Linee Guida Disagio Maltrattamento
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Linee Guida Disagio Maltrattamento
Tratto da L’abuso all’infanzia. Linee guida per l’intervento nei casi di maltrattamento fisico, psicologico e sessuale ai danni dei bambini e degli adolescenti a cura di Claudio Foti, Claudio Bosetto, Sabrina Farci Parte prima - L’abuso all’infanzia Disagio e maltrattamento a cura di Claudio Foti, Claudio Bosetto Tre tipi di sofferenza Ci sono tre tipi di sofferenze dei bambini e dei ragazzi. 1. C’è in primo luogo una sofferenza indispensabile: per crescere bisogna che i bambini imparino ad affrontare e a superare le sofferenze legate all’adattamento alla vita e alla realtà. il bambino deve imparare che la mamma non può sempre stare con lui, che non si può volere ed ottenere tutto, che le regole sono necessarie. Per diventare grande il bambino deve imparare poco per volta a staccarsi dai piaceri e dalle sicurezze del restare piccolo. Per avere la forza di imparare tutto questo il bambino ha bisogno di tanto amore, di tanta pazienza e di tanta coerenza da parte dei genitori. 2.La sofferenza del secondo tipo non è indispensabile, ma talvolta purtroppo è inevitabile. Quando capita una disgrazia o un lutto in famiglia, quando arriva una brutta malattia del bambino o di un familiare, quando i genitori si separano o più semplicemente quando nasce per es. una sorellina e le attenzioni dei genitori un po’ si riducono, non si può purtroppo evitare la sofferenza al bambino. Quel che si può fare è non lasciarlo solo, aiutarlo a parlare, a sfogarsi, ad esprimere i suoi sentimenti di paura, di incertezza, di protesta, di rabbia. 3.La sofferenza del terzo tipo può e deve essere evitata al bambino se si vuole che cresca sano e sereno. Questa sofferenza è causata dall’ignoranza, dall’indifferenza, dall’incapacità dell’adulto di ascoltare, di capire, di essere attento e vicino nei confronti del bambino. Questa sofferenza è causata inoltre dalla trascuratezza, dalla violenza psicologica e fisica dell’adulto nei confronti del bambino. Questa dispensa si occupa solo della sofferenza del terzo tipo. Definizione di maltrattamento Il maltrattamento ai danni dei minori non è certamente un fenomeno moderno. É invece molto recente la presa di coscienza, da parte della società adulta, della vastità del fenomeno e della gravità delle sue conseguenze. Solo nel nostro secolo nascono i primi studi in ambito medico che mettono in correlazione fratture e lesioni scheletriche con un avvenuto maltrattamento. Ed è solo nel 1963 che il pediatra inglese Kempe, in un suo articolo dal titolo “La sindrome del bambino percosso (Battered Child Syndrome)” pone le basi per un approccio scientifico al fenomeno del maltrattamento. Dieci anni dopo lo stesso Kempe con la formula “bambino abusato e trascurato” (Child Abuse and Neglect) indicherà un più vasto quadro del maltrattamento comprendente varie modalità di abuso non soltanto fisico. Questa formulazione di Kempe è sostanzialmente tuttora utilizzata. Questi ed altri studi ci rendono oggi in grado di definire come abuso e maltrattamento atti e atteggiamenti che un tempo non venivano neppure percepiti, o considerati “legittimi”, o facenti parte delle normali pratiche educative. La definizione di maltrattamento che useremo è certamente riduttiva rispetto alla complessità del fenomeno. Ve ne sono molte altre che possono essere approfondite consultando la bibliografia elencata al termine del capitolo. Maltrattamento Comprende gli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, attentano alla sua integrità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza, o lesioni di ordine fisico, o psichico, o sessuale, da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino. La definizione comprende diverse tipologie di maltrattamento che possiamo definire ulteriormente, ma che non vanno considerate come forme assolutamente separate ed autonome, in quanto spesso il maltrattamento comporta la compresenza di diverse forme di abuso, ed inoltre in tutte le forme di abuso è sempre presente in qualche misura il maltrattamento psicologico. Maltrattamento psicologico É la forma più diffusa di violenza di un adulto contro un bambino e nello stesso tempo è la forma più difficile da riconoscere. É fatta di ricatti, di minacce, di punizioni, di indifferenza, di squalifiche, di mancanza di rispetto, di eccesso di pretese, di richieste sproporzionate all’età e alle caratteristiche del bambino, tali comportamenti, ripetuti nel tempo, diventano parte della relazione dell’adulto nei confronti del bambino o dell’adolescente. La violenza psicologica può essere persino più distruttiva di quella fisica o sessuale, e comunque è sottesa sempre a tutte le altre forme di maltrattamento. Maltrattamento fisico Nasce dal bisogno dell’adulto di scaricare sul più debole la violenza che sente dentro di sé e contro di sé. Il maltrattamento fisico può essere fatto con pugni, calci, bruciature, graffi, sbattimento contro pareti o pavimenti, con l’uso di cinghie, di bastoni o con altre forme di tortura. Grave trascuratezza Si presenta quando i genitori non sono capaci (per assenza di empatia, per difficoltà economiche e culturali o di inserimento sociale, per problemi psicologici) a capire i bisogni materiali ed affettivi dei propri figli e non riescono a curarli e proteggerli, a crescerli in modo sano come sarebbe necessario, minacciando in modo serio la loro sopravvivenza psico fisica.. Abuso sessuale Il minore viene strumentalizzato coinvolgendolo in attività sessuali, nella prostituzione o nella pornografia o in altri comportamenti solo in apparenza meno gravi (per es. giochi sessuali privi di violenza fisica), comportamenti che servono per procurare piacere a qualche adulto e che producono danni enormi al bambino e alla bambina. L’abuso sessuale è di solito realizzato da persone care al bambino (famigliari, parenti, insegnanti, amici di famiglia, religiosi…). Spesso si protrae per anni nel più assoluto silenzio e con grandi sensi di colpa per il minore che lo subisce. Moltissimi bambini, sia maschi che femmine, di tutte le età e classi sociali, subiscono violenza sessuale. Gli indicatori del maltrattamento È evidente che per dare inizio ad un qualsivoglia intervento di aiuto rispetto al minore maltrattato, è preliminarmente indispensabile saper percepire dei segnali (fisici, psicologici o comportamentali); questi “segnali”, che possono far insorgere nell’adulto attento il sospetto che il minore possa essere vittima di comportamenti dannosi o maltrattanti, non sono però mai specifici ed inequivocabili. È comunque fondamentale, per poter capire se determinati comportamenti possano avere origine da un maltrattamento, individuare degli indicatori. Essendo il maltrattamento un fenomeno multi-dimensionale, gli indicatori devono essere cercati in aree diverse: possiamo, ad esempio, distinguere tra indicatori di tipo fisico e indicatori di tipo comportamentale; inoltre importanti segnali possono essere lanciati da tutti i soggetti coinvolti nel maltrattamento (adulti e