Bruce Chatwin filosofo 20 febbraio 2011
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Bruce Chatwin filosofo 20 febbraio 2011
Corso di specializzazione in Filosofia Morale 20/02/2011 Appunti dalla lezione BRUCE CHATWIN FILOSOFO Bruce Chatwin è una delle personalità più ignorate del nostro tempo: i suoi libri vengono letti e pubblicati, ma le sue teorie, la sua visione antropologica e la sua trattazione del tema dell’irrequietezza vengono sostanzialmente ignorate. Nonostante nei suoi testi ci sia un preciso interesse verso domande filosoficamente impegnative Chatwin è poco conosciuto per l’indiscutibile valore del suo pensiero e delle sue prospettive: la sua fama è legata generalmente alla scrittura di libri di viaggio, ma i suoi racconti di viaggio celano un profondo valore filosofico. Ricostruendo il tessuto del pensiero di Chatwin troviamo i suoi testi ricchi di proposte teoriche, e anche le trame dei suoi libri sono piene di riflessioni di ordine filosofico. Nei suoi testi, insomma, c’è una chiara espressione di una filosofia della morale, di un’etica fortemente riconoscibile, chiaramente indicata come tale (come posso essere felice). Bruce Chatwin è stato un uomo particolarmente dotato da molti punti di vista: è stato un affabile narratore di storie, un grande affabulatore, caratterizzato da una grande facoltà di trasformare gli eventi in storie. Ha passato la seconda parte della sua vita in giro per le case dei suoi molti conoscenti, per trovare il posto più adatto per scrivere quello che aveva in mente di scrivere; per lui il luogo in cui scrivere non poteva essere neutrale rispetto alle cose che scriveva e di conseguenza assumeva una grande importanza. Prima di essersi scoperto grande affabulatore Chatwin era stato un impiegato presso Sotheby's, - la nota casa d’aste londinese - ma già da bambino era affascinato dai viaggiatori e dalle cose esotiche sulle quali amava fantasticare. Chatwin arriva alla scrittura in maniera accidentale, da grande catalogatore che era presso Sotheby's (era dotato di quella speciale caratteristica chiamata “l’occhio assoluto” perché aveva la capacità di capire in maniera immediata se un oggetto fosse autentico o falso) si accorse, venendo a contatto con grandi accumulatori di beni, della vanit{ dell’accumulo e della discutibilità delle loro soddisfazioni. A un certo punto, non reggendo più il peso di questo lavoro decide di cambiare completamente vita. La sua decisione di abbandonare il lavoro di catalogatore sta nel fatto di essersi reso conto che gli oggetti e il possesso hanno qualche cosa di malato e da quel momento, dedicandosi al giornalismo, ha iniziato a cercare quelle civiltà che hanno fatto a meno del possesso, ovvero i nomadi prima e gli aborigeni d’Australia, poi. Quando Chatwin ha tagliato i ponti con la sua vita da catalogatore non sapeva quello che sarebbe diventato. Con il suo primo grande viaggio in Patagonia si vuole spingere ai confini del mondo per trovare lo spazio puro e qui si imbatte nella scoperta dell’irrequietezza ovvero di quella vertiginosa pulsione al movimento che d’ora in poi – nel suo pensiero . sar{ tutt’uno con la libertà. Durante questo suo viaggio nello sterminato sud dell’Argentina incontra persone che divengono per lui figure dell’irrequietezza: così prova a raccontare le loro storie, scoprendosi scrittore. “In Patagonia” diventa il suo primo best seller e segnerà il suo futuro (scrittore di libri di viaggi). La sua fama sarà sempre equivoca perché tutto quello che scriverà da questo momento in poi verrà sempre considerato come un resoconto di viaggio. Ma quello che Chatwin scrive è molto più che un resoconto di un viaggio. Quello che viene narrato “In Patagonia” non è il resoconto del suo viaggio in Patagonia ma rappresenta la rielaborazione delle storie delle persone che vivono in Patagonia e che sono caratterizzate da condotte esistenziali riconducibili alla spinta dell’irrequietezza; la Patagonia semmai è lo sfondo sul quale vengono proiettati questi individui da lui incontrati realmente, ancorché trasfigurati in personaggi. Chatwin sfrutta la fama ottenuta con questo primo libro e prova a scrivere un’altra storia, “Il vicerè di Ouidah”, un racconto spiazzante ambientato in