of the parts are not independent of the system in which their bearer is to be found ” [McLauglin 2001],
consentendo così anche di indagare legittimamente la possibilità di una riduzione formale (matematizzazione) delle funzioni biologiche. Se distinguiamo tra il
determinismo causale pertanto, in generale, e il meccanicismo o il riduzionismo
in particolare, i problemi che sorgono per il discorso funzionale (teleologico) in
biologia non derivano da un appello illeggittimato alle cause finali, ma piuttosto
ad un olismo apparente che coinvolge le cause formali.
Una ragione in più a favore della tesi per cui l’emergenza, quindi, non è
semplicemente una questione epistemica. La specificità del contesto funzionale
di un organismo vivente, infatti, non fonda principalmente sulle ragioni storiche, evolutive che danno ragione del suo apparire (emergenza diacronica), essa
riguarda piuttosto l’identità del Sistema e la sua natura che si manifesta precisamente attraverso di essi. Questa è la ragione per cui la famosa affermazione
di Dobhzansky “Nothing in biology makes sense except in the light of evolution”
[Dobhzansky 1973] è condivisa tanto dalla prospettiva riduzionista che sistemica, ma presenta delle divergenze importanti in quanto il concetto di evoluzione
che ne emerge non è lo stesso: nella prima, infatti, si tratta di mera progressione,
nella seconda di un’integrazione significativa degli elementi e delle parti.
La complessità reale del processo neoplastico rimanda quindi alle caratteristiche peculiari della sua componente dinamica che richiedono, per una comprensione adeguata, un’analisi delle gerarchie in oggetto e della loro natura.
L’oggetto dello studio sarà la “relazione d’ordine” osservata nel sistema, dovuta
a una causalità sistemica che chiameremo “gerarchica” intesa come “ordinabilità”. La complessità pertanto tipica di un organismo vivente potrà essere definita
come “ordine nell’indeterminazione” non tanto della sua origine, quanto del suo
comportamento. Ciò che è naturale cioè per un organismo vivente si può dire
solo a posteriori e non può essere determinato/previsto a priori sulla base solo
un'identità specica, nell'unità di azione, per cui non vale il principio di equivalenza della
materia inerte.
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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11.2. CONCLUSIONE: DALLE TEORIE DEGLI INSIEMI ALLE TEORIE
204
DEGLI ENTI
delle condizioni iniziali. Tale relazione d’ordine, introduce la priorità di un elemento rispetto ad un altro che può essere anche di natura non temporale, anche
se nel tempo si manifesta. Per questo la causalità circolare di cui si parlava sopra
è apparente solo in quanto proiezione della più “reale causalità sistemica o generativa” degli organismi viventi (cfr. Fig. 11.5). Per il metodo scientifico, i suoi
effetti deterministici devono essere analizzati ad un determinato momento della
sua evoluzione e organizzazione storico-individuale. La sezione del fenomeno ad
un livello piuttosto che ad un altro sarà quello che permetterà di individuare un
sistema intermedio (mesosistema), bio-logicamente significativo, a cui studiare
aspetti diversi del fenomeno in cui la componente circolare potrà essere studiata
in termini di meccanismi feedback e forward 17 .
Queste considerazioni ci consentono, infine, di andare oltre la domanda posta all’inizio sulla legittimazione di un appello alla componente gerarchica per
spiegare fenomeni biologici complessi. C’era, infatti, un secondo elemento che
rimaneva implicito in essa e che era relazionato con il tipo di inter-relazioni
identificate. Lo sforzo fatto dall’approccio riduzionista è del tipo che abbiamo
identificato con il gerundio “costruendo gerarchie”. Esso vede i sistemi viventi
come costituiti da entità fisico-chimiche e da quelle che chiameremo “organizing
relations” o “inter-azioni”. Dall’altra parte, la visione sistemica, organicista,
pensa agli organismi viventi in termini di “organized relations”; le gerarchie
sono assunte come default dell’organismo e il cancro si rivela allora come un
problema di organizzazione, di “rel-azioni”. In entrambi i casi, il concetto di gerarchia è basilare, ma come abbiamo visto il ricorso a gerarchie è possibile solo
quando quando le relazioni degli elementi identificati nella gerarchia ricadono
entro poche classi separate. Nella prospettiva riduzionista, questi elementi però
sono entità fisiche ideali (leggi: molecole funzionali), mentre per quella sistemica
sono, in prima istanza, entità teoretiche concettuali (leggi: campi funzionali).
Nella prospettiva sistemica, le spiegazioni sono operazionali -cioè strutturate in
termini di come una cellula (o un tessuto) influenza il comportamento di un’altra
cellula (o di un tessuto). Al contrario, le spiegazioni riduzioniste sono riformulate in termini meccanicistici -cioè strutturate in termini di come un evento è
direttamente e necessariamente sempre determinato da un altro- eventualmente
rappresentati da parti molecolari come sono i geni o i loro prodotti. Da questo
punto di vista, l’istogenesi e l’organogenesi sono soggette ad essere ridotte a
fenomeni di espressione genica differenziale, o di organizzazione cellulare differenziale, che a buona ragione, date le premesse, dovrebbe essere plausibilemente
simile nei batteri come negli organismi multicellulari, per cui ben vale l’aforisma
“if you understand the bacterium, you understand the elephant”.
Ma come Waddington afferma “it is the understanding of the nature of the
networks of interaction, which are involved in the process and which a collection
of cells becomes organized into an organ with a unitary character, that still
remain the central question when addressing living beings”[Waddington 1977], e
questa è una questione ontologica e non biologica; la biologia non ci può dire a
priori quale assunzione sia giusta, ma quale si combina meglio con le osservazioni
sperimentali. Per questo esiste una retrogiustificazione dei presupposti filosofici
nella scienza, conseguenza dell’unità del sapere e ragione della necessità sempre
17 Per
questo possiamo dire che la causalità gerarchica entra ontologicamente nell'organici-
smo, ma solo epistemologicamente nella Systems Biology. Questo è logico se si considera che
la Systems Biology è fondamentalmente un approccio metodologico, ma non è scontato se ci
si domanda quali siano i suoi presupposti epistemici e ontologici [Bertolaso et al 2010].
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 11. LA PROSPETTIVA ONTOLOGICA
205
più evidente di recuperare un’unitarietà del sapere scientifico in senso ampio
nella cultura moderna.
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11.2. CONCLUSIONE: DALLE TEORIE DEGLI INSIEMI ALLE TEORIE
206
DEGLI ENTI
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Parte IV
Alcune considerazioni nali
207
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Capitolo 12
Verso un ampliamento della
nozione di causa
Gli scienziati normalmente danno per scontato che viviamo in un mondo
razionale e che il cosmo è soggetto a leggi precise che possono essere scoperte
dalla ragione umana. Tuttavia, la ricerca sperimentale dipende dalla capacità
degli uomini di comprendere e di andare al di là della semplice osservazione e
complessità dei dati, per cui non esiste un disegno sperimentale che sia completamente indipendente da un’interpretazione teoretica [Artigas 1999], così come
il controllo della teoria scientifica non è automatico e richiede una certa dose di
creatività ed interpretazione.
Abbiamo visto nella Parte II come una prospettiva sistemica come quella della TOFT abbia avuto il merito di rivedere i presupposti biologici che sottostanno
al processo neoplastico e che danno ragione del suo fenotipo, in concordanza con
i dati sperimentali.
Le implicazioni epistemologiche di questo lavoro hanno aperto però interessanti questioni di carattere anche ontologico. Lo studio della complessità del
fenomeno neoplastico, cioè, ha determinato un cambio che possiamo anche chiamare paradigmatico, secondo l’espressione utilizzata dagli autori della TOFT
[Soto e Sonnenschein 2004, Sonnenschein e Soto 2000] per quello che evoca di
rivoluzionario, ma la sua radicalità non riguarda tanto la coerenza (derivabilità)
e consistenza (connettibilità) logica dei modelli proposti, quanto l’impostazione
del problema e i riferimenti ontologici che lo avvallano. L’efficacia del metodo
riduttivo, quando applicato ad ambiti ad esso omogenei ed adeguati, non trova
nessuna difficoltà ad essere riconosciuta; esso trova, infatti, una sua giustificazione razionale nell’unità della natura, sulla base della continuità che c’è tra
i vari processi naturali e gli organismi sulla scala filogenetica. Pertanto, che
la storia dell’evoluzione dei modelli eziopatogenetici del cancro metta in luce
i limiti di un riduzionismo epistemologico, non è dovuto al fatto che la realtà
naturale ci appare sempre più complessa per la profondità analitica a cui gli
strumenti tecnici a nostra disposizione ci permettono di arrivare per esplorarne le componenti dinamiche con sempre maggior dettaglio, ma dall’esistenza di
una realtà che è realmente complessa, come quella dell’organismo vivente. Un
problema ontologico quindi, prima ancora che epistemologico. Ciò che è oggetto
del dibattito non è la complessità, ma la sussistenza di un ordine gerarchico,
209
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210
Figura 12.1: Revisione dei presupposti biologici della TOFT rispetto a quelli
tradizionali della SMT. Molti dei paradossi che emergono dalla SMT, quando
testata sui dati empirici, sono dovuti al fatto che l’ipotesi di partenza (Hp A) è
che lo stato di default delle cellule nei metazoi sia quello quiescente, portando
così ad individuare nella proliferazione una caratteristica principale del fenotipo
neoplastico.
La revisione di questa premessa ha portato gli autori della TOFT
[Sonnenschein e Soto 1999] ad elaborare una teoria che presenta una maggiore
consistenza rispetto ai dati biologici cui cerca di dare una spiegazione, guardando
all’organismo vivente da una prospettiva complementare che vede lo stato proliferativo come quello di default (Hp B), coerentemente a considerazioni evolutive
di strutturazione di un organismo vivente.
relazionale e individuale che permane nella complessità dei suoi elementi e interazioni. Per questo, un approccio “antiriduzionista”, che metta in sistema le
varie componenti considerandole dal punto di vista della loro unità funzionale,
è un denominatore comune a tutti gli approcci metodologici attuali.
I limiti del riduzionismo e le questioni poste dall’organicismo nella ricerca
oncologica, analizzati fino ad ora, offrono quindi nuove opportunità per la scienza teoretica in biomedicina [Yun 2008], che riguardano sostanzialmente l’unità
di riferimento (oggetto di studio) e la specificità dell’approccio scientifico sperimentale utilizzato (prospettiva adottata nella ricerca sperimentale). Queste
sottolineature di carattere epistemologico richiamano l’osservazione di Bird per
cui “empiricists argument probably does not work because they have too limited
a notion of evidence” [Bird 2002]. Ora, dato che la nozione di evidenza nell’osservazione empirica è strettamente collegata ai tipi di cause che vengono prese
in considerazione, le proprietà emergenti della realtà biologica non giustificano
l’abbracciare ideologie non-scientifiche come il vitalismo, ma “should encourage
all those who are dealing with them to give a broader basis to the concept of
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CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
211
causality” come afferma Mayr [Mayr 1988]. La questione vera riguarda quindi
il tipo di “antiriduzionismo” adottato. Della necessità, infatti, di analizzare il
fenomeno neoplastico a livelli di complessità superiori tiene conto la prospettiva
sistemica come quella riduzionista, sebbene solo la prima consideri le proprietà
emergenti -che dovrebbero caratterizzare i nuovi livelli di indagine- come fenomeni reali e non semplici questioni epistemiche, come avviene invece per la
seconda. È pertanto la riflessione sulla causalità downwards che sottende le
proprietà emergenti che sembra richiedere un ampliamento della nozione stessa
di causa, in quanto proiezione, manifestazione, di un’altra causalità più ampia
e fondante che è quella realmente sistemica.
Questo ampliamento implica anche includere nel ragionamento scientifico
concetti teoretici nuovi come sono quello di “campo funzionale” o come quello
dei “fattori tumore soppressore”, come nel caso del DRM o di quei modelli che
attribuiscono un ruolo causale nell’insorgenza del cancro a forme specifiche di
collagene [Harris 2003]. Per questo il modello della Bissel ci sembra essere il più
completo da un punto di vista bio-logico. Diversi livelli sono presi in considerazione e diversi tipi di reciprocità dinamica tra di essi vengono analizzati: tutti
reali e tutti intrecciati in una relazione causale efficiente reale, empiricamente
studiati, ma ontologicamente radicati nella priorità dell’organismo nella costituzione e mantenimento degli stessi1 attraverso una causalità che è di altra natura.
Il riferimento ontologico è così importante nel procedimento sperimentale perché l’approccio epistemico che ne deriva sostiene poi di fatto la razionalità del
metodo stesso. Infatti, se il riferimento ontologico non è corretto, gran parte del
lavoro anche sperimentale finirà col mancare di senso e sarà pertanto arbitrario,
come appare evidente dai paradossi che si generano all’interno della SMT.
Questo rinforza la constatazione che “a more holistic, hierarchical approach
to carcinogenesis (. . . ) yields many observations that are difficult to explain
from a purely reductionist perspective” [Root-Bernstein 1999] e che occorre fare spazio ad un procedimento sperimentale che tenga conto del fatto che le
spiegazioni di determinati fenomeni biologici sono veramente adeguate solo a
determinati livelli di complessità biologica (cfr. Sezione 10.3). Non ci sono
infatti “programmi” che determinano il comportamento di un sistema biologico a priori [Noble 2006], occorre invece trovare il “contesto funzionale” in cui
una determinata proprietà emergente si da, in cui cioè esiste realmente2 . La
causalità sistemica diventa allora fondamentale sia per dar ragione della com1 In
questo contesto ci sembra dovuto un riferimento a Noble [Noble 2006] e alla posizione
antiriduzionista che propone: There is no privileged level in biological systems that dictates
the rest (...) Feedback controls are essential to biological systems to function, nevertheless
dierent levels can be the starting point of causal chain per cui sarebbe suciente fondare
l'adeguatezza di una biologia sistemica integrativa (Integrative Systems Biology) sulla base di
una causalità middle-out : The dierence is not only that it accepts that causality goes from
higher to lower levels as well as upwards, but that there is an integration of both through the
middle-out causality. Questa posizione tuttavia, se non è fondata sulla priorità ontologica
dell'organismo e della sua unità funzionale, sembra rimanere aperta al rischio di un nuovo
riduzionismo. Anche un'epistemologia sistemica può cadere, infatti, come abbiamo visto (cfr.
Cap.11), in una riduzione delle funzioni biologiche ai loro elementi processuali.
2 Possiamo
espandere qui alcune osservazioni di Waddington sulla teoria dell'informazione
a cui già abbiamo fatto riferimento nella nota n. 16, Sezione 11.2, sulla base delle osservazioni
della TOFT sull'informazione storica che il concetto di campo morfogenetico porta con sé.
One gets a better idea of the real nature of the complex systems we actually come across if
one thinks of them, not in a static terms of the amount of information they contain, but by
asking the more dynamic question, how much instruction was necessary to produce them, or
what instructions do they tend to impose on their surroundings [Waddington 1977].
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a condizione che ne venga citata la fonte.
212
12.1. UNA TEORIA ISTITUZIONALE PER IL CANCRO
ponente dinamica dei fenomeni fisio-patologici sia per passare dal discorso su
“come qualcosa fa che cosa” (prospettiva meccanicista riduzionista) a spiegare
“cosa fa” (prospettiva sistemica individuale), questione che contribuisce maggiormente ad una definizione essenziale del fenomeno stesso perché se ne può
comprendere più a fondo il significato all’interno del fenotipo cui appartengono.
Due tessuti epiteliali possono apparire molto simili tra di loro, e questo tanto
più quanto più li si osserva da vicino, ma spesso svolgono funzioni notevolmente
diverse e in base a queste vengono identificati. Una funzione, inoltre, può essere
più o meno significativa rispetto all’insieme del Sistema: diverso è studiare le
mutazioni genetiche o enzimatiche se quello che si vuole determinare sono le conseguenze di una malattia ereditaria o metabolica. Dovendo pertanto studiare un
fenomeno, individuare un livello di analisi sarà una questione metodologica, ma
impostare lo studio al livello corretto di complessità biologica, quel livello cioè
in cui una funzione realmente esiste ed opera, implica un riferimento di natura
ontologica, non epistemologica, all’identità del sistema. Per questo l’incompatibilità, quando si da, tra la prospettiva riduzionista e sistemica (organicista) nel
cancro non è relazionata con l’epistemologia, ma con l’ontologia di riferimento.
Un approccio sistemico o riduzionista è ugualmente possibile in entrambi e, da
un punto di vista metodologico, è solo questione di punti di vista.
12.1
Una Teoria Istituzionale per il cancro
Hans Jonas definisce l’identità dell’organismo vivente come “il complessivo
ordine strutturale e dinamico di una molteplicità”[Jonas 1999]. Se proviamo ad
analizzare ora quali elementi emergono dall’analisi dei dati empirici sul fenomeno neoplastico dalla prospettiva di una patologia che ha a che vedere con una
causalità sistemica dell’organismo, ci sono due caratteristiche che sembrano intrecciarsi nella costituzione dello stesso: una intrinsecamente dinamica e l’altra
strutturale3 . Dall’integrazione di queste due componenti nasce poi la questione
della funzionalità o disfunzionalità di alcune parti o dell’organismo nel suo insieme. Gli esseri viventi cioè ci si presentano come un insieme di enti che hanno
una propria consistenza, dotati di organizzazione e dinamismo proprio, su cui
3 Nelle
considerazioni che seguono, introduciamo il termine di istituzionale per cercare
una sintesi tra l'idea dell'organismo come una società cellulare (cfr. proposta di Sonnenschein
e Soto The Society of cells [Sonnenschein e Soto 1999]) e gli elementi che, nel capitolo precedente, ci hanno portato a sottolineare l'importanza della Prospettiva Sistemica Individuale
(PSI) per evidenziare la priorità della dimensione unitaria mediata da una specica organizzazione strutturale e funzionale nella comprensione dei fenomeni che concernono un organismo
vivente. Pertanto, il termine istituzionale, che non è originale ma mutuato dal linguaggio
sociologico per ragioni intuibili e qui non esplicitate, aggiunge a quello di società questo
connotato di unità e di nuova identità specica del Sistema biologico.
Un ampliamento e approfondimento di questo tema è oggetto attualmente di un altro studio incoraggiato dalla forte corrispondenza tra alcune considerazioni che presenteremo e le
annotazioni raccolte nel noto libro di Patee Hierarchy Theor y [Patee 1973] nella cui prefazione l'autore fa notare come la riessione sull'organizzazione dei livelli di controllo gerarchico
sia strettamente correlata con le questioni socio-istituzionali ed ecologiche e come, allo stesso
tempo, essa riceva una lezione fondamentale dalla biologia e dalle leggi evolutive che la caratterizzano. The loss of these controls at any level is usually malignant for the organization
under that level osserva e più avanti aggiunge ... as systems grow in size and complexity
they reach a limit where a new level of hierarchical control is necessary if the system is to
function reliably . Il contenuto dei capitoli precedenti ha già messo in evidenza alcuni contributi che la comprensione e lo studio del fenomeno neoplastico possono dare e ha mostrato
come forniscano un interessante fondamento biologico a questa aermazione.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
213
possiamo intervenire modulando i meccanismi che gli permettono di espletare
le loro funzioni e di costruire se stessi mentre si propagano e si riproducono.
Queste caratteristiche forniscono alla biologia, e alla ricerca oncologica in concreto, alcuni presupposti di base che risultano retro-giustificati, cioè ampliati e
precisati dal progresso scientifico, e aprono ad una riflessione filosofica su queste
stesse caratteristiche.
Abbiamo visto come le varie prospettive sistemiche stanno analizzando la
componente dinamica del fenomeno neoplastico da diversi punti di vista che
vanno da quello molecolare della Bissel a quello della formalizzazione matematica della costituzione del fenotipo neoplastico di Ingber. Ciò che tutti danno
per scontato però è che nella natura esiste un dinamismo proprio la cui realizzazione si dà mediante la strutturazione progressiva di pathways e networks. Il
dinamismo di base si estende a tutti i livelli, ma ad ogni livello si manifesta
mediante sistemi che hanno una complessità strutturale crescente e che presentano nuove forme di comportamento. Questo dinamismo naturale contiene una
informazione che si accumula in strutture spaziali che sono, a loro volta, fonti di
nuove dinamiche. Le interazioni particolari emergenti, che presentano un certo
grado di indeterminazione rispetto alle proprietà delle parti costituenti, danno
luogo a comportamenti che sono allo stesso tempo statici e dinamici e dai quali
risultano enti che posseggono un’organizzazione specifica la cui caratteristica è
quella di permanere nonostante i cambi delle parti e la riorganizzazione delle
stesse in risposta a stimoli interni o esterni che possono compromettere l’identità
specifica di quell’entità biologica.
La continuità graduale tra i diversi livelli organizzativi è manifestazione di
una cooperatività che manifesta la profonda unità della natura4 . Quando questa
cooperatività è compromessa a livello molecolare, genetico, epigenetico, proteico,
strutturale o tessutale, per esempio, i campi funzionali ne risentono divenendo
incapaci di integrare in modo significativo e coerente i segnali che vi entrano.
Riteniamo allora di poter distinguere, sulla base dei dati e modelli analizzati,
all’interno del concetto di campo funzionale due componenti: una informazionale
e l’altra istruttiva. Entrambe concorrono alla costituzione per esempio dei campi
morfogenetici presi in considerazione dalla TOFT e danno ragione della storicità
dell’organismo vivente in quanto sono portatrici di informazione, ma in un certo
qual modo anche la generano.
Se il dinamismo è una caratteristica fondamentale degli enti naturali, la
strutturazione non lo è di meno. Sono numerose infatti le evidenze che il fenomeno tumorale sia segnato costantemente da strutture spazio temporali che
vengono compromesse e riorganizzate nei vari step del processo neoplastico.
Tuttavia, il significato di struttura in natura è molto ampio [Cruiz Cruz 1974].
In generale, la struttura è una distribuzione di parti mutuamente relazionate
che formano un tutto unitario. Il fenomeno neoplastico mette in evidenza come
le strutture degli enti naturali hanno configurazioni spaziali e un dinamismo che
4 L'universalità
del dinamismo naturale trovò la sua prima formulazione concettuale nella
losoa antica che considerava la natura come un grande organismo diretto da forze cosmiche.