bambini); esiste infine una elaborazione di indicatori tipici che possono essere associati a specifiche forme di maltrattamento. Tuttavia qualunque segnale proveniente dal bambino se considerato da solo, isolato dal contesto in cui è emerso e da una valutazione globale del minore, non è sufficiente a determinare con certezza l’ipotesi di maltrattamento o abuso. Forniamo alcune considerazioni da tenere presenti nell’utilizzo degli indicatori: 1. un solo indicatore non è sufficiente: è essenziale ricercare diversi indicatori, raccogliere quanti più elementi ed informazioni possibili, sforzandosi di pensare tutta la storia del bambino, collegando anche precedenti comportamenti ed episodi, valutando la continuità o l’occasionalità dei segnali che ci preoccupano; 2. qualora emergano degli indicatori, è importante non restare soli, bensì discutere e confrontarsi sul caso con colleghi, coinvolgere eventuali superiori (p. es. il dirigente scolastico), approfondire la valutazione degli elementi; 3. quando il caso si presenta difficoltoso, quando i segnali ci fanno pensare a forme gravi di maltrattamento o abuso, quando è difficile comprendere gli indicatori o non riusciamo a definire con chiarezza l’ipotesi di maltrattamento è opportuno fare ricorso ad operatori specializzati a cui richiedere una consulenza. Questo non significa delegare ad altri la gestione del caso, è anzi fondamentale cercare la collaborazione dei Servizi territoriali e delle istituzioni giudiziarie sin dall’inizio del percorso di aiuto al minore. Gli indicatori che presentiamo sono tratti da vari studi e pubblicazioni, in particolare da: Cirillo, Cipolloni (a cura di), L’assistente sociale ruba i bambini ?, Milano, Cortina, 1994. Maltrattamento Fisico Segni fisici del maltrattamento fisico Lesioni cutanee: 1. lividi (ecchimosi, ematomi) sulle braccia, sulle gambe, sul viso (intorno alla bocca con o senza lacerazione del frenulo labiale superiore - o agli occhi), talvolta “figurati” (a stampo con la forma dello strumento usato per colpire - mani, cinghie, lacci, bastoni) 2. contusioni, ferite, cicatrici, graffi in parti del corpo difficilmente esposte accidentalmente 3. lesioni della mucosa orale da alimentazione forzata o da colpi sulla faccia 4. segni di morsi 5. segni di bruciature o ustioni sulle gambe, braccia o altri punti del corpo coperti dai vestiti, spesso figurati (bruciature di sigaretta, immersione forzata in liquidi bollenti, contatto con oggetti incandescenti) 6. escoriazioni o graffi di forme particolari (segni da legame per la segregazione e la contenzione) 7. segni di frustate o cinghiate Lesioni scheletriche: 1. fratture delle ossa lunghe (gambe, braccia) o della mascella 2. fratture diffuse o lussazioni (sospette sotto i due anni d’età quando la mobilità del bambino è limitata) Traumi cranici (talvolta manifestati con uno stato soporoso o con convulsioni): 1. 2. 3. 4. 5. frattura cranica, emorragie retiniche ematomi subdurali emorragie derivanti da distacco del cuoio capelluto in seguito a tirate di capelli ciocche di capelli strappate Lesioni interne: 1. lesioni di organi interni dovute a calci, schiaffi, colpi con oggetti, spinte violente, strattonamenti (rottura della milza, lesioni intestinali, renali, epatiche) 2. diffusione ampia e sproporzionata di ferite lievi a diversi stadi di guarigione, non curate adeguatamente e tempestivamente o di pregresse fratture ossee in via di risoluzione spontanea 3. deficit nella crescita staturo ponderale (failure to thrive) 4. presenza di un abbigliamento inadeguato alle condizioni climatiche che lascia intuire il desiderio di nascondere i segni del maltrattamento (maniche lunghe, sciarpe, maglie a collo alto) Segni comportamentali del maltrattamento fisico 1. Bambini particolarmente ostili all’autorità o estremamente reattivi 2. Bambini eccessivamente aggressivi, distruttivi, iperattivi 3. Bambini violenti con i compagni, con difficoltà a giocare con gli altri 4. Bambini estremamente passivi, “ritirati”, sottomessi, scarsamente presenti, che non piangono mai o mostrano un lamento continuo 5. Bambini socialmente isolati (in classe e/ o durante i momenti ricreativi) 6. Bambini che sembrano sognare ad occhi aperti, “assenti”, mostrano elevata difficoltà di concentrazione e richiedono la costante attenzione dell’adulto 7. Bambini che mostrano improvvisi e repentini cambiamenti nell’umore o nel rendimento scolastico 8. Bambini che mostrano sdoppiamenti di personalità 9. Bambini che mostrano un attaccamento indiscriminato e “adesivo” verso gli estranei, sono riluttanti a tornare a casa ma si sottomettono immediatamente per timore della reazione degli adulti 10. Bambini che sembrano dei piccoli adulti e assumono un ruolo “genitoriale” o di pari nei confronti dei propri genitori (role reversal - parental child) 11. Bambini massicciamente preoccupati per l’ordine e la pulizia, o sono estremamente dipendenti dal giudizio dei genitori 12. Bambini che mostrano consistenti ritardi nello sviluppo psicomotorio, nel controllo sfinterico, nelle capacità logiche e di pensiero 13. Bambini che mostrano atteggiamenti autolesivi e distruttivi, che di fanno spesso male incidentalmente e sembrano incapaci di evitare i pericoli 14. Bambini che mostrano un comportamento disturbato nei confronti del cibo (anoressia, bulimia, tendenza a non mangiare la merenda portata da casa, rubare il cibo dal piatto degli altri, mangiare compulsivamente ... ) 15. Bambini assenti regolarmente i giorni delle visite mediche 16. Bambini che si lamentano o si rifiutano di fare attività fisica perché gli provoca dolore e disagio Trascuratezza e grave negligenza Segni fisici della trascuratezza Carenza di cure igieniche: 1. bambini vestiti in modo consistentemente inappropriato alla stagione, con vestiti troppo larghi o troppo stretti inadatti a proteggerli dal freddo o dal caldo 2. bambini regolarmente sporchi, che puzzano, che si lavano raramente fino al punto di avere problemi nei rapporti con i compagni 3. infiammazioni cutanee da pannolino e mancanza di igiene 4. distensione addominale e chiazze di calvizie in bambini piccoli lasciati sempre sdraiati nella stessa posizione Assenza o carenza di cure sanitarie: 1. bambini affetti da pidocchi o altri parassiti che non vengono curati 2. bambini con problemi dentali, acustici o visivi che non vengono curati 3. bambini che non vengono vaccinati regolarmente o sottoposti ai controlli medici necessari 4. Scottature o malattie bronchiali e polmonari dovute a eccessiva esposizione al caldo o al freddo 5. Carenza del sistema immunitario 6. Disidratazione e/ o malnutrizione 7. Deficit nella crescita (failure to thrive) 8. Ritardo mentale dovuto a carenza di stimoli 9. Incidenti domestici ripetuti 10. Ripetuti controlli medici e/o ricoveri ospedalieri (Hospital shopping - sindrome di Munchausen per procura) Segni comportamentali della trascuratezza Difficoltà nel condurre una normale vita scolastica: 1. bambini spesso stanchi o che si addormentano in classe perché vanno a letto molto tardi o non dormono di notte (stanchezza permanente e