questioni processuali nell`ambito dei giudizi di separazione e divorzio
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questioni processuali nell`ambito dei giudizi di separazione e divorzio
LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO L e questioni di natura processuale inerenti la separazione e il divorzio trovano, come è noto, soluzioni differenti da parte dei giudici di merito, ed è auspicata da tutti una modifica legislativa che, uniformando la procedura dei giudizi di separazione e divorzio, e nel rispetto del diritto alla difesa e del principio del contraddittorio, consenta una maggiore tutela dei diritti dei cittadini. La discussione del gruppo di lavoro si è quindi incentrata su molteplici questioni processuali, relative sia ai giudizi contenziosi che consensuali, e sul ruolo del P.M., partendo dalle relazioni introduttive della Dott.ssa Isabella Mariani, giudice del Tribunale di Firenze, e del Dott. Fabio QUESTIONI PROCESSUALI NELL’AMBITO DEI GIUDIZI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ENRICO BET* Roia, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con l’intento di individuare le prassi maggioritarie, e da condividere. Si riportano le conclusioni cui è pervenuto il gruppo di lavoro, riassunte in sede plenaria nel dicembre 2003 dalla Dott.ssa Franca Mangano, giudice del Tribunale di Roma. L’AVVIO DEL PROCEDIMENTO E LA NATURA CONTENZIOSA O PRECONTENZIOSA DELL’UDIENZA PRESIDENZIALE a discussione tra i partecipanti al gruppo ha fatto emergere una prassi ampiamente maggioritaria secondo la quale tanto nel procedimento di separazione che nel procedimento di divorzio, la costituzione dell’attore deve ritenersi perfezionata con il deposito del ricorso. Pertanto: a) il contenuto del ricorso introduttivo in ambedue i giudizi è disciplinato dall’art. 4, comma 2 della L. 898/1970, sicché alla ‘mera esposizione di fatti sui quali la domanda è fondata’ richiesta dall’art. 706 c.p.c. si sostituisce la L 74 AIAF RIVISTA 3/2004 più dettagliata pretesa enunciata dall’art. 4, commi 2 e 4, cit; b) il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore munito di procura; c) il deposito del ricorso perfeziona la costituzione dell’attore, senza nessuna altro onere per quest’ultimo, fermo restando la disposizione dell’art. 706 c.p.c., il cui mancato rispetto comporta la perdita di efficacia della domanda, comunque ritualmente proposta; d) la fissazione di un termine ex art. 163 bis c.p.c. (ridotto della metà) tra la data di notificazione del ricorso e del decreto e l’udienza presidenziale si ritiene pacificamente applicabile al procedimento di separazione. Non si dubita generalmente che tale ricostruzione, peraltro in linea con la giurisprudenza di legittimità (Cass., 24.6.1995 n. 3095; Cass., 8.9.1992 n. 10921), sia uniformemente riferibile alla separazione e al divorzio e che essa realizzi il miglior grado di compatibilità con la disciplina ordinaria del giudizio di cognizione vigente. Tuttavia, da parte di alcuni viene espresso il timore che questa anticipazione imposta all’attore pregiudichi le possibilità conciliative della lite, e che, pertanto, debba ritenersi preferibile una persistente vigenza dell’art. 706 c.p.c. nei giudizi di separazione, con la possibilità di integrare il ricorso, proponendo la richiesta di addebito con le memorie davanti al giudice istruttore. All’opposto si registrano posizioni più rigorose che, in ordine all’ammissibilità della domanda di addebito, richiedono una indicazione quantomeno generica dei fatti sui quali essa si fonda, salva una prassi sufficientemente uniforme che consente che i fatti indicati a fondamento della richiesta di addebito possano usufruire di una più compiuta esposizione entro i termini dell’art. 183 c.p.c. e della completa articolazione dei mezzi istruttori entro i termini dell’art. 184 c.p.c.. LE DOMANDE CUMULABILI ALLA DOMANDA DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO remesso che il ricorso deve essere rispettoso dei contenuti imposti dall’art. 4 comma 2 della L. 898/1970, e che le domande proponibili sono strettamente connesse alle pronunce consequenziali indicate dagli artt. 155 e 156 cod. civ. per la separazione e 5 e 6 della L. 898/1970, non sono generalmente ritenute cumulabili né la domanda di divisione della comunione né quella di restituzione di beni. L’inammissibilità del cumulo di tali domande si fonda, nel giudizio di separazione, sull’art. 191 cod. civ. e sul mancato perfezionarsi del presupposto necessario allo scioglimento della comunione e, nel giudizio di divorzio, sulla diversità P SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO dei riti cui sono soggette, rispettivamente, la domanda di scioglimento del vincolo matrimoniale e la domanda di divisione della comunione. IL MOMENTO DI INIZIO DEL GIUDIZIO oerentemente con la comune indicazione circa la costituzione dell’attore, esiste una sostanziale convergenza nell’individuazione del momento di inizio del giudizio in coincidenza con il deposito del ricorso. Tanto premesso si conviene che: - il processo deve essere iscritto a ruolo con il deposito del ricorso e non solo dopo il passaggio davanti all’istruttore; - al deposito del ricorso si ricollegano gli effetti giuridici della domanda (competenza, litispendenza, ecc.). Questa ricostruzione è coerente con una concezione unitaria del giudizio di separazione e di divorzio, assistito dalle garanzie giurisdizionali sin dalla fase presidenziale. A partire da questi punti fondamentali, la ricostruzione del giudizio svolta dalla prassi secondo un disegno sostanzialmente unitario si divide in una serie di variabili già individuate dal questionario ANM, rispetto alle quali il lavoro di gruppo ha operato una riduzione a categorie fondamentali di riferimento, limitandosi ad individuarne ragioni teoriche e pratiche e distinguendo tra gli obiettivi perseguiti e quelli raggiunti. C LA NOTIFICA DEI PROVVEDIMENTI PRESIDENZIALI AI SENSI DELL’ART. 709 C.P.C. a tacita abrogazione, per effetto della disciplina del divorzio, della necessaria notifica dell’ordinanza presidenziale contenente i provvedimenti provvisori e la data dell’udienza davanti all’istruttore, nel caso di mancata comparizione del convenuto all’udienza presidenziale (art. 709 c.p.c.) non costituisce una acquisizione totalmente condivisa, pur risultando una prassi applicativa sicuramente maggioritaria e permangono, pertanto, realtà giudiziarie nelle quali il giudizio di separazione si atteggia in forme non completamente uniformi al giudizio di divorzio. L LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO mpiamente maggioritaria è risultata la posizione che riferisce il termine di costituzione del convenuto alla fase del giudizio svolta davanti al giudice istruttore, con una prassi allineata alle indicazioni recenti della Cassazione (Cass., 27.12.2002 n.10914). L’interpretazione opposta che dalla tacita abrogazione dell’art. 709 c.p.c. e dalla conseguente unitarietà del giudizio fa derivare una piena equiparazione dell’udienza presidenziale all’udienza ex A art. 180 c.p.c., benché ritenuta da molti partecipanti al gruppo come dotata di intima coerenza e sistematicità, viene respinta per diverse ragioni. Ragionando con estrema sintesi: a) dal punto di vista pratico si reputa che la forzata costituzione del convenuto prima dell’udienza presidenziale mortifichi le possibilità conciliative della lite, b) dal punto di vista teorico-normativo, anche alla luce di alcune recenti pronunce della Cassazione (n. 10780/96; 1332/00; 2064/00; 11751/01; 10914/02), si ritiene che b1), sebbene il procedimento di separazione sia nel suo complesso di natura contenziosa (cfr. Corte Cost. nn. 151/71 e 201/71) tuttavia sia netta la sua articolazione in due fasi, delle quali la prima, quella presidenziale, non sia intesa quale prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c. ma sia caratterizzata dalla sua specifica funzione, che è quella diretta all’emanazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, con la conseguenza, ad es., che i termini di decadenza per la formulazione delle domande riconvenzionali andrebbero riferiti alla prima udienza dinanzi al G. I.; inoltre si giudica incompatibile con gli adempimenti dell’art. 180 c.p.c. e, segnatamente con la