Anche l'atomismo meccanicista aermò che il movimento è una caratteristica fondamentale
degli enti naturali. Quello che negava, riducendo il movimento a un impulso imposto dall'esterno, è che il dinamismo avesse le sue radici all'interno degli enti naturali. Dato che questa
negazione, nell'epoca moderna, è stata avvallata dalla scienza, la sua valutazione rimanda agli
argomenti scientici [Artigas 1992] e mette in evidenza l'importanza che l'analisi eettuata
sui modelli interpretativi del cancro può avere per recuperare una visione più completa del
dinamismo naturale stesso da un punto di vista losoco.
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12.1. UNA TEORIA ISTITUZIONALE PER IL CANCRO
214
si spiega solo in una dimensione temporale5 . Ora questi due elementi di dinamismo e strutturazione non sono giustapposti, ma sono aspetti di una stessa
realtà, come emerge dalla necessità della prova funzionale per dar conto dell’effettivo ruolo di determinate parti biologiche specifiche (proliferazione, ecc.)
nella definizione del fenotipo neoplastico.
Il processo neoplastico e il suo risultato patologico ci permettono di reimpostare lo studio dei fenomeni biologici in generale a partire dal dinamismo della
vita stessa: l’unità organica che caratterizza un ente in quanto vivente consiste
allo stesso tempo nell’organizzazione morfologica delle parti e nell’organizzazione dinamica dei movimenti/cambi interni. L’unità dell’essere vivente non
consiste solo in una unità morfologica garantita dalla coesione ed integrazione
delle parti (meccanicismo), ma anche in una unità dinamica che deriva dalla
coerenza dei movimenti. Il principio ultimo di ogni movimento/attività consiste
nel comportamento o nell’attitudine (modo specifico di essere) che un animale
possiede ad integrare i fattori esterni e ad organizzare in un modo tipico i propri
movimenti [Botter 2008, Morel 2007].
12.1.1
Una eld-level perspective e la teoria istituzionale
L’idea quindi di una Teoria Istituzionale del Cancro nasce dall’integrazione
delle teorie sistemiche attraverso un ampliamento del concetto di campo e si
sviluppa dove la natura del processo neoplastico è considerata principalmente
dal punto di vista della sua componente dinamica e stocastica. L’eterogeneità,
la stocasticità degli eventi e la loro concatenazione processuale rappresentano
l’immagine patologica di altrettanti fattori che probabilmente costituiscono l’organismo vivente: la sua integralità o coordinazione funzionale; la casualità con
cui si danno determinati eventi, per la plasticità della materia biologica; la sua
capacità di integrare in modo originale, specifico, i segnali esterni ed interni
mediante lo sviluppo e la riproduzione per garantire la propria sussistenza (che
non è solo sopravvivenza, ma conservazione e attuazione di un modo specifico
di essere e di agire e che, da un punto di vista evolutivo, ha più a che vedere
con il concetto di adattamento che di selezione naturale).
Il problema dell’identità, che passava in secondo piano nella TOFT che spiegava il cancro come un problema di organizzazione sociale delle cellule, diventa
5 Osserviamo
qui che il fatto che suddette strutture presentino delle regolarità, in termini
di elementi ripetitivi, è quello che ci permette di studiare i fenomeni secondo dei pattern
identicati di espressione proteica, organizzazione molecolare, ecc. È interessante notare che il
termine inglese di pattern designa una congurazione che è più riconoscibile che riproducibile:
designa cioè il modello a partire dal quale si può produrre o riprodurre tutte le volte che si
voglia la stessa congurazione. Ha lo stesso signicato di matrice e la sua specicità sta nel
generare mediante l'ordinazione degli elementi una congurazione [Choza 1988].
Riteniamo che per questo il concetto di patterns sia molto più utilizzato all'interno della
prospettiva riduzionista dove il riconoscimento di questi è condizione della spiegazione meccanicistica ed evolutiva della progressione neoplastica, mentre non è necessario nella prospettiva
sistemica per spiegare il processo che consiste appunto nella perdita di queste forme organizzative, per ricomparire solo nell'approccio della systems biology dove il concetto di patterns è
più precisamente associato a quello di mesosistema, presentando cioè un'accezione funzionale
più che strutturale.
D'altra parte, la scienza cerca di ampliare la nostra conoscenza della natura mediante modelli strutturali che rappresentano regolarità. Il termine struttura allora acquisisce un'accezione
più ampia di quella di pattern.
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CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
215
qui fondamentale. Il tema del processo, infatti, dal nostro punto di vista è strettamente legato a quello della funzionalità biologica, della direzionalità e della
cooperatività tipica dell’organismo vivente. Si tratta di aspetti fondamentali
del dinamismo naturale. La PSI si riferisce ai sistemi come totalità identitaria, il che equivale a dire che nei sistemi esistono proprietà e comportamenti
collettivi, propri del sistema inteso come totalità, che non si riducono a mera giustapposizione dei componenti né che possono essere analizzati in termini
esclusivamente processuali. Detto in altre parole, anche la dimensione storica
dell’organismo dipende dall’esistenza di quest’ultimo e non il contrario. La prospettiva analitica della ricerca oncologica, centrata sulle componenti molecolari,
deve essere cioè completata non solo da una prospettiva sintetica -relazionata
con la totalità dell’insieme-, ma anche con una sistemica che recuperi il concetto di unità biologica come funzionalità individuale. Da qui l’idea di integrare
queste componenti in una teoria che chiameremo “istituzionale” e che aggiunge alla componente “sociale”, organizzativa, di un insieme di cellule anche la
componente “identitaria”.
Una teoria istituzionale dell’organismo vivente può allora dare ragione del
versante patologico dei tumori e, allo stesso tempo, richiederà di analizzare
la componente processuale degli stessi da una prospettiva che chiameremo di
“livello di campo” (field-level perspective). Questo perché studiare la dinamica
di un fenomeno che si realizza all’interno di un sistema vivente significa assumere
che ci troviamo di fronte a un fenomeno che si sta ancora svolgendo e per il quale
non è empiricamente possibile definire un “prima” e un “dopo” assoluti. Questo
inoltre giustifica il fatto che sia per noi molto più facile dire “che cosa il cancro
non sia” mentre risulta praticamente impossibile definire -in modo univoco- su
base empirica “che cosa esso realmente sia”.
Analizzare il fenomeno neoplastico, dal punto di vista di una Teoria Istituzionale, implica inoltre che il concetto di “strutturazione” appartenga in primo
luogo alla nozione di campo e non a quella di organismo, dato che un campo esisterà solo nella misura in cui sarà “istituzionalmente” definito. L’organismo ha
cioè una priorità ontologica rispetto al campo. Quest’ultimo risulterà strutturato, “costruito”, quando si daranno quattro fattori concomitanti: “an increase
in the extent of interaction among organizations in the field; the emergence of
sharply defined interorganizational structures of domination and patterns of coalization; an increase in the formation load with which organizations in a field
must contend; and the development of a mutual awareness among participants in a set of organizations that they are involved in a common enterprise”
[DiMaggio e Powell 1983]. Utilizziamo a proposito questa citazione che nasce
in ambito sociologico per riscattare il contributo che la TOFT ha già dato alle
reimpostazione dell’epistemologia dei modelli interpretativi del cancro. Esiste,
infatti, un forte parallelismo tra gli elementi qui elencati e quanto abbiamo visto caratterizzare il processo neoplastico (cfr. Fig. 12.2, manteniamo l’inglese
perché più efficace in questo contesto per richiamare intuitivamente i dati della
letteratura scientifica al riguardo).
Questo darebbe ragione del fatto che il cancro può essere effettivamente studiato a diversi livelli di campo funzionale mediante un approccio sistemico integrativo. La consapevolezza della consistenza reale di questi livelli, e allo stesso
tempo della loro dipendenza strutturale e funzionale, cioè ontologica, dall’unità
integrativa dell’insieme, permetterà di identificare i mesosistemi (campi funzionali) adeguati per lo studio di un fenotipo (stato funzionale) fisio-patologico
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216
12.2. IL CANCRO COME MANCANZA DI PRESSIONE SELETTIVA
Figura 12.2: Una Teoria Istituzionale del Cancro
nella sua totalità.
12.2
Il cancro come mancanza di pressione selettiva
Che tipo di fenomeno è allora un processo che appartiene ad un sistema le cui
parti coinvolte presentano un’attività specifica, ma che per il suo epilogo risulta
essere patologico? Riteniamo che una risposta a questa domanda poggi fondamentalmente su due questioni: da una parte, abbiamo visto come le proprietà
del cancro siano interpretabili legittimamente, sulla base di alcune considerazioni biologiche ed evolutive, come funzioni mancate tanto che spesso la descrizione
del cancro stesso ricorre ad analogie con altri fenomeni biologici che non vanno
a compimento (cfr. Parte I); dall’altra, l’analisi del determinismo e della sua
neutralità rispetto alle posizioni riduzioniste o sistemiche mostra come le spiegazioni funzionali coinvolgono non tanto un appello illecito a cause finali, quanto
un appello illecito ad una causa olistica, quando il Sistema di riferimento non è
adeguato. Questo è quello che succede nel caso delle CSCs, per esempio, laddove
la prospettiva sistemica, che voleva in un certo qual modo essere recuperata, è
generalizzata e relativizzata richiamandosi a vari tipi di identità lungo il tempo
(differenziamento) in modo tale che la relazione causale di un sistema alle proprietà delle parti dello stesso è interpretata come la relazione di un sistema alle
proprietà delle parti di un sistema successivo.
Quello che emerge è che le ascrizioni funzionali sono esplicative, in senso causale, solo in sistemi particolari6 : un tipo di sistema che si trova primariamente
6 Ritorna
qui utile un riferimento al lavoro già citato (cfr.
si delle funzioni biologiche.
Parte III, Cap.7) sull'anali-
Living systems possess and generate a) hierarchical levels; b)
dierentiated regulatory mechanisms; c) temporally decoupled processes. This is what both
paradigms try to explain and in order to do that they identify systems which can be able to
manifest this kind of functional properties [Mossio et al 2009]. Una spiegazione organizzativa
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CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
217
nelle scienze biologiche (e probabilmente sociologiche ).
Alcuni autori ritengono che i sistemi, di cui si pensa le parti abbiano delle
funzioni in un senso esplicativo, sono concepiti come “self-reproducing systems”,
per cui un sistema che rimane lo stesso, anche solo nella riproduzione e rinnovamento delle sue parti, è temporalmente precedente alle (molte delle) parti e può
pertanto, senza bisogno di backwards causality, essere considerato causalmente responsabile dell’esistenza e/o proprietà di queste parti [McLauglin 2001].
Pertanto, come lo stesso autore afferma, “The notion that the whole can be temporally prior to the parts and thus have a causal impact on them brings up the
problem of holism”. I problemi funzionali hanno fondamentalmente a che vedere
con il sistema nel suo insieme, per cui dobbiamo tenere in conto il significato
delle differenze che possono sorgere lungo il tempo in termini di identità (funzionale) delle parti e degli insiemi che manifestano una prospettiva teleologica
(funzionale in senso proprio) sul loro contesto. Per questo motivo la selezione naturale non riesce ad eliminare la questione teleologica dalla biologia: essa
infatti è una “argomentazione negativa”, mentre le funzioni si costruiscono e
si identificano biologicamente sempre mediante “argomentazioni positive”. Nei
capitoli precedenti, abbiamo già visto come l’identificazione del principio di selezione naturale con quello adattativo, all’interno del paradigma riduzionista,
appaia insufficiente o addirittura contraddittorio. Per una argomentazione più
approfondita rimandiamo ad altri studi già pubblicati [Bertolaso 2009b]; tuttavia, possiamo dire che, sulla base della Teoria Istituzionale, il cancro si presenta fondamentalmente come un processo dovuto ad una mancanza di pressione
selettiva (cfr. Fig. 12.3).
La percezione dell’attività attribuita alle cellule tumorali, così diffusamente
delle funzioni biologiche implica quindi un dierenziamento organizzativo del sistema con due
conseguenze: da una parte che diverse componenti materiali sono reclutate e messe insieme
(in relazione) per contribuire al mantenimento del sistema e, dall'altra, che il sistema stesso
genera diverse strutture contribuendo in modo diverso all'auto-mantenimento.
Le componenti materiali diventano candidate per l'attribuzione funzionale solo se sono state
generate, e sono mantenute, all'interno e mediante l'organizzazione del sistema. Un insieme
di parti sarà identicato come un Sistema che si auto-mantiene se è dierenziato da un punto di vista dell'organizzazione funzionale ( organizational dierentiation (OD)) e se genera
patterns o strutture diverse e localizzabili , ognuna delle quali contribuisce specicatamente
alle condizioni di esistenza dell'intera organizzazione. È già stato però messo in evidenza come non è suciente a questo scopo appellarsi ad una causalità circolare tra alcuni pattern o
strutture macroscopici (a livelli più alti) e le dinamiche e reazioni microscopiche (a livelli più
bassi), denite da alcuni come organizational closure (OC). L'attività dierenziativa (OD)
del Sistema si presenta ugualmente come condizione necessaria per la sussistenza del Sistema
stesso, consentendogli di passare attraverso stadi organizzativi dierenti compatibili con la sua
integrità e specicità funzionale. È interessante notare come la OC giustica il riferimento,
tanto della prospettiva riduzionista che sistemica, alla selezione naturale: un processo, infatti,
è soggetto ad una chiusura in un sistema auto-mantenentesi quando contribuisce a mantenere
alcune delle condizioni richieste per la sua stessa esistenza. In this sense, organizational clo-
sure provides a naturalized grounding for a teleological dimension to the question `Why does
X exist in that class of systems?' `Because it does Y ' [Mossio et al 2009]. Una teleologia
immanente che però, quando integrata con la dimensione OD, (cosa che avviene solo dalla
prospettiva di una causalità sistemica identitaria) mette in evidenza la reale natura di questa
teleologia che è seconda alla forma dell'individualità biologica e ad essa è ordinata e da essa
giusticata.
Tenendo in conto pertanto l'apertura dell'attività di un sistema vivente, il problema non
è allora quello della causa nale, ma quello della causa formale. Gli esseri viventi sono costitutivamente in relazione, in una relazione dinamica. Il costo metasico della spiegazione
funzionale deve includere pertanto una causalità sistemica e nale, motivo per cui la selezione
naturale non elimina di fatto la teleologia dalla scienza.
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12.2. IL CANCRO COME MANCANZA DI PRESSIONE SELETTIVA
Figura 12.3: Il cancro come mancanza di pressione selettiva
Legenda
Freccia nera: evoluzione storica dell’organismo
Sostegno azzurro: configurazione strutturale, genetica ed epigenetica di un
determinato tessuto
Figura gialla: cellula “tumorale”
Triangolo verde: attrattore antecedente (configurazione epigenetica meno
differenziata)
Freccia rossa: inerzia della cellula tumorale quando svincolata dal suo supporto.
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CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
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utilizzata per descrivere il fenotipo neoplastico tanto nella letteratura scientifica di stampo riduzionista che nei mezzi di comunicazione di massa, è quindi
legata ad attività costitutive (proliferazione e movimento) e plausibilmente a
fenotipi antecedenti agli stadi più differenziati delle cellule del nostro corpo,
come sembrano dimostrare anche i dati empirici che riportano caratteristiche
simil-embrionali per le cellule neoplastiche (cfr. anche modello degli attrattori cellulari). Per cui, la visione del cancro come di un fenomeno che presenta
una sua specificità funzionale (riflessa nell’uso dei verbi attivi) dipende solo dal
punto di vista. L’attribuzione di funzione riduzionista sembra infatti avere un
potenziale descrittivo, ma manca di una corrispondenza causale reale e pertanto
non risulta, alla prova dei fatti, esplicativa.
Le contraddizioni che emergono da tale visione richiedono una nuova impostazione del problema: le cellule tumorali appaiono come cellule che hanno perso
il loro ruolo organico, e pertanto la loro identità e specificità funzionale, per non
essere più in grado di integrare e interagire con i segnali contestuali sia interni
che esterni. Si tratta di entità patologiche perché hanno perso quei legami che
ne garantivano la maturazione e il differenziamento, ma che, per il fatto di non
potersi liberare completamente della propria storia (registrata a livello cellulare
mediante meccanismi epigenetici), non possono svincolarsi definitivamente dal
loro contesto. È quindi un processo non adattativo [Aranda 2002a] che però ci
rivela alcuni importanti principi che sottostanno ai normali processi evolutivi e
la priorità ontologica dell’individualità biologica sugli stessi.
12.2.1
Terapie tumorali e anti-tumorali
Queste ultime considerazioni pongono a questo punto alcune questioni anche rispetto all’approccio terapeutico alla patologia neoplastica. La questione
a cui accenneremo è quella che sorge dalla domanda su quale delle due posizioni, riduzionista e antiriduzionista, descriva meglio il fenomeno neoplastico e
cioè quale di esse è capace di dare risultati “migliori”. L’analisi sulle causalità
coinvolte nella spiegazione del processo neoplastico ci fanno a buona ragione
pensare che le terapie molecolari possano avere alla fin fine un’efficacia alquanto
ristretta e circoscritta. Essa dipenderà da quanto importante sia, almeno in termini statistici, la corrispondenza tra una mutazione o alterazione molecolare e
l’insorgenza e la progressione di determinati tumori. Questo è il motivo per cui
tutte le Target Teraphy di fatto non hanno mai riscontrato un grande successo,
perché non sono affatto generalizzabili [Calotta 2008].
Diverso è il caso delle Terapie Differenziative che muovono già da una prospettiva più sistemica. Esse devono la loro efficacia, in termini terapeutici,
alla rilevanza che, da un punto di vista epistemologico, ha il concetto di differenziamento nell’approccio al fenotipo neoplastico. I limiti imposti dalla posizione riduzionista alle potenzialità euristiche ed esplicative di questo passaggio sono già stati descritti, ma questo non toglie che un approccio terapeutico di questo tipo salvi la parte migliore di quei modelli cellulari [Harris 2004,
Lotem e Sachs 2002].Questo tipo di terapia affonda le sue radici nella constatazione che generalmente lo sviluppo tumorale in tessuti embrionali, indotto da numerosi composti carcinogenetici, è fortemente inibito o addirittura
completamente soppresso quando processi di differenziamento sono in corso
[Lakshmi e Sherbet 1974]. È risaputo che carcinogeni, prima o durante il periodo organogenetico, provocano un elevato numero di malformazioni nella prole e
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220
12.2. IL CANCRO COME MANCANZA DI PRESSIONE SELETTIVA
teratomi, ma non l’induzione di tumori; una volta che l’organogenesi è completa,
la frequenza di induzione tumorale aumenta con una concomitante diminuzione nel tasso di malformazioni [Brent 1980, Biava 1999, Bunge 2004]. Inoltre,
cellule di teratocarcinomi, leucemie e carcinomi del midollo adrenale differenziano verso tessuti normali quando posti in un ambiente embrionale normale
[Sell 2004]. Infatti, una quantità di evidenze sperimentali crescente suggerisce
che i tumori umani possono sorgere dall’arresto differenziativo di cellule staminali cancerogene proliferanti. L’arresto nella maturazione delle cellule staminali
cancerogene può essere superato e le cellule staminali tumorali possono essere
indotte a differenziare sia mediante trapianto delle cellule staminali tumorali
in una blastocisti normale [Martin 1980] sia mediante trattamento con retinoidi
[Warrell et al 1991] o altri fattori differenziativi [Pierce 1983] 7 . Anche l’apoptosi gioca un ruolo importante negli organismi viventi dagli stadi più precoci dello
sviluppo embrionale. Durante l’organogenesi, la morte cellulare programmata
è tanto importante quanto il differenziamento cellulare e la proliferazione cellulare per regolare l’attività e l’organizzazione tessutale e soprattutto la forma
e le funzioni del corpo [Ellis et al 1991, Einhorn 1983]. Tanto i sieri umani che
animali contengono proteine solubili che inducono apoptosi e differenziamento
delle cellule staminali e che selettivamente agiscono sulle cellule cancerogene,
senza interferire con i tessuti che proliferano normalmente [Yu e Tsai 2001].
Tuttavia sulla base dell’analisi del cancro come patologia dovuta a mancanza
di pressione selettiva, ci sembra più opportuno distinguere fondamentalmente
tra tre tipi di approcci “terapeutici”:
• TERAPIE ANTITUMORALI: tipiche delle prospettiva riduzionista che
vede la cellula tumorale come un’entità autonoma, dotata di un fenotipo
peculiare, irreversibile. Gli approcci saranno allora quelli di distruzione
o asportazione della cellula. È tutto il campo della chirurgia oncologica
e della target therapy. Queste terapie dovrebbero, in teoria, risparmiare le cellule sane, ma ben sappiamo ormai che non è così. Ci sono per
contro pubblicazioni che fanno riflettere su come alcuni approcci terapeutici, mediante radioterapia per esempio, possano in alcuni casi aumentare
le probabilità di recidive e accelerare la comparsa di forme resistenti ai
farmaci chemioterapici proprio perché, aumentando il tasso di mutazione,
possono portare all’apoptosi alcune cellule, ma possono scompensare altre
tanto da indurre l’insorgenza di nuove cellule neoplastiche. Un approccio
particolare parte invece dal presupposto che le cellule tumorali rispondono ancora a determinati trattamenti apoptotici e differenziativi. In questo
caso viene applicata quella che si chiama terapia differenziativa.
• TERAPIE TUMORALI: consistono in quegli approcci che potrebbero far
leva su un trattamento olistico, sistemico del paziente. Si tratterebbe di
elaborare nuove terapie capaci di rinforzare o integrare i legami biologici (interni ed esterni alle cellule) che permettano loro di mantenere uno
stato funzionale all’insieme e pertanto un’integrazione al campo morfogenetico cui appartengono mediante differenziamento o divisione cellulare.
Anche se manca ancora un lavoro sistematico di ricerca sperimentale che
fornisca degli elementi empirici per procedere alla sperimentazione di un
7 Queste
evidenze sperimentali sono quelle che hanno condotto al concetto di terapia
dierenziativa [Cucina et al 2006].