disattenzione) 2. disattenzione, svogliatezza, incapacità o difficoltà nel fare o terminare i compiti 3. bambini che distruggono materiale scolastico e rubano ai compagni 4. bambini che mostrano di avere sempre fame, che elemosinano il cibo o rubano le merende ad altri bambini Assenza o carenza di accudimento: 1. bambini che rimangono a casa per accudire ai fratelli e fanno frequenti assenze scolastiche senza reale malattia 2. bambini molto piccoli affidati alle cure di fratelli o sorelle maggiori di poco più grandi 3. bambini che gironzolano a lungo nei dintorni della scuola anche dopo l’orario di chiusura 4. bambini abitualmente in ritardo o che vanno a casa prima lamentando sintomi o disturbi 5. Problemi o ritardi nel linguaggio 6. Uso precoce di droga o alcool 7. Atti di vandalismo e di piccola delinquenza 8. Ricerca di affetto e attenzione da estranei, esibizionismo 9. Iperautonomia, chiusura, rifiuto di aiuto 10. Passività, apatia Abuso sessuale Segni fisici dell’abuso sessuale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Ferite, contusioni, graffi (anche lievi) non accidentali ai genitali, al seno, sulle cosce, al sedere Ferite anali, dilatazione dell’ano, insufficiente tono sfinterico Presenza di liquido seminale sul corpo o sugli indumenti Indumenti intimi lacerati o macchiati di sangue Ferite alla bocca o in gola, infiammazioni e infezioni Perdite vaginali, dolori e infiammazioni della zona genitale Presenza di malattie sessualmente trasmissibili Gravidanze molto precoci (di cui viene tenuta nascosta la paternità) Difficoltà nel camminare, nel fare attività fisica o nel sedersi Segni comportamentali dell’abuso sessuale 1. Problemi emozionali come improvvisi cambi di umore, sensi di colpa e di ansia, di vergogna, di impotenza, passività, pianti improvvisi 2. Alterazioni delle abitudini alimentari (anoressia, bulimia) 3. Inadempienza scolastica e assenze scolastiche ingiustificate 4. Crollo nel rendimento scolastico 5. Tentativi di suicidio, fughe da casa, abuso di sostanze stupefacenti e alcool 6. Fobie, malesseri psicosomatici, atteggiamenti isterici 7. Disturbi del sonno 8. Paura degli adulti o atteggiamento seduttivo, spesso sessualizzato, nei loro confronti Incapacità di stabilire relazioni positive con i compagni, isolamento sociale Atteggiamenti ribelli, provocatori 9. Enuresi 10. Depressione, malinconia, angoscia, incubi, ossessioni 11. Autolesionismo 12. Masturbazione compulsiva, dolorosa, intrusiva 13. Confidenze relative all’aver subito avances o abusi sessuali 14. Disegni o atti che suggeriscono la conoscenza di esperienze sessuali inappropriati all’età (in particolare in bambini piccoli) 15. Rifiuto delle visite mediche di screening o di spogliarsi per la partecipazione ad attività sportive 16. Negli adolescenti: promiscuità sessuale, prostituzione, gravidanze precoci Maltrattamento psicologico Segni comportamentali del maltrattamento psicologico 1. Scarsissima stima di sé oppure, all’opposto, enorme e non realistica stima di sé. 2. Apparente maturità: il bambino vuole assumere ad ogni costo il ruolo di adulto. 3. Bambino infelice, che parla poco, che si tiene tutto dentro. 4. Bambino dai comportamenti rigidi e controllati, senza fantasie, nei discorsi e nei giochi. 5. Bambino che fa di tutto, continuamente, per attirare l’attenzione su di sé; bambino che passa da richieste troppo esigenti ad atteggiamenti di sottomissione per compiacere l’adulto. 6. Bambino molto agitato, con sogni spaventosi e terrori notturni, bambino già grande che “fa la pipì” nel letto. 7. Bambino con comportamenti distruttivi e crudeli, bambino impulsivo con comportamenti di sfida. 8. Bambino con abitudini monotone, ripetitive o strane per la sua età (dondolarsi ripetuto, tic, masturbazione molto frequente ...). Indicatori di maltrattamento nel comportamento dei genitori 1. Ignorano i loro bambini quando piangono o reagiscono con estrema impazienza 2. Parlano dei loro figli come di bambini molto cattivi diversi da tutti gli altri 3. Mostrano distacco 4. Mostrano reazioni inappropriate alla situazione (eccessiva o scarsa preoccupazione) 5. Hanno aspettative irrealistiche nei confronti dei figli 6. Sembrano avere comportamenti irrazionali 7. Sembrano essere crudeli o sadici o mancanti di senso di rimorso Mostrano perdita di controllo o forte timore di perderlo 8. Usano droga o alcool 9. Si lamentano di non avere nessuno che li aiuta 10. Sono riluttanti a dare informazioni 11. Riferiscono di essere cresciuti in un inibente violento, giustificandolo 12. Raccontano o danno versioni contraddittorie rispetto agli incidenti del bambino 13. Attribuiscono le cause del maltrattamento ai fratelli o agli altri bambini 14. Ritardano nell’apportare le cure mediche necessarie 15. Si lamentano in continuazione di altri problemi non collegati all’abuso o ai loro bambini 16. Sono contrari e reattivi di fronte all’idea di ricorrere al medico 17. Tendono a portare “testimoni” per provare le loro versioni 18. Riferiscono di incidenti e ferite ripetute 19. Rifiutano il loro consenso ad approfondimenti diagnostici 20. Hospital Shopping Cosa non fare... Cosa puoi fare ... A cura di Claudio Foti Cosa non fare… 1) Non fare finta di niente, non voltarti dall’altra parte. Non scordarti dei segnali di disagio e degli occhi sofferenti di un bambino. Non dimenticare i messaggi di protesta,le richieste di aiuto dei più deboli. Non fuggire dalla tua responsabilità, non avere fretta a scaricare il problema, trovando magari delle scuse dicendo che non ti riguarda e che dovrebbero essere soltanto gli altri a fare qualcosa per quel bambino. Forse anche tu puoi fare qualcosa! 2) Non scartare subito l’ipotesi del maltrattamento. Il maltrattamento anche se non ci piace esiste. É un fenomeno socialmente diffuso, vecchio come il mondo. É un fenomeno che nasce dalla differenza di potere, di capacità e di esperienza dei più grandi nei confronti dei più piccoli. É un fenomeno che si rinnova in forme sempre diverse anche nella nostra società tecnologica. Il progresso economico e culturale non elimina il rischio di una violenza diffusa dei più forti sui più deboli ed inesperti. 3) Non avere fretta di arrivare ad una conclusione. Il maltrattamento è un fatto complesso e delicato. Non fermarti su un unico indicatore di maltrattamento, per concludere subito che il bambino ha subito violenza. Non cercare a tutti i costi di dimostrare un’idea che ti sei fatto. Tieni aperto il dubbio e cerca di parlarne con altre persone, meglio se competenti 4) Non pretendere di fare tutto tu. I problemi sono complicati. Ricorda che non sei onnipotente. Talvolta basta il tuo impegno, ma in alcuni casi non puoi farcela da solo,altrimenti combini pasticci. In alcuni casi occorrono diverse figure professionali per aiutare un bambino: sono necessari non solo i genitori, ma anche l’insegnante, l’assistente sociale, lo psicologo, il medico e talvolta anche il giudice minorile. 