dichiarazione di contumacia del convenuto non comparso, la facoltà di questa stessa parte di partecipare all’udienza presidenziale senza ministero di difensore, secondo il disposto dell’art. 707, primo comma c.p.c., pur dopo gli interventi della Corte Costituzionale. Le variabili rilevate all’interno di queste opzioni possono ricondursi fondamentalmente a due orientamenti: a) per l’uno la costituzione del convenuto e la tempestiva proposizione delle domande di addebito e di assegno divorzile deve avvenire entro 10 giorni, per l’abbreviazione dei termini, prima dell’udienza davanti al giudice istruttore, b) per l’altro, invece, le medesime preclusioni non operano sino all’udienza medesima. Le ragioni di questa differenziazione poggiano essenzialmente sulla controversa efficacia dell’avvertimento dell’art. 163 n.7 c.p.c. e sulle diverse opzioni concrete che si affidano al decreto di fissazione dell’udienza presidenziale o alla ‘diligenza creativa’ del giudice istruttore per inserire l’avvertimento in questione. In buona sostanza, Cass. 7.2.2000 n. 1332, che ha giudicato manifestamente inammissibile il dubbio di legittimità costituzionale relativo alla omessa previsione nella descrizione del ricorso recante la domanda di divorzio dell’avviso di cui all’art. 163 n. 7 c.p.c., non sembra aver tranquillizzato i 75 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO giudici di merito. Né il contrasto pare acquietato dalle importanti affermazioni contenute nella sentenza in parola circa la non coessenzialità della previsione di termini di decadenza con l’indicazione di un avviso espresso nell’atto introduttivo del giudizio e circa la correlazione dei termini stessi direttamente alla legge, analogamente a quanto avviene per il rito speciale del lavoro. A ben vedere, tuttavia, questa diversa individuazione del momento rilevante per il perfezionamento degli effetti preclusivi stabiliti dalla legge, benché gravida di effetti pregiudizievoli, riconosce come comuni le opzioni interpretative di fondo. Infatti viene condivisa: a) l’opinione secondo cui il rispetto del principio del contraddittorio non esige che la tempestiva costituzione delle parti si ricolleghi al medesimo momento processuale, b) la valutazione, addirittura opposta, secondo cui la posizione del convenuto, stretto tra i tempi ridotti di notifica del ricorso e del decreto e il termine anticipato a comparire, risulterebbe ingiustificatamente compressa nelle sue legittime facoltà di difesa, viceversa ampiamente soddisfatte dalla possibilità del convenuto di operare una scelta processuale circa i tempi di costituzione, c) l’affermazione secondo cui il convenuto, una volta compiuta la scelta processuale di costituirsi all’udienza presidenziale, ossia anticipatamente rispetto allo spirare dei termini imposti dalla legge alla sua costituzione, consuma la sua costituzione facendo maturare tutte le preclusioni, d) la piena assimilazione della fase del giudizio davanti al giudice istruttore alla sequenza procedimentale propria del giudizio di cognizione ordinario (183, 184 c.p.c.), cosicché anche se la tesi che consente la costituzione del convenuto fino all’udienza davanti all’istruttore può apparire meno rigorosa, tuttavia non opera una sistematica destrutturazione del giudizio di divorzio, distinguendone soltanto la fase davanti al Presidente dalla fase davanti al giudice istruttore ma applica tutte le decadenze riferite alle diverse scansioni del giudizio ordinario. LA RICHIESTA DI MODIFICA DEI PROVVEDIMENTI PRESIDENZIALI i ritiene pressoché uniformemente che l’art. 708 ultimo comma c.p.c., il quale subordina, nel giudizio di separazione, la modifica dei provvedimenti provvisori al verificarsi di “mutamenti nelle circostanze”, sia stato abrogato a seguito della L. 74/1987, la quale all’art. 23 prevede l’ap- S 76 AIAF RIVISTA 3/2004 plicazione ai giudizi di separazione, in quanto compatibili, delle regole di cui all’art. 4 L. 898/70, tra le quali rientra la previsione secondo cui “l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del c.p.c.”. Ne consegue un regime di revocabilità dei provvedimenti presidenziali secondo le regole generali relative alle ordinanze, anche per i procedimenti di separazione, a prescindere dalla sopravvenienza di mutamenti della situazione fattuale esistente al momento della pronuncia. La prassi denota una persistenza del presupposto dell’assenza di circostanze nuove essenzialmente nelle motivazioni dei provvedimenti di rigetto. Viceversa, le richieste di modifica sono accolte: a) per circostanze sopravvenute, b) per una diversa valutazione dei fatti preesistenti, c) per l’allegazione di fatti o elementi di prova non prospettati al Presidente, d) per errori evidenti di valutazione in cui si sia incorsi al momento dell’emissione dei provvedimenti provvisori, e) per il progressivo adattamento dei provvedimenti provvisori alle esigenze della famiglia in crisi. Si registra una generale aspirazione alla stabilità dei provvedimenti provvisori, che si ritiene debba essere perseguita: a) attraverso la via ordinamentale legata all’identità del presidente e del giudice istruttore, b) attraverso la via procedimentale che incrementi l’autorevolezza dei provvedimenti provvisori. A tale proposito si insiste da parte dei sostenitori del rito ambrosiano sull’importanza della costituzione del convenuto previamente rispetto alla udienza presidenziale. Tuttavia anche i sostenitori dell’interpretazione opposta consentono che le udienze presidenziali si svolgano con ampi tempi istruttori consentendo rinvii e acquisizione di atti istruttori (Ctu e relazione dei servizi sociali). In ogni caso, una più compiuta motivazione dei provvedimenti provvisori sembrerebbe assicurare più garanzie circa la stessa modificabilità dei provvedimenti stessi. SULLA RECLAMABILITÀ DEI PROVVEDIMENTI PROVVISORI n orientamento condiviso esclude la reclamabilità dei provvedimenti provvisori, perché: a) dal punto di vista pratico il regime di revocabilità degli stessi provvedimenti modulato sull’art. 177 c.p.c. e non sull’art. 708, ult. comma c.p.c. non rende indispensabile questo rimedio, il quale, viceversa, si tradurrebbe in un U SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ingiustificato rallentamento dei tempi processuali di definizione del giudizio, b) dal punto di vista teorico normativo soprattutto il disposto dell’art. 189 disp. att. cod. civ. rende inapplicabile il regime cautelare uniforme ai provvedimenti provvisori, per loro stessa natura inidonei a refluire in alcuna sentenza senza perdere d’efficacia. SULL’AMMISSIBILITÀ DELLA PROCEDURA EX ART. 700 C.P.C. ltrettanto maggioritaria la posizione secondo cui il ricorso ex art. 700 c.p.c. non dovrebbe considerarsi ammissibile, essendo già i procedimenti in questione caratterizzati da speditezza e dalla adozione di provvedimenti che anticipano la decisione finale. Sono ben presenti le ragioni di economia processuale ostative all’ammissibilità del 700 c.p.c., ossia: a) i presupposti per l’esperibilità della procedura sono costituiti dalla gravità e irreparabilità del danno; tali presupposti concernono più che altro le necessità della prole, tematiche che sono già oggetto di provvedimenti provvisori, la cui modificabilità svuota di fatto di significato il ricorso alla procedura ex art. 700 cpc, b) il provvedimento ex art. 700 cpc richiesto a tali fini, pertanto, potrebbe non portare a significativi risultati, perché ricadrebbe comunque sotto la disciplina delle revocabilità o modificabilità dei provvedimenti adottati nell’ambito di tale procedura da parte del G.I., c) il rischio più rilevante è che tale procedura crea un “doppio binario”, sia come attività istruttoria, sia come possibilità di proporre reclamo, in questo caso con un effetto “devolutivo” al collegio, che crea diversi problemi, dall’appesantimento delle procedure alla sovrapposizione di decisioni. Va segnalata, tuttavia, una prassi che spesso utilizza il ricorso ex art. 700 cpc quando l’udienza istruttoria è lontana; meglio sarebbe, pertanto, chiedere l’anticipazione dell’udienza adducendo gravi e urgenti motivi. Una proposta tendenzialmente unificatrice che si ispira ad una linea sistematica di riordino dell’utilizzo di questo strumento propone la possibilità di