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 12. VERSO UN AMPLIAMENTO DELLA NOZIONE DI
CAUSA
221
approccio sistemico alla patologia, esistono alcuni dati che supportano la
ragionevolezza di questo orientamento, come dimostrano alcuni studi di
carattere epidemiologico che mettono in correlazione l’incidenza del cancro o l’insorgenza delle metastasi con traumi o stress subiti. Sulla base
di una ridefinizione del problema neoplastico, una Reboot Therapy è stata proposta. Le premesse sono che le mutazioni somatiche costituiscono
solo un modo mediante il quale può avvenire la trasformazione neoplastica, mentre alterazioni nella matrice extracellulare (ECM) presentano pure
un’elevata correlazione con l’insorgenza del tumore. Inoltre, determinati
tumori epiteliali possono essere indotti a resettarsi (reboot) e a formare
tessuti normali modificando le condizioni dello scaffold che li ospita. Allo
stesso tempo, la biologia molecolare ha rivelato che molti comportamenti
cellulari critici nella formazione del cancro (crescita, motilità, differenziamento, apoptosi) possono essere controllati da interazioni fisiche tra
cellule e le loro adesioni ECM che modificano le loro relazioni anche con
il citoscheletro. Il cancro quindi può essere assunto come una malattia
reversibile che deriva da una progressiva deregolazione dell’architettura
tessutale, che porta a cambi fisici nelle cellule e a segnali meccanici alterati. Questa prospettiva solleva la possibilità di sviluppare un approccio
mediante tissue engineering per la terapia oncologica in cui materiali speciali che mimino il microambiente embrionale possano essere utilizzati per
indurre il cancro a ritornare tessuto normale [Ingber 2008]. L’idea comunque di fondo è quella che un trattamento efficace possa dipendere più dal
tentativo di “recuperare” il fenotipo neoplastico (per reversione, differenziamento o apoptosi delle cellule) che “attaccarlo con le sue stesse armi”;
si tratta cioè di rinforzare l’appartenenza di queste cellule al sistema nel
suo insieme invece che distruggerle per liberarsene definitivamente.
• TERAPIE PREVENTIVE SISTEMICHE: data la generalità del precedente approccio e considerando che, dal punto di vista della Teoria Istituzionale, la patologia neoplastica è una patologia primariamente sistemica,
probabilmente il miglior modo per “curare” il cancro è quello di prevenirlo, assicurando all’organismo quelle condizioni o supporti necessari a
mantenere la consistenza della pressione selettiva interna, mediata chimicamente, fisicamente, ma strettamente dipendente da fattori ambientali e
di stile di vita come già molti dati epidemiologici hanno messo in evidenza.
Sport, dieta, relazioni interpersonali e progettualità di vita sembrano costituire alcuni importanti fattori che consentiranno una strategia sempre
più efficace, nella misura in cui sia anche consapevole, alla prevenzione del
cancro. Questo, che già da tempo era risaputo, trova una sua spiegazione
nella prospettiva sistemica, organicista del cancro.
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12.2. IL CANCRO COME MANCANZA DI PRESSIONE SELETTIVA
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Capitolo 13
Considerazioni di carattere
etico: la retrogiusticazione
della scienza sperimentale
La ricerca di un ordine, mediante l’osservazione preceduta o seguita dall’elaborazione di teorie in un contesto interpretativo che fosse sia esplicativo
che predittivo del mondo naturale, è sempre stata parte integrante dell’attività
scientifica. I valori della scienza non sono però solo valori pragmatici, orientati
al dominio dei fenomeni, ma anche epistemici, legati cioè alla modalità della
ricerca di una verità scientifica in relazione ad un obiettivo e metodo concreto,
come è quello sperimentale. È a questo secondo aspetto che faremo riferimento
in questo capitolo. Lo studio appena concluso, infatti, ci mette di fronte alla
necessità di recuperare un’integrazione del pensiero e dell’agire scientifico su tre
livelli per superare i limiti del riduzionismo filosofico e per evitare il rischio di
epistemologie assolutiste: il livello ontologico -che si riferisce all’intelligibilità
(o razionalità) della natura, strettamente relazionato con l’ordine della natura
e che ci permette di operare delle riduzioni metodologiche adeguate, una volta
individuato il mesosistema a cui studiare un fenomeno-; quello epistemologico
-che si riferisce alla capacità umana di conoscere l’ordine naturale e include i
diversi modi di argomentazione scientifica verso una sintesi del pensiero mediata
dall’esperienza e anche dalla capacità di astrazione e creatività propria dell’essere umano-; infine quello etico che si riferisce ai valori implicati nella ricerca
scientifica. Essi includono la ricerca della verità, il rigore, la modestia, l’oggettività, la collaborazione interdisciplinare, la responsabilità del ricercatore cioè
di individuare le giuste categorie per studiare e spiegare un fenomeno.
La storia della ricerca sperimentale, inoltre, mette sempre più in evidenza il
legame degli ultimi due ambiti, inteso come continuità fra conoscenza e prassi,
nel lavoro di ciascuno. Essi radicano nella profonda unitarietà dell’agire scientifico. L’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro e lo sforzo compiuto
da molti per perseguire una linea di ricerca logicamente coerente e razionalmente fondata su principi e presupposti di natura epistemologica ed ontologica,
ci hanno fatto riflettere su questo aspetto. Potremmo evidenziarne la peculiarità osservando come il progresso scientifico abbia in qualche modo esercitato
una sorta di retroazione sui presupposti biologici e filosofici delle teorie sopra
223
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menzionate e come, in questo modo, li abbia arricchiti o precisati. La verità
della scienza empirica infatti è sempre contestuale e pertanto parziale, ma allo
stesso tempo è autentica: contestuale perché sempre interpretata all’interno di
un contesto di concetti ed esperimenti tipici di una teoria e ambito disciplinare;
parziale perché non esaurisce tutto quello che si riferisce all’oggetto in studio;
autentica nel senso di corrispondenza alla realtà [Artigas 1992]. Per questo possono esistere diversi tipi di costruzioni scientifiche, ma per questa stessa ragione
non tutte sono equivalenti in termini di aderenza alla realtà. Cercare quindi
la migliore rappresentazione scientifica è una sfida etica, che richiede osservazione, riflessione, creatività generata da un confronto costante con il fenomeno
in studio nel suo insieme, nel tentativo di comprendere sempre più a fondo la
razionalità che sottostà ai fenomeni biologici e che è mediata da una nozione
più ampia della causalità.
Ne consegue, inoltre, che la scienza sperimentale non include solo enunciati, teorie e modelli, che in ogni momento vengono formulati per strutturare le
conoscenze scientifiche delle diverse aree disciplinari, ma anche le condizioni
che rendono possibile l’esistenza e il progresso dell’impresa scientifica stessa. È
interessante a questo proposito analizzare la genesi della SMT e della TOFT
dal punto di vista biografico degli autori. Manca qui lo spazio per un’analisi
approfondita, ma alcuni brevi elementi ci permettono di farcene un’idea. “Inadvertent cancer research” [Weinberg 2004], così si intitola un breve articolo in cui
Weinberg riassume il suo percorso professionale. “When the field of molecular
oncology began, few could have foreseen where it would take us. Indeed, most of
the researches who became involved in discoveries in the early 1970s were not
interested in cancer at all” e, dopo un excursus storico delle principali scoperte
sulla genetica del cancro, ancora aggiunge: “but again, it us an inadvertent entrance; cancer research, was, until the last moment, the last thing in our minds”.
Sebbene la conclusione sia, a buona ragione, una considerazione sulla necessità
di lasciare liberi gli sperimentatori di sbagliare senza vincolarli entro schemi dettati dagli interessi economici più che scientifici -che spesso orientano l’attività di
interi laboratori facendo intraprendere strade che frequentemente si dimostrano
poi senza uscita o che portano ad aree nuove e ancora poco esplorate- a nostro
parere, l’atteggiamento è piuttosto significativo rispetto all’importanza relativa
che si da, all’interno della prospettiva riduzionista di cui Weinberg è uno dei
principali esponenti, alla riflessione sui presupposti epistemologici del lavoro di
ricerca che si sta svolgendo. Ciò che conta è scoprire qualcosa di nuovo, accumulare dati nella speranza che prima o poi si compongano in un quadro unitario
e compatto, più che l’atteggiamento critico nei confronti degli stessi col tentativo di considerare nuovi punti di vista per dar ragione dello stesso fenomeno in
modo più coerente e semplice.
Ben diverso è stato invece l’atteggiamento che ha mosso Sonnenschein e Soto
ad elaborare la TOFT: “The lack of collective progress towards understanding
the control of cell proliferation and cancer prompted us to embark on a parallel
intellectual journey into the “other” biologies: evolutionary, developmental, and
organismal. We learned to ask “why” questions, in addition to “how” and “what”
questions that normally concerned us and our peers in the pursuit of biochemical
answers to biological questions” per cui “Come to terms with the frustrating
experience learned in the last three decades, let’s go back to the drawing board,
and start again! ” [Sonnenschein e Soto 1999].
Questa rapida comparazione delle due prospettive dominanti insieme agli
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CAPITOLO 13. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE ETICO: LA
RETROGIUSTIFICAZIONE DELLA SCIENZA SPERIMENTALE
225
elementi che sono già emersi nello studio, rispetto ai presupposti ed implicazioni epistemologiche dei framework di riferimento, supporta la tesi per cui il
progresso scientifico, quando è reale, retrogiustifica, amplia e precisa i suoi presupposti o ne mette in evidenza i paradossi di fondo. Riteniamo che questo
abbia delle conseguenze importanti anche da un punto di vista etico, di quell’etica che appartiene al ricercatore, a chi fa scienza e a coloro che possono
orientare le scelte di campo nella ricerca sperimentale. Con facilità, infatti, i
dibattiti etici, che implicano anche l’allocazione di risorse economiche ingenti,
vertono sulla domanda “che cosa si può fare”, ma poche volte si ha il coraggio e
la fiducia sufficiente nella razionalità umana e nell’intelligibilità della natura per
domandarsi “che cosa ha senso fare”. Il soggetto che fa scienza cioè deve saper
impregnare la passione per il proprio lavoro con lo sforzo sistematico e rigoroso
(personale e istituzionale) nella ricerca della verità, nella consapevolezza che il
progresso scientifico contribuisce alla diffusione dei valori implicati nel carattere anche istituzionale della scienza in termini di cooperazione, onestà, rigore,
trasparenza e comunicazione scientifica.
Sempre più urgente è il compito della filosofia di rendere espliciti i presupposti impliciti della scienza, analizzarli e studiarli in modo tematico ed esaminare le
implicazioni del progresso sulla base della consistenza dei suoi stessi presupposti.
La filosofia pertanto si pone come interlocutore ordinario della scienza sperimentale valorizzando i contributi di quest’ultima per una comprensione sempre più
adeguata delle caratteristiche generali del mondo e della natura anche umana.
Ecco allora confermato, anche da un punto di vista etico, il valore di questo
studio che si è permesso di studiare le implicazioni di alcune teorie scientifiche
particolari, come quelle inerenti l’eziopatogenesi della patologia neoplastica.
13.1
Dalla prospettiva della vita, dalla prospettiva della morte
Assumendo l’emergentismo come default e l’organicismo come framework
interpretativo del fenomeno neoplastico, la TOFT ha già fatto lo sforzo di chiarire l’inquadramento che desse ragione del carattere patologico di un organismo
vivente, quale prima evidenza empirica del cancro, e di una sua spiegazione razionale. I dati e i modelli sperimentali prodotti sembrano confermare la validità
delle premesse epistemologiche adottate. Anche la formalizzazione di altri autori di diversi modelli del processo neoplastico da un punto di vista sistemico
sembrano dovere il loro potenziale predittivo e descrittivo alla visione morfogenetica, di organizzazione tessutale del fenomeno da cui muovono. Che cosa
succede invece quando un fenomeno fisio-patologico come il cancro viene studiato elevando “inavvertitamente” una metodologia (quella riduzionista) ad epistemologia (quella dell’approccio biomolecolare alle realtà biologiche) e poi ad
ontologia di riferimento (quella per cui functional biological explananada are
always molecular biology explananda)?
L’analisi della Parte III ha messo in evidenza come, ignorando il sistema
nel suo insieme e la sua reale complessità, è possibile da un punto di vista logico ricostruire un ordine tra le parti, ma questa informazione può al massimo
fornire una spiegazione dell’emergenza intesa come “supervenience” -presenza
di una caratteristica tra le varie teoricamente possibili- senza chiarire la pre-
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226
13.1. DALLA PROSPETTIVA DELLA VITA, DALLA PROSPETTIVA
DELLA MORTE
senza effettiva di una caratteristica specifica in un contesto (individuale) dato.
Le funzioni biologiche in senso proprio sono, prima di tutto, funzioni “di” che
funzioni “per”, come aveva messo in evidenza uno studio già pubblicato e precedentemente citato [Bertolaso 2009b] sul problema dei genitivi nell’attribuzione
funzionale a parti biologiche sulla base dei paradossi che emergono nello studio
dei modelli interpretativi del cancro. Le caratteristiche emergenti del sistema,
allora, non possono essere spiegate in termini di plasticità (capacità delle parti di
subire modificazioni, di essere impresse e strutturate o riorganizzate attraverso
nuove relazioni che vengono instaurate e modulate dal sistema nel suo insieme)
ma di specificità. Quando proprietà, che chiameremo passive in quanto tipiche della costituzione di base della materia (che potremmo sintetizzare con il
termine di “impressionabilità” della materia), vengono considerate attive, cioè
“impressionanti” la materia, si va incontro a paradossi che richiedono ogni volta
spiegazioni aggiuntive per poter essere spiegate, riducendo pragmaticamente la
ricerca scientifica alla spiegazione dei “come”, ma non dei “perché” dei fenomeni
osservati né dei paradossi in cui si incorre.
Da dove allora il paradigma riduzionista ha tratto la forza esplicativa, almeno di coerenza intrinseca, logica se non bio-logica, che ha sostenuto gran
parte della ricerca degli ultimi 50 anni nell’ambito della patologia neoplastica?
Riassumiamo qui alcuni elementi che erano già emersi nel Cap.10 e 11:
a) in primo luogo, all’interno del paradigma riduzionista ogni azione è ridotta
a movimento, cioè descritta in termini spaziali. Tuttavia, tale riduzione
elimina la tensione verso un fine del movimento spontaneo di ciò che ha vita. La comprensione scientifica, erede dell’empirismo cartesiano, riconosce
cioè solo un movimento di tipo inerte. Questo tuttavia è tipico della materia non viva: solo essa rispetta, e anche questo in particolari condizioni
(assenza di attrito, ecc.), leggi di movimento lineari, prevedibili, riproducibili sempre allo stesso modo. In una parola, lo spazio, che unicamente
soddisfa queste condizioni, è il presupposto indispensabile per l’applicabilità di una legge causale che permetta una dimostrazione, cioè un calcolo,
la cui prova consiste nella predizione. “Al di fuori di questo presupposto -osserva Hans Jonas- il principio di “ragion sufficiente” ha un senso
completamente diverso, che non offre alcun sostegno per la costruzione
di uno schema deterministico e alcun dato evidente per la sua verifica”
[Jonas 1999]. Tuttavia queste sono state le premesse della costruzione del
Multistep Model e del Modello Gerarchico.
Ne consegue un paradosso: abbiamo iniziato a spiegare un fenomeno vivente mediante il non vivente. Ciò che è “senza vita” diviene l’intellegibile in sé e ciò che
è inerte (la morte) diviene metro di ogni intelligibilità. Da questa prospettiva,
le forze delle inter-azioni che definiscono l’ordine gerarchico sono determinate
(misurate) in base ai risultati; non è la natura del sistema, cioè, a dar ragione
del suo comportamento, ma è un determinato comportamento che forza verso la
definizione di un particolare sistema come oggetto di studio; le funzioni vengono prima dell’organismo, l’astrazione concettuale prima della sua presenza reale
(cfr. problema delle CSCs), l’equivalenza funzionale un’equazione formale.
a) La ricerca di leggi universali è mediata da unità biologiche (estensione
materiale e attribuzione funzionale) che devono avere oltre al carattere
di necessità (causa necessaria) quello di equiparabilità, devono cioè essere
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CAPITOLO 13. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE ETICO: LA
RETROGIUSTIFICAZIONE DELLA SCIENZA SPERIMENTALE
227
intercambiabili, universali, omogenee in termini strutturali (geni) o funzionali (cellule staminali). Infatti, il principio causale che sta alla base del
pensiero scientifico naturale non si accontenta dell’enunciato per cui ogni
evento ha la sua causa e a sua volta causa qualcos’altro, ma richiede, in
aggiunta al principio di “ragion sufficiente”, il principio “dell’equivalenza
quantitativa” fra causa e effetto, il che richiede a sua volta l’assegnazione
di quantità a oggetti definiti, cioè misurabilità. Gli oggetti quindi devono
essere singolarmente identificabili, con una identità separata nel corso del
tempo per ognuno di essi, esterni l’uno all’altro e distribuiti in un continuum esteso con dimensioni simultanee che garantiscono il mezzo per
una collocazione esclusiva o compresenza multipla. La condizione di tutto
questo è l’omogeneità, per questo nel paradigma riduzionista tutto ciò che
presenta una qualche forma di eterogeneità, polarità o asimmetria è un
problema (da eliminare o da considerare come “rumore”), mentre l’omogeneità sembra spiegare l’attività che si percepisce nella formazione di una
massa neoplastica.
Il problema è che in questo modo quello che stiamo realmente spiegando è la
morte e non la vita. Quest’ultima rimane incomprensibile. Anche le altre teorie, cui spesso il paradigma riduzionista si appella, presentano questo stesso
carattere di “morte”, almeno nella loro interpretazione ed utilizzo: la selezione
naturale viene usata per spiegare perché le cellule sopravvivono, la plasticità per
dar ragione della diversità cellulare. Ma se guardiamo le cose dalla prospettiva
della vita, la selezione naturale ci dice solo come un fenotipo recessivo viene
eliminato, ma non come uno dominante si mantiene (cosa ben più comune in un
organismo vivente) e l’evidenza di diversi gradi di plasticità nella materia vivente sposta la domanda sulla specificità e su come essa sia mantenuta mediante
asimmetria e polarità. Ciò implica che il tutto vivente, in quanto tale, non possiede alcun carattere di novità. Il processo vitale si presenta come una serie o
un intreccio di processi relativi a unità persistenti (geni, cellule, ecc.): essi sono i veri agenti che stabiliscono gli eventi mediante determinate configurazioni.
Ogni elemento si muove all’interno di una sequenza casuale in modo singolare
(molecolare, particellare), per cui la continuità del tutto sarà solo un’astrazione
(si parla di progressione e di evoluzione neoplastica anche per questo) e le caratteristiche proprie delle entità biologiche, per definizione relazionali, appariranno
come questioni semplicemente epistemiche. La realtà appartiene in senso proprio solo alle entità autonome e autoreferenziali, per cui la teoria meccanicistica
dell’organismo, dell’automa cellulare, è conseguenza logica e inevitabile di tutta
una posizione metafisica e gnoseologica che ha definito la scena della scienza
moderna.
All’interno però di questa prospettiva materialista, che secondo l’analisi effettuata da Hans Jonas ha le sue radici nel pensiero moderno a partire da Cartesio
[Jonas 1999], il compito assegnato alla biologia, come scienza moderna della
vita, è quello di ridurre la vita al senza vita, dissolvere il particolare nell’universale, il complesso nel semplice, l’eccezione apparente alla regola convalidata.
Tuttavia, “il dualismo non era un’invenzione arbitraria, bensì la duplicità che
esso portò alla luce è fondata nell’essere stesso.” Pertanto, “un nuovo monismo integrale, ossia filosofico, non può annullare la polarità, ma deve venirne
a capo, deve spiegarla in una superiore unità dell’essere, dalla quale gli opposti
escono come facce della sua realtà o fasi del suo divenire”. Il materialismo ha
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a condizione che ne venga citata la fonte.
228
13.1. DALLA PROSPETTIVA DELLA VITA, DALLA PROSPETTIVA
DELLA MORTE
ereditato il lascito del dualismo senza rendersi conto che l’eredità era gravata
da un’obbligazione cui non avrebbe mai potuto sperare di adempiere in base
alle proprie risorse: sostenere teoricamente anche quei fenomeni a cui prima
provvedeva la metà scomparsa della proprietà dualistica. L’insufficienza del paradigma riduzionista nella ricerca oncologica e il meccanicismo materialistico
che esso presuppone non può mai legittimamente raggiungere lo status di monismo. Esso continua a presupporre logicamente un dualismo trascendente perché
solo presupponendolo può permettersi di usare categorie materialiste nell’interpretazione della pura materia [Jonas 1999]. È quanto emerge dall’irriducibile
asimmetria e polarità di ciò che è vivo e dal fallimento dei tentativi di spiegare
fenomeni biologici attraverso l’annullamento di queste tensioni.
13.1.1
L'uso delle metafore
Abbiamo visto nella Parte I come il cancro sia stato e continui ad essere
paragonato ad altri fenomeni per somiglianza o analogia, cioè mediante l’uso
di metafore. All’inizio non eravamo in grado di distinguere che differenza di
impostazione ci fosse tra affermazioni come “tumors act as a caricatures of their
corresponding normal tissues” o “oncology is blocked ontogeny” o “wounds that
do not heal ”. Apparentemente queste apparivano tutte metafore allo stesso modo capaci di farci comprendere in modo più immediato alcuni elementi della
complessità del fenomeno neoplastico. Gli stessi Sonnenschein e Soto osservano
che “Metaphors and images have been used in order to shed light on the subject
of explaining cancer. The SMT centers on “one renegade cell,” and views cancer as a cell-based disease involving unregulated cell proliferation. The TOFT,
instead, focuses on a “society of cells” and views cancer as a problem of tissue
organization” [Sonnenschein e Soto 2008].