5) Non confondere un genitore maltrattante con un genitore inadeguato o in difficoltà. Nel primo caso bisogna in primo luogo cercare di proteggere il bambino,perché l’atteggiamento continuativo del genitore è violento, strumentale, gravemente trascurante e procura molti danni al bambino. Nel secondo caso bisogna innanzitutto sostenere il genitore. 6) Non dimenticare mai le ragioni dei più deboli, cioè dei bambini. Soprattutto se ci si trova di fronte ad una violenza e se è stata fatta una diagnosi precisa di maltrattamento. I bambini sono gli ultimi a nascere e spesso sono gli ultimi ad essere considerati. 7) Non sentirti superiore se ti trovi di fronte a genitori inadeguati. Cerca di comprendere ed aiutare piuttosto che colpevolizzare o giudicare in termini morali i genitori in difficoltà. In diversi casi assumere un atteggiamento di condanna verso i genitori o verso gli educatori inadeguati è controproducente e pericoloso. Cosa puoi fare … 1) Dai tempo ed attenzione al bambino. I bambini si confidano con adulti che dedicano del tempo e mostrano vicinanza emotiva al bambino. Cerca di dare importanza al bambino e fai in modo che esprima il suo punto di vista, i suoi sentimenti, i suoi problemi, i suoi bisogni, senza mettergli addosso il tuo punto di vista, i tuoi sentimenti, i tuoi bisogni. 2) Dai ascolto. Dai al bambino la possibilità di parlare del suo problema, cerca di rassicurarlo sulla tua disponibilità nei suoi confronti. Se tu affronti con lui i suoi problemi, non è vero che lo fai soffrire. Anzi: in genere gli fai piacere, perché non lo lasci solo con le sue difficoltà. In genere è l’adulto che sta male ad avvicinarsi alla sofferenza di un bambino. I bambini hanno molto bisogno di parlare dei loro problemi con gli adulti. 3) Prendi tempo per pensare. Prima di prendere delle iniziative prenditi un po’ di tempo per pensare a quale sia la soluzione migliore per risolvere il problema del bambino che hai vicino, consigliati con una persona della quale ti fidi. Ma attenzione: il tempo per pensare non deve trasformarsi in un’occasione per dimenticare o rinviare il problema. 4) Chiedi aiuto. É necessaria una discussione con altre persone e soprattutto con figure professionalmente esperte. Cerca un parere e un sostegno in operatori nel campo psicologico,sociale e medico che abbiano esperienza ma anche sensibilità per i bisogni dei bambini. Cerca comunque aiuto nel servizio sociale, fra i medici, gli psicologi e gli insegnanti. 5) Cerca un familiare che stia dalla parte del bambino. Cerca di individuare all’interno della famiglia del bambino anche una sola persona disposta a fare qualcosa per lui. Attenzione! Non parlando con la famiglia del bambino, nel caso di un sospetto abuso sessuale che si consuma in famiglia e se sono gli stessi genitori ad usare violenza contro di lui, potresti anche peggiorare la situazione del piccolo che tu hai intenzione di proteggere. 6) Osserva e raccogli gli indicatori e le situazioni di malessere del bambino. Non è tuo compito acquisire le prove della violenza ai danni del bambino. Dal tuo angolo di visuale è impossibile raccogliere queste prove, anche se la violenza fosse presente in forme gravi. Il tuo compito è quello di riferire a chi di dovere i fatti preoccupanti e ripetuti che potrebbero far sospettare una violenza ai danni di un bambino. 7) Prenditi la responsabilità di una segnalazione. Se la sofferenza del bambino è molto grave e non riesci a trovare un’altra soluzione per far cessare questa sofferenza,fai la segnalazione alle istituzioni competenti, il servizio sociale o l’autorità giudiziaria. Nei casi di abuso sessuale o di grave maltrattamento fisico la segnalazione è l’unica soluzione possibile. Emozioni del maltrattamento e maltrattamento delle emozioni: abuso all’infanzia e meccanismi di difesa degli operatori di Claudio Foti 1. Premessa C’è un’idea base, essenziale, che caratterizza la linea culturale e metodologica del Centro Studi Hänsel e Gretel sul problema del maltrattamento. É una tesi molto semplice, apparentemente banale, ma in realtà non è così scontato comprenderla a pieno e tanto meno risulta scontata la capacità di tradurla sul piano operativo con tutte le implicazioni necessarie. Come possiamo formulare questa tesi? Il maltrattamento ha un rapporto decisivo con la vita emotiva, il maltrattamento ha un rapporto ineliminabile con il mondo dei sentimenti. Il mal trattamento è sempre mal/trattamento, cattivo trattamento delle emozioni di un bambino. 1. L’abuso ai danni dei minori è sempre un abuso psicologico, un abuso dei sentimenti del minore; 2. se l’abuso è sempre un abuso emotivo, è opportuno che gli operatori delle diverse istituzione aumentino la loro capacità di contatto e di dimestichezza con la vita emotiva dei soggetti coinvolti nelle situazioni di abuso; occorre che gli operatori nello svolgimento del loro ruolo professionale specifico siano in qualche misura consapevoli dell’importanza della vita emotiva della vittima abusata e siano in qualche misura addestrati a trattare con i sentimenti delle persone; 3. se ciò che è decisivo nella risposta al maltrattamento è la capacità di incontro con la vita emotiva della vittima e se un tale incontro è sempre fonte di sofferenza mentale, diventa indispensabile imparare a tollerare e a filtrare tale sofferenza, imparando altresì a comprendere e a riconoscere i meccanismi di difesa da essa, cioè quei meccanismi difensivi a cui gli operatori e le istituzioni ricorrono per non incontrare le emozioni del maltrattamento, cioè il dolore, la rabbia, l’angoscia che circolano attorno ai casi di abuso. 2. L’abuso ai danni dell’infanzia è sempre un abuso emotivo L’abuso ai danni dell’infanzia è sempre un abuso emotivo. Il trauma non è un singolo episodio isolato, puntuale, il trauma è un disturbo prolungato della comunicazione e della relazione, che implica la circolazione di sentimenti. Il trauma non è semplicemente un evento che è capitato, il trauma è una relazione interpersonale traumatica, il trauma è un interazione continuativa. Non sono le percosse in quanto tali ad essere distruttive. Ovviamente la violenza fisica in sé stessa non è mai positiva, ma è accertato che non risulta particolarmente distruttivo il genitore che dà al figlio delle punizioni violente in un quadro di presenza sufficientemente amorevole e in un quadro di coerenza e di stabilità, che consente al figlio di rendere chiaramente leggibile il comportamento genitoriale e definire dentro di sé con chiarezza i criteri del giusto e dello sbagliato. Danneggia molto di più il proprio figlio il genitore che magari non alza mai le mani sul figlio, ma le cui interazioni quotidiane sono caratterizzate da assenza emotiva, indifferenza, incoerenza, rifiuto (cfr. A. Seganti, “L’approccio ecologico in psicoanalisi clinica”, Prospettive psicoanalitiche del lavoro istituzionale, sett.