esperire la procedura ex. art. 700 cpc in relazione ad oggetti estranei alle tematiche tipiche dei procedimenti in questione (restituzione beni personali, ecc.). Tuttavia suscita qualche perplessità, in relazione al difetto di strumentalità di tali pronunce rispetto alla decisione definitiva e al regime di inammissibilità del cumulo con la domanda di separazione o di divorzio di domande a contenuto prettamente patrimoniale diverse A da quelle tipiche. LA SENTENZA PARZIALE (NELLA SEPARAZIONE E NEL DIVORZIO) n conformità alla pronuncia della Suprema Corte, si ritiene applicabile anche alla sentenza di separazione la norma divorzile secondo cui, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il Tribunale emette sentenza non definitiva sullo scioglimento o sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio. La prassi rileva, tuttavia, che le sentenze non definitive di separazione sono ancora poco frequenti in tutte le sedi, in contrasto con l’orientamento della Cassazione e della dottrina, secondo cui la pronuncia in questione non necessita di istanza di parte in quanto la pronuncia non avviene d’ufficio, ma solo ad istanza di parte. Alcuni giudici richiedono la domanda di entrambe le parti (l’opinione sembra, tuttavia, contrastare con la ratio legis sottesa all’istituto), e non ritengono possibile emettere sentenza parziale in un giudizio contumaciale. I IL MOMENTO DELLA RIMESSIONE DELLA CAUSA AL COLLEGIO on vi è accordo sul momento di remissione della causa al collegio. Analogamente a quanto rilevato dal questionario: a) una parte dei Tribunali ammettono la rimessione della causa al Collegio anche nella prima udienza davanti all’istruttore, b) altri consentono la rimessione all’udienza ex art. 183 c.p.c., c) altri ancora dopo la compiuta articolazione dei mezzi istruttori. Il fondamento teorico-normativo di tali diverse posizioni si ricava: a) dalla ratio della norma che intende favorire il più possibile il formarsi in tempi brevi del giudicato sulla pronuncia di divorzio (e di separazione), b) il rilievo che fino alla scadenza dei termini per la proposizione di eccezioni non rilevabili d’ufficio, il resistente potrebbe proporre l’eccezione di riconciliazione, che impedirebbe la pronuncia in questione (verrebbe meno la presunzione di cui all’art. 3, lett b, L. div., e l’onere della prova della mancata interruzione della separazione ricadrebbe sul ricorrente), c) l’applicazione dei principi generali (artt. 187 e 189 cpc) secondo cui le parti devono precisare interamente le conclusioni di merito (e, quindi, non solo sullo status), e, pertanto, avere la possibilità di dedurre prove (ma alcuni richiedono la conclusione anche nel merito anche prima di aver avuto la possibilità di articolare N 77 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO compiutamente le prove) unitamente alla considerazione che la norma speciale dell’art. 4, comma 9, laddove dispone che la sentenza parziale può essere pronunciata “quando il giudizio deve proseguire” riconosce un potere di valutazione al giudice circa la utilità della sentenza parziale che esige la completa definizione dell’oggetto del giudizio. Tutte le diverse posizioni rilevate circa il momento della rimessione della causa al Collegio adducono il principio di economia processuale: a) perché l’utilità deflattiva e acceleratoria della sentenza parziale è coerente con una adozione quanto più anticipata del relativo provvedimento Si rileva, infatti, per esperienza comune, che spesso la pronuncia della sentenza non definitiva sullo status accelera la definizione dell’intera controversia in quanto le parti, deciso lo status, sembrano psicologicamente più predisposte a raggiungere una soluzione, anche consensuale, sulle altre questioni; in particolare, la rinuncia concorde delle parti ai termini per il deposito delle comparse (prassi comune) comporta l’emissione in tempi brevi della sentenza che decide sullo status, e, di conseguenza, la definizione dell’intero giudizio non subisce ritardi rilevanti; b) perché corrisponde alla finalità di economia di giudizi posticipare la rimessione all’udienza di trattazione, quando, scaduti i termini di cui all’art. 180 cpc, e precisato, anche in esito al tentativo di conciliazione, il thema decidendum, può essere possibile una definizione consensuale della lite o, comunque, la decisione dell’intera controversia, qualora non si debbano assumere mezzi di prova; c) perché si evitano inutili duplicazioni di giudizi nel caso di domande accessorie inammissibili o del tutto sfornite di prova o provate allo stato delle produzioni documentali. Partendo da queste prassi diversificate e approfondendo le ragioni delle contrapposizioni, il gruppo ha tentato di elaborare una prassi condivisa che, seppure non rispondendo a criteri di sistematicità, tuttavia si propone di corrispondere all’aspirazione di uniformità attraverso una applicazione delle disposizioni processuali in questione calibrata sul caso concreto e adeguata all’iniziativa processuale delle parti. Pertanto si distingue: a) il caso in cui i coniugi, concordemente facciano richiesta di una sentenza parziale sul vincolo, nel quale può disporsi la rimessione al Collegio sin dall’udienza ex art. 180 sulle conclusioni delle parti limitate allo scioglimento del vincolo; b) il caso in cui l’istanza di sentenza parziale sia 78 AIAF RIVISTA 3/2004 proposto da un solo coniuge con l’opposizione dell’altro, nel quale la rimessione al collegio non può disporsi prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., con la completa definizione del thema decidendum e dei mezzi istruttori, la cui richiesta dovrà essere reiterata con la precisazione delle conclusioni estesa anche alle pronunce accessorie alla domanda di scioglimento del vincolo. L’OGGETTO DELLA PRONUNCIA nche a tale proposito si registrano prassi difformi. Il giudice pronuncia su tutte le questioni sollevate o solo sullo status, rimettendo la causa sul ruolo per l’ulteriore istruttoria. Coloro (la minoranza) che ritengono compatibile la disciplina speciale dell’art. 4, L. div., con quella generale sulla sentenza parziale di cui agli artt. 277 e 279, 2° co., cpc, ammettono che il giudice, oltre a pronunciarsi sullo status, si pronunci su tutti i punti che è in grado di decidere (e non, quindi, su tutte le domande), rimettendo la causa sul ruolo per l’ulteriori istruttoria sulle domande residue. A SOVRAPPOSIZIONE DEI GIUDIZI DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO n ipotesi di pendenza del giudizio di separazione sulle questioni diverse dallo status (addebito, assetto economico, affidamento figli) e di contemporanea pendenza del giudizio di divorzio, si profilano le seguenti soluzioni: a) riunione dei giudizi; b) pronuncia di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del vincolo, definizione delle questioni concernenti i figli, il loro mantenimento, la casa coniugale e sospensione del giudizio per la definizione della questione dell’assegno divorzile fino alla definizione della domanda di addebito, ritenuta pregiudiziale rispetto alla decisione sull’assegno divorzile; c) pronuncia della cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione. Non esistono sul punto ancora prassi consolidate dei singoli uffici, essendo poco frequenti le pronunce di sentenza non definitiva di separazione. Tutte le soluzioni individuate comportano problemi di difficile soluzione, ma, dopo ampia discussione, la maggior parte dei partecipanti concorda nel ritenere preferibile la soluzione sub b), estendendola a tutte le pronunce accessorie alla sentenza di divorzio (e non solo l’addebito), anche se questa soluzione prevede una sospensione non giustificata da una pregiudizialità tecnica in senso stretto di tutte le questioni e anche se la sospensione del giudizio di divorzio potrebbe allungare i tempi della decisione definitiva. La I SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO preferenza per questa soluzione è motivata anche per esclusione. Infatti, per la soluzione a) si obietta la mancanza di un rapporto di connessione tra il giudizio sulle domande consequenziali alla separazione e il giudizio sulle domande consequenziali al divorzio. Per la soluzione c) si oppone l’irragionevole sacrificio del diritto della parte ad avere un