Ci sembra tuttavia che la metafora non sia utilizzata nella prospettiva riduzionista e sistemica con lo stesso significato né che abbia lo stesso potenziale
euristico in entrambi1 . Nella prospettiva riduzionista, infatti, queste vengono
utilizzate, per descrivere un mondo che però non è reale, richiamando immagini
familiari al lettore ma che rimangono tali: rappresentazioni. Nella prospettiva
sistemica invece, le metafore rivelano analogie: esiste una corrispondenza reale
tra il fenomeno neoplastico e gli altri fenomeni citati. Inoltre, da questo punto
di vista, il cancro è sempre visto come un fenomeno in ultima analisi patologico, mentre all’interno della prospettiva riduzionista domina una visione del
fenomeno che è fondamentalmente “fisiologica”.
Queste considerazioni rafforzano l’idea che le spiegazioni della carcinogenesi
da parte delle due teorie che principalmente le rappresentano (SMT e TOFT)
non sono incompatibili perché appartengono a due livelli di complessità biologica
diversa (cfr. questione epistemologica del cap. 9), ma poiché le ontologie (l’idea
di ente) che sottostanno a ciascuna sono differenti, esse non sono alternative tra
loro: dalla prospettiva della vita o della morte si può raccontare la stessa storia,
1 Ci
limiteremo qui ad alcune considerazioni che si riferiscono alla ricerca oncologica e
ai modelli interpretativi elaborati. Per una trattazione più ampia e da una prospettiva più
losoca e storica sul rapporto tra l'uso delle metafore e la scienza e il loro potenziale euristico
nella rappresentazione della realtà mediante modelli, rimandiamo al volume citato di Marcos
[Marcos 2010b].
Figura 13.1: Prospettiva riduzionista e sistemica nell’uso delle metafore
a) Nella prospettiva riduzionista il cancro è abitualmente descritto mediante l’uso del comparativo “come” mentre nella prospettiva sistemica
si usa una perifrasi affermativa “é”. Nella prima esso è descritto con verbi attivi, nella seconda in termini di deficit (di coordinazione)
di attività fisiologiche. b) Le entità di riferimento sono ideali “one renegade cell ” nel riduzionismo, mentre sono reali nell’organicismo “a
society of cells”.
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CAPITOLO 13. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE ETICO: LA
RETROGIUSTIFICAZIONE DELLA SCIENZA SPERIMENTALE
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230
13.1. DALLA PROSPETTIVA DELLA VITA, DALLA PROSPETTIVA
DELLA MORTE
ma in modo completamente diverso2 , non c’è simmetria, infatti. Spiegando la
vita, si può meglio comprendere la morte (cancro come fenomeno patologico)
mentre, spiegando la morte, non si comprende la vita né la si può rappresentare
completamente senza incorrere in continui paradossi perché la logica che la regge
non è di natura meccanicistica, secondo quanto evidenziato anche nella sezione
precedente.
La prospettiva riduzionista confonde i livelli cui l’esistenza di diversi tipi di
enti può essere affermata ignorando che c’è un problema di complessità ontologica reale in cui l’analogia, e non la rappresentazione, diventa lo strumento
epistemologico fondamentale e la metafora pertanto un approccio euristico ed
esplicativo efficace. Se infatti una particolare funzione biologica o entità non
esiste ad un determinato livello, questo non significa che non esista affatto (cfr.
il concetto di CSC quando ridotto a working concept). La sua identificazione
sarà possibile mediante uno spostamento del livello esplicativo per definire il
contesto funzionale in cui quella determinata entità può di fatto esistere. Occorre tuttavia prestare attenzione anche a questo passaggio: se infatti quello
che viene sottolineato e sostanzializzato (elevato al grado di ente) è l’aspetto
processuale, si rischia di ricadere in un riduzionismo ontologico. Come osserva
Noble “The curtain call (...) is that the artist disappears” [Noble 2006]. È questo il prezzo da pagare quando, per evitare il rischio della molecolarizzazione, si
arriva ad affermare che “the system is a process, not a thing” [Soto et al 2008b].
È necessaria cioè un’ontologia che tenga conto della realtà di diversi livelli di
complessità biologica, senza però assolutizzarne la dimensione processuale. Il
metodo sperimentale richiede, infatti, sempre separare e circoscrivere livelli,
ma è l’organismo (individualità biologica) cui essi appartengono che, in ultima
istanza, dà ragione degli stessi e della loro specificità funzionale.
A livello aneddotico, e quasi come epilogo di questo lavoro, ci sembra utile chiudere lasciando spazio alla ricostruzione fatta da Vogelstein e Kinzler del
processo neoplastico dal punto di vista riduzionista [Vogelstein e Kinzler 2004]:
“Cancer genes and the pathways they control ”. La rappresentazione di un mondo
logico, apparentemente vivo, in cui compaiono e interagiscono una molteplicità
di fattori, si ripresenta in tutta la sua attrazione di coerenza e vivacità anche
narrativa cui il paradigma riduzionista deve in gran parte il fascino della sua
argomentazione esplicativa del cancro come di un qualcosa che agisce: “The revolution in cancer research can be summed up in a single sentence: cancer is, in
essence, a genetic disease. In the last decade, many important genes responsible
for the genesis of various cancers have been discovered, their mutations precisely
identified, and the pathways through which they act characterized. The purposes
of this review are to highlight examples of progress in these areas, indicate where
2 Ampliamo
così la prospettiva già evidenziata e più volte ribadita dagli autori della TOFT.
Riportiamo integralmente la citazione accennata nel testo per chiarire meglio le diverse conclusioni cui stiamo pervenendo: Metaphors and images have been used in order to shed light
on the subject of explaining cancer.
The SMT centers on one renegade cell, and views
cancer as a cell-based disease involving unregulated cell proliferation. The TOFT, instead,
focuses on a society of cells and views cancer as a problem of tissue organization. Hence,
as hinted above, explanations of the process of carcinogenesis by these two theories belong to
distinct levels of biological complexity and, therefore, are incompatible, as are their philosophical stances (reductionism versus organicism (...)). The above-referred incompatibilities do
not rule out, however, that the data gathered from experiments based on the SMT might be
interpreted either in the context of the TOFT, or even to refute the arguments of the SMT [Sonnenschein e Soto 2008].
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a condizione che ne venga citata la fonte.
CAPITOLO 13. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE ETICO: LA
RETROGIUSTIFICAZIONE DELLA SCIENZA SPERIMENTALE
231
knowledge is scarce and point out fertile grounds for future investigation.”
Questo è l’abstract a cui seguono una serie di capitoli che ricostruiscono la
storia della ricerca oncologica sul cancro dalla prospettiva riduzionista, proprio
mediante la descrizione di un set teatrale (citiamo letteralmente):
The cast “Alterations in three types of genes are responsible for tumorigenesis: oncogenes, tumor-suppressor genes and stability genes”
The plot “As noted above, cancer-gene mutations enhance net cell growth”
Supporting cast “That solid tumors are composed of two compartments,
one consisting of neoplastic epithelial cells and the other of stromal cells, was
pointed out a hundred years ago. The importance of the interactions between
stroma and epithelium is becoming increasingly recognized. And four discoveries
made during the last ten years have propelled one component of the stroma,
endothelial cells, into the spotlight”.
Con l’onestà che sempre contraddistingue, questi autori, che riteniamo davvero riferimenti autorevoli nella storia della ricerca sul cancro, concludono sullo
stesso tono l’articolo aprendo una sezione intitolata “What we don’t know ” che
si articola nei seguenti punti:
The opening act “The process of tumorigenesis is initiated when a
replication-competent cell (stem cell or partially differentiated descendent of a
stem cell) acquires a mutation in a ‘gatekeeping’ pathway that endows it with a selective growth advantage”. La selezione naturale compare come prima
protagonista. . .
The producers “As noted above, it appears that the cells of solid tumors
must accumulate several rate-limiting mutations in cancer genes to achieve malignant status. If these mutations had to occur simultaneously in a single cell,
then the prevalence of cancer would be minimal. The current doctrine is that
these mutations occur over time, with each mutation engendering a clonal expansion resulting in a large number of cells that then form a substrate for subsequent mutations. Are normal rates of mutation, coupled with clonal expansions,
sufficient to account for the prevalence of cancer, or is some form of genetic instability required for a cell to undergo these multiple, sequential mutations? ”. Il
problema della stocasticità e della specificità funzionale complica il panorama...
The ending “Although abnormalities of the cancer genes listed (. . . ) are
essential contributors to cancer, most abnormalities in these genes occur relatively early in the disease process and none are known to be specifically associated
with the metastatic stage. (. . . ) the genetic alterations responsible for endowing cells with these abilities have not been clearly identified. In fact, it has
been suggested that metastasis is not dependent at all on new genetic abnormalities that occur after tumors have been established, and that the propensity to
metastasize is determined early in the neoplastic process rather than near its
end.” Una complessità continua a mettere in crisi il sistema e principi evolutivi più generali vengono in soccorso della selezione . . . ma senza risolvere il
problema interpretativo... “This suggestion is not readily compatible with the
evidence that cancer is a genetic disease in which evolution occurs somatically.
Just as macroevolution never stops, evolution of the cancer cell does not stop
and new variants of tumor cells with potentially greater capacities to invade and
metastasize are always being born. This evolution is itself driven by inherent
genetic instabilities, as described above. However, this genetic perspective on
metastasis cannot be validated—or invalidated—until a better understanding of
the metastatic process is in hand ”.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
232
13.1. DALLA PROSPETTIVA DELLA VITA, DALLA PROSPETTIVA
DELLA MORTE
Non potendo semplificare la trama ...
Same actors in different roles “One might have expected that a specific
mutation of a widely expressed gene would have identical or at least similar
effects in different mammalian cell types. But this is not in general what is
observed. Different effects of the same mutation are not only found in distinct
cell types; differences can even be observed in the same cell type, depending on
when the mutation occurred during the tumorigenic process”. (...)
...si complica allora la scena ...
“These and similar observations on other cancer genes are consistent with the
emerging general notion that signaling molecules play multiple roles at multiple
times, even in the same cell type”
...ma le perplessità continuano ...
“However, the biochemical bases for such variations among cancer cells are
almost entirely unknown. One could argue that oncogenes and tumor-suppressor
genes are like electronic components whose effects depend on their placement
within an electrical circuit. But no such argument can be easily used to explain
the cell type specificity of stability gene defects”.
...e con onestà si ammettono i rischi che ricordano alcune conclusioni cui
eravamo arrivati nella Parte III del presente studio:
“It is also notable in this context that many cancer genes affect different
organs when mutated in mice than when mutated in humans. An important
practical implication of all this complexity is that it is risky to generalize the
conclusions of experiments performed in any cell type or to infer the function of
a gene in human cancer cells based on studies of the homologous genes in other
organisms.”
Rimangono allora domande aperte. La prima che riguarda i fattori causali:
Major cast members or bit players? “In addition to the genes that
are mutated in a significant portion of cancers of a given type (...) there are
many other genes that have been implicated in neoplasia but not shown to be
mutated. (...) Unlike genetic changes, epigenetic changes identical to those
found in cancers are often found in normal cells at some stage of development.”
Per cui appaiono ancor più evidenti le difficoltà esplicative, eziopatogenetiche, della storia che si sta raccontando del cancro ...
“Levels of gene expression are unreliable indicators of causation because disturbance of any network invariably leads to a multitude of such changes only
peripherally related to the phenotype. Without better ways to determine whether an unmutated but interesting candidate gene has a causal role in neoplasia,
cancer researchers will likely be spending precious time working on genes only
peripherally related to the disease they wish to study.”
... riaprendo così la sfida che però non esce dal paradigma riduzionista
che già ci aveva portato ad analizzare “The Emergent Integrated Circuit of the
Cell ” [Hanahan e Weinberg 2000], mettendo in evidenza la necessità della prova
e del contesto per definire il fenotipo neoplastico e la relazione causale di parti
molecolari con esso. Il controllo delle variabili, mediante sistemi sempre più
sofisticati diventa allora la sfida tecnica più immediata (cfr. Parte III, cap 8):
“One challenge for the future is therefore to develop new model systems.
For liquid tumors, innovative systems have indeed been developed, such as those
using immunodeficient mice reconstituted with human hematopoietic stem cells.
Perhaps analogous humanized models can be developed to explore solid tumors
in a more medically meaningful context than is currently possible”.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 13. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE ETICO: LA
RETROGIUSTIFICAZIONE DELLA SCIENZA SPERIMENTALE
233
La seconda domanda relazionata alle terapie:
What makes a box-office smash? “Significant gains in cancer therapeutics have also been made in the last decade. (...) Interestingly, we still don’t
know the basis for the selectivity of conventional chemotherapeutic agents.Why
cancer cells are more sensitive to antimetabolites, alkylating agents, DNA intercalators and topoisomerase inhibitors than normal replicating cells is enigmatic.”
(...) “Concepts such as ‘cellular addiction’ offer an imaginative answer to this
question, but the molecular basis for the postulated addiction is unknown”. (...)
“Perhaps if we understood the bases for the responsiveness of cancers to these
drugs, we could devise better agents to exploit them.”
Ecco pertanto le conclusioni a cui l’autore della trama perviene:
The sequel “There are at least three major challenges that will occupy most
cancer researchers’ time over the next 10 years. The first is the discovery of
new genes that have a causal role in neoplasia, particularly those that initiate
and conclude the process. The second is the delineation of the pathways through
which these genes act and the basis for the varying actions in specific cell types.
The third is the development of new ways to exploit this knowledge for the benefit
of patients. The first two of these challenges are likely to proceed apace.”
...per rilanciare la fiducia nelle nuove tecnologie....
“Technologies for gene discovery are rapidly advancing, the human genome
will soon be in finished form, and previous analyses of other genes provide welltraveled road maps for investigators to follow once new genes are in hand.” (...)
“cancer biology has not kept up with cancer molecular genetics and new biological
systems are needed to separate wheat from chaff.”
... senza omettere però il vero livello cui ci si porranno le difficoltà più
serie e lasciar intravvedere le stesse conclusioni dal punto di vista delle “terapie
migliori” a cui eravamo giunti in chiusura del Cap. 12:
“The third challenge, involving practical benefits to patients, will be much
more difficult to meet. There are hardly any road maps to follow.”
(...) “will the development of new, more specific therapeutic agents be the
best way to minimize cancer morbidity and mortality in the long-term? Most
of the increased longevity that Western societies enjoy today has come through
better prevention rather than better treatment.” (...) “Though less dramatic than
cures, prevention and early detection are perhaps the most promising and feasible
means to reduce cancer deaths by the time that Nature Medicine celebrates its
20th anniversary.”
Questa descrizione mette in evidenza i limiti della riduzione della complessità
biologica tra i vari livelli che la compongono e fa riconsiderare l’opportunità di
un’astrazione ad ogni livello di ciò che è più significativo. I passaggi di livello
nell’organizzazione biologica implicano delle modalità specifiche mediante cui la
struttura e l’informazione di un livello sono reinterpretate al livello superiore.
Ignorare questo significa perdere i principi di base del controllo gerarchico e
allontanarsi dalla descrizione e spiegazione della loro origine naturale, che non è
molecolare ma sistemica, organica. Per questo, come afferma Simon, “scientific
knowledge is organized in levels, not because reduction in principle is impossible,
but because nature is organized in levels, and the pattern at each level is most
clearly discerned by abstracting from the detail of the level far below. And nature
is organized in levels because hierarchic structures provide the most viable form
for any system of even moderate complexity”[Patee 1973]. Vedremo nel prossimo
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234
13.1. DALLA PROSPETTIVA DELLA VITA, DALLA PROSPETTIVA
DELLA MORTE
capitolo come questo possa avere delle implicazioni concrete anche nella ricerca
oncologica.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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Capitolo 14
Conclusione: Il processo
neoplastico e le ragioni per un
approccio integrativo nella
ricerca oncologica
14.1
Qualcosa di sbagliato o abbiamo sbagliato
tutto?
“Quando hai escluso l’impossibile, tutto il resto, anche se improbabile può
essere vero” (cfr. Sezione 1.1.). Piuttosto che da un grande ottimismo, il mondo
della ricerca oncologica è attualmente dominato da grandi interrogativi legati
alle evidenze dell’inadeguatezza del consueto approccio nel controllo e nella cura
del cancro [Jemal et al 2006]. Nonostante i grandi investimenti fatti, negli ultimi decenni è rimasta praticamente invariata l’incidenza e la mortalità legata a
patologie neoplastiche, ponendo chiaramente la questione dell’insufficienza delle
risposte fino ad ora date sull’insorgenza e progressione di questa patologia. Come abbiamo avuto modo di evidenziare nei capitoli precedenti, diversi modelli
interpretativi sono stati presentati: alcuni che tendono a centrare l’attenzione
sull’importanza di controllare la patologia quando è ancora ai suoi inizi, sottolineando il peso dei fattori genetici o epigenetici, per esempio, o di fattori
(micro)ambientali come gli ormoni o il fumo o altri che ancora fanno leva sulla
produzione di nuove molecole capaci di interagire specificatamente con geni e
proteine coinvolte nel processo neoplastico. Ciò non toglie la necessità e l’urgenza percepita da tutti di sviluppare nuove misure terapeutiche e preventive che
possano assicurare almeno un incremento totale del tasso di sopravvivenza e una
migliore qualità di vita dei pazienti oncologici. Questi dati, insieme a tanti altri
a disposizione, fanno pensare che l’ottimismo che c’era dietro all’affermazione
per cui avremmo eliminato “the suffering and death caused by cancer (...) by
the year 2015 ” [Cancer Trends 2005] era quantomeno prematuro.
È evidente che l’aspettativa può continuare ad essere alimentata dalle promesse relative alla scoperta di nuovi geni e di nuove proteine nella speranza
235
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
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14.1. “QUALCOSA DI SBAGLIATO O ABBIAMO SBAGLIATO TUTTO?”
236
di ampliare e selezionare nuove terapie molecolari per bloccare o orientare i
pathways coinvolti nella costituzione e mantenimento del fenotipo neoplastico
delle cellule tumorali. Di fatto la Target Therapy ha sviluppato una quantità
considerevole di molecole definite “magic bullets”, capaci di interagire specificatamente con concreti pathways di trasduzione del segnale [Tripathy 2005,
Deininger et al 2005] e la Big Pharma ha sovvenzionato questi lavori di ricerca,
creando e fomentando spesso molte aspettative anche nel grande pubblico. Ciò
non di meno, il cancro è apparso sempre più come una patologia caratterizzata,
anche solo a livello molecolare, da un’elevata molteplicità di fattori soprattutto
genetici, per cui è ormai chiaro che non è mai controllato solo da una prospettiva
genetica o genomica, per quanto essa possa essere importante o determinante
[Sporn 2006].
C’è però anche la possibilità di dare spazio a nuovi, anche se sicuramente
meno tradizionali, punti di vista. Ad un cambio di prospettiva, ha sicuramente contribuito il progressivo riconoscimento di una specificità della componente
dinamica del cancro identificato come un processo [Sporn 1991] più che come
un evento. Come abbiamo visto, questa peculiarità cambia l’importanza che
viene attribuita alle componenti molecolari e mette in evidenza la necessità di
approcci interpretativi che sappiano comprendere il fenomeno neoplastico sin
dal suo inizio da una prospettiva sistemica. È evidente che questo porta con sé
la domanda fondamentale su cosa sia veramente il cancro. In esso, infatti, si
combinano due aspetti: uno degenerativo, tipico di tutte le patologie, e un’altro
attivo, che dà ragione dell’uso di verbi attivi nella descrizione del comportamento del cancro e delle analogie che presenta con altri fenomeni patologici
complessi [Oakley e Van Zant 2007]. La proposta interpretativa più audace fino ad ora avanzata è stata quella del cancro come risposta non adattativa di
alcune cellule ad un insulto tessutale: ci sono voluti milioni di anni per organizzare le componenti cellulari entro unità funzionali quali sono i network proteici
in azione all’interno di una cellula, per cui solo una risposta complessiva, non
locale o genetica, delle cellule di un tessuto può dar ragione di un loro funzionamento patologico; inoltre, colpisce la ridondanza nei meccanismi adattativi che
si osserva nel modo in cui cellule normali e premaligne rispondono agli stress
ambientali, cosa che invece una cellula maligna non riesce più a fare. Sulla
scia di queste ed altre considerazioni, non sono mancate voci in letteratura che
hanno spinto il mondo scientifico a rivedere le assunzioni fondamentali dell’attuale ricerca e pratica oncologica, per sviluppare approcci nuovi e alternativi,
incoraggiando inoltre la creatività per trovare nuove soluzioni [Sporn 2006] alle
necessità terapeutiche.
“Qualcosa di sbagliato o abbiamo sbagliato tutto?” Con questa domanda ci
siamo avviati a tirare le somme di questo lavoro che, dopo mesi di ricerca e di
confronto con la letteratura ed esperti del campo, ci appare come uno studio
solo iniziale. Gli elementi che sono emersi fino ad ora ci farebbero dire che,
dal punto di vista della comprensione di cosa sia il cancro non abbiamo capito
praticamente nulla, ma dato che questo sarebbe presuntuoso e scientificamente
poco corretto, dato che sappiamo che la scienza sperimentale è aperta a questi
cambiamenti anche paradigmatici, ci sembra più corretto dire che qualcosa di
sbagliato c’era nell’impostazione riduzionista dominante nella ricerca oncologica. Di conseguenza, possiamo aver sbagliato ancora di più nel valore attribuito
fino ad ora, o nelle aspettative che abbiamo creato intorno, alle possibilità terapeutiche del cancro. Di una cosa però siamo certi: che tanto da un punto
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CAPITOLO 14. CONCLUSIONE: IL PROCESSO NEOPLASTICO E LE
RAGIONI PER UN APPROCCIO INTEGRATIVO NELLA RICERCA
ONCOLOGICA
237
di vista epistemologico che ontologico, le conclusioni principali sono nella linea
di quella già sinteticamente enunciata da Whitman per cui “Nothing out of its
place is good and nothing in its place is bad ” (citato da Sporn nell’articolo sopra menzionato). Raccogliamo questa provocazione per una sintesi finale del
presente lavoro.