Benin, che non è in continuità con “In Patagonia” anche se i suoi lettori - e più ancora i critici - sembrano non accorgersi di nulla e non si fanno domande ulteriori (leggono solo la storia fine a se stessa). È il racconto barocco con un inizio folgorante: in un paesino africano sta morendo l’ultima figlia bianca di Francisco da Silva. Francisco da Silva è uno dei suoi personaggi meglio riusciti, è una delle figure dell’irrequietezza meglio caratterizzate; egli appare il paradigma dell’irrequieto, lui in Brasile avrebbe avuto tutto, un futuro senza problemi e quindi avrebbe potuto benissimo starsene lì, ma nonostante l’appagamento materiale non riesce ad essere felice. Quindi lascia tutto e si imbarca per l’Africa dove farà fortuna come commerciante di schiavi. Ciò che dovrebbe renderlo felice è tutto legato alla terra, al possesso, alla staticità del permanere (azienda agricola in Brasile), alla stanzialità. Lui avrebbe tutto ma non ne vuole sapere di rimanere lì, scappa pur avendo tutto ciò che molte persone potrebbero considerare desiderabile. Scappa in Africa ma lì torna ad essere stanziale e quindi è di nuovo infelice anche se è nuovamente un uomo di successo. Francisco da Silva, se si riesce a leggere il testo in trasparenza, è infelice per il fatto di avere investito tutta la vita su qualcosa che non può dare la felicità. Per accorgersi di questo bisogna però leggere il romanzo come un testo filosofico, entro cui il piano della narrazione non esaurisce il senso del libro. Questo libro, nonostante le buone vendite, non ha grande successo. In seguito Chatwin si mette a scrivere quella che, a mio parere, è una delle storie più belle della narrativa del ’900: si tratta di “Sulla collina nera”. Questo testo che, ancora una volta, racconta una storia dotata di una sorta di doppio fondo che spesso non viene visto. Attraverso la superficie del racconto Chatwin evoca anche una dimensione diversa. È la storia di due gemelli, contadini gallesi, che passano tutta la vita in un regime quasi monacale: tutta la loro vita è giocata negli stessi spazi, nella fattoria, non a caso chiamata La Visione. A livello della narrazione, sostanzialmente, in tutto il romanzo non succede quasi niente e il tempo pare scorrere in un moto perfettamente circolare. C’è un solo “cammeo” che appare come un fulmine in questa storia: una sorta di hippy pianta la propria una tenda vicino alla fattoria dei gemelli e parla del possesso in termini inequivocabili. La vita stanziale non dà la felicità, il dominio della terra si trasforma in prigione. In seguito Chatwin parte per l’Australia dove incontra gli aborigeni e incontra quello che ha sempre cercato, ovvero la cultura nomade intesa come orizzonte antropologico in grado di prescindere radicalmente dal possesso. Per ben undici anni cerca di dare una forma compiuta a un nuovo libro ma non riesce a concluderlo, forse perché è empaticamente troppo vicino ai contenuti, ma quando si accorge di avere ancora poco tempo da vivere decide di pubblicarlo così com’è. “Le vie dei canti” che per una parte è un romanzo, poi si trasforma in un dialogo e infine si conclude in forma di appunti, ha immediato successo, questo forse perché in trasparenza, in questo racconto relativo agli aborigeni australiani, qualcuno inizia a vedere affacciarsi una prospettiva antropologica inaudita e interessante. Consapevole della sua malattia (AIDS), nell’ultima parte della sua vita scrive uno dei suoi più bei libri, “Utz”, il suo ultimo racconto, terminato poco prima di morire. Utz, collezionista praghese di porcellane di Meissen, è il collezionista per eccellenza, è il collezionista infelice, eterno infelice perché investe tutta la vita su un possesso che non gli offre felicità e forse l’unica sua soddisfazione sarà stata, alla fine, quella di distruggere la sua collezione affinché alla sua morte non finisse nelle mani del governo ceco, cui era stata promessa. La fine, la distruzione, della sua collezione non è esplicitata nel libro: essa – alla morte di Utz semplicemente non esiste più. Dietro a questa storia, come in una filigrana, Chatwin riesce ancora una volta a tenere insieme tutte le sue intuizioni. Utz è il collezionista che passa la sua vita in una dimensione di eterna