doppio grado di giurisdizione sulle domande accessorie alla pronuncia di separazione. DIVORZIO A DOMANDA CONGIUNTA lavori del gruppo hanno evidenziato una consistente (anche se non totale) propensione per il principio di necessaria assistenza tecnica anche nei procedimenti di divorzio proposti con domanda congiunta. Questa linea si fonda: a) sulla considerazione, di carattere giuridico, che si tratta di un giudizio relativo allo status personale che si conclude con sentenza suscettibile di impugnazione ed al quale deve, quindi, essere riconosciuta una natura sostanzialmente contenziosa, b) sull’osservazione, di carattere pratico e operativo, che grazie all’intervento del legale le condizioni vengono predisposte in modo corretto e soprattutto più completo, così risultando agevolato il compito del tribunale e non essendo necessario che questi intervenga con correttivi e integrazioni nel corso dell’udienza. La linea contraria, che non riconosce cioè la necessità della difesa tecnica, si basa: a) sulla considerazione, in diritto, della pregnante omologia ravvisabile tra il procedimento di divorzio congiunto e quello di separazione consensuale, tale da rendere inspiegabile un trattamento differenziato sul punto in questione e b) sull’osservazione, di carattere concreto, che laddove non vi sia un effettivo contenzioso tra le parti non si possa imporre di far ricorso all’assistenza legale, esponendoli a oneri economici inutili. È stata sollevata l’obiezione che, se il procedimento deve essere inteso di natura contenziosa, allora logicamente si impone la presenza di due legali, ciascuno di questi essendo chiamato a tutelare e garantire gli interessi di una parte. Una soluzione di compromesso è quella di distinguere tra i casi di pronuncia solo sul vincolo (per i quali la presenza del difensore non sarebbe necessaria) e i casi di pronunce anche accessorie per le quali si richiederebbe la presenza dei legali. Tale soluzione espone al rischio, nel caso di assenza di figli minori, di incentivare la creazio- I ne di una regolamentazione sommersa affidata ad accordi privati che potrebbe risolversi in una lesione dei diritti delle parti. L’altra soluzione “condivisa” percorribile potrebbe essere quella di riconoscere: - la necessità di assistenza tecnica; - la sufficienza di un solo legale, comune ad entrambe le parti e loro domiciliatario. Questa opzione applicativa consentirebbe: a) di rispettare il principio secondo il quale, vertendosi in tema di status personale, al procedimento deve essere riconosciuta natura contenziosa, natura che non viene meno in presenza di un accordo in ordine alle condizioni accessorie al divorzio, b) di garantire un pieno esercizio del diritto di difesa, dal momento che l’interesse pubblico è qui forte e determinante, tanto che – ad esempio – pur in presenza di un accordo delle parti la domanda di divorzio ben potrebbe essere respinta qualora il tribunale dovesse verificare l’insussistenza dei presupposti e delle condizioni dell’azione (e, in questa ipotesi, quasi essenziale è che la comunicazione del deposito della sentenza venga fatta al difensore domiciliatario, anche ai fini di una eventuale proposizione dell’appello che non potrebbe essere rimessa alle parti personalmente), c) di contenere i costi della procedura, in quanto un solo difensore non è elemento di per sé contraddittorio nel momento in cui, pure in presenza di una riconosciuta natura contenziosa del giudizio (che si conclude con sentenza, suscettibile di fare passaggio in giudicato), non siano ravvisabili posizioni contrapposte e aspetti in concreto conflittuali, d) di operare una lettura delle disposizioni aderente al testo normativo, dal momento che per il divorzio c.d. congiunto non è stata richiamata la previsione della separazione consensuale di cui all’art. 711 c.p.c. e sembra chiara l’intenzione del legislatore di non coniare un procedimento di mera “omologazione” degli accordi già precedentemente raggiunti dalle parti. TRASFERIMENTI IMMOBILIARI ra i componenti del gruppo si è delineata una maggioranza a favore della possibilità di procedere ai trasferimenti immobiliari in sede di divorzio congiunto; sembra, anche, che dai più sia condivisa la prassi di realizzare il trasferimento a verbale, sottoscritto dalle parti e completato attraverso tutte le attività e le dichiarazioni necessarie per la regolarità dell’atto, e ciò anche per la preoccupazione di non investire il tribunale di eccessive responsabilità e far ricade- T 79 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO re queste ultime sulle parti che debbono produrre documentazione, rendere dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ecc.. Pur in presenza di ancora irrisolti nodi problematici, una soluzione di massima condivisa potrebbe prevedere: - la possibilità per i coniugi di perfezionare trasferimenti immobiliari in occasione del divorzio congiunto, utilizzando il verbale di causa e trovando la cessione suggello nella sentenza che riconosca l’avvenuto trasferimento facendo mero rinvio al verbale; - l’esclusione di tale possibilità se i beneficiari del trasferimento siano soggetti terzi (anche figli) rispetto alle parti, in quanto estranei al procedimento ed affatto legittimati ad intervenire nel giudizio, ancorché a tale limitato fine; - l’incarico alle parti di predisporre la relativa nota di trascrizione e di curare, al passaggio in giudicato della sentenza, l’adempimento di tutte le attività necessarie presso le conservatorie. tivi (forse comuni soltanto ai grandi Tribunali) collegati alla necessità di garantire lo “smaltimento” in tempi brevi di un gran numero di procedimenti su domanda congiunta e la concomitante presenza negli Uffici di molte coppie. A tal fine è stata avanzata la proposta di una soluzione condivisa che: - preveda la collegialità effettiva dell’organo giudicante (formazione predeterminata del collegio, seduta collegiale dei tre membri in contemporanea ma comparizione dei coniugi davanti anche solo al giudice relatore / estensore per la raccolta delle firme e della dichiarazione di rinuncia all’impugnazione); - preveda la redazione contestuale della sentenza, sua integrale lettura alle parti prima della loro rinuncia all’impugnazione, sottoscrizione immediata della sentenza da parte del relatore e del presidente, quindi deposito e pubblicazione in tempi brevi. RINUNCIA ALL’IMPUGNAZIONE utti sembrano favorevoli a consentirla, anche se vengono utilizzate modalità diverse (con dichiarazione a verbale, con dichiarazione resa successivamente in cancelleria). Anche per favorire le parti e non imporre loro una pluralità di accessi negli uffici giudiziari, non dovrebbe essere difficile concordare che: - la rinuncia all’impugnazione è possibile; - poiché non è logicamente percorribile la strada di una rinuncia preventiva, la dichiarazione dovrebbe essere fatta dalle parti personalmente, e quindi da loro sottoscritta, nel verbale dell’udienza, dandosi atto del fatto che della sentenza è stata prima data integrale lettura; - l’attestazione di passaggio in giudicato dovrà essere rilasciata dal cancelliere dopo la trasmissione della sentenza agli uffici della Procura generale della Repubblica e la relativa dichiarazione di acquiescenza. I T COMPETENZA COLLEGIALE nettamente prevalsa la tendenza a riconoscere una collegialità “piena”, mentre abbastanza marginale è la prassi che riconosce la possibilità che i coniugi compaiano personalmente davanti ad un giudice “delegato”. Tuttavia, va segnalato, in parte per sdrammatizzare questa questione, che le modalità di svolgimento delle udienze collegiali anche nei Tribunali che non si discostano formalmente dalla collegialità del giudizio prevedono la comparizione dei coniugi davanti ad un solo giudice. Sussistono infatti innegabili problemi organizza- È 80 AIAF RIVISTA 3/2004 CONVERSIONE DEL DIVORZIO DALLA FORMA CONTENZIOSA A QUELLA CONGIUNTA l gruppo è sembrato compatto nel ritenere l’ammissibilità della conversione e non si sono evidenziati “dissidi” profondi e insanabili nell’individuazione delle relative modalità, salvo alcune (modeste) eccezioni. Sarebbe, quindi, abbastanza agevole trovare un punto di incontro che preveda: - l’ammissibilità della trasformazione dalla forma contenziosa a quella congiunta; - la