14.1.1
Complessità reale e apparente del cancro
“Nothing out of its place is good and nothing in its place is bad ”. Al di là dei
numerosi elementi che contribuiscono ad una percezione del cancro come una
patologia complessa, ci sembra di poter distinguere ora tra una Complessità
Reale del Cancro (CRC) e una Complessità Apparente dello stesso (CAC) sulla base precisamente della peculiarità della componente dinamica e processuale
della patologia cui abbiamo appena fatto riferimento. Nonostante infatti le neoplasie vengano, di fatto, alla fine diagnosticate dall’anatomopatologo sulla base
di una analisi al microscopio ottico del tessuto tumorale, l’elevatissimo numero
di studi sui meccanismi molecolari delle cellule tumorali giustifica il proliferare di altri elementi che poco a poco vennero ad essi associati. Nessuno però
risultò tanto significativo, dal punto di vista della diagnosi e della prognosi, come il tradizionale approccio che parte dalla semplice osservazione. Non ci sono
infatti elementi molecolari che identifichino in modo necessario e sufficiente il
cancro e meno ancora, una volta analizzato dal punto della sua progressione,
steps che identifichino la sua evoluzione. In qualche modo, tutto sembra rimanere al proprio posto o almeno che le variazioni molecolari non siano di così
grande importanza prese singolarmente, eppure non è il funzionamento non va,
c’è qualcosa che non è al suo posto. “The emerging complexity of the entire
‘cancer system’ overwhelms us, leaving an enormous gap in our understanding
and predictive power ” [Hornberg et al 2006].
Definizioni come “Solid tumors arise from an alteration of cell’s genetic material causing it to respond differently to the host’s growth regulators and this
leads to the uncontrolled growth of these cells” [Melicow 1982] o “Cancer is a heterogeneous disease often requiring a complexity of alterations to drive a normal
cell to a malignancy and ultimately to a metastatic state” [Edelman et al 2008]
sono tra le più condivise nella letteratura scientifica, ma il loro numero è aumentato, quasi paradossalmente, nel tentativo di ricondurre l’eterogeneità con
cui si manifesta questa patologia a qualche caratteristica essenziale, di natura
genetica, epigenetica, tessutale od organica, della stessa. “More than 100 distinct types of cancer and tumors have been described within specific organs and
dozens of genes have been linked to neoplastic initiation and progression.(. . . )
Genesis and progression of cancer are related to a large number of causes and
mechanisms” [Hanahan e Weinberg 2000].
Pertanto, è la definizione che è semplice o la realtà complessa? La molteplicità di definizioni che sono state date del cancro in letteratura farebbero pensare
ad una complessità di questa patologia, ma questo sembra contraddire il senso
comune e la pratica clinica che continuano a identificare tutti casi di tumore
con lo stesso termine: cancro. Al di là quindi delle diverse manifestazioni cliniche e delle possibilità descrittive, maturate mediante le nuove biotecnologie,
permane un denominatore la cui dimensione di complessità non può essere attribuita alla molteplicità dei fattori coinvolti. Chiameremo pertanto CAC questa
complessità, mentre definiremo CRC quella legata alla dinamica intrinseca del
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238
14.2. LE PROSPETTIVE RIDUZIONISTE E ANTIRIDUZIONISTE
NELLA RICERCA ONCOLOGICA
processo neoplastico e alle sue analogie con i fenomeni biologici complessi quali
la morfogenesi e lo sviluppo in tutte le sue fasi nella vita dell’organismo. Sulla
base delle considerazioni fatte precedentemente potremmo cioè dire che il cancro non è complesso perché complicato, ma perché patologia della complessità
dell’organismo vivente. Nel Cap. 12 abbiamo delineato alcuni degli elementi
che la caratterizzano e abbiamo dato una sua possibile definizione. La CRC dà
ragione dell’unitarietà del fenomeno neoplastico e allo stesso tempo permette
di comprendere l’origine e la natura dell’eterogeneità e stocasticità dello stesso. È a livello funzionale pertanto che la CRC emerge in tutta la sua forza,
mostrando caratteristiche di non-linearietà, fenomeni di soglia, caratteristiche
di robustezza e plasticità che sono comuni in altri fenomeni biologici. In essa è possibile convogliare la complessità anche del livello eziopatogenetico del
cancro, la molteplicità dei fattori coinvolti nell’iniziazione e progressione neoplastica; il diverso timing nella loro sequenzialità; la molteplicità dei livelli di
organizzazione compromessi (genetica, epigenetica, tessutale, organica, ecc.).
Infatti, mentre esiste una unitarietà di spiegazione del cancro, è ammissibile
considerare comunque ogni cancro come unico nella sua eziopatogenesi e pertanto nella sua terapia. Questa affermazione rispecchia chiaramente la CRC
per cui le difficoltà nell’identificazione del livello di diagnosi e terapia dipendono non dall’accumulo e organizzazione sistematica degli elementi molecolari, ma
da una visione sistemica della patologia che, pur nella sua varietà, rimane un
unico fenomeno sistemico che riguarda i principi che determinano l’individualità dell’organismo vivente nella sua duplice componente di unità e specificità.
L’irriducibilità del fenomeno neoplastico alle sue parti molecolari ammette però diversi approcci sperimentali (riduzionismo metodologico). Tuttavia, esso è
legato non tanto all’equivalenza delle parti (cfr. Sezione 13.1) quanto dalla natura stessa della patologia che, una volta in atto, può di fatto coinvolgere diversi
livelli dell’organizzazione funzionale di un organismo vivente.
Il cancro pertanto appare come un “multi-level problem” per il quale è richiesto un approccio integrativo. Esso prende dalla teoria sistemica del cancro
(cfr. Sezione 6.1) la componente epistemologica per cui il fenomeno neoplastico
può essere studiato solo a partire dal livello di complessità biologica cui si realizza e, dal presente studio, la necessità di un’integrazione e contestualizzazione
di questo livello entro la specificità dell’individualità biologica (l’organismo vivente) verso una completa comprensione e definizione essenziale del fenomeno
neoplastico stesso. La metodologia riduzionista, infine, continuerà a fornire gli
strumenti adeguati per la descrizione dei processi coinvolti attraverso le biotecnologie che ci permetteranno un’analisi sempre più adeguata del fenomeno
anche in termini molecolari. Rimane salva però l’assunzione e l’accettazione
di una tensione tra proprietà apparentemente divergenti dei fenomeni biologici,
come la loro specificità e plasticità, le proprietà di simmetria e asimmetria, la
caratteristica intrinseca di polarità, ecc.
14.2
Le prospettive riduzioniste e antiriduzioniste nella ricerca oncologica
Come ha risposto la ricerca sperimentale alle questioni poste nelle sezioni
precedenti? La tendenza ad una integrazione dei numerosi dati sperimentali
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CAPITOLO 14. CONCLUSIONE: IL PROCESSO NEOPLASTICO E LE
RAGIONI PER UN APPROCCIO INTEGRATIVO NELLA RICERCA
ONCOLOGICA
239
sembra contraddistinguere la storia della ricerca degli ultimi 50 anni. Ciò avviene però su due binari costitutivamente diversi: uno, riduzionista, che cerca di
mettere in sistema le parti per studiarne le interazioni e sperare così di ottenere
una visione più unitaria del fenomeno neoplastico; l’altra, sistemica, che rivedendo i presupposti da cui era iniziata la ricerca sul cancro cambia prospettiva
e conseguentemente approccio al problema.
14.2.1
Un mondo di coerenza logica: la prospettiva riduzionista
Diversi modelli interpretativi del cancro si sono succeduti e in parte completati nell’arco degli ultimi 50 anni di storia della ricerca oncologica, nel tentativo di unificare i diversi elementi che stavano emergendo come responsabili
in qualche modo dell’origine e dello sviluppo di un cancro [Bertolaso 2009a] e
soprattutto nell’intento di ridurre l’eterogeneità del fenomeno a poche, se non
a una, caratteristiche fondamentali dello stesso. Emblematico è il percorso fatto da quanti si sono mossi all’interno di una prospettiva riduzionista per cui
l’obiettivo di una semplificazione del fenomeno, mediante la scomposizione nelle sue parti, continua a rimanere la condizione epistemologica, metodologica,
fondamentale per una spiegazione dello stesso: “Explanations are sought at the
lowest possible level of organization, as specific phenotypes are considered to be
completely determined by specific genotypes, since the genome is the only repository of transmittable information” [Dawkins 1976]. Si tratta dei modelli con
cui siamo più familiari e che sono più conosciuti anche a livello dell’opinione
pubblica che, con sorprendente frequenza, si rassicura sul progresso della ricerca verso nuove soluzioni e approcci terapeutici per questa patologia. Il modello
genetico clonale, per esempio, che vede il fenomeno neoplastico come una progressione di tappe definite da mutazioni in oncogeni o geni tumore soppressori,
è stato integrato nel modello del progenitore epigenetico da altri elementi, di
natura non genetica, che sono risultati essere ugualmente coinvolti nel processo.
La versione iniziale, infatti, che attribuiva l’insorgenza di un tumore ad una sola mutazione somatica, (da cui la dicitura di Somatic Mutation Theory (SMT)
“was even simpler than we reductionists had dared to hope for ” [Weinberg 1988].
Lo studio del processo di trasformazione neoplastica ha focalizzato quindi l’attenzione, negli ultimi anni, anche sul ruolo dei fattori epigenetici -metilazione
del DNA sui promotori di alcuni geni o all’acetilazione degli istoni, anch’essa
con funzione regolatrice sull’espressione genica- nei processi di differenziamento
cellulare. La sequenza di eventi genetici ed epigenetici si è andata ampliando, ma soprattutto la descrizione delle relazioni fra le componenti molecolari
si è arricchita di dettagli sempre più numerosi nel tentativo di ricostruire un
circuito integrato cellulare [Hahn e Weinberg 2002a] le cui dinamiche potessero dar ragione del comportamento specifico delle cellule neoplastiche. Infatti,
le componenti molecolari e le loro interazioni rimangono praticamente invariate, ma la loro attività funzionale cambia, per fattori interni ed esterni che alla
fine coinvolgono danni multipli a livello del DNA, come mutazioni e alterazioni dell’espressione genica mediante ipermetilazione della sequenza promotrice
[Vogelstein e Kinzler 2004, Jones e Baylin 2007]. Nonostante questo sforzo di
recuperare una dimensione più sistemica, almeno a livello cellulare, il paradigma riduzionista dominante sembra però aver omesso qualche aspetto importante
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14.2. LE PROSPETTIVE RIDUZIONISTE E ANTIRIDUZIONISTE
NELLA RICERCA ONCOLOGICA
della carcinogenesi per il quale non ci sono ancora spiegazioni soddisfacenti (cfr.
Sezione 14.2.2.1.).
14.2.2
La risposta sistemica: un'opzione che non è alternativa
Il determinismo genetico che contraddistingueva questa posizione ha ovviamente impregnato anche la ricerca oncologica fino a circa una quarantina di
anni fa, quando alcuni ricercatori iniziarono a prendere sul serio l’eterogeneità
del fenotipo tumorale e le sue analogie di comportamento con fenomeni dello
sviluppo. Un prospettiva differente si sta cioè aprendo strada nella letteratura
scientifica che assume dei presupposti diversi per spiegare lo stesso fenomeno.
Più in concreto, si è andata consolidando una nuova teoria che non pone
più l’enfasi sulle dinamiche a livello cellulare, sub-cellulare o molecolare dell’organizzazione biologica, ma centra l’attenzione sull’organizzazione tessutale dell’organismo [Sonnenschein e Soto 1999]. È a questo livello infatti che la
Tissue Organization Field Theory (TOFT) riconduce il fenomeno neoplastico
studiandolo al livello di complessità biologica a cui compare: una disorganizzazione tessutale che si presenta come un processo organogenetico che non va a
compimento [Soto et al 2008a]. La posizione epistemologica che la sottende è
di carattere sistemico, organicista: “Behavior of complex physiological processes
cannot be understood simply by knowing how the parts work in isolation. Organisms are clearly much more than the sum of their parts, and the behavior
of complex physiological processes cannot be understood simply by knowing how
the parts work in isolation” [Strange 2004]. Dalla TOFT in poi le cose presero una piega diversa. Iniziò ad affermarsi un consenso sul fatto che il tumore
fosse in realtà un fenomeno legato all’organizzazione tessutale e alla dimensione
storica dell’organismo. Una volta individuato a questo livello della complessità
biologica il fenomeno neoplastico, vari modelli e formalizzazioni e modalità di
indagine iniziarono a svilupparsi e stanno attualmente prendendo poco a poco
il sopravvento. Non si tratta di alternative epistemologiche, ma metodologiche
sottese tutte da una stessa prospettiva, quella sistemica.
Dall’analisi critica tuttavia dei sistemi biologici identificati nella prospettiva sistemica e riduzionista interpretativa del cancro, per spiegare l’eterogeneità
tumorale e le sue dinamiche temporali, ciò che emerge è che argomenti relazionati con l’organizzazione gerarchica dell’organismo sono in entrambi gli approcci
utilizzati, mentre le loro spiegazioni divergono per gli opposti presupposti epistemologici utilizzati. Ciò nonostante, queste due prospettive interpretative non
sono alla fine alternative incompatibili nella spiegazione del processo neoplastico
in quanto esse si riferiscono in realtà a due diversi tipi di indeterminazione del
sistema in oggetto (cfr. Sezioni 9.4 e 10.4). Come vedremo anche dopo, questo mette le premesse per mostrare come i loro approcci metodologici possano
eventualmente convergere.
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CAPITOLO 14. CONCLUSIONE: IL PROCESSO NEOPLASTICO E LE
RAGIONI PER UN APPROCCIO INTEGRATIVO NELLA RICERCA
ONCOLOGICA
241
14.2.2.1
“How wonderful that we have met with a paradox”
A prima vista le due posizioni sopra brevemente descritte sembrerebbero
alternative tra di loro e la rivoluzione kuhniana cui facevamo riferimento sembrerebbe ridursi alle posizioni epistemologiche a cui esse si riferiscono. In realtà, un’analisi più approfondita delle premesse e delle metodologie di entrambi
spostano l’attenzione su altri elementi che risultano critici nella valutazione e
nell’apprezzamento del contributo che entrambe queste visioni hanno dato alla
storia della ricerca sul cancro. I sistemi di riferimento, infatti, non sono equiparabili e le proprietà studiate non sono le stesse. Le ontologie di riferimento non
sono alternative, ma una presentano una solidità ben diversa l’una dall’altra. È
questo il merito principale, a nostro parere, delle teorie sistemiche del cancro.
Oltre a mettere in evidenza da un punto di vista metodologico la priorità della
componente processuale, dell’aspetto dinamico nella sua duplice componente di
eterogeneità del fenotipo risultante, del significato biologico della stocasticità
nel processo e pertanto della necessità di individuare il corretto livello di analisi
della patologia prima di addentrarsi nei dettagli del come essa si dia, queste
rimandano ad una riflessione sulla natura del sistema di riferimento e al suo
significato biologico ed ontologico nella configurazione, e quindi spiegazione, del
fenomeno neoplastico. Forse inconsapevolmente, permettono di ricostruire mediante diverse nozioni di causalità che entrano in gioco, la priorità dell’identità
individuale biologica nelle dinamiche evolutive e fisio-patologiche, fornendo nuovi elementi per una migliore comprensione del concetto di funzione biologica e
di organismo vivente.
Siamo di fronte, da un punto di vista epistemologico, ad una rivoluzione come
quelle descritte da Kuhn [Kuhn 1970] e che più volte ha segnalato la letteratura
che fa riferimento alla prospettiva sistemica. Questo anche in relazione e per
analogia con la rivoluzione che si è data negli ultimi decenni relativa al dogma
della biologia molecolare per cui ad un gene corrisponde una proteina e che
vede il genoma come il depositario e motore di tutte le dinamiche dello sviluppo
dell’organismo vivente [Strohman 1997] (cfr. Sezione 8.1).
La posizione riduzionista, non cedette il passo alla possibilità di rivedere le
premesse epistemologiche del proprio lavoro, ma si ostinò ad integrare i modelli
già elaborati con un numero e tipi di variabili sempre maggiori. La domanda
su che cosa era il cancro si ridusse alla domanda su come si generava il cancro, rinunciando così ad una spiegazione del fenomeno in sé e accettando che
molte definizioni potessero essere ugualmente plausibili e compatibili per riferirsi a questa patologia. Il problema è che questo tipo di ricerca sembra aver
dimenticato o ignorato aspetti paradossali della carcinogenesi che non trovano
spiegazione all’interno del framework interpretativo riduzionista. Alcuni sono
già stati messi in evidenza all’interno del presente studio, per sinteticità facciamo qui riferimento a quelli riportati in un articolo di dibattito pubblicato
on-line, un paio di anni fa, relativo soprattutto a tumori epiteliali: la presenza di un ampio numero di lesioni precancerogene nelle fasi di promozione del
cancro, l’elevato numero di instabilità genetiche trovate nei polipi iperplastici
e non ancora diagnosticati come tumori, la regressione spontanea di alcuni di
questi, l’elevata incidenza di molti cancri in pazienti con xeroderma pigmentoso
ma non in pazienti con altri difetti comparabili nel sistema di riparo del DNA,
la mancanza di tumore quando cellule esposte a cancerogeni sono trapiantate
in uno stroma normale, ecc. [Baker e Kramer 2007]. Gli autori concludono con
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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242
14.3. RIDUZIONISMO E ANTIRIDUZIONISMO IN BIOLOGIA
una citazione di Niels Bohr che disse: "How wonderful that we have met with
a paradox. Now we have some hope of making progress." Ancora una volta si
riapre la sfida di capire cosa non funzioni veramente nel cancro. “Nothing out
of its place is good and nothing in its place is bad ”.
14.3
Riduzionismo e antiriduzionismo in biologia
L’analisi delle due prospettive dominanti era nata dalle condizioni che erano
state poste da alcuni autori [Ayala 1974, Rosenberg 2008] per realizzare una
riduzione di una branca scientifica ad un’altra [Nagel 1961, Ayala 1968]: la
derivabilità logica e la connettibilità. Abbiamo visto nella Parte III come la
prospettiva riduzionista rispetta e difende ad oltranza la prima, mentre quella sistemica, antiriduzionista, non finisce di trarre tutte le conseguenze, anche
logiche, dell’importante lavoro di revisione dei presupposti epistemologici che
compie. Abbiamo però anche discusso come entrambe si servano di un approccio riduzionista mentre cercano un’integrazione esplicativa sulla base degli
elementi che hanno a disposizione. Esiste cioè in entrambe una certa tendenza
antiriduzionista, su di una base metodologica, e quindi in parte anche epistemologica, che riduzionista rimane. Rosenberg discuterebbe questo osservando che
il vero problema sta nel capire di quale riduzionismo si può parlare oggi, quando
la biologia molecolare, in generale, ha preso il sopravvento sulla genetica.
Ci sembra però più opportuno e coerente guardare alla stessa questione dalla
parte opposta. Riduzionismo e antiriduzionismo, infatti, sembrano essere due
facce della stessa medaglia nella ricerca sperimentale biologica, il concavo e
il convesso di un fenomeno, ma è così solo in apparenza o vale solo per una
PSI (cfr. Sezione 11.2). Il riduzionismo epistemologico ed ontologico infatti
“perde” presto di vista l’oggetto stesso del suo studio per limitarsi all’analisi
della concomitanza degli eventi, alla spiegazione di come qualcosa fa qualcosa
(come il cancro prolifera, metastatizza, ecc.). La prospettiva sistemica, d’altro
canto, difendendo l’antiriduzionismo solo o principalmente a livello epistemico,
non si impossessa mai fino in fondo dell’oggetto dello studio, per cui ciò che
la caratterizza è “the distinction between explaining how something does what
it does and explaining what it does”, tipicamente condivisa da altri autori della
prospettiva sistemica (cfr. Sezione 8.2) [Duprè 1993, Pigliucci e Kaplan 2006].
Il presente studio apre la possibilità di una sintesi basata, non tanto sul tipo
di riduzionismo attuale, ma al contrario sui fondamenti di un antiriduzionismo
che sia scientificamente significativo e pertanto euristicamente utile in biologia.
Raccogliendo le istanze della Systems Biology, all’interno del paradigma neoplastico, la proposta è quella di guardare al fenomeno neoplastico come una
mancanza di pressione selettiva (cfr. Sezione 12.2), per cui la spiegazione data alla dis-organizzazione gerarchica (multiscala) del Sistema e alla perdita di
dipendenza delle parti trova il suo razionale in una comprensione diversa della
natura delle interazioni tra le parti appartenenti allo stesso livello e degli effetti
ai livelli di ordine più elevati (higher-order effects).
Come messo in evidenza da altri autori (cfr. Sezione 8.2), l’antiriduzionismo
non è solo un’affermazione negativa, è una tesi per cui a) ci sono generalizzazioni al livello della biologia funzionale b) queste generalizzazioni sono esplicative
c) non ci sono ulteriori generalizzazioni al di fuori della biologia funzionale che
spieghino le generalizzazioni della biologia funzionale o che spieghino più piena-
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 14. CONCLUSIONE: IL PROCESSO NEOPLASTICO E LE
RAGIONI PER UN APPROCCIO INTEGRATIVO NELLA RICERCA
ONCOLOGICA
243
mente ciò che le generalizzazioni della biologia funzionale spiega. Aggiungiamo
che le generalizzazioni funzionali hanno questo potenziale esplicativo per la loro
stretta dipendenza dall’individualità biologica cui appartengono e che in qualche modo le specificano. Ecco allora che esistono dei livelli di indeterminazione
reali nell’organismo vivente, che non consentono di predire né spiegare a priori
le proprietà emergenti. Le loro qualità, infatti, dipendono dall’ontologia dell’organismo cui appartengono e mediante cui esse si manifestano. La stocasticità
che caratterizza gli eventi biologici pertanto non può essere risolta o eliminata
attraverso la ricerca di un determinismo meccanicista nascosto, ma si presenta come manifestazione della specificità della complessità biologica: un ordine1
nell’indeterminazione per la priorità causale dell’organismo in quanto tale nel
suo processo di organizzazione funzionale.
Come discusso nel Cap. 11, la questione causale diventa allora centrale e un
ampliamento della nozione di causalità è necessaria per dar conto di una posizione antiriduzionista che possa utilizzare il concavo e il convesso dell’oggetto
in studio con la flessibilità tipica di chi “possiede” l’oggetto del proprio studio.