irrequietezza, così come Francisco da Silva. È la figura del collezionista eternamente infelice: a Praga non è felice perché gli mancano i pezzi della sua seconda collezione, ma neppure in Svizzera, dove si trova la sua seconda collezione in una cassetta di sicurezza, è felice perché non sa cosa fare dei pezzi nuovi che compra. Utz dunque investe tutta la sua vita sul possesso ma questa forma di dominio non gli da mai la felicità; l’unico momento in cui appare la gioia nella sua vita è un momento legato al gesto dissacratore: sposa la governante e distrugge la collezione. Questa è ben di più di una storia: Chatwin sta infatti dando corpo a degli archetipi esistenziali, cosa che non ha smesso di fare dal primo giorno in cui ha scritto, e Kaspar Utz, a mio avviso, è forse quello meglio riuscito. Il pensiero di Bruce Chatwin Chatwin pensava che il possesso non fosse in grado di dare la felicità. Chatwin ci spiega che nella storia evolutiva umana, i nostri antenati sono nati camminatori, l’uomo è venuto alla luce per essere libero (non aveva né possesso né domicilio) e felice per le vie del mondo. L’uomo libero per Bruce Chatwin non deve avere eccessiva pulsione al possesso, perché quanto più si insedia, tanto più deve custodire il proprio insediamento, tanto più investe su questo insediamento, tanto più raddoppia la propria dipendenza dal possesso (il padrone delle cose diventa schiavo delle cose ed è costretto a stare lì). Chatwin racconta che, a un certo momento della storia evolutiva umana, l’uomo è diventato agricoltore, dunque ha smesso di essere “nomade”. La parola nomade non identifica – nel pensiero di Chatwin - il vagabondo di matrice europea ma qualifica una sorta di alternativa ancestrale, quasi preistorica che l’uomo ha avuto e della quale si è poi scordato. L’uomo a un certo punto della sua vita si è insediato, ha costruito la città e a causa della sua scelta stanziale è nata l’infelicit{, così l’alternativa nomade è l’alternativa di chi ha investito sulla libertà e non sul possesso. La categoria del nomade per Chatwin non identifica l’uomo che gira intorno alla città arrabattandosi quanto invece colui che non ha investito sul possesso, è colui che ha scelto un’alternativa esistenzialmente libera e non si è trasformato in schiavo degli oggetti. Il nucleo fondamentale del pensiero chatwiniano risiede nella profonda convinzione che il possesso non dia la felicità e che gli uomini si raccontino erroneamente che il guadagno sia una necessità imprescindibile, ma non è così. Allora bisognerebbe che gli uomini provassero un’alternativa, e lui questa alternativa l’ha trovata nei nomadi, soprattutto in quelli australiani. La cultura aborigena prescinde infatti da quell’ambito concettuale a cui noi diamo il nome di proprietà: il nomade aborigeno australiano non la concepisce, non capisce il possesso e quindi semplicemente non possiede. Per lui l’unico possesso è rappresentato dalla via del canto. Chatwin cerca di spiegare che cos’è la via del canto, cosa davvero difficile. Gli aborigeni concepiscono la proprietà come la loro storia, ovvero un canto che racconti da dove vengono e dove vanno, dove possono decidere di andare. Il loro canto è la loro storia, ma anche canto in senso letterale, cioè epopea degli antenati che ognuno di loro si porta dietro e che racconta ogni volta che desidera andare a trovarli. Gli aborigeni australiani al posto di dire io possiedo, dicono io sono la mia storia, il mio canto, mi porto sulle spalle tutto ciò che sono senza però possedere niente. Il canto aborigeno è – così - una forma di melodia-racconto che può essere cantato da un clan camminando sui sentieri che attraversano l’Australia: durante questo cammino il canto descrive il territorio; dunque mentre l’aborigeno cammina sta seguendo la sua via del canto, quindi racconta la sua storia e racconta anche la storia di quello che vede così come la storia dei suoi antenati. Il canto aborigeno è una lunga carta d’identit{ perché dice chi sono e da dove vengo. L’unica cosa che possiedo è il passato che sono e che racconto. La parola possesso non esiste dunque perché è un limite, è chiusura, mentre il canto è, per sua natura, apertura. I rapporti parentali sono definiti dagli aborigeni