-dic. ‘89, n. 3) Una teoria dell’abuso non può che essere relativa ad una teoria dei bisogni ritenuti prioritari nell’essere umano e in particolare nel bambino. Prendiamo la teoria dei bisogni per molti aspetti ancora sottesa all’ordinamento giudiziario del nostro paese: il bisogno fondamentale del bambino è quello di essere assistito materialmente e di vivere con il proprio genitore, purché questi non abbandoni il figlio e non pregiudichi il suo sviluppo psicofisico. In cosa esattamente consista il pregiudizio allo sviluppo psicofisico del minore è lasciato a libere interpretazioni. Il bambino inoltre ha bisogno di essere educato e corretto da questo genitore, purché questi non esageri per esempio attraverso un abuso dei mezzi di correzione. É una teoria dei bisogni piuttosto primitiva, che ignora grossolanamente e non tiene affatto in considerazione la complessità dei bisogni emotivi del bambino. Si diffonde oggi la figura di un genitore capace di tenere mentalmente presenti i bisogni materiali dei figli, anche nell’incapacità più assoluta di percepirne i bisogni di definizione di Sé e di sicurezza affettiva, di rispettarne l’autonomia mentale e la vita emotiva. In base alla teoria dei bisogni sottesa in genere all’intervento delle istituzioni socio- giudiziarie, questi genitori sono al riparo rispetto a qualsiasi intervento di tutela giudiziaria ed istituzionale dei loro figli. Se poi appartengono ad un ceto non emarginato e capace di contrattazione sociale, sono in una botte di ferro. Se il figlio va in giro pulito e se i genitori si presentano bene, possono stare tranquilli: i figli rimarranno loro proprietà e nessuno darà loro fastidio, anche se magari la vita mentale di questi figli viene uccisa lentamente giorno dopo giorno. Prendiamo ora in considerazione la teoria dei bisogni dello psicoanalista Heinz Kohut. La teoria di Kohut rappresenta una rivoluzione copernicana nella psicoanalisi (cfr. R. Siani, La psicologia del Sé, Boringhieri, 1992), anche perché dà un’idea estremamente ricca e articolata dei bisogni emotivi ed affermativi del soggetto umano, dei suoi bisogni di relazione e di identità. La rappresentazione dei bisogni dell’essere umano nel modello classico della psicoanalisi freudiana è una rappresentazione molto più schematica e riduttiva essenzialmente basata sullo scarico delle pulsioni sessuali ed aggressive. Schematizzando una teoria assai complessa possiamo individuare tre bisogni fondamentali: 1. Il bisogno di rispecchiamento, il bisogno di ricevere una conferma positiva nella propria identità e nei propri desideri, nelle proprie ambizioni, il bisogno di definire un’immagine positiva di sé. 2. Il bisogno di idealizzare le figure genitoriali, il bisogno di trovare in loro punti di riferimento e di fiducia, capaci di calma, di coerenza, di sicurezza, di mediazione con le esigenze della realtà. Le situazioni paradigmatiche di frustrazione di questi due bisogni sono così esemplificate da Kohut e Wolf: “Primo esempio. Una bambina torna a casa da scuola, impaziente di raccontare alla madre grandi successi. Ma la madre invece di ascoltare con orgoglio, sposta la conversazione dalla bambina a se stessa e comincia a parlare dei propri successi che mettono in ombra quelli della bambina”. “Secondo esempio. Un bambino è impaziente di idealizzare suo padre; egli desidera che il padre gli racconti la sua vita, le battaglie nelle quali si è impegnato e che ha vinto. Ma il padre, invece di agire gioiosamente in accordo con i bisogni, è imbarazzato della richiesta. Si sente stanco ed annoiato, e andandosene da casa trova una temporanea fonte di vitalità per il suo Sé indebolito in una bettola, nel bere e nelle chiacchiere di sostegno reciproco con gli amici” (H. Kohut, E.S. Wolf, in H. Kohut, La ricerca del Sé, Boringhieri, 1982). 3. Il bisogno di gemellarità o di alter ego è un bisogno di comunione, di appartenenza alla comunità umana. “Il bambino piccolo, o anche il lattante, dice Kohut, raggiunge un vago, ma intenso e penetrante senso di sicurezza quando sente se stesso umano fra gli umani(...) La presenza pura e semplice di persone - voci, odori corporei, emozioni espresse da queste persone, rumori(...) dà al bambino una sicurezza , un senso di appartenere e di partecipare” (H. Kohut, La cura psicoanalitica, Boringhieri, 1986). Noi sappiamo che l’abuso non è un episodio isolato, ma un’interazione continuativa, prolungata nel tempo, ma a fini esemplificativi proviamo ad analizzare un momento specifico di una relazione abusante. Un bambino durante il pranzo ha fame e cerca di prendersi l’insalata. Questo comportamento normalmente è accettato dai genitori. Ma questa volta il padre s’arrabbia e grida al figlio di aspettare il proprio turno. Il padre è molto violento ed impulsivo, senza che sia prevedibile per il bambino sapere come, quando e perché potrà scattare lo scoppio di rabbia del padre. Quando viene il proprio turno il bambino si rifiuta di mangiare l’insalata. Il padre allora s’infuria e rovescia l’insalatiera sulla testa del bambino. Evidentemente l’abuso che si realizza in questo episodio non è principalmente un maltrattamento fisico, benché non faccia fisicamente piacere a quel bambino ritrovarsi in testa e in faccia l’unto dell’olio e il bruciore dell’aceto. L’abuso si realizza essenzialmente nella trasmissione dal genitore al figlio di un flusso di informazioni cariche di disprezzo e di negatività, l’abuso si consuma nella ferita di bisogni emotivi fondamentali del bambino. Se facciamo riferimento alla teoria dei bisogni di Kohut possiamo osservare che: a) un episodio di questo genere frustra il bisogno di rispecchiamento positivo del bambino, veicola un messaggio che negativizza e sporca oltre al viso del bambino la sua immagine di sé, la sua identità; b) in secondo luogo la violenza del padre non rispetta assolutamente il bisogno del bambino di vedere nel padre una figura da idealizzare, da stimare, su cui appoggiarsi idealmente ed emotivamente; c) in terzo luogo la reazione paterna non soddisfa certo il bisogno di gemellarità, di comunione del bambino: quest’ultimo con l’insalata in testa non si sentirà certo un piccolo ometto, umano, fra gli umani, ma piuttosto una bestia, un essere non riconosciuto nella propria umanità. Se vogliamo schematizzare in grossa approssimazione il rapporto tra trauma e sentimenti del bambino possiamo distinguere quattro livelli. 1. Ad un primo livello il trauma produce immediatamente nel suo accadimento sentimenti penosi: la violenza fisica determina per es. sensazioni di malessere nel corpo, sentimenti di protesta, di rabbia, di rivalsa; la violenza sessuale può generare per es. sentimenti di confusione, ma anche piacere fisico, eccitazione, illusione di ottenere rassicurazioni affettive, ecc... Ma questo primo livello non produce di per sé una sofferenza destrutturante; del resto ci sono tante esperienze della vita di un bambino, che possono produrre in lui nel loro accadere sentimenti più o meno dolorosi: la povertà della famiglia, la morte di un parente, la separazione dei genitori o, a un livello meno grave, il trasferimento in un’altra città, una malattia che costringe a stare per un certo periodo a letto. Tutte queste esperienze ingenerano emozioni spiacevoli, ma che non necessariamente assumono un carattere gravemente traumatico, se questo bambino può comunicare i propri sentimenti penosi ad un testimone soccorrevole, ad un interlocutore empatico capace in qualche modo di capire e di condividere tali sentimenti. 