“Perhaps this rather obsessive attachment to empirical evidence in the biomedical sciences (which looks rather incongruous vis-a-vis the widespread acceptation of Darwin’s narrative), is a remainder of late positivism and its fear
of metaphysical entities” [Aranda 2002a]. Come per la fisica, dove è già stato
dimostrato come le teorie debbano gran parte del loro successo, in termini esplicativi e predittivi, all’utilizzo di diversi livelli di astrazione, passando da oggetti
a entità microscopiche, a particelle, a campi di forza e a funzioni di distribuzione
di probabilità, il successo della biologia è sempre più legato a costrutti teoretici
basati su requisiti ontologici che sono applicati de facto dagli scienziati quando
utilizzano concetti come quello di campo, plasticità, robustezza, ecc.
14.4
Un Approccio Integrativo
Popper scrive che a volte uno può pensare che la scienza non sia altro che
senso comune illuminato da un pensiero critico e immaginativo ma, aggiunge,
essa è di più: rappresenta il nostro desiderio di sapere, la nostra speranza di
emanciparsi dall’ignoranza e dalla ristrettezza di vedute, dalla paura e dalla
superstizione [Popper 1992]. La scelta pertanto di un modello e le proposte
sperimentali che ne derivano hanno un valore etico preciso. Non esiste un controllo sperimentale indipendente dall’interpretazione teorica, come non esiste
una teoria scientifica che non sia suscettibile di continui aggiustamenti e precisazioni ed eventuali generalizzazioni sulla base di nuove verifiche sperimentali.
L’integrazione dei principi teorici di riferimento con la pratica sperimentale e
l’osservazione del fenomeno ha guidato il lavoro di interi laboratori ed ospedali,
tanto rispetto al disegno degli esperimenti che all’interpretazione degli stessi,
come si evince dall’analisi dei diversi modelli interpretativi presentati. Ci sono
pertanto elementi dell’attività scientifica, dello studio della realtà mediante il
1A
ulteriore chiarimento anche del concetto di indeterminazione cui facevamo prima rife-
rimento, per ordine non intendiamo qui il contrario di disordine. Se il disordine rappresenta
una successione casuale di eventi, il suo contrario dovrebbe essere non casuale ed è quello
che emerge nella discussione delle implicazioni ontologiche della prospettiva riduzionista (cfr.
Sezione 11.1. e 13.2.). L'ordine qui è informazione che risponde a un obiettivo e la misura
dell'ordine è la misura di quanto l'informazione risponda all'obiettivo.
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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244
14.4. UN APPROCCIO INTEGRATIVO
metodo sperimentale, che non sono indifferenti rispetto alla domanda etica dell’agire scientifico stesso. Viene a pennello, in questo contesto, il noto aforisma
per cui “bad science, bad ethics”.
I riferimenti etici però per la scienza non riguardano solo i valori pragmatici
(di controllo o dominio finale di determinate dinamiche fisio-patologiche), ma
anche quelli epistemici (cfr. Cap. 13) che fanno riferimento alle modalità della
ricerca della verità in relazione ad un obiettivo e metodo concreto: l’individuazione di terapie sempre più efficaci sulla base di una comprensione sempre più
adeguata del fenomeno in oggetto. A fronte di una metodologia semplicista che
ammette l’esistenza di “dati puri” di esperienza che presumibilmente daranno
luogo per induzione a leggi generali, l’epistemologia contemporanea ha messo in
rilievo che le teorie scientifiche sono sempre elaborazioni nostre. Le costruiamo
mediante creatività e intuizione, per cui i procedimenti della scienza sperimentale sono sempre interpretativi: costruire quindi un linguaggio che permetta
di porre le domande alla natura in modo che questa possa rispondere mediante l’unico linguaggio che conosce, quello dei fatti. Per questo il riduzionismo,
quando assunto come posizione filosofica rispetto alla natura, soprattutto dei
fenomeni biologici e degli organismi viventi, non tarda a mettere in luce i suoi
limiti: la scienza infatti non può che basarsi e confrontarsi con le osservazioni
sperimentali. Il procedimento sperimentale necessita, cioè, di una certa dose
di adesione all’evidenza e all’osservazione dei fenomeni prima che alla scomposizione degli stessi. Quando un certo realismo epistemico non è difeso per
sostenere la razionalità del metodo, gran parte del lavoro può finire col mancare
di senso e sarà arbitrario [Leplin 1986] dando origine a paradossi e dicotomie
[Sporn 2006]. La scienza sperimentale ha senso innanzi tutto come ricerca della
verità, per questo MacIntyre afferma che essa, in quanto tale, ha un significato
etico [MacIntyre 1978].
L’evoluzione dei modelli interpretativi del cancro, in concreto, ha messo
in evidenza come la scelta delle giuste categorie epistemiche per lo studio di
un fenomeno abbia delle importanti ricadute nella comprensione dello stesso e
nell’impostazione di interi programmi di ricerca. Le premesse biologiche ed epistemologiche adottate in un determinato approccio sperimentale, infatti, sono
tutt’altro che indifferenti. Diversi presupposti filosofici ed epistemologici possono facilmente determinare degli spostamenti concettuali a seconda del contesto
in cui si pone la domanda su come si spiega il cancro, ma la storia della ricerca sembra proprio per questo metterci di fronte ad una scienza empirica che
è alla ricerca di una nuova razionalità per poter dare delle risposte veramente
soddisfacenti ed efficaci anche in termini terapeutici.
Dove possiamo identificare allora alcune delle nuove sfide attuali in oncologia? Quali elementi ci vengono forniti dallo studio dei modelli interpretativi
del cancro a supporto della razionalità e presumibile efficacia dei nuovi obiettivi
che ci si sta ponendo nell’ambito della pratica oncologica? Almeno da quanto
emerge dallo studio dell’evoluzione dei modelli eziopatogenetici del cancro, la
questione si pone ancora una volta come necessità di una nuova sintesi tra le
scienze della vita e la scienza etica intesa come razionalità pratica che, sulla base
di una conoscenza più adeguata de fenomeni fisio-patologici, riesce ad orientare
l’attività speculativa e pratica in vista di obiettivi realisti. “Understanding the
complexity of cancer is not only a matter of alternative theories, but requires
first and foremost, a methodological approach that reflects a new epistemological
view, in light of the fact that cancer is increasingly held to be a systems biology
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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CAPITOLO 14. CONCLUSIONE: IL PROCESSO NEOPLASTICO E LE
RAGIONI PER UN APPROCCIO INTEGRATIVO NELLA RICERCA
ONCOLOGICA
245
disease” [Rew 2000]. Abbiamo visto nel Cap. 13 come esista una retrogiustificazione della scienza, un consolidamento cioè dei presupposti epistemologici ed
ontologici o una smentita degli stessi, sulla base delle evidenze sperimentali e di
una loro (cor)retta interpretazione.
Il riconoscimento dei limiti del riduzionismo permette allora di auspicare un
pluralismo metodologico che, a sua volta, impedisce l’identificazione tra ontologia e metodologia. Il riduzionismo infatti, almeno come metodologia, ha portato
a importanti scoperte e continua ad essere necessario come tale all’interno del
metodo sperimentale; è invece la trasformazione delle raccomandazioni metodologiche in restrizioni ontologiche che è diventata il grave difetto del pensiero
scientifico moderno. Lo stile dominante della biomedicina contemporanea guarda alla vita come un insieme di meccanismi molecolari che si possono scomporre,
che possono essere isolati, manipolati, mediante nuove tecniche di intervento che
prescindono dalla (apparente) normatività di un ordine di vita naturale. Ciò
nonostante, le evidenze sperimentali e cliniche mettono in evidenza la necessità
di tenere in conto ed integrare diversi livelli di inter-relazionalità tipica degli organismi viventi (e quindi a maggior ragione dell’uomo): quello sociale, organico,
gerarchico di organo/tessuto, cellulare/subcellulare. Il fatto che nel passaggio
tra i vari ordini o livelli di fenomeni naturali non vengano messe in evidenza
contraddizioni di fondo non vuol dire che tra essi vi sia una necessaria identità
né che la spiegazione di tutto il reale vada cercata in un’unica equazione della fisica: vuol dire solo che vi è compatibilità tra i modelli che la descrivono.
Sembra che ora i tempi stiano maturando perché la riflessione sulla complessità
della natura in generale si confronti anche con la specificità dei fenomeni biologici degli organismi viventi. Attraverso un approccio globale e trasversale al
fenomeno, lo studio della cancerogenesi sta portando ad un cambio di paradigma
che riguarda più l’impostazione del problema che la scelta del modello assunto.
Un Approccio Integrativo è quindi necessario, per completare il lavoro di
organizzazione dei dati ormai a nostra disposizione, sulla base di una visione
sistemica, unitaria e relazionale allo stesso tempo del fenomeno in studio, dell’organismo vivente2 . Infatti, anche se l’oggetto in analisi è sempre lo stesso,
per comprenderlo c’è bisogno di analizzarlo da diversi punti di vista. Questo
richiede, a sua volta, la collaborazione di diverse discipline e una prospettiva di
lavoro più ampia e inclusiva affinché l’informazione sperimentale possa risultare
più utile. È una questione di lealtà della razionalità umana di fronte al reale.
Si tratta cioè di lasciar emergere una “filosofia dell’essere vivente” che lo interpreti nella sua luce propria, offrendo così alla biologia (e quindi, ad un livello
ontologico diverso ma ordinato e relazionato a questo, alle scienze umane) la
sua giustificazione razionale. La sfida ultima, dal punto di vista della scienza,
2 Le
anità di questa conclusione con il concetto di Integrative Pluralism proposto da
Sandra Mitchell nelle sue ultime pubblicazioni è evidente [Mitchell 2009].
Le due posizio-
ni coincidono nell'appellare ad un pluralist-realist approach to ontology, which suggests that
there are multiple correct ways to parse our world (ibidem, pg. 13) nonché nel desiderio di fornire delle categorie utili per superare l'incompletezza del tradizionale approccio epistemologico
riduzionista.
Tuttavia, il concetto di approccio integrativo appare in parte indipendente da quello di
integrative pluralism. Il presente studio, infatti, ha messo in luce non solo where it (traditional epistemology) fails (ibidem, pg. 12) ma anche alcune ragioni di perché esso fallisca.
Sta mettendo cioè in evidenza aspetti dell'ontologia dell'organismo vivente che richiedono un
tale approccio e danno ragione dell'inadeguatezza dei presupposti losoci che sottendono il
riduzionismo dominante.
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246
14.4. UN APPROCCIO INTEGRATIVO
è l’esistenza di una unità che emerge ed è condizione di un modo specifico di
essere (natura).
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Pubblicazioni citate nella tesi
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Hist. Phil. Life Sci., 31 (2009), 79-98
Towards an Integrated View of the Neoplastic
Phenomena in Cancer Research
Marta Bertolaso
Università Campus Bio-Medico di Roma
Istituto di Filosofia dell’Attività Scientifica e Tecnologica (FAST)
Via Alvaro del Portillo, 21, Roma, Italy.
Abstract – Cancer research has been at the forefront of biomedical activity in
recent decades, and advances in molecular biology have provided a growing amount of
information on the mechanisms involved in the etiopathogenesis of tumors. Nevertheless,
despite these advances, the complexity of cancer is more evident, especially as different
levels of phenomena are considered to explain the heterogeneity of the neoplastic process.
A synthetic analysis of advances in cancer research illustrates these changes. In attempting
to overcome the limits of epistemological reductionism, there is a move from a view of a
genetic basis for cancer to a more comprehensive perspective aiming to integrate a large
amount of information and to understand the neoplastic phenomenon at higher levels of
biological complexity through a new interpretative framework.
Keywords – Cancer research, complexity, reductionism, epistemology.
Introduction
The search for order through observation followed by the development
of theories in a framework that is both explanatory and predictive of the
natural world, has been an integral part of scientific activity. Over the
past 50 years, as a consequence of research in genetics, studies of the
structure of DNA and investigations of the mechanisms regulating the
genetic code, much of biological research has centered on the gene. As
such, genes have become key elements for control of development as
well as the major factors in both normal and pathological phenotypes of
organisms. This interpretation, also known as genetic determinism, has
led researchers to adopt reductionism as the primary epistemological
approach to biological problems. Thus, explanations are sought at
the lowest possible level of organization, as specific phenotypes are
considered to be completely determined by specific genotypes, since the
genome is the only repository of transmittable information (Dawkins
1976). However, in the post-genome sequencing era, organisms are
© 2009 Stazione Zoologica Anton Dohrn
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marta bertolaso
increasingly understood to be more than the sum of their individual
parts, genes, or proteins. Indeed, the emerging perspective is that the
“behavior of complex physiological processes cannot be understood
simply by knowing how the parts work in isolation’’ (Strange 2004). This
holistic and systems view of biological processes is in direct contrast to
reductionism, whose goal is the attempt to explain complex phenomena
by defining the functional properties of the individual components
(Bloom 2001; Bizzarri et al. 2008). And this latter methodology has been
efficacious in producing impressive data on the mechanisms involved
in biological processes. Nevertheless, such a perspective is limited in
dealing with complex biological systems: these explanations can be so
particularistic that little space remains for new perspectives and ideas.
For the past several decades, cancer research has reflected the
reductionistic approach of molecular biology and has been the focus of
numerous research projects, public information announcements, popular
and political debates, and financial resources. Studies in medicine, biology,
physics, and chemistry, as well as more recent additions from biomedical
engineering, philosophy, and sociology have attempted to respond both
to scientific and social concerns, often through interdisciplinary studies.
In spite of these efforts, cancer continues to be a major cause of death
in Western countries while its cause remains illusory. Therefore, its
biological complexity must be reconsidered. This paper will address this
by examining why cancer needs to be perceived as a complex disease
and thus why it must be reconsidered as a multi-level problem. Next,
it will focus on how different approaches have attempted to deal with
this emerging complexity. Finally, several considerations are offered to
understand the epistemological implication of these efforts better.
A First Phenomenological Approach to a Multiple and Multi-level
Problem
First described as an internal and generally incurable disease, cancer
(sometimes referred to as neoplastic disease) has been recognized since
ancient Greece, with tumors even found in Egyptian mummies. Identified
primarily by the morphology of neoplastic masses, it was not until the
twentieth century that it has been considered in genetic terms or as
having distinctive cellular components. Recent experimental studies have
clearly demonstrated that the varied and complex nature of the disease
will require even more attention. For example, there is a veritable host of
definitions for cancer, many of which are not compatible with each other.
This observation is all the more notable in light of scientific progress in
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Towards an Integrated View in Cancer Research
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cancer research, which has provided information for effective treatment
of the disease. Nevertheless, descriptions for cancer have become
increasingly complex and varied, in contrast to the goal of pathology to
provide more narrow explanations. Cancer is, in fact, more considered
“a heterogeneous disease often requiring a complexity of alterations to
drive a normal cell to a malignancy and ultimately to a metastatic state”
(Edelman et al. 2008). Different approaches and experimental evidence
have connected cancer to various components of biological systems
or to processes involved in growth and development. Thus, the view
of the last 50 years has changed from considering tumors as resulting
from dynamic changes in the genome that produce defects in regulatory
circuits that govern normal cell proliferation, to consider cancer as “a
disease of cell differentiation rather than multiplication” (Harris 2004).
A more holistic perspective of the disease has emerged, one that is “the
result of the disruption in the tissue’s architecture” (Sonnenschein and
Soto 1999) or a “systems biology disease” (Hornberg 2006) rather than
a genetic one; some interpretations even have a metaphysical nuance,
such as “a non-adaptive process and a formless phenomenon” (ArandaAnzaldo 2002). Physiologically, cancer has also been portrayed as “a
cell-autonomous process” intrinsic to the cancer cell that takes place
mainly at the genetic level (Hanahan and Weinberg 2000) or as “a noncell-autonomous process,” taking into account its intrinsic dependency
on cellular interactions (Soto and Sonnenschein 2004).
Moreover, cancer can be considered to embrace a vast array of diseases
that occur in metazoan. More than 100 distinct types of cancer and tumors
have been described within specific organs (Hanahan and Weinberg
2000) and dozens of genes have been linked to neoplastic initiation
and progression. Therefore, it is common to consider each cancer to be
unique, with no single therapeutic approach. Phenotypic diversity among
cancers can be expressed in terms of differences in cell proliferation
rates, differentiation, and metabolic pathways. Nevertheless, a primary
characteristic of cancer is the uncontrolled proliferation of cells, even
though it may occur at different rates with a large or small accumulation
of aberrant cells. From a clinical standpoint, the most important point is
that abnormal cells aggregate and then invade other tissues. Moreover,
common phenotypic characteristics have rarely been described in cancer
cells arising from different types of tumors. In contrast to phenotypic
morphological, biochemical, and immunochemical alterations that occur
in tumor cells, no new metabolic or specifically compromised pathway
has been described. The molecular components and their interactions are
unvaried, but the functional activity changes, due to internal and external
factors that eventually involve multiple DNA-damaging events, e.g.,
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marta bertolaso
mutations and alterations in gene expression through hypermethylation
of promoter sequences (Jones and Baylin 2004; Vogelstein and Kinzler
2004).
From an epidemiological perspective, cancer is considered a complex
disease of diverse etiologies due to exposure to carcinogens that can cause
damage to various genes, “geneN-environmentN interactions, for which
how many ‘n’ is not known” (De Vita et al. 2008, 206). On the one hand,
carcinogenesis is a multistage process, with numerous genetic events
corresponding to each stage. Thus, characterizing a specific risk factor
against a background of multiple risk factors is difficult and also limits
statistical power. On the other hand, the extensive individual variation
in response to carcinogenic exposures, indicates that the reactions are
not homogeneous. Therefore, experimental and epidemiological models
may not be representative of all subgroups within a given population.
Cancer can occur at any age and in its earliest stage as proliferating cells
accumulate, it is generally asymptomatic (Holland 2003). To complicate
matters further, nearly all the symptoms caused by cancer can also be
commonly associated with non-neoplastic diseases, such as diarrhea,
constipation, or mild pain. Cancers have been described as a chronic
disease state, maintained by active and passive mechanisms involving
immune suppressing networks (Greten et al. 2004; Condeelis 2006).
This is why cancer has also been described as “wounds that do not heal”
(De Vita 2008, Fig. 9.3). Finally, responses to therapy show a high degree
of inter-individual variability and may even depend on psychological
factors.
In addition to the high heterogeneity of phenotypic and clinical
manifestations, both the genesis and progression of cancer are related to a
large number of causes and mechanisms (Hanahan and Weinberg 2000).
It is known that cancer does not start with a fully invasive cancer cell.
Together with genetic changes, the disruption of epigenetic mechanisms
is now established as a hallmark of cancer in humans. Colorectal cancer,
long a model for the genetic basis of cancer, has given researchers the
opportunity to understand the epigenetic events in human neoplasia
(Wong and Hawkins 2007). Nonetheless, despite the sequential mutations
and well-defined steps predicted in some kinds of tumors (Kinzler and
Volgestein 1996), the nature and sequence of genes that are altered
during the progression of a tumor is largely unknown. This would imply
that underneath the apparent simplicity of cancer progression in the
best understood model, the pathways needed to overcome the normal
homeostatic constraints on cell division are indeed complex.
There is, however, another aspect that has emerged from experimental
research that suggests cancer is a biological phenomenon that has
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intriguing analogies with other complex biological systems (Kitano
2004). Experimental evidence is finding that robustness, increasingly
recognized as being a conserved organizing principle in biology, not only
maintains homeostasis in complex organisms, but the machinery that
maintains robustness may become hijacked to maintain the dysfunctional
state, such as occurs in tumor resistance to anticancer drugs. On the
other hand, cancer shares a unifying theme with the epigenetics of other
diseases, which is related to defects in phenotypic plasticity or the ability
of cells to change their behavior in response to environmental cues
(Feinberg 2008). At a microscopic level, tumors do not appear merely
as aggregates of malignant cells, but as “maladjusted living entities”
that recruit host stromal cells such as fibroblasts or endothelial cells,
with which they interact (Tarin 2006). The result is the formation of an
expanded and distorted but recognizable caricature of the histology of
the organ from which tumors are derived that invades normal tissue.
The interpretation that cancer is a “caricature of normal development
and tissue renewal” was originally based on descriptive studies of normal
and neoplastic tissues. The understanding that arose was that both are
sustained by a self-renewing population of stem cells that initially give
rise to undifferentiated and highly proliferative progeny (Dalerba et al.
2007). Eventually, derivatives of these proliferating cells cease growth
and become markers of differentiation characteristic of the organs
within which they reside. One major difference between normal tissues
and tumors is the malfunction of the differentiation process in tumors,
so that undifferentiated and mitotically-active cells accumulate. Recent
research activities in early stages of prostate cancer support this idea
(Marker 2008). It has been suggested that cancer cells may resemble
embryonic cells as they are sometimes less differentiated than their normal
counterparts: they divide rapidly, continuously, and express fewer of the
specialized characteristics of fully differentiated cells. Other important
differences between these two types of cells are becoming evident
from research on the effects of the same mutations during embryonic
and neoplastic differentiation (Biava 2002), leading one to believe that
tumor cells are somehow defective in differentiation and are unable to
respond correctly to cellular signals. Stem cells are thought to have a
key role in maintaining neoplastic growth, with an emerging consensus
that alterations in the cellular mechanisms, mainly epigenetic (Feinberg
2008), controlling adult stem cells may also contribute to tumorigenesis
(Vescovi et al. 2006).
From this multi-level perspective, as we learn more about the
molecular mechanisms that control cancer, the traditional divisions
among development, tumor, and aging biology are diminished. This
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discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
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marta bertolaso
creates opportunities for unified studies of the common pathways
and protein patterns. One such example is the WNT family, in which
its members are lipid-modified secreted glycoproteins implicated in
embryogenesis, adult-tissue homeostasis, and carcinogenesis (Katoh
2008). A unified theory of cell differentiation, aging, and cancer is in
fact relevant as all cells are hypothesized to originate from stem cells and
the same organizational patterns and functional pathways seem to be
involved in their differentiation.
As a result, embryological studies, together with research on
stem cells, have allowed a deeper understanding of the mechanisms
involved in the generation and assembly of tissues and organisms.