conseguente non necessità di un nuovo ricorso, essendo sufficiente che l’accordo raggiunto sia trasfuso nel verbale del procedimento originario e sia sottoscritto dalle parti; - la trasmissione del fascicolo al P.M. per le sue conclusioni sulle nuove istanze; - la fissazione a breve di un’udienza collegiale in camera di consiglio, per l’espletamento degli incombenti già trattati nel punto che precede. L’immediata rimessione davanti al giudice istruttore che muterebbe la sua veste in quella di giudice delegato dal Collegio per pronunciare il divorzio si coniuga con la posizione (rivelatasi formalmente minoritaria) della delega ad un solo giudice per la comparizione delle parti dei coniugi che hanno presentato domanda congiunta di divorzio e le indubbie utilità che comporta sono apprezzabili soprattutto nelle sedi giudiziarie di maggiori dimensioni. Il vantaggio preminente dato dalla conversione consiste nella possibilità per le parti di rinunciare all’impugnazione e, così, di accelerare il passaggio in giudicato della sentenza e l’acquisizione dello stato libero, oltre che nel non dover SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO affrontare gli oneri di una nuova iscrizione a ruolo ecc.; quanto al “guadagno” sui tempi per la sentenza, tutto dipenda dall’organizzazione dei ruoli di ogni singolo giudice, ma è ragionevole pensare che sia più semplice trovare spazio per un procedimento congiunto che per una sentenza per così dire normale, anche se da pronunciarsi su conclusioni conformi. QUESTIONI INERENTI I GIUDIZI DI SEPARAZIONE CONSENSUALE E DIVORZIO CONGIUNTO. NATURA DEGLI ACCORDI E REVOCA DEL CONSENSO chematizzando il risultato di discussioni dottrinali e giurisprudenziali, può dirsi che l’accordo di separazione ha come contenuto naturale l’accordo sulla cessazione della coabitazione, il regolamento delle posizioni dei genitori rispetto ai figli e il regolamento delle questioni patrimoniali di cui all’art. 155 cod. civ. rispetto al coniuge non dotato di mezzi propri; L’accordo sulla cessazione della coabitazione è il contenuto minimo della separazione ed è obbligatorio; ugualmente obbligatoria è da ritenersi la regolamentazione dei rapporti economici e non in relazione ai figli, quando vi siano, mentre alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi viene riconosciuto un carattere meramente eventuale, di natura contrattuale implicante la applicabilità delle norme sui contratti. Questione ancora aperta è la natura dell’accordo minimo di separazione, e cioè se debba essere ricostruito come accordo (inteso come incontro di volontà convergenti) o come contratto o negozio cui applicare in via analogica le norme in tema di contratti (inteso come incontro di volontà portanti interessi difformi) con la ulteriore conseguenza della applicabilità o meno delle norme sul contratto e quindi sulla possibilità o meno della revoca del consenso. La lettura della norma di cui all’art. 158 cod. civ. consente di escludere la possibilità di un sindacato del Giudice sulle ragioni della separazione o sulle condizioni patrimoniali tra i coniugi (l’unico intervento essendo limitato alla eventuale non omologabilità in caso di pattuizioni difformi dagli interessi dei minori). Secondo l’art. 158 cod. civ. l’accordo di separazione non ha effetto senza l’omologa del Tribunale, che viene considerato un momento giurisdizionale di controllo, qualificato come causa del procedimento di separazione, ovvero ricostruzione dell’accordo come causa della separazione stessa, e dell’omologazione come mera condizione di efficacia della separazione, omologazione che si sostanzia in un controllo di legittimità che il Giudice è chiamato a compiere alla stregua dei principi di ordine S pubblico. Questa seconda teoria si sposa evidentemente con la tesi che pone l’accento sulla rilevanza dell’accordo dei coniugi e lo qualifica come accordo assimilabile ad un contratto, valido di per sé ma condizionato nell’efficacia alla omologazione, così che all’accordo di separazione si applicano le norme in materia di contratti, senza distinguere tra contenuto obbligatorio ed eventuale, ed altresì la irrevocabilità del consenso espresso prima della udienza presidenziale o in detta sede presidenziale. Viceversa, ritenere l’accordo come avente contenuto diverso dal contratto, ritenere inapplicabili le regole contrattuali e porre l’accento sul momento processuale, in sostanza svalutare il momento della autonomia privata, porta a ritenere il consenso revocabile quanto meno sino a che non intervenga il provvedimento di omologa. Come pare emergere anche dai risultati del questionario ANM, in giurisprudenza la tesi della revocabilità del consenso è assolutamente maggioritaria, e riflettere sulla revocabilità del consenso significa analizzare il contenuto degli accordi di separazione che i coniugi possono porre in essere, qualificarli e distinguerli. Il discorso così si allarga dal contenuto della separazione agli accordi patrimoniali che accedono solo eventualmente alla separazione, alla validità di accordi presi in sede di separazione in vista del futuro divorzio; tutti argomenti che passano al vaglio della giurisprudenza, sino ai patti prenuziali che per il nostro diritto positivo e per la giurisprudenza paiono argomenti ancora del tutto futuribili. In particolare sul problema relativo alla configurabilità di accordi patrimoniali (aventi ad oggetto i rapporti tra coniugi, discorso diverso essendo quello che riguarda le pattuizioni sui figli) stipulati in sede di separazione ed in vista del divorzio, si veda la apertura contenuta in Cassazione 8109/2000 che sul punto ha creato un precedente ribadendone in generale la nullità per la illiceità della causa, ma sancendo la non azionabilità della nullità da chi è gravato dell’impegno, riservandola esclusivamente alla “parte debole” che potrebbe essere lesa dalla pattuizione dispositiva. Ci si soffermi a riflettere sui temi cardine che ruotano attorno alla configurabilità dei contratti in vista del divorzio: il diritto potestativo di chiedere la cessazione del vincolo, che mal si concilia coll’affermata indisponibilità dei diritti patrimoniali tratta dall’art. 160 cod. civ., il tipo di controllo operato dal Giudice in sede di procedimento di separazione o in sede di procedimento sul contratto matrimoniale, l’inapplicabilità ai contratti di separazione o di divorzio, della clausola rebus sic stantibus di cui ai procedimenti 81 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO camerali che seguiranno. Strettamente connesso alla questione relativa alla revocabilità del consenso è la questione relativa alla necessaria presenza delle parti alla udienza presidenziale o in camera di consiglio. Evidentemente se la revoca del consenso è efficace, la presenza delle parti che confermino il proprio assenso è necessaria. Sono state quindi affrontate le questioni relative ai procedimenti di modifica delle condizioni di separazione e divorzio che si svolgono nelle forme del rito camerale, per richiamo espresso degli artt. 710 c.p.c. e 9, I° c., L. 898/1970, come modificato dalla L. 74/1987, di cui agli artt. 737 e seguenti c.p.c.. I problemi che si pongono per lo svolgimento del procedimento non sono diversi dai problemi che si pongono in generale quando si utilizza lo strumento processuale semplificato richiamato, con la particolarità tuttavia che l’oggetto del processo è nel nostro caso la trattazione di diritti soggettivi veri e propri sui quali tra le parti si instaura un contenzioso. Uno strumento processuale pensato per risolvere questioni di volontaria giurisdizione pura, intesa come soluzione di interessi, deve così adattarsi alla più difficoltosa trattazione di diritti soggettivi, normalmente ad alta contenziosità. Ne è conferma la giurisprudenza che sancisce la doppia possibilità di adire le forme camerali come le forme ordinarie: in realtà non si tratta solo del problema della conservazione degli atti, da citazione a ricorso, ma dell’affermazione che le modifiche delle condizioni della separazione possono essere chieste in via alternativa con le forme del rito ordinario e con le forme del rito camerale, proprio per il fatto che il procedimento ex art. 710 c.p.c. “configura un procedimento contenzioso che si esplica nel contraddittorio pieno delle parti e si chiude con un provvedimento che pur con la forma del decreto, ha la natura sostanziale di sentenza.”