Benedicta Froelich Cagnone

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Benedicta Froelich Cagnone
Premio Dialogare 2016
La giuria del Premio Dialogare1
ha proclamato vincitore il racconto
Caleb
Presentato da Benedicta Froelich Cagnone di Chiasso
La scelta della giuria è stata così motivata:
“La storia è ambientata in un istituto psichiatrico, alla fine degli anni quaranta. I tremendi metodi di
cura adottati in questo ospedale, che l’autrice ci illustra con competenza mediante una scrittura
elegante e soprattutto corretta, sono il frutto di una minuziosa ricerca e sono inseriti in una storia
originale. Il dubbio, tema del concorso, nel racconto non è di immediata intuizione, ma si svela con
una percezione approfondita alla fine del racconto, consegnandoci una bella prova di composizione
letteraria”.
Benedicta Froelich Cagnone, 34 anni, nata a Milano, è giornalista e scrittrice e vive
a Chiasso. Figlia di una coppia di poeti e scrittori, studi in storia e letteratura
anglosassone, un esordio da illustratrice, ha già vinto il premio Morselli per gli inediti
nel 2013 con una emotional biography di T. E. Lawrence.
Lei si è avvicinata alla scrittura già da tempo, che cosa l’affascina di questo
mestiere?
«Ho sempre avuto la passione per le storie, per l’attività di raccontare e scrivere
sempre molto legata a personaggi sia reali che inventati come espressione di un
mondo interiore, di una esplorazione della psiche, dell’inconscio. Inizialmente
raccontavo storie attraverso il disegno, poi la necessità di raccontare si è fatta più forte
e, alla fine, sono svicolata verso la scrittura per una mia esigenza profonda: alcune
storie sentivo di doverle raccontare tramite la parola piuttosto che tramite il disegno.
Così, negli anni, il discorso di raccontare si è fuso con la mia passione assoluta per la
storia anglosassone e ho iniziato a scrivere racconti autobiografici incentrati su
personaggi del passato realmente esistiti».
Nel suo racconto troviamo, invece, dei personaggi inventati, come mai?
«Dopo tanto tempo, in cui mi sono occupata di personaggi reali, ho deciso di
dedicarmi ad una serie di personaggi inventati sempre però con l’intenzione di
dipingere il ritratto di una realtà ben precisa. In questo caso si tratta di una realtà
dell’ambito psichiatrico dell’Inghilterra degli anni del XX secolo».
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Osvalda Varini, Luciana Bassi Caglio, Alda Bernasconi, Daniela Pizzagalli, Franca Tiberto e
Alessandro Zanoli.
Dietro il suo racconto c’è dunque un lavoro di ricerca?
«Sì, fatto in previsione di scrivere un romanzo su questo argomento. Si tratta di un mio
lavoro di ricerca personale sulle condizioni di vita negli istituti psichiatrici
anglosassoni - quindi sia inglesi che americani - del XX secolo. È un argomento che
mi interessa molto perché si tratta di una realtà troppo spesso dimenticata e messa un
po’ sotto il tappeto, soprattutto per quel che riguarda il mondo anglosassone che in
questo senso ha sperimentato molto. In certi casi i pazienti diventavano delle cavie».
In un certo senso è quel che succede anche a Caleb…
«Purtroppo, è triste dirlo, il mio racconto è molto realistico. Le cose, spesso e
volentieri, andavano proprio così come le descrivo, soprattutto per le persone che vi
capitavano per ragioni sbagliate come nel caso dei due personaggi del racconto:
Caleb, appunto, e Ada».
Caleb, il nome è una promessa e non sembra una scelta casuale o sbaglio?
«Caleb è un antico nome introdotto in America dai puritani nel XVII secolo. È un
nome biblico in verità, un nome con una certa forza. Essendo appassionata di storia
anglosassone volevo un nome che avesse una forte connotazione dal punto di vista
simbolico. Caleb è un personaggio che nel racconto rimane volutamente in ombra, è
una figura misteriosa, di una semplicità struggente e per molti aspetti totalmente
innocente, cosa che non si può dire degli altri che gli ruotano intorno: a parte Ada
tutto il contesto non è per niente innocente».
Caleb viene mandato nell’ istituto psichiatrico perché possiede delle strane
facoltà, come mai il suo destino si intreccia con quello di Ada?
«Caleb è una persona considerata eccentrica perché dichiara di avere delle facoltà, dei
poteri paranormali che gli permettono di vedere sia nel passato, che nel futuro. Il
racconto fa capire che ci deve essere qualcosa di vero in tutto questo perché è lui a far
scagionare Ada dall’accusa di aver tentato di uccidere il suo bambino. A quei tempi,
persone di questo tipo venivano molto facilmente spedite in istituzioni psichiatriche,
era un modo per liberarsi di membri della famiglia scomodi, in particolare le donne
che erano molto deboli da questo punto di vista dipendendo in tutto e per tutto dagli
uomini. Tra l’altro, agli inizi del Novecento, era molto facile entrare in una istituzione
psichiatrica ma molto difficile uscirne».
Alla fine però il racconto, nell’abbraccio tra la madre e il figlio, ci regala
un’immagine di speranza, perché?
«C’era il desiderio di trasmettere una sensazione di speranza perché grazie alla
persona sacrificata dal sistema, come spesso accade, le cose per l’altro personaggio si
risolvono. Scrivere storie è anche questo, dare speranza dove si pensa non ci possa
essere».
Il titolo del Premio Dialogare di quest’anno era “Dalla parte del dubbio”, lei ci
ha raccontato del progetto di un romanzo: come è riuscita a coniugare le due
cose?
«In sostanza avevo questi due personaggi nella mia testa ma da tempo non raccontavo
più di personaggi fittizi così ho deciso di cogliere l’occasione di un racconto breve,
come quello per il premio, per provare a muoverli, farli agire e interagire tra loro.
Effettivamente, anche una misura come il racconto breve ha funzionato bene poi,
naturalmente, quello che succederà nel romanzo sarà altro. Per ora è un progetto ma
c’è la volontà di portarlo a termine, il desiderio di scrivere qualcosa di più lungo a
riguardo degli ospedali psichiatrici tra gli ultimi anni dell’Ottocento e la fine del
Novecento».
Lei è ancora molto giovane ma ha già raccolto qualche riconoscimento e si
muove molto tra il Ticino e la Gran Bretagna. Riesce a vivere di sola scrittura?
«Vivo nella zona di Chiasso, vicino al confine ma appena posso vado in Inghilterra a
fare le mie ricerche storiche perché parte della mia vita e della mia attività culturale si
svolgono lì. Sono divisa tra due mondi. Vivere di scrittura? Sarebbe molto bello, il
sogno di tutti quelli che scrivono. Io faccio la giornalista, dunque ho la fortuna di
scrivere quotidianamente ma vivere di scrittura soltanto è impossibile salvo che non si
ha la fortuna di diventare dei bestselleristi».