Regulatory mechanisms, such as epigenetic control of gene expression
and post-transcriptional regulation via microRNAs, also facilitate the
understanding of various aspects of normal stem cell biology, including
aging and tumorigenesis (Oakley and Zant 2007). The available data
regarding the role of stem cells in aging and diseases like cancer suggest
that the former takes place partly because stem cells grow old as a result
of a mechanism that is related to suppression of cancer over a lifetime;
hereditable intrinsic events, such as DNA damage or alterations in stem
cell supporting niches, can also contribute to aging in mammals (Sharpless
and DePinho 2007). The inability of stem cells to differentiate under local
environmental conditions seems to cause a cancer phenotype. Indeed,
the union of the biology of aging and the contribution of adult stem
cells (Rando 2006) has slowly revealed many secrets as to how a cancer
cell can achieve and maintain immortality. Thus, despite the outstanding
progress made in understanding the molecular biology of cancer cells,
‘‘the emerging complexity of the entire ‘cancer system’ overwhelms us,
leaving an enormous gap in our understanding and predictive power’’
(Hornberg et al. 2006).
The Path Towards an Integrated View of Cancer
When researchers first explored the molecular basis of cancer, they
proposed models to integrate experimental and clinical data. This
established an interpretive framework for biological systems that, while
demonstrating a specific connection, also highlighted the complexity
of these systems. Methodological reductionism, a key component of
experimental research, together with critical elaboration, are the major
tools used to create functional models of biological phenomenon.
Nevertheless, it is interesting to note how cancer models have progressively
moved away from a mechanistic interpretation of the disease, in which
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Towards an Integrated View in Cancer Research
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specific molecular causes are directly related to the tumor, in favor of
an assumption of system complexity. Not surprisingly, the traditional
views of cancer research during the recent past that considers a causal
relationship between cancer and germline or somatic mutations has been
challenged by new viewpoints focusing on the emerging characteristics
of cancer (Soto and Sonnenschein 2004; Moss 2003; Van Regenmortel
2004; Fumino et al. 2004; Jaffe 2003). To discuss these developments,
the salient aspects of the history of cancer research will follow.
The first etiopathological interpretation regarding cancer can be
attributed to Boveri in 1929, who hypothesized that genetic alterations
could be responsible for continuous clonal selection and for the cellular
heterogeneity of tumors. In the following decades, with the advent of
molecular biology and biotechnology, the idea that genetic mutations
were at the basis of cancer was reaffirmed. Indeed, throughout the 1970s
and 1980s, research on oncogenes dominated the field of cancer research
and the prevailing belief was that tumors were caused by activating
mutations (Somatic Mutation Theory). The fact that genetic mutations
were found in tumors had already been known much earlier, but that
these mutations could be responsible for the transformed phenotype
became apparent only after the discovery of oncogenes and tumor
suppressor genes. Thus, genetic approaches to cancer research were
focused on oncogenes; ras and src (Duesberg 1980) were among the first
to be identified by cloning technologies (Tabin et al. 1982; Reddy et al.
1982).
Taken together, experimental observations in human cancers and
animal models suggested that tumors developed through a process
analogous to Darwinian evolution (Genetic Clonal Model), in which
genetic changes conferred a selective advantage, such as proliferation
or growth. This in turn converted a normal phenotype to a neoplastic
phenotype (Nowell 1976). However, the simple realization that only
a single mutation in the ras gene gave rise to the mutated phenotype
prompted the discoverers to comment that “This result was even simpler
than we reductionists had dared to hope for” (Weinberg 1988). While
particularly satisfying for the prediction of mutations in gatekeeper
genes, which nonetheless appear necessary to trigger carcinogenesis, a
reductive model and genetic determinism have limitations that are quite
evident. In subsequent years, more than 100 different types of cancer have
been identified. With the recognition of multiple neoplastic subtypes
derived from the same organ, new questions have emerged about the
mechanisms and regulatory circuits needed to create a cancer cell and
about the role played by signals that cells receive from the surrounding
microenvironment.
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marta bertolaso
For a more adequate description of neoplastic mechanisms, many
laboratories did not discard other viewpoints on the origin of cancer,
but at the same time still considered the reductionistic vision as the
default mechanism. Research in more efficient methods of systemic and
mathematical organization of genetic and cellular factors continued. It
was assumed that the growing availability of genetic and biochemical
data on human cancer would permit the routine accessibility of gene
expression profiles in different tumor types. This would allow the
identification of a common set of genetic rules that govern cancer. Six
principal steps of neoplastic progression that play a key role in cellular
physiology have been identified (Hanahan and Weinberg 2000): selfsufficiency with respect to growth factors, insensitivity to factors that
inhibit growth, avoiding programmed cell death, the potential for
unlimited growth, angiogenesis, and invasion and metastasis. Moreover,
if genes continue to constitute the fundamental governing mechanism
for neoplastic genesis and progression, even hereditary cancers would
be easier to reveal and diagnose on the basis of the greater availability of
genetic and molecular data.
If the complexity of cancer could be compared to an electronic
circuit and if the available data permitted its description in terms of
parts and signals with precise definitions, then it would be interesting to
reconstruct an “integrated circuit of the cell” (Hanahan and Weinberg
2000; Hahn and Weinberg 2002). What emerges from this comparison
is the need to have a wider and more holistic vision of the regulatory
systems involved in cancer, since it requires more space to overcome
the epistemological and ontological reductionism that other types of
experimental data seem to require. The indisputable progress in cancer
research due to the experimental method (methodological reductionism)
and the discovery of principles that govern the physical, chemical, and
biological world appeared to encourage scientists and philosophers to
pursue a reductionistic approach. Nonetheless, there is now the need for
new interpretative models with a broader framework to direct research.
Recent progress in basic and clinical sciences has brought epigenetics
and stem cells to the forefront of cancer research. Together with genetic
changes, the disruption of epigenetic mechanisms is now an established
characteristic to understand human cancer. Epigenetic variations can
help to explain the late onset and progressive nature of many common
diseases, especially cancer, whereas the quantitative nature of complex
traits and the role of the environment in disease development may
not (Bjornsson et al. 2004). The best understood form of epigenetic
information is from DNA methylation, although chromatin modification
and genetic imprinting are other forms of epigenetic modification. All
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these mechanisms have provided new perspectives on cancer, especially
DNA methylation with its links to gene activation, gene silencing, and
chromosomal instability (Feinberg and Vogelstein 1983; Gama-Sosa et
al. 1983; Goelz et al. 1985).
This data constitute a premise for what is known as the Epigenetic
Progenitor Model of cancer (Feinberg et al. 2006). In many tumors,
according to the Somatic Mutation Theory, genetic aberrations are
common and epigenetic changes are ubiquitous, mimicking in many
cases genetic mutations. The fact that there are epigenetic changes which
confer stem cell properties and which appear in normal cells before the
appearance of tumor-related genetic changes, permits the assumption
that early epigenetic changes in stem cells can provide a unified link
for the development of cancer. That is, such changes appear to be
related to the risk of tumor progression and may also be associated with
tumor heterogeneity. This is accompanied by the genetic and epigenetic
plasticity of tumor cells, which can progressively acquire the properties
of stem cells. Some experimental data supports this viewpoint and, using
in vivo and in vitro examples, reprogramming events related to specific
combinations of oncogenes that direct the cell to change phenotypes
have been documented. Moreover, the reversibility of the ontogenetic
phenomenon in cellular progeny during tumor progression has also
been described (Rapp et al. 2008). Even microRNAs seem to play an
interesting, albeit lesser, role in epigenetic regulation and deregulation of
major regulatory pathways in both normal and transformed stem cells.
The emerging perspective is that cancer, even if it is a heterogeneous
group of pathologies or genetic disorders, has a common fundamental
basis in the polyclonal, epigenetic reprogramming of progenitor cells,
Cancer Stem Cells (CSC), mediated by tumor-progenitor genes. As
would be expected, there are signaling pathways associated with both
Normal Stem Cells (NSC) and CSCs, an experimental problem that is
being heavily investigated at present. A new framework of oncogenesis
(Lobo et al. 2007) is taking place, bringing attention to how epigenetic
events can play a key role in the differentiation of tumor cells starting
with stem cells, or partially differentiated cells, in a number of tissues.
Some examples of this are alterations in methylation of telomeres,
genetic imprinting, and changes in chromatin structure, all of which
are ubiquitous in cancer cells. In Wilms’ tumor, a causal role has been
attributed to epigenetic modifications in neoplastic progression where
a gatekeeper and certain types of imprinting and methylation are
altered (Ravenel et al. 2001). Epigenetic alterations also appear to be
associated with cancer, as has been shown in colorectal tumors (Cui et
al. 2003). Indeed, colorectal cancer, which has long-served as a model
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for the genetic basis of cancer, is now providing researchers with the
opportunity to view epigenetic events in human neoplasia and to study
the role of epigenetic changes in tumorigenesis (Wong et al. 2007).
Genetic mechanisms are clearly not the only path for genetic disruption
in cancer, and epigenetic changes seem to be a possible alternative to
mutations and chromosomal alterations.
Recent data in a stem cell model of cancer have shown that there is a
relationship between the incidence of cancer and environmental exposure
to carcinogens or to other risk factors such as age, familial predisposition,
and the presence of concomitant pathologies. The majority of tumors
contain a heterogeneous tumor cell population and thus cancer cannot
be considered as a simple clonal expansion of transformed cells, but
needs to be considered as a tissue with a complex three-dimensional
structure in which cells become functionally heterogeneous as a
consequence of differentiation. Tumors act as caricatures of their normal
tissues (Dalerba et al. 2007) and cancer stem cells seem to sustain their
growth through their pathological counterpart, normal adult stem cells.
The existence of cancer stem cells has led researchers to focus their
efforts on the identification of epigenetically compromised progenitor
stem cells. In this way, epigenetic changes provide a single mechanism
for understanding cancer.
Analogous considerations, but from an explicitly epistemological
viewpoint, have been expressed by authors who adopt emergent
properties1 of tissues as a starting position, in sharp contrast to the
reductionist program of Somatic Mutation Theory. This approach
challenges the ideas that cancer is derived from a single somatic cell that
has accumulated multiple DNA mutations, that the normal state of cell
proliferation in metazoans is quiescence, and that cancer is a disease of
cell proliferation caused by mutations in genes that control proliferation
and the cell cycle. These conclusions have been made by examination
of the same data gathered from within the reductionist viewpoint and
from the alternative perspective that considers carcinogenesis as a
developmental process gone awry (Soto et al. 2008). This unconventional
view has been termed the Tissue Organization Field Theory (TOFT), and
suggests that carcinogenesis is a process similar to normal histogenesis
and tissue repair, involving the three-dimensional organization of tissues
(Maffini et al. 2004; Maffini et al. 2002). Equally important to this novel
1 Term refers to the fact that as we move “up” along levels of complexity, we find that new, unpredictable
properties emerge Mayr (1982, 1-146); cfr. Soto and Sonnenschein 2005.
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approach has been the notion that proliferation is the normal state of all
cells (Sonnenschein and Soto 1999).
The position on which TOFT is based, which might be described
as holistic or organicist, is a good starting point from which to explore
emergent phenomena and to address carcinogenesis and metastasis in
a way that is comparable to how developmental biologists have studied
histogenesis and organogenesis (Sonnenschein and Soto 2005). This new
framework (Soto and Sonnenchein 2004) is a contrast to methodological
and philosophical reductionism, and has an orientation that claims the
genome is not a driver of development, but rather represents persistence
in terms of morphology, maintaining some properties while changing
others. Thus, the pathology of cancer is a phenomemon involving tissue,
not cells. It defines the organism as a social organization of cells and asserts
that cancer derives from the loss of inhibition, and that it represents
an organizational problem within a tissue. The debate that this theory
has sparked, especially due to its novelty (Soto and Sonnenchein 2004;
Sonnenchein and Soto 2000) represents a fundamental change among
molecular biologists.
The TOFT interpretation maintains that downward causation is a
presupposition that is more appropriate to explain causal mechanisms
when complex phenomena such as cancer are studied. In this regard,
the architecture of normal tissues acquires significant importance, since
mutations constitute an epiphenomenon that has a minimal relationship
to the actual causes of cancer. That carcinogenesis can be considered a
problem related to epigenetic factors or that new experimental evidence
points to the involvement of alternative mechanisms together with normal
histogenesis and tissue repair, does not distract these authors from their
overall vision. In discussing experimental data, the basic idea is that there
are morphogenetic fields that remain during the entire lifespan of the
organism which coordinate histogenesis and organogenesis and which
are responsible for the maintenance and regeneration of tissues (Maffini
et al. 2005). To say, therefore, that the proliferation of neoplastic cells is
strictly correlated with phenomena at the tissue level instead of a cellular
or subcellular level also is compatible with epigenetic mechanisms if one
considers that the basic state of proliferating cells is controlled precisely.
Nevertheless, from an epistemological point of view, TOFT is not
compatible with previous models of cancer, which are based within the
SMT interpretation (Sonnenschein and Soto 2006).
What is new about TOFT is the consideration that cancer cannot
be reduced to causal schemes within a reductionist framework and
which tends to ignore biological complexity at the tissue level where the
pathological events takes place. Proposing a more holistic vision, through
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the tissue model of neoplastic growth, a “top-down causality” needs to
be taken into account, although it has been excluded from previous
discussions due to its incompatibility with modern, reductionistic, and
experimental methods. The true potential of this theory is conceptual
and epistemological. “Organisms are clearly much more than the sum of
their parts, and the behavior of complex physiological processes cannot
be understood simply by knowing how the parts work in isolation’’
(Strange 2004). This is the perspective that is directing cancer research
in new directions.
Epistemological and Methodological Changes in Cancer Research
To be sure, there are ontological and epistemological motivations to
continue the reductionist program, especially given the difficulties
in coping with complex biological questions. Nevertheless, the
limitations of these approaches are also becoming increasingly
apparent, especially in terms of both the amount of information
available and from the tendency towards oversimplification
(Gallagher and Appenzeller 1999). But it is not solely a problem of
how to integrate all the available information to cope with biological
complexity (Bizzarri et al. 2008): it also requires novel ways to think
about networks where non-linearity becomes the rule of biological
processes and functions, not the exception.
At present, the scientific literature suggests that something
more than a new analytical framework has been introduced into
cancer research in the form of molecular biology and its associated
application of new technologies to biological systems. Together
with a preference for what may be called a more holistic approach,
new perspectives about living systems in terms of hierarchical
organization are emerging. Functional relationships also appear to
be key elements in explaining many processes. Development, aging,
signal transduction, and neoplastic transformation are the key areas
where such innovative thinking is evident. Additionally, these areas
of research clearly demonstrate why new theoretical concepts are
needed to address the complexity of biological phenomena.
Regardless of the eventual fate of these new perspectives, what
is evident is the need to transfer a large quantity of information
into useful knowledge and to reset our perception of complexity
in cancer. Its causal complexity raises questions about the multifactorial nature of the disease, while the multitude of molecular
and functional mechanisms involved in cancer’s development lead
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directly to the question of its actual identity. The heterogeneous
nature of cancer is evident at genotypic, epigenotypic and phenotypic
levels, as all tumor cells present in a single mass are characterized by
different morphologic and molecular features.
However, it is the multitude of factors involved in neoplastic genesis
and progression, the many levels of biological organization involved,
and the analogies that cancer has with other natural phenomena that
reveal its true complexity. This latter aspect permits theories such as
the TOFT to consider new approaches. As the same authors of the
new viewpoint assert, the many mutations involved, together with
epigenetic events and alterations in signal transduction pathways,
are not the critical elements for the neoplastic phenotype but are
only consequences or epiphenomena of it. The heuristic value of this
consideration from an experimental or clinical standpoint is clear in
publications that refer to cancer as the unfulfilled development of an
organ (Dalerba 2007; Tarin 2006). In other words, it seems plausible
that the complexity of cancer is not bound to its nature, but to the
fact that it is composed of the same functional mechanisms that
characterize a living organism and that respond to a complex logic
due to its unique structural organization. The appropriate level of
analysis must be found in order to understand the disease properly.
Moving from a reductionistic vision of cancer, the morphological
approach has encouraged different groups to investigate this
phenomenon using a new interpretative framework. As TOFT claims,
complex living organisms possess qualities that cannot be reduced to the
simple summation of quantities. Thinking about morphological aspects
is a prime example of the qualitative approach to biological systems.
Such a morphogenetic perspective has been continuously developed,
both theoretically and experimentally during the past century, despite
mainstream approaches that have been dominated by molecular biology.
As such, a return to a morphogenetic outlook to understand the complex
biological phenomena of cancer is needed (Aranda-Anzaldo 2002).
Interestingly, it is the overwhelming amount of data collected by classic
molecular biology that has underscored the need for a new perspective
(Strohman 1997). Understanding the complexity of cancer is not only
a matter of alternative theories, but requires first and foremost, a
methodological approach that reflects a new epistemological view, in light
of the fact that cancer is increasingly held to be a systems biology disease
(Rew 2000). In this respect, biological and mathematical models need
to be structured assuming that living processes and disease mechanisms
are governed by nonlinear oscillations of complex signaling networks,
operating either stochastically or on the edge of chaos. Mathematical
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and computational approaches can simulate known biologic systems
for hypothesis testing; high-throughput data sets are now available
(Phelps et al. 2002) to get a systems perspective, and molecular data
can be used to obtain a unifying system of analysis and prediction (Ge
et al. 2003; Khalil and Hill 2005). Changes in the level of explanation
are clearly beyond this new perspective, reflecting what is happening in
other fields of biomedical research in terms of both methodology and
strategy (Peltonen and McKusick 2001). The possibility to discover a
logical organization common to biological processes may allow for a
more detailed description of these processes through the formulation of
new concepts.
Therefore, what has emerged is the awareness that even if the object
under study is still the same, in order to be understood it needs to be
analyzed from several points of view. This requires an integration of
several disciplines and a wider and more comprehensive perspective,
so that experimental information can become more useful. Most
likely, whether or not one wants to recognize it, “the time has come
to replace the purely reductionist ‘eyes-down’ molecular perspective
with a new and genuinely holistic ‘eyes-up’ view of the living world, one
whose primary focus is on evolution, emergence, and biology’s innate
complexity” (Woese 2004). It follows that the structural and functional
sum of a system, including neoplastic tissue, cannot be understood in
terms of the properties of its constituent parts, but must be considered
in its entirety.
Conclusion
The second half of the last century was characterized by an exponential
growth of research which, following major discoveries in molecular
biology, the merits of the reductionist method were unquestionable.
What emerges, therefore, is not the rejection of such an approach, but
the realization that when the objective of molecular biology is reduced
to just genes and proteins a holistic vision is lost. Although reductionsm
continues to be the most typical approach in research, epistemological
considerations reveal it is not able to account for the complexity of
biological processes or to interpret the unity of functions at higher levels
of organization. Thus, biology must choose between the accepted and
traditional path of continuity, represented by the analysis of phenomena
in simple biochemical or physical terms, or a new and more stimulating
path characterized by analytical reduction and comprehensive
knowledge of living systems. On the basis of an integrated assumption
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about experimental science, this should permit the emergence of a
philosophy of living systems that is interpreted in its own light and offer
a rational explanation of biology itself (Mayr 2004). However, to reject
what has already been accomplished would be a serious error, since the
accomplishments of the reductionist model, however limited, help to
define new directions and new challenges. Thus, accepting the future
does not mean forgetting the past. As many researchers in system biology
believe that cancer research is at an intellectual crossroad (Longtin
2005b), it is worthwhile to consider different interpretative models for
the neoplastic phenomena.
The attempts to provide an answer to the problem of the unitary nature
of biological systems through systematic integration and modeling are
forcing biologists to reflect on their approaches. This is clear from the
novelty of holistic integration, as viewed by systems biologists, as a new
epistemological key to cancer research. Such integration can provide new
insights for current biological problems, even if on levels that are not the
same as when the problems were initially faced. There are those who find
it difficult to see beyond the biological and molecular dynamics under
scrutiny, and who are unable to view experimental data in an original
manner. Nevertheless, there are also those who, like Longtin, recognize
the merit of the new perspectives and who note difficulties of the scientific
community to accept changes in conceptual approaches (Longtin 2005a;
Soto and Sonnenschein 2006; Soto and Sonnenschein 2005). After all,
the problem is about a gestalt change in research behaviors and attitudes
more than a change of experimental technique. Hopefully, the openness
to this new type of scientific reasoning will continue.
What might be termed phenomenological observation, when
integrated with experimental verification, becomes a cognitive instrument
and a new avenue to deeper understanding. Biological observations at
various levels can build a type of phenomenology that is attuned to
the description of an understanding about the organism, which then
become useful foundations for consideration of ontological status. So,
is this the story of reductionism versus holism? No, since the history of
cancer research does not indicate there has been a game between rivals,
but a balance between intellectual fields when investigated according to
shared aims and purposes.
Acknowledgments
I thank Prof. Alfredo Marcos, Dr Bruno Vincenzi, Prof. Vito Michele
Fazio and Prof. Victor Adolfo Tambone for their helpful inputs and
discussions.
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Systems Biology Reveals Biology
of Systems
In the last decades, genomic and postgenomic technologies obtained a great amount
of information on molecular bases of cell physiology and organization. In spite of
this, the knowledge of cells and living organisms in their entirety, is far from being
achieved. In order to deal with biological complexity, Systems Biology uses a new
approach to overcome this inadequacy. Despite different definitions, Systems Biology’s view of biological phenomena highlights that a holistic perspective is needed to
integrate and understand the huge amount of empirical data which have been collected. This is one of the aspects that makes Systems Biology so interesting, from a
theoretical and epistemological point of view, and that renders it a useful tool to
help students approach living beings’ dynamics within a comprehensive framework
of their biological features as well. Ó 2010 Wiley Periodicals, Inc. Complexity 00:
000–000, 2010
Key Words: systems biology; biological complexity; systemic perspective; theory formation; scientific activity
INTRODUCTION
T
he paradoxical effect of all the very powerful molecular analysis methods
developed in the last decades is that they completely falsified the premises
they were based on while allowing to open a completely different perspective
to biological sciences. The so-called omics tools allowed, for the first time, to get
an highly parallel view of the biological systems at the molecular level in which
the expression level of thousands of genes (or the concentration of hundreds of
metabolites) was simultaneously known on the same biological specimen. These
highly dimensional views highlighted a picture completely different from what
expected by the molecular biology implicit paradigms [1]: biological phenomena
cannot be interpreted as sequential chains of activation/inactivation of specific
genes in a way similar to the instruction manual of our wash machine, on the
contrary, the genome (and so the metabolome and the proteome) were discovered
to act ‘‘as a whole’’ envisaging a still mysterious but fascinating ‘‘biological statistical mechanics,’’ so asking biologists to come back to the old physiological (the important is the process not the detailed structure) way of thinking. At odds with 19
century physiologists that had to deal with two or three variables at time, nowadays biologists are submerged by massive amounts of data.