. Sia l’art. 710 che il 9 richiamano per i procedimenti aventi ad oggetto la modifica delle condizioni di separazione e divorzio, il procedimento in camera di consiglio regolato dagli artt. 737 e segg. c.p.c., con due ulteriori indicazioni nel corpo dell’art. 710 c.p.c.: “sentite le parti ed assunti eventuali mezzi istruttori”, ed inoltre con la partecipazione del P. M. quando si tratti di questione concernenti minori secondo quanto stabilito dall’art. 9 della L. 1987/78 di modifica delle legge sul divorzio estesa al procedimento di modifica delle condizioni di separazione con intervento della Corte Costituzionale 416/1992. Le regole processuali vanno pertanto desunte 82 AIAF RIVISTA 3/2004 dagli artt. da 737 a 742 c.p.c. con le integrazioni della necessità del rispetto del principio del contraddittorio e il richiamo ad una fase istruttoria. La deformalizzazione del rito e l’assenza di regole predeterminate in materia di contraddittorio e garanzia del diritto di difesa, che certamente hanno indotto il legislatore a privilegiare questo rito per la sua celerità in materia in cui la definizione del procedimento deve essere rapida, costituiscono tuttavia il limite dell’intervento legislativo e hanno determinato recenti ed importanti interventi della Cassazione. L’atto introduttivo è pertanto il ricorso ai sensi dell’art. 737 c.p.c.: il Presidente, fissa l’udienza di comparizione delle parti, concede termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione e nomina il Giudice Relatore. Si pone quindi il primo problema relativo all’eventuale termine per la proposizione di domanda riconvenzionale: le risposte al questionario indicano che la stragrande maggioranza dei magistrati ritiene ammissibile la proposizione di riconvenzionale con la comparsa di costituzione e risposta presentata alla udienza in quanto nessun termine preclusivo è ricavabile analogicamente né dall’art. 166 né dall’art. 416 c.p.c., mancando la indicazione di un termine a comparire per la parte convenuta. Vi è tuttavia di più. A tenore della sentenza n. 14022/2000 della S. C. il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzile, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigono le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che: 1) potranno essere proposte domande nuove, anche riconvenzionali, in conformità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che peraltro - anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare trattasi di un procedimento che si svolge nell’interesse delle parti ed anche nel SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO quale - diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori - vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il “chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’officiosità del procedimento unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal reclamo, fermo restando che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere devolutivo e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del devolutum e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in detto giudizio, mentre possono essere allegati fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento. Nel corso del procedimento possono senza alcuna preclusione svolgersi domande nuove e riconvenzionali, se tale è la scelta processuale della parte, la quale potrebbe invece sempre decidere di azionare i fatti nuovi e sopravvenuti in altro procedimento di modifica. Non vi è pertanto un onere di allegazione e domanda del fatto nuovo nel processo già in corso e viceversa il fatto nuovo base della domanda nuova può sempre essere azionato. Vi è da ritenere la medesima mancanza di preclusioni riguardo la deduzione del fatto nuovo a sostegno della domanda o dei fatti dedotti dal convenuto per il rigetto della stessa. Quanto precede incontra due limiti. Da una parte vi è il principio del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa in quanto le parti devono essere messe in condizione di replicare sulle allegazioni e di difendersi. Sul punto vi è una importante e recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 9084/2002, che prescrive che nei procedimenti in camera di consiglio debbano essere assicurati l’esercizio del diritto di difesa e la garanzia del contraddittorio specialmente nella formazione della prova, in quanto detto principio generale è stato enunciato dall’art. 111 cost. nella nuova formulazione introdotta con la legge cost. n. 2 del 1999, sia pure con espresso riferimento al processo penale. La Cassazione afferma che il processo deformalizzato in camera di consiglio si sottrae a censure di costituzionalità quando si verta in tema di diritti soggettivi solo quando siano garantiti i diritti di difesa e la garanzia del contraddittorio e che il procedimento non può non essere interpre- tato alla luce del nuovo dettato costituzionale dell’art. 111 Cost.: in particolare si afferma per quanto riguarda la acquisizione delle prove che appare dubbia la costituzionalità dell’assunzione di prove al di fuori del contraddittorio con messa a disposizione del materiale probatorio ai difensori in un momento successivo. Quindi il primo limite alla assenza di preclusioni su domande, allegazione di fatti e assunzione di mezzi istruttori è il rispetto del contraddittorio e della difesa. Il secondo limite è dato dalla necessità che il procedimento abbia un adeguato e ordinato svolgimento nell’ambito dei poteri del regolamento del procedimento propri del Giudice ai sensi dell’art. 175 c.p.c.: è attività propria del Presidente quella di individuare, mediante la fissazione di termini, le fasi del procedimento, distinguendo la fase della individuazione dei fatti costitutivi ed estintivi e la fase della articolazione dei mezzi di prova. Ancora una volta le fasi dovranno contemperare il rispetto della difesa e del contraddittorio: concretamente le allegazioni avverranno o all’udienza a verbale o in memorie richieste dovendosi ritenere che coll’esaurimento della attività della difesa sul punto, le questioni non possano nuovamente essere riaperte. I MEZZI ISTRUTTORI NEI PROCEDIMENTI CAMERALI entite le parti” postula la necessità della comparizione delle parti in Camera di Consiglio (con conseguente deduzione di argomenti di prova dalla mancata comparizione) o solo la esigenza del rispetto del contraddittorio? Quali sono i mezzi istruttori cui l’art. 710 c.p.c. fa riferimento e possono essere essi disposti di ufficio? I mezzi istruttori sono i più disparati ed anche oltre i mezzi tipici. Come emerge dalle risposte al questionario ANM, sono tutti quegli strumenti che fanno parte dell’armamentario probatorio del Giudice della famiglia: c.t.u., relazione degli assistenti sociali, indagini patrimoniali a mezzo della Guardia di Finanza oltre che i mezzi tipici del codice di rito. Quanto alla ufficiosità esiste ormai la possibilità di disporre d’ufficio mezzi di prova sulle condizioni relative al minore, proprio perché non esiste sotto questo profilo una disponibilità delle parti (molteplici sono gli indici: il controllo del Giudice solo su questo aspetto nelle consensuali; la non vincolatività dell’accordo dei genitori ecc.). Quanto ai diritti patrimoniali dei coniugi si pone il problema dell’interpretazione della contestazione della parte quale presupposto per procedere alla indagine di polizia tributaria, da considerare comunque come uno strumento probatorio “S 83 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO da disporsi d’ufficio. Sul punto lo stato della giurisprudenza della S. C. ritiene che il potere del tribunale di disporre indagini anche d’ufficio e di avvalersi della Polizia Tributaria, come prevede espressamente la legge con disposizioni applicabili per identità di “ratio” anche al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli, rientra nella sua discrezionalità, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche. L’unico limite a detto potere, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, è rappresentato dal fatto che il giudice, potendosene avvalere, non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento ed alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione da parte loro degli assunti sui quali le richieste si basano. In tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio, avvalendosi anche della Polizia Tributaria. PENDENZA DEI GIUDIZI DI MODIFICA EX ART. 710 CPC E DI DIVORZIO l giudizio di modifica ex art. 710 c.p.c. è proIdimento ponibile o proseguibile in pendenza del procedi divorzio? Introdotto il giudizio di Micaela Vinci, 32 anni Il profumo di un’altra città olio, essenze e fiori secchi su tela, cm.50x70 84 divorzio si tratta di verificare se il procedimento ex art. 710 c.p.c., pendente, debba proseguire o debba esserne dichiarata la improcedibilità, o, ancora, se possa essere iniziato. Il problema si pone da quando, dirimendo un contrasto tra le corti di merito, la Cassazione ha statuito la possibilità per il Presidente in sede di AIAF RIVISTA 3/2004 udienza di emanazione di provvedimenti urgenti, di modificare l’assetto definitivo con la sentenza di separazione. La soluzione giurisprudenziale più recente è quella adottata dalla Corte di Appello di Napoli con pronuncia del 22/03/2000: pendente il procedimento di modifica e introdotto il divorzio non si determina l’improcedibilità del primo procedimento che continua per la regolamentazione delle statuizioni intermedie sino alla pronuncia dei provvedimenti presidenziali, ove venga effettuata, o dei provvedimenti definitivi in sede di divorzio. Evidentemente ciò è vero solo quando vengano chiesti mutamenti di ordine patrimoniale, che attenendo a prestazioni fungibili possono essere modificati anche con effetto retroattivo (dal momento del verificarsi della circostanza nuova), ma non per il diritto di visita o di affidamento che si è consumato per il periodo già trascorso e non è suscettibile di ristoro retroattivo. Diversa la posizione della Cassazione, la quale ammette la possibilità di simultaneus processus tra procedimento di divorzio e procedimento di modifica delle condizioni di separazione. Infine, nel caso di estinzione del procedimento di divorzio con provvedimenti urgenti resi dal Presidente, la loro eventuale modifica va chiesta con le forme di cui all’art. 710 c.p.c.. Viceversa se il divorzio sia stato pronunciato anche senza statuizioni in materia di assegni, la modifica va chiesta colle forme di cui all’art. 9 L 898/1970. Nel procedimento ex art. 710 c.p.c. è prevista la possibilità della emanazione di provvedimenti urgenti in corso di procedimento, mentre analoga previsione non è ripetuta nell’art. 9 L. 898/1970 e si segnala la incongruità della differenza. I provvedimenti provvisori possono essere disposti anche d’ufficio e il provvedimento conclusivo del procedimento è il decreto, che deve contenere la condanna alle spese. Il decreto reso dal Tribunale è sempre revocabile o modificabile dal Tribunale stesso: corollari di tale costante revocabilità sono l’assenza di attitudine al giudicato, la mancata preclusione di dedotto e deducibile (nel senso che possono essere fatti valere non solo motivi sopravvenuti, ma anche motivi preesistenti), la non ricorribilità in Cassazione ex art. 111, II comma Cost.. Il decreto è soggetto a reclamo. Ormai è chiarita la questione sulla decorrenza del termine di impugnazione: i dieci giorni decorrono dalla notifica effettuata alla controparte su istanza di parte e non su impulso della cancelleria, in quanto il termine di dieci giorni previsto dall’art. 739 c.p.c. per la proposizione del recla- SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO mo contro il provvedimento camerale pronunciato nei confronti di più parti decorre dalla notificazione dello stesso eseguita ad istanza di parte, e non anche dalla notificazione eseguita ad istanza del cancelliere. Il giudizio di reclamo è un giudizio di merito che tuttavia avviene nei limiti dei motivi di gravame: è pertanto illegittimo un provvedimento che riformi un decreto in un punto non oggetto di esame, così come non sono ammesse domande nuove. Possono invece essere allegati fatti nuovi e chieste nuove prove. IL PUBBLICO MINISTERO. LE RAGIONI DELLA SUA PRESENZA NEL PROCESSO ella relazione del ministro guardasigilli sul codice di procedura civile si legge che “quando l’interesse pubblico reclama che l’esercizio dell’azione sia svincolato dalla iniziativa privata” è opportuno che il potere di agire sia affidato non al giudice, per non menomarne l’imparzialità – affermazione di strabiliante attualità alla luce del disposto dell’art. 111 Costituzione – ma al pubblico ministero, trattandosi di un potere di iniziativa più confacente alla funzione di parte. E derogando così “da quella che nel campo civilistico è la regola, consistente nell’esclusiva dipendenza della tutela giurisdizionale dalla volontà dell’interessato”. Negli ordinamenti in cui, come nel nostro, nel campo civilistico vige la regola consistente nella dipendenza della tutela giurisdizionale dalla volontà dell’interessato, le deroghe a tale regola non possono non essere che per casi tassativi, come stabilisce l’art. 69 c.p.c.: “Il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge”. Lo stesso principio è contenuto nell’art. 2907 cod. civ. ai sensi del quale alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio, ma solo “quando la legge lo dispone”, come l’art. 75, I c., dell’ordinamento giudiziario che stabilisce che “il pubblico ministero esercita l’azione civile ed interviene nei processi civili nei casi stabiliti dalla legge”. In questo quadro positivo, quando una disposizione concede l’azione “a chiunque vi abbia interesse” deve essere escluso che fra i titolari del relativo potere possa rientrare anche il pubblico ministero, stante il principio della tassatività dei casi in cui il predetto soggetto è legittimato ad esercitare l’azione civile, casi non suscettibili di applicazione analogica o di interpretazione estensiva. È il caso di ricordare come, in applicazione di tale principio, il pubblico ministero non possa impugnare il matrimonio celebrato con intento simulatorio (art. 123 cod. civ.) anche laddove N venga accertata l’esistenza di una condotta delittuosa realizzata da cittadini stranieri con cittadini italiani per finalità di acquisizione di uno status che consenta in prima istanza la regolarizzazione della posizione sul territorio italiano e quindi l’acquisizione della cittadinanza. Quanto all’intervento in causa del pubblico ministero l’art. 70 c.p.c. regola due tipi di intervento: quello obbligatorio e quello facoltativo. Fra le cause nelle quali l’intervento risulta obbligatorio vi sono quelle matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi (art. 70, co. I, n. 2) c.p.c.) e di divorzio, siano esse contenziose od a domanda congiunta. Alla questione controversa, riguardante la partecipazione del P. M. ai procedimenti a domanda congiunta, la dottrina maggioritaria sembra dare risposta favorevole sulla base dell’assunto che se è vero, come appare, che la funzione principale del pubblico ministero, nel giudizio di divorzio, è quella di garantire il rispetto dei diritti dei figli, non si vede perché di questa garanzia debbono poter usufruire solo le parti che abbiano prescelto il rito contenzioso. L’intervento non deve invece reputarsi necessario nei giudizi in cui si tratti solo di modificare le condizioni della separazione personale, salvo che non si tratti di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, come espressamente previsto dalla Corte Costituzionale che, con sentenza del 9 novembre 1992 n. 416, ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 710 c.p.c. nella parte in cui non prevede la partecipazione del pubblico ministero al procedimento di modifica dei provvedimenti di separazione personale dei coniugi riguardanti la prole. Con una successiva sentenza la Corte Costituzionale (25.06.1996 n. 214) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 c.p.c. nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli artt. 9 della legge 898 del 1970 (nel testo vigente) e 710 c.p.c. come risulta a seguito della citata sentenza 416/1992. Nei casi in cui l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio, lo è tale naturalmente in ogni grado. Occorre tuttavia, per ridare un senso a questa impostazione che rischia per prassi e per progetti di riforma normativa di proporre un giudizio di agonia del pubblico ministero nel processo civile, ridisegnare lo spazio di presenza della parte pubblica nel processo civile. 