attraverso l’incrocio dei sentieri lungo le vie dei canti. Chatwin nel corso della sua vita ha provato a suggerire come il nomadismo delle origini avesse molto da insegnare all’uomo contemporaneo perché l’alternativa nomade è ciò che, a suo avviso, garantisce la felicità. La risposta etica di Chatwin ad una delle domande più antiche dell’uomo, ovvero come posso essere felice, è dunque di non investire nella sfera del possesso. Ma non bisogna fraintendere, l’alternativa nomade di Chatwin non è un’alternativa francescana che ci dice di liberarci di tutti i nostri averi, di buttare tutto dalla finestra. Chatwin non ha ambizioni monacali, non ha una visone primitivista dell’economia, lui dice semplicemente che l’uomo che investe sul possesso è esposto all’infelicit{, l’uomo tanto più possiede, tanto meno è felice perché con il possesso l’uomo baratta la sua libert{, la libertà di camminare e di scegliere, con un destino di comodità ma di servitù. Camminare significa essere in posizione centrale rispetto alla propria vita, essere cioè nelle condizioni di potersi riprendere in mano il proprio destino; significa non essere abbarbicato a dei possessi che costringano alla sorveglianza per tutta la vita. Possedere troppo significa non possedere nulla perché non si conosce la felicità. Nomade non significa dunque depresso economicamente, ma significa leggero, sprezzante nei confronti di tutte le forme di dipendenza: quindi l’alternativa nomade è praticabile da tutti, non solo da chi abbia una innata tendenza alla santità. In Chatwin l’estetica è una aspetto derivato, accessorio, del suo pensiero; Chatwin esprime un’estetica molto più del vuoto che del pieno: quanto più l’ambiente è sgombro e libero tanto meglio sarà. Quanto più l’uomo si lega al possesso, come fa l’agricoltore con il suo campo, tanto meno camminer{ perché il suo raggio d’azione si accorcia, l’ambito della sua vita si restringe, dallo spazio infinito diventa di pochi metri ed è costretto a stare lì: la proprietà restringe l’ambito d’azione dell’uomo. Chatwin dice che tanto più possiedi e sei dipendente dei tuoi beni tanto più perdi la tua libertà, perché libertà significa io posso. L’uomo è felice se è libero e non potrà mai essere felice se dipende dalla selva degli oggetti che possiede (ecco perché Utz si libera della sua collezione, finalmente ha capito la causa della sua infelicità, ha capito che la vita vera è la vita libera, il resto è rappresentazione). Bisogna capire che gli averi devono poter essere funzionali alla felicità e per essere felice devo essere in grado di prescinderne. Chatwin è contrario al possesso che si celebra nell’attaccamento dell’uomo alla cosa. L’uomo non deve barattare la libert{ con l’oggetto. Se il possesso costa la libert{ non vale la pena averlo. Quante persone per inseguire il denaro perdono la libertà. Possiamo considerare Bruce Chatwin come un filosofo, anche se non è considerato tale, perché ci sono tutti gli elementi per ravvisare in lui l’autentica fiamma della ricerca, la vocazione a vederci chiaro, a trovare la chiave dei nostri problemi più antichi. Lui, che scrive romanzi, menziona ed evoca filosofi ovunque, nel fitto delle sue trame, ma soprattutto nelle sue lettere. Ultimamente, in Inghilterra, è stata pubblicata una raccolta delle sue lettere dal titolo “Under the sun”. Nella lettera che scrive da Patmos il 28/09/1983 alla moglie, Chatwin chiarisce come i modelli teorici di riferimento per Le Vie dei Canti siano l’Apologia di Socrate e il Simposio di Platone. Quindi la stessa modalità espositiva dialogica – con il suo esplicito riferimento alla stella doppia Socrate-Platone - allude al bisogno di comunicare in una veste chiaramente riconducibile alla tradizione del pensiero occidentale. Nella stessa lettera – che quando si desideri comprendere il rapporto fra in nostro autore e la filosofia diviene dunque una testimonianza cruciale – egli si spinge a definire Le Vie dei Canti come “a complete hybrid between fiction and philosophy.” Un ibrido tra finzione e filosofia. Nessuno, forse, vuole prendere sul serio Chatwin perché è un pensatore rivoluzionario, perché va a colpire il cuore dei valori d’Occidente.
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