A cross-disciplinary field, called Systems Biology, is growing to collect and use
the large amount of data produced by new methods for which an interdisciplinary
approach and training is also required [2]. In the last few years, universities and
institutions such as Harvard and Massachusetts Institute of Technology have cre-
Q 2010 Wiley Periodicals, Inc., Vol. 00, No. 0
DOI 10.1002/cplx.20353
Published online in Wiley Online Library
(wileyonlinelibrary.com)
MARTA BERTOLASO, 1
ALESSANDRO GIULIANI, 2
AND LAURA DE GARA 3
1
University Campus Bio-Medico di
Roma, Institute of Philosophy of the
Scientific and Technological Activity,
Rome, Italy; 2Environment and Health
Department, Istituto Superiore di Sanità, Rome, Italy; and 3Integrate Centre
of Research, University Campus BioMedico of Rome, Rome, Italy
(e-mail: [email protected])
C O M P L E X I T Y
1
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ated cross-disciplinary departments
devoted to Systems Biology. Around
the year 2000, Institutes of Systems
Biology were established in Seattle and
Tokyo as well. New scientific departments might represent a way to put together scientists having different backgrounds and to increase the interests
of the researcher’s potential carried out
in the department.
Systems Biology studies are posited
at three basic levels of definition. The
first one is a direct consequence of the
sudden increase of biomedical information following the mapping of human
genome. Vast genomic databases and
technical know-how used to design
detailed maps of genes and their transcripts have been created through the
huge work of molecular biology in the
last 50 years, determining a strong development of the genomic approach in
biomedical research especially in the
form of differential gene expression
studies (DNA microarray) giving rise to
the field of transcriptomics. Proteomics
is often considered the second step in
the study of biological systems. Its
focus on proteins with their post-transcriptional regulation processes identifies a complexity level not recognized
in the classical molecular biology
approach. Finally, the third level has
been determined by the study of the
metabolome, which represents the metabolic fingerprints of a certain biological system or process and can be considered a sort of ‘‘ultimate phenotype’’:
the representation of the system as a
chemical reactor.
Mathematical tools are required to
check how the proposed interactions
could generate new functions and
behavior in a biological system. It was
the case when acetaldehyde was proposed to be ‘‘responsible’’ for the synchronization of glycolytic oscillations
between individual yeast cells [3]. A
mathematical approach was needed
because the relations among molecules
are so complex that an immediate intuitive prediction is impossible and
2
C O M P L E X I T Y
because new systemic behaviors also
depend on the particular magnitude of
the parameter values [4].
Therefore, a challenge for Systems
Biology has been to integrate omics information to give a more complete picture of living organisms. It is worth
stressing the fact that for integration,
we do not intend the construction of
more and more complicated and
refined relation structures between the
system elements but the definition of
mesoscopic scale observables translating many different microscopic configurations of the system into the same
general behavior in analogy with statistical mechanic approaches [5]. This
point is of utmost importance given in
many cases (see, for example, Ref. [6])
the detailed knowledge of the relation
structure of a system is of no or little
help to predict its behavior.
Computational and bioinformatics
disciplines also contribute to allow the
study of gene–protein, protein–protein,
and metabolite–protein interactions
simultaneously, giving rise to a new
area in Systems Biology modeling,
known as interactomics. This technologically based perspective of Systems
Biology gives proof of existence of
many simple regulatory circuits that
have been demonstrated to be abundant in biological networks [7], so that
reconstruction of cellular networks and
their mechanistic explanations are at
the heart of Systems Biology, as conceived by most researchers. Creating
predictive model systems will generate
‘‘virtual cells’’ useful to discover subcellular mechanisms of regulation [8]
or to develop more effective drugs
without testing them on patients in
the first phases of their validation. Systems-based drug discoveries, for anticancer therapy, for example, allow to
discover the location of key elements
in the whole process and to observe
the global effect of this kind of perturbations through simulations [9].
However, the challenge will continue with the integration of this com-
plex and highly diverse information
into a conceptual framework: holistic,
quantitative, and predictive [10]. How
do entire signaling pathways feed into
dense 50 or 60 protein signaling networks with their complex cooperative
inputs, outputs, and parallel processing? How do these networks sense,
react, and keep our cells in working
order? It is even clearer that not genes,
nor proteins, nor metabolites but their
connections are the key points of main
questions addressed by biological science in the last century. Depending on
their hierarchical organization, clinical
and experimental evidences reveal the
complexity of important diseases and
biological systems [11]. Systems Biology might then provide a new outcome, which is not merely a more
refined picture, addressing a different
level of understanding. From this point
of view, Systems Biology can be considered a holistic approach, having the
aim to build dynamic models that can
simulate and predict physiological
behavior or pathology of a complex biological system, moving from empirical
data collected through the reductionist
approach carried on at the cellular and
subcellular levels. That is why, there
are those who also stated that Systems
Biology is not just a combined application of the aforementioned disciplines
to living systems, it has its own unique
foundations and methodology, enabling this science to emerge from other
disciplines. Its premise is that there is
something to be explained in living
systems’ properties that cannot be
understood by molecular biology
alone. ‘‘Reaching such understanding
will require a system biology that is
defined as the science that deciphers
how biological functions arise from
interactions between components of
living organism. It studies the gap
between molecules and life’’ [12].
Although a sort of contraposition
between a methodological and an epistemological approach is often evident,
a common feature is shared among
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Systems Biology’s perspectives that
highlight the need for rediscovering
the systemic dimension of biological
phenomena, not only from a methodological point of view but also from an
epistemological one. For both these
reasons, we suggest that also in the
educational field, Systems Biology is a
useful approach for underlying the
complexity of living organisms as well
as for exemplifying how the progress
in scientific knowledge periodically
leads to open new perspectives, which
are based on the previous discoveries
but which often require new interpretative paradigms.
SYSTEMS BIOLOGY COMING UP
The historical background of Systems
Biology seems to be quite instructive
as it shows how, from different disciplines, the biological problem leads to
the building of the same framework:
the system vision is revealed to be the
central tool to understand living
beings. Formal study of Systems Biology, as a distinct discipline, was
launched by systems theorist Mihajlo
Mesarovic in 1966 with an international symposium entitled ‘‘Systems
Theory and Biology.’ At that time, biochemists were thoroughly studying
enzymes and their kinetics, with the
aim of understanding the behavior of
biochemical pathways on this basis.
This can be considered as the first evidence of the need for an integrated
approach to biological processes. Metabolic control theory opened a door to
comprehend metabolism as a network,
which is more complex than the sum
of its parts. This helped to overcome
simplistic concepts, such as the ratelimiting step, and to examine the contribution of individual components to
the network performance.
The theorist who can be seen as a
precursor of Systems Biology is Ludwig
von Bertalanffy with his General Systems Theory. According to his theory,
the dynamics of any system can be
explained by showing the relations
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between its parts and the regularities
of their interactions. To fully understand this, it is necessary not only to
look at biological system as a unity
operating in its internal dynamics but
also to see it in its circumstances.
From this point of view, the manner in
which von Bertalanffy defines the ideas
of regulation and feedback in living
beings is quite interesting. From his
point of view, order is realized by a
dynamic interaction of different processes [13], overcoming the feedback
concept, which is mainly linked with
cybernetics and defined as a type of
circular action between the different
parts of a dynamic system [14].
Although mathematicians and physicists always paid attention to the biological world, their involvement in biological research remarkably increased
since Crick—fascinated by the structure and properties of the informational molecule of DNA–and Schrödinger—surprised with the apparent
inconsistency of life with the second
law of thermodynamics—launch themselves in a probable unpopular reflection about biological life and its specific features [15]. Moving away from
the biochemical area, Reinhart Heinrich always taught to search for the
principle behind observation, looking
for different perspectives, and connecting the abstraction with biological evidence, working on the forefront of System Biology. Besides many other
objectives, he developed theoretical
approaches for the description and
quantitative investigation of signaling
pathways [16] and developed a metabolic control theory, already in use
when this term was not yet coined
[17]. However, a holistic approach,
which would have taken into account
biological system as a whole, would
have to wait a few decades more.
Ahead of its time, in the studies on
living systems, Systems Biology has
been brought to the forefront with the
tour de force efforts of John Sulston
and colleagues who, in the late 1970s
and early 1980s, set out to determine
the entire cell lineage of C. elegans.
Work on the worm had the advantage
of looking for something ‘‘systematic’’
from the beginning, as exemplified by
the conscious choice of that worm as a
model [18]. This systematic modeling
approach would be the driving force of
many researches also in the field of
molecular biology throughout the
1980s, and it continues to be one of
the characteristic of Systems Biology’s
methodology. From then on, researchers adapted many concepts from systems theory to give rise to new interpretation of the experimental results.
Relation seems to be the key word that
successfully explains biological organization and behavior and concepts already common in biology, terms such
as dynamics and feedback loops acquire more relevance. One example of
the application of Systems Biology
approach for a rereading of results and
interpretation obtained by reductionist
approach is the work of Ideker et al.
on the galactose utilization (GAL)
pathway of Saccharomyces cerevisiae.
This pathway has been extensively
studied over 30 years by a reductionist
approach (one gene/protein at a time).
On the basis of the results obtained by
this approach, the relevance of galactose metabolism genes in this pathway
was predicted. By a Systems Biology
approach, which integrates data on
protein and RNA levels as well as protein–protein and protein–DNA interaction into a single model, agreements
and inconsistencies between RNA and
protein levels were identified. On the
basis of the obtained information,
Ideker et al. [19] were able to suggest
new hypothesis on the regulation of
GAL pathway, which was experimentally verified afterward.
This new interdisciplinary approach
adopts a different perspective with
respect to classical reductionistic one.
Instead of trying and dissecting a given
problem into its constituent atomisms
hoping to individuate the ‘‘crucial step’’
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Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
of the studied process, the challenge is
to take a frankly holistic approach in
which the solution comes out from the
clarification of the emergent properties
coming out from the interaction pattern, in what has been dubbed Systems
Biology. The idea emerging from Systems Biology, that the sum of the parts
generates a collective quality than none
of the constituent parts alone possess,
reveals the limits of the reductionistic
approach in understanding processes
that happen in a biological system and
their dynamical behavior in their entirety. Organisms are clearly much
more than the sum of their parts, and
the ‘‘behavior of complex physiological
processes cannot be understood simply
by knowing how the parts work in isolation’’ [20]. Genes determine the
amino acid sequence of encoded proteins that in turn perform specific
functions supporting cell physiology
and organism development. On the
other hand, gene products do not act
in isolation but in a complex network
whose interconnections are important
to specify phenotypes. Biological functions can only rarely be attributed to a
single molecule, and one phenotype
may result from several different molecular and epigenetic mechanisms,
while the same molecule may be
involved in different phenotypes.
Actually, even in the same organism, a
protein may have different functions in
different cells [21]; or signal pathway
effectors may induce various differentiation programs in different cell lineages [22]. Moreover, in multicellular
organisms, single cells do not have an
existence independent from the whole
organism, they are ontogenetically
linked. This means that the usual way
of thinking about organisms as made
up of cells that relinquished their independence is inaccurate or misguided. A
great number of biologists have been
insisting that explanations of life
should always be sought for gene or
gene product level, regardless of the
level of organization at which the phe-
4
C O M P L E X I T Y
nomenon of interest is observed. In
this view, genes are the only units of
selection [23] and development is just
the unfolding of a genetic program;
genes are the building units of the organism [24]. However, experimental
evidence has challenged these pronouncements:
molecular
biology’s
dogma failed as it was evident that
phenotype is not completely determined by genotype and that genetic
markers are not so exclusively responsible for hereditary diseases. The statement underlining that ‘‘the human
genome, like a good teacher raises at
least as many questions as it answers’’
[25] clearly illustrates the shortcomings
of this reductionism. In relation to the
postgenome sequencing era, reductionism has then been defined as ‘‘the
attempt to explain complex phenomena by defining the functional properties of the individual components’’ of a
system [26]. A good example to illustrate the need to integrate reductionistic approach with a systemic vision
comes from cancer research. Defined a
systems biology disease, understanding
cancer complexity does not seem a
matter of alternative theories but
requires, first and foremost, a ‘‘systemic’’ methodological approach [11].
The point is that complexity seems to
be not only a system’s feature but, possibly, the most evident characteristic of
any organism of life. That is why Systems Biology is not only a valuable
instrument for this challenge but it is a
challenge in itself from an intellectual
point of view. The statement is that
knowledge goes beyond information
and its organization into a framework;
it demands new concepts and vision of
biological phenomena.
WHAT DIFFERENCE WILL
SYSTEMS BIOLOGY MAKE IN
EDUCATIONAL TRAINING?
The capability of Systems Biology to
analyze complex data from multiple
experimental sources using interdisciplinary tools and to integrate them
depends on the use of technological
platforms and on the development of
high-throughput data collection technique. The use of these new platforms
was pivotal for gaining knowledge of
the status of cellular components at
any time, while complex programs
helped to determine how and when
molecules interact.
From this point of view, Systems
Biology provides a new general paradigm, able to take into account different levels of biological complexity.
High-throughput omics data sets are
generally semiquantitative and specific
to a particular experimental system.
Networks can integrate multidimensional data in a framework able to give
a self-consistent compendium of systemic data to foresee and preview
reactions and behavior of complex biological systems. Systems Biology’s synthesis allows the development of holistic approaches and provides a good
tool for a mathematical interpretation
and description of complex biological
problems [10]. A fine example of how
the coupling of empirical data with
mathematical analysis permits the
identification of previously unknown
signaling mechanisms comes from a
study on NF-kB signaling module,
where the importance of IkB isoforms
in feedback loops has been deciphered
[27].
From the data, new hypotheses
can be formulated and examined by
new experiments. Large sets of genome-wide data are collected, and
associations between the different
molecules are deduced. Systems Biology also aims to understand cell cycle
regulation, or other processes, in
organisms of different evolutionary
complexity, as well as pathological
versus physiological conditions by
interactively integrating experimental
and computational findings [28]. It is
a matter of fact that the discipline has
begun to piece together first level
detailed maps describing how cells
process various biochemical signals.
Q 2010 Wiley Periodicals, Inc.
DOI 10.1002/cplx
Tesi di dottorato in Bioetica, di Marta Bertolaso,
discussa presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma in data 17/02/2011.
La disseminazione e la riproduzione di questo documento sono consentite per scopi di didattica e ricerca,
a condizione che ne venga citata la fonte.
In the future, it could also push more
molecular-based disease treatments
closer to reality.
Interdisciplinary tools and personnel also define the new strategy of pursuing integration of the amount of
data obtained by various experimental
approaches. Systems Biology is able to
generate mathematical models to comprehensively describe and understand
biological systems, through the functional and evolutionary analysis of medium- to large-sized networks. It has
also been proposed that the network
paradigm in which microscopic level
elements are each other related by
functional links is a promising metaphor to try and develop a statistical
mechanics inspired approach for biological systems [5].
With the emergence of Systems
Biology, it may be possible to grasp
and understand some fundamental
laws that rule biological systems. Soon
or later the development of Systems
Biology will have a deep impact in the
rethinking of the basic principles of
physics, pushing basic science to
rethink many time honored simplifications (e.g., how the apparent violations
of second law of thermodynamics by
biological systems accommodates with
a sound definition of functional and
structural complexity of the studied
systems?). In studying the basic properties observed in different biological
systems, new concepts emerge that
have been already treated in an analytical perspective (robustness, noise,
degeneracy, bow tie architecture, etc.).
Recently, receptor tyrosine kinases
family and signaling networks they are
involved in, has been analyzed to
exemplify the systems perspective in
the context of information relay networks and their relevance to human
malignancies [29]. Once again, it is
worth noting that plenty of these new
concepts, like robustness, are intimately linked to biological complexity,
and that they rule many aspects of
functioning systems, sharing many
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characteristics, and intersecting each
other, often becoming one of the individual and part of the other.
Systems Biology, finally, seems to be
an open door to biology of systems
when it overcomes reductionism’s limits. Complex networks are probably
incomprehensible without some mathematical structure and Systems Biology
may be useful to clarify and to predict
some emergent properties at molecular
levels of biology systems [30]. However, the greatest challenge is not to
get caught up in a new reductionism
by reducing life to math but rather to
bring about a change: from an entirely
reductionist hypothesis-driven method
to a high-throughput data acquisition,
rigorous quantization, and mathematical modeling through a systemic perspective. We agree that the limitation
of Systems Biology is greatly tied to
data modeling but generalization and
simplification is something intrinsically
related with this methodology. What
are Systems Biology’s mathematical
and informational limits? It is what it
is: a mathematical and informational
tool. Nevertheless, in our opinion, the
idea beyond Systems Biology is rediscovering and highlighting an intellectual challenge: the need for integrating
the physical aspects of biological systems with a holistic view of them. Taking into account the whole has always
been a perspective of biology, Systems
Biology reveals biology of systems,
starting from and reaching to their
holistic aspect.
The examples above given, from different areas of biological studies, underline how this topic and methodology is
spreading out among different fields.
Besides the increasing interest in empirical research, the educational interest on
Systems Biology should also be supported by its epistemological implications. It is not solely a problem of how to
integrate all the information available as
much as to be able to manage the complexity; the systemic dimension, which
is why its data always need interpreta-
tion [31], will eventually help our students to develop critical and interpretative thoughts, generating new hypothesis
and moving research forward. While it
can be usefully complemented by reductionist approach, Systems Biology will be
an instrument that can provide new important outputs, taking into consideration the fact that to transform information into understanding is a rational
challenge not just a technical one.
This is particularly evident when
considering the actual crisis in the development of new pharmacologically
active compounds. In a recent paper
[33], the need for a general recasting of
the way we look at drug mechanisms
of action and the consequent change
in the research and development strategies are clearly outlined. For some
decades, the pharmacological research
was dominated by the search for a molecular determinant of a given disease
that could act as the attack point for
the therapy. This strategy reached the
postgenomic era under the heading of
‘‘druggable genome’’ making the
implicit hypothesis that high throughput technologies could give rise to an
unparalleled amount of possible drug
targets consequently enlarging the
spectrum of pharmacological intervention.
This kind of strategy did not fulfill
its promise. Overington et al. [32] performed a thorough statistical analysis
of the marketed drugs, discovering that
130
target
families
(functional
domains of a protein for which a relevant fraction of family members have
been successfully targeted by a drug in
the terminology of the authors) cover
all current marketed drugs. This number is in striking contrast to the estimated number of protein families and
folds (10,000 folds and more than
16,000 families). Moreover, the authors
estimate that the 76% of the 361 new
chemical entities approved by FDA
between 1989 and 2000 targeted a previously drugged domain and only 6%
targeted a previously undrugged do-
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main, while the remainder have either
unknown targets or are believed not to
have distinct molecular targets underlying their action. These data suggest
the repertoire of protein domains amenable to be targeted by drugs is only a
very limited fraction of the entire genome. The authors comment these
data pointing to the need of actively
exploring the ‘‘polypharmacology’’ way,
i.e., ‘‘dirty drugs’’ that allow for a relevant clinical effect by a combined
effect on a wide spectrum of different
targets. In Systems Biology terms, this
implies the need of a completely different view of how a macroscopic level
therapeutical effect can emerge from a
microscopic stimulus (drug) that only
in a minor part of the cases can be
traced back to linear causation chains
driven by ‘‘specific receptors.’’
Csermely et al. [33] suggest the
future of pharmacology is in the exploitation of the network pharmacology paradigm. The authors suggest a
shift of paradigm from the search for a
very efficient and specific binding to a
single molecular target to the develop-
ment of ‘‘weak binders’’ to multiple
edges of biological regulation networks. This is still a very theoretical
and hypothetical proposal that in any
case holds promises for a more realistic (and effective) approach to pharmacological research.
All in all we can state Systems Biology approach will not only change the
style of what a ‘‘biological explanation’’
is but will have a deep impact in terms
of therapeutical interventions.
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Ringraziamenti
Ringrazio innanzitutto il Prof. Alfredo Marcos, Relatore della tesi, per la
paziente supervisione del lavoro e per l’incoraggiamento che non mi ha mai
fatto mancare per esplorare temi e approcci nuovi nell’ambito della Filosofia
della Biologia; ringrazio inoltre la Prof.ssa Sylvie Menard per l’entusiasmo e
l’interesse con cui ha seguito la tesi e per le importanti conversazioni avute con
lei riguardo lo stato dell’arte della ricerca oncologica.
La mia gratitudine e riconoscimento inoltre va al Prof. V. Tambone, al Prof.
VM Fazio e al Prof. G. Tonini che spesso sono stati interlocutori importanti
nello svolgimento del lavoro. Non sono poi mancati imput e orientamenti da
altri Professori apparteneti ad altri Atenei in Italia e all’estero. Primi tra tutti
il Prof. Carlos Sonnenschein e la Prof.ssa AnnaMaria Soto, a cui si aggiungono
il Prof. R. Weinberg, Feinberg e Volgestein che pazientemente hanno risposto
alle mail di richiesta di informazione sul loro lavoro scientifico. Nell’area della
Filosofia della Biologia devo un particolare riconoscimento al Prof. J. Gayon e
alla Prof. S. Mitchell che, sebbene siano venuti a conoscenza di questo lavoro solo
nelle ultime settimane, stanno contribuendo alla revisione e approfondimento di
alcuni aspetti all’interno dell’attuale dibattito internazionale in Storia e Filosofia
della Biologia e della Scienza.
Ringrazio infine, ma non in ultimo luogo, la mia famiglia che mai mi ha fatto
mancare l’appoggio, sereno e pieno di un sano senso dell’umorismo, in questi
anni di lavoro.