2. L’abuso vero e proprio si manifesta ad un secondo livello. Il bambino, che ha problematiche sessuali o ha subito addirittura approcci sessuali da parte di un adulto, che è vittima di violenze e di trascuratezze o che sta vivendo esperienze difficili in famiglia, è costretto a restare da solo con la propria pena, con le sue incertezze, con i suoi conflitti, solo con le proprie difficoltà emotive, senza nessuno con cui parlare, senza nessuno che si ponga come avvocato difensore, come testimone soccorrevole della sua sofferenza (Cfr. A. Miller, Il bambino inascoltato, Boringhieri, 1987). 3. Un terzo livello di relazione tra l’abuso e sentimenti del bambino è caratterizzato dalla confusione. Il bambino lasciato solo non può mettere ordine dentro di sé, non può fare nessuna chiarezza sui propri sentimenti. Per esempio i bambini vittima di situazioni di grave abuso psicologico vivono in nuclei familiari con acutissimi conflitti fra i genitori: questi bambini finiscono per assorbire le modalità sado-masochistiche della coppia genitoriale e per interiorizzare le strategie incestuose con cui un genitore cerca di sedurre e di usare il figlio contro l’altro genitore. Questi bambini sono caratterizzati da un forte movimento di affetti e di eccitazioni emotive e d’altra parte e da un altrettanto grande paralisi intellettiva. Essi finiscono per vivere come in una torre di Babele emotiva: l’odio si confonde con l’amore, l’affetto con la paura, il litigio con l’eccitazione. Uno di questi bambini affermava significativamente: “Quando i miei mi mettono fuori per litigare ho tanta voglia di entrare per giocare anch’io ... quando mi abbracciano mi viene voglia di scappare perché mi sembra di essere bastonato” (cfr. G. Levi, A. Haddad, Rischio psicopatologico e rischio di abuso in età evolutiva, in “Bambino Incompiuto”, Centro Studi Bambino Incompiuto, Roma, 1/’93. 4. Un quarto livello di relazione fra l’abuso e la vita emotiva del bambino è ancora più profondo e destrutturante. Di fronte ad una relazione traumatica che attacca gravemente i bisogni di rispecchiamento o di idealizzazione che il bambino avverte nei confronti dei propri genitori, di fronte per esempio all’abbandono affettivo da parte della figura materna, il bambino non solo perde la propria autostima sentendosi un bambino cattivo, indegno, non meritevole di essere amato, ma addirittura perde la possibilità di mantenere un contatto con una parte della propria vita emotiva individuale. Il bambino abbandonato che subisce questa grave frustrazione del proprio bisogno di vedersi rispecchiato in modo positivo e continuativo dalla propria madre non può vivere neppure in se stesso i propri sentimenti, le proprie esigenze individuali. Un ragazzo abbandonato a due anni dalla propria madre e vissuto per molti anni in istituto è riuscito a comunicarmi in analisi che quando era in compagnia e provava desiderio di un panino o di una Coca Cola, non solo si sentiva obbligato mostrarsi superiore a queste esigenze di fronte agli altri, ma anche doveva spegnere queste esigenze dentro di sé, doveva anche cancellare il proprio bisogno del panino o della Coca Cola per timore di essere percepito dentro la propria mente dai suoi coetanei, non avendo un’identità ben coesa e ben definita nei propri confini rispetto agli altri. Non solo dunque doveva esibire una superiorità grandiosa rispetto ai bisogni e rispetto ai desideri, ma anche si sentiva costretto a staccare il contatto con questi bisogni dentro di sé, a tagliare i fili del collegamento con questi bisogni interni. Non è semplice comprendere questa esperienza di vuoto, di mancanza di contatto fra il soggetto e se stesso, fra il soggetto e i propri bisogni, fra il soggetto e i propri sentimenti ed altrettanto difficile riuscire ad empatizzare sul piano emotiva con chi vive questa “scissione verticale” del proprio Sé. Un altro bambino abbandonato a tre anni dai propri genitori biologici aveva un tale bisogno di compiacenza nei confronti dei genitori adottivi da non riuscire mai ad esprimere un sentimento di rabbia o di fastidio nei loro confronti. Questo bambino aveva chiesto e purtroppo ottenuto dai propri genitori adottivi di cambiare il proprio nome di battesimo da Carmelo a Giorgio, nel tentativo di cancellare il proprio passato e tutta la vita emotiva connessa a questo passato. I genitori adottivi erano stati selezionati, come spesso succede, senza ricorrere al criterio della sensibilità e del rispetto per la vita emotiva e, dopo l’inserimento adottivo del bambino, non erano stati affatto sostenuti ed aiutati. Questi genitori, nel tentativo di fare del figlio adottivo il figlio ideale che avevano sempre desiderato, avevano colluso con la tendenza del bambino a cancellare Carmelo per far vivere un Giorgio ideale pieno di buone intenzioni. Ovviamente i sentimenti di rabbia e di fastidio scissi dalla vita mentale del bambino non potevano essere cancellati, tant’è vero che dopo qualche anno Giorgio incendiò, senza neppure dare l’allarme, la cantina di casa. Giorgio in realtà non riusciva a provare sentimenti di fastidio o di odio ed era pieno di buone intenzioni, ma Carmelo dentro di lui rimaneva profondamente arrabbiato: nella parte “Carmelo” rimasta dentro Giorgio ardeva il fuoco incendiario dell’odio. 3. La necessità di un maggiore contatto con la vita emotiva da parte degli operatori Piera è una delle numerose bambine e ragazze che hanno potuto trovare il coraggio e l’occasione di rivelare il loro dramma di bambine abusate sessualmente, utilizzando gli stimoli della nostra proposta e del nostro metodo di educazione sessuale che portiamo avanti nelle scuole come Centro Studi Hänsel e Gretel. (cfr. C. Roccia, C. Foti, L’abuso sessuale sui bambini. Educazione sessuale, prevenzione, trattamento, Unicopli, 1994). Nel trattamento dei casi di abuso si può massimamente verificare il principio che risulta fondamentale nelle scienze umane e peraltro nella scienza fisica moderna per cui la posizione soggettiva del ricercatore condiziona il risultato della ricerca. In altri termini il principio per cui la soggettività dell’operatore condiziona la risposta dell’utente o del minore a cui l’intervento è rivolto. Se io propongo un metodo di educazione sessuale con una finalità essenzialmente informativa e non già formativa, con un contenuto prevalentemente igienico sanitario e con una metodologia passivizzante basata sulla lezione tradizionale, al termine del mio intervento otterrò le solite domande dei pochi bambini e dei pochi ragazzi che sono riuscito a coinvolgere, ma difficilmente stimolerò delle rivelazioni autentiche di casi di abuso sessuale. Alla fine potrò anche convincermi che i minori in fondo non sono molto interessati a parlare di sessualità e soprattutto potrò mantenere la convinzione rassicurante che l’abuso sessuale è un fenomeno assolutamente minoritario che non emerge e non riguarda i minori con cui entro in contatto. Se invece propongo un metodo di educazione sessuale basato sul gioco e sull’interazione fra me e il