85 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO IL MOMENTO DELL’INTERVENTO E L’ATTIVITÀ DEL P.M. enuto meno l’obbligo di comunicare al pubblico ministero l’ordinanza presidenziale di fissazione dell’udienza avanti il giudice istruttore, per espresso disposto legislativo, nella disciplina del divorzio, oppure per incompatibilità – dell’art. 709 c.p.c. – con le nuove regole dell’art. 4 legge divorzio, per il giudizio di separazione, ne discende l’applicazione della regola generale dettata dall’art. 71 c.p.c.: “il giudice, davanti al quale è proposta una delle cause indicate nel comma 1 dell’articolo precedente, ordina la comunicazione degli atti al pubblico ministero affinché possa intervenire” mediante comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza presidenziale e del ricorso introduttivo. Già nella fase presidenziale, perciò, il pubblico ministero deve intervenire depositando in cancelleria la comparsa di intervento (artt. 1, 2 disp. att. c.p.c. in quanto quest’ultima norma richiama le modalità di intervento previste dall’art. 267 c.p.c. per le parti private): modalità ispirata al criterio generale secondo il quale la tutela degli interessi pubblici affidati al P. M. nel processo civile va perseguita con gli stessi mezzi riservati alle parti. Così nel corso dell’istruttoria il pubblico ministero può produrre documenti e dedurre prove al pari delle parti in causa, però nei limiti delle domande proposte dalle parti (art. 72 comma 2° c.p.c.); ma può anche non intervenire nelle udienze istruttorie senza che da ciò consegua la nullità degli atti a cui non ha assistito. Se però il pubblico ministero, intervenendo innanzi al collegio, non si limita ad aderire alle conclusioni di una delle parti, ma prende proprie conclusioni, producendo documenti e deducendo prove, il presidente, su istanza di parte od anche d’ufficio, può rimettere con ordinanza la causa al giudice istruttore per l’integrazione dell’istruttoria. Ciò è chiaramente previsto dall’art. 3 comma 3° disp. att. c.p.c.. Occorre rilevare come la remissione al giudice istruttore possa avvenire solo nel caso in cui il pubblico ministero produca ulteriori documenti, rispetto a quelli già prodotti, o deduca prove su circostanze nuove o comunque prima non capitolate dalle parti: sempre nei limiti delle domande da queste proposte. Non sarebbe necessario, al contrario, disporre la remissione degli atti in istruttoria qualora il P.M. avesse esibito un rapporto della polizia giudiziaria su un episodio attribuito ad uno dei coniugi contrario alla morale o all’ordine della famiglia, se ciò già risulta da un giudicato prodotto in causa; come non sarebbe necessario se il P.M. avesse formulato capitoli di prova su circostanze che risultano pacifiche in causa. V 86 AIAF RIVISTA 3/2004 Per quanto concerne le conclusioni, il P.M. può aderire semplicemente a quelle prese da una delle parti ovvero, come accade normalmente, il pubblico ministero si limita a precisare le conclusioni apponendo un timbro con la dicitura “nulla oppone”. Anche nel procedimento di separazione consensuale l’intervento del P.M. è del pari richiesto a pena di nullità, a norma dell’art. 70 n. 2 c.p.c. che non distingue tra cause di separazione giudiziale e cause di separazione consensuale. L’art. 738 c.p.c. – in sede di disposizioni comuni ai provvedimenti in camera di consiglio – prescrive che gli atti siano direttamente comunicati al pubblico ministero che stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente. IL POTERE DI IMPUGNAZIONE DEL P.M. uando il pubblico ministero ha qualità di interveniente necessario nel processo, e non è perciò legittimato attivo a proporre la relativa domanda, sussiste il divieto di impugnare la sentenza non gravata dalle parti private. Dopo l’introduzione del divorzio, che intervenne direttamente sul quadro normativo preesistente, nei processi di separazione il P.M. continua a non essere legittimato all’impugnazione (art. 72 comma 2° e 3° c.p.c.) mentre nei procedimenti di divorzio può impugnare le sentenze ivi pronunciate ma “limitatamente agli interessi patrimoniali dei minori o legalmente incapaci” (art. 5 comma 5° L. divorzio). Secondo la prevalente interpretazione, quest’ultima disposizione deve essere intesa in termini non restrittivi e si ritiene che siano ricompresi (e quindi siano suscettibili di impugnazione dalla parte pubblica), non solo i capi di sentenza riguardanti il patrimonio della prole, ma anche il se ed il quantum dell’assegno di mantenimento. In ogni caso il limite contenuto nella norma non incide sul potere generale, di fatto raramente utilizzato, conferito al pubblico ministero dall’art. 397 c.p.c. di impugnare per revocazione le sentenze pronunciate senza il suo intervento, o quando queste siano effetto della collusione delle parti posta in essere per frodare la legge. Poiché la norma sui poteri di impugnazione del pubblico ministero non è stata richiamata dall’art. 4 comma 13 L. divorzio (divorzio ad istanza congiunta) si è posto il problema se tale previsione valga anche per le sentenze emesse al termine di questi procedimenti. Anche in tal caso, per motivi di simmetria con il procedimento contenzioso, sembra che il potere – dovere di impugnazione spetti al pubblico ministero sempre limitatamente “agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci”. Q SETTEMBRE - DICEMBRE 2004 LE PRASSI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO Il riconosciuto potere di impugnazione al pubblico ministero pone il problema del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, che tale dovrebbe diventare decorso un anno dalla sua pubblicazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c.. Per quanto attiene ai processi di separazione, non pare che possano sorgere dubbi sull’inapplicabilità della previsione che permette al pubblico ministero di impugnare limitatamente agli interessi dei figli minori, così come previsto per il processo di divorzio, costituendo l’art. 5 comma 5° L. divorzio, un’eccezione alla regola. Come già rilevato, il pubblico ministero risulta interprete e difensore delle istanze pubblicistiche incentrate sulla tutela della famiglia e dei minorenni e, per questa sua funzione, de iure condendo, sarebbe forse opportuno riconoscere al pubblico ministero il potere di impugnazione anche nei giudizi di separazione, dove gli interessi protetti appaiono identici a quelli implicati nei giudizi divorzili. stero dichiarando non luogo a provvedere. * avvocato in Genova IL PROCESSO CIVILE E LA TRASMISSIONE DELLA NOTIZIA DI REATO isulta frequente, nell’esperienza giudiziaria, R che il giudice della separazione e del divorzio si imbatta, nel suo percorso processuale, in fatti costituenti notizie di reato procedibili d’ufficio, soprattutto nei procedimenti caratterizzati da alta conflittualità. In tali contesti, la presenza necessaria nel processo del pubblico ministero costituisce molte volte un fattore di confusione in ordine alla trasmissione della notizia di reato all’ufficio titolare dell’esercizio dell’azione penale, in quanto molti giudici civili ritengono che la presenza necessaria del pubblico ministero costituisca un fattore di esenzione dall’obbligo di denuncia sancito dall’art. 331 co 4° c.p.p.. Invero, proprio la tempistica dell’intervento del pubblico ministero, il quale si limita a conclusioni superficiali ed adesive, senza la consultazione del fascicolo processuale, formulate alla fine dell’istruttoria, consiglia l’immediata trasmissione della notizia di reato per assicurare una risposta immediata in ambito penale, sia essa di natura investigativa o cautelare anche a tutela della presunta parte lesa del reato. L’automatismo della denuncia trova del resto ampia applicazione, di natura anche “deflattiva”, nel procedimento introdotto dalla L. 4 aprile 2001 n. 154 contro le violenze familiari allorché il giudice, richiesto dell’emissione di un ordine di protezione in ambito civile, ravvisando gli estremi di un reato procedibile d’ufficio – solitamente i maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. – trasmette gli atti all’ufficio del pubblico mini87