gruppo classe, disponendo peraltro di più incontri a mia disposizione (almeno tre) e se inoltre ho in testa un’idea della sessualità che non prescinda dalla vita emotiva, che non elimini i problemi della relazione affettiva o aggressiva che intersecano necessariamente la sessualità e se infine nel corso del mio intervento scelgo di fare esplicito riferimento al problema dell’abuso sessuale in danno dei minori e ne parlo cercando di mettermi nei panni dei bambini abusati e della loro indicibile sofferenza, della loro enorme confusione, dei loro terribili sensi di colpa, otterrò che spesso, molto spesso, tragicamente spesso, entrerò in contatto nella mia attività di educazione sessuale con bambini, con bambine, con ragazzi, con ragazze oggetto in varie forme di abuso sessuale. Piera ha quindici anni e partecipando ad una lezione di educazione sessuale è colpita dall’affermazione della nostra formatrice che dichiara: “La sofferenza di una bambina abusata sessualmente da un adulto è una sofferenza tremenda”. Piera trova la forza per prendere contatto a tu per tu con la formatrice. Per quattro anni, dagli otto agli undici anni, è stata abusata sessualmente dallo zio: i genitori erano troppo impegnati a litigare, a tradirsi, a separarsi e a rimettersi insieme, per accorgersi di cosa stava capitando alla figlia. Quando se ne sono accorti hanno avuto entrambi una reazione di estrema minimizzazione dell’accaduto, continuando a frequentare lo zio e dicendo continuamente a Piera di non farla tanto grossa. “In fondo - dicono i genitori alla terapeuta - è stata solo toccata, masturbata e non altro e poi non può essere vero che i rapporti sessuali sono durati per tanto tempo, e inoltre bisogna maturare, imparare a lasciar perdere, a dimenticare.” Un messaggio diametralmente opposto a quello che Piera ha sentito nel corso dell’educazione sessuale: “La sofferenza di una bambina abusata sessualmente da un adulto è una sofferenza tremenda”. I genitori accettano di portare Piera al nostro Centro, ma alla quarta seduta dichiarano piuttosto infastiditi di voler interrompere i colloqui terapeutici di Piera: “Non guarisce - dicono i genitori -dalla sua depressione, anzi peggiora, invece di cancellare quanto successo con lo zio, torna sull’episodio nonostante siano passati quattro anni. Noi abbiamo portato la bambina sperando che non ne parlasse più, bisogna imparare ad essere forti a controllare i sentimenti più infantili”. Piera invece, stimolata dalle prime sedute terapeutiche, chiede insistentemente alla madre di poterne parlare dopo anni e anni in cui veniva rimproverata e zittita tutte le volte che tentava di affrontare l’argomento. Chiede per esempio alla madre che cosa avrebbe fatto lei al suo posto. “Semplice! - le risponde peraltro la madre - Avrei cercato di non restare in luoghi isolati con lui”. Dunque i genitori di Piera hanno una ricetta che a ben vedere in forme particolarmente estreme coincide con la ricetta della cultura dominante nei confronti del maltrattamento e dei traumi connessi al maltrattamento. Bisogna cancellare la vita emotiva! É la ricetta che inconsapevolmente o consapevolmente sottende tante risposte di psicologi, medici, giudici, educatori, operatori sociali e istituzioni varie. Bisogna cancellare la vita emotiva! I genitori di Piera vogliono interrompere il contatto che la figlia ha iniziato a riprendere con i sentimenti conflittuali che avevano accompagnato i rapporti con lo zio, il vissuto doloroso di essere invisibile per la propria madre, la sensazione di essere sacrificata allo zio, il senso di colpa schiacciante per il piacere che talvolta ricercava con lo zio pressata dai suoi ricatti e dal bisogno di cercare in qualche maniera un calore affettivo e un qualche riconoscimento della propria importanza e del proprio valore come persona. I genitori vogliono interrompere la terapia e la seduta si preannuncia come decisiva. O la va o la spacca. O la terapeuta riuscirà a far breccia in qualche modo nella vita emotiva dei genitori stessi e a cogliere le radici emotive del loro atteggiamento difensivo oppure il contatto con Piera e con la sua vicenda sarà irrimediabilmente perso. “Ma cosa avete provato quando avete saputo dei rapporti fra Piera e lo zio? Quali sentimenti avete provato?”, chiede la terapeuta. Si tratta di una domanda che era già stata fatta, ma adesso la terapeuta la propone con più forza e la riprende di fronte al tentativo dei genitori di non rispondere. “Com’è che cambiate argomento, vi ho chiesto di dirmi cosa avete sentito alla notizia dei rapporti sessuali fra lo zio e Piera? Non è possibile che non avete provato delle emozioni... Genitori come voi che vogliono così bene alla figlia da preoccuparsi di lei al punto da portarla da uno psicologo non possono avere il cuore di pietra, non posso crederci”: è l’affondo del terapeuta. A questo punto la madre mostra qualche esitazione: un tremito nel suo atteggiamento così deciso e composto. Si intravede un accenno di pianto. Evidentemente è fondamentale in questi casi decidere di sollecitare a pieno, senza riserve, l’incontro con la vita emotiva dell’interlocutore. Il terapeuta può avere a questo punto lui stesso la tentazione di scantonare dall’incontro per non far entrare nella propria mente il dolore e l’incertezza emotiva del soggetto che gli sta di fronte. Ma un terapeuta in particolare, e più in generale un operatore che tratta un caso d’abuso, non può evitare di assumere nella propria mente una quota del dolore del proprio interlocutore, come mezzo indispensabile per conoscere e per aiutarlo. “Signora, sento che vorrebbe piangere, ho l’impressione che abbia buone ragioni per farlo”. Non solo uno psicoterapeuta, ma anche un operatore che tratta a qualsiasi titolo nell’istituzione sanitaria, scolastica, sociale o giudiziaria un caso d’abuso, deve accettare ed imparare a trattare con le emozioni. Se non lo accettasse sarebbe come un chirurgo che non vuol vedere il sangue, come un meccanico che non vuole sporcarsi di grasso, come un contadino che non vuole vedere i calli nelle proprie mani. La madre di Piera attraverso il contatto con la propria vita emotiva riesce a chiarire il senso del proprio atteggiamento di minimizzazione estrema della sofferenza della figlia. Ella stessa si sentiva terribilmente in colpa per quanto accaduto a Piera. Gli anni dell’abuso della figlia sono stati gli anni delle più aspre divergenze sentimentali e coniugali fra lei e il marito. Minimizzando e rimuovendo l’accaduto, tentava di minimizzare e di rimuovere il proprio senso di colpa. Per raggiungere questo obiettivo, in piena sintonia con il marito, si era convinta che l’unico modo per aiutare la propria figlia fosse quello di aiutarla a dimenticare o meglio a cancellare l’esperienza, al punto di contrastare le stesse percezioni della figlia circa la gravità del rapporto con lo zio e circa la stessa durata di questo rapporto (quattro anni e non sei mesi, come sostenevano i genitori!). “Noi pensavamo - essi dichiarano - che se la convincevamo a ridimensionare quanto successo l’avremmo sollevata psicologicamente”. Freud diceva che gli isterici soffrono di reminiscenze e affermava giustamente la necessità terapeutica di ricordare, di ripetere, di rielaborare. Possiamo affermare che le vittime di abuso soffrono per non poter ricordare, per non poter “ripetere” attraverso il racconto l’accaduto, per non poter rielaborare l’accaduto e i sentimenti da esso generati di fronte alla presenza empatica di un interlocutore. “Di fronte alla presenza empatica di un interlocutore”: questa è un’aggiunta indispensabile. Non basta dire rielaborare e basta, occorre aggiungere: di fronte alla presenza empatica di un interlocutore. Il trauma si determina in un contesto relazionale (di tipo negativo) e solo in un altro contesto relazionale (questa volta di tipo positivo) è possibile dare una risposta efficace ai diversi livelli al trauma. I traumi derivano dall’incapacità dell’adulto di rispettare l’alterità del minore, d’immedesimarsi con i suoi bisogni emotivi “altri” rispetto a quelli dell’adulto. Il trauma nasce da un atteggiamento scarsamente empatico e rispondente dell’adulto e la risposta efficace al trauma in qualsiasi ambito istituzionale ed operativo non può avvenire se non in un contesto di rispetto dell’alterità dei bisogni del bambino, in un contesto di empatia. Non basta dunque che i sentimenti vengano comunicati, esternati, espressi, occorre che vengano esternati di fronte appunto alla presenza empatica di un interlocutore. In questo senso dobbiamo andare oltre Freud e superare il suo modello pulsionale. Vorrei spiegarmi con un esempio che può riferirsi all’esperienza personale di ciascuno. Quando noi siamo nervosi e arrabbiati per qualcosa di più o meno grave che ci è capitato, possiamo scaricare la nostra rabbia, possiamo prendercela con un oggetto, con un automobilista, o con un arbitro di una partita (meglio così piuttosto che scaricarci contro un bambino). Ma non è lo scaricare la rabbia in quanto tale che ci fa star meglio, che ci rende più sereni come invece ci aspetteremmo in base al modello pulsionale. Anzi può succedere il contrario: sto guidando da solo, sono arrabbiato, me la prendo con un automobilista e mi ritrovo ancora più teso ed inoltre non mi piaccio affatto nel vedermi lasciare andare all’impulso. Ma se sto guidando poniamo con un’altra persona che vede che me lo sto prendendo con un automobilista, una persona che conosce e intuisce la radice emotiva del mio sfogo di rabbia e mi dice per es.: “Certo, quello che ti è successo è proprio spiacevole”, può darsi allora che la mia rabbia s’attenui, perché mi trovo di fronte a un rispecchiamento positivo, c’è una persona infatti che mi aiuta a dare un valore al mio sfogo, che mi aiuta a mettere ordine dentro di me, a non colpevolizzare, a non scindere da me il mio sentimento di rabbia, a sentirlo mio, a sentirlo parte legittima, significativa, buona di me. Solo allora il mio essermi scaricato mi fa stare meglio: mi sento infatti più intero, più integro rispetto a me stesso, rispetto alla mia vita emotiva, che è l’essenza del mio essere. Tutto questo è spiegato dal modello relazionale della psicoanalisi e dalla psicologia del sé di Kohut. Non sono solo gli psicologi o gli psicoterapeuti a dover essere sollecitati ad un maggiore disponibilità empatica, ad una maggiore tolleranza della vita emotiva, ad un maggior impegno all’interazione autentica con i soggetti coinvolti dall’abuso. Tutte le figure professionali devono essere stimolate in questa direzione, ciascuna nel rispetto della propria specifica competenza professionale. Quindi questo discorso non può essere confuso con una sollecitazione nei confronti dell’insegnante, del giudice o dell’operatore sociale a scimmiottare il ruolo dello psicologo. Il discorso è radicalmente un altro: si tratta di evitare la delega del trattamento della vita emotiva allo specialista dei sentimenti, allo psicologo e lo psicoterapeuta, visti come detentori del monopolio del contatto con le emozioni delle persone. Inoltre non è scritto da nessuna parte che lo psicologo o lo psicoterapeuta in quanto possessori di un titolo formale, siano realmente capaci e disponibili a ben trattare le emozioni di chi è stato “mal trattato” da un punto di vista emotivo. Il buon trattamento non è questione di istruzione, bensì di disponibilità e di empatia, di capacità di non confondere i propri sentimenti con quelli altrui, di capacità di tollerare e filtrare il dolore mentale. É necessario una maggiore disponibilità empatica, un maggior rispetto della vita emotiva dei soggetti coinvolti nei casi di abuso da parte di tutte le figure professionali interessate nel rispetto delle specifiche competenze professionali. Siamo così giunti alla necessità di sviluppare una consapevolezza sui meccanismi difensivi a cui in maggiore o minore misura tutti gli operatori, chiamati ad intervenire sui casi di abuso, tendono a ricorrere nel tentativo di proteggersi dal contatto con il dolore mentale che circonda la violenza all’infanzia. 4. Abuso all’infanzia e meccanismi di difesa dalla sofferenza Gli operatori che sul piano sociale, sanitario, educativo o giudiziario entrano in contatto con il fenomeno della violenza sessuale sono dunque inevitabilmente sollecitati a riattraversare esperienze di un qualche disagio e problematiche personali concernenti la sessualità. Essi sono chiamati a far fronte a un duplice impatto con il dolore, quello appartenente al proprio passato soggettivo e quello appartenente al presente del nucleo familiare dove si svolge l’abuso. Da qui deriva una comprensibile esigenza di ricorrere a tendenze difensive. Analizzeremo in particolare cinque meccanismi di difesa a cui ricorrono gli operatori (giudici, assistenti sociali, psicologi, medici, educatori etc.) per difendersi dalla sofferenza legata alla violenza sessuale ed esamineremo alcune conseguenze di questi meccanismi di difesa nella gestione dei casi (cfr. C. Roccia, C. Foti (a cura di), L’abuso sessuale sui minori, Milano, Unicopli. 1994). 4.1. Distacco emotivo La sofferenza del minore non viene percepita dall’operatore che, per lo più inconsapevolmente, blocca la propria sensibilità ed affettività e pertanto non risulta capace di immedesimarsi con i sentimenti che può vivere la vittima. Lo stesso distacco emotivo si realizza nei confronti del disagio del nucleo familiare incestuoso. Spesso casi di incesto gravissimi (per esempio famiglie nelle quali padre e figlia hanno avuto una relazione sessuale per anni) sono stati definiti “non gravi” dagli operatori in quanto il minore non rientrava nello stereotipo della vittima totalmente innocente caro ai criminologi dell’inizio secolo (bambina piccola e fragile, bambina che piange e che chiede aiuto). L’adolescente che collude con le dinamiche incestuose famigliari (situazione assai frequente) viene vista più come “complice” che come “vittima”. La sofferenza viene percepita quindi solo se è così evidente da non poter più essere negata, altrimenti prevale nell’operatore un’indifferenza emotiva nei confronti della minore. In molti casi le vittime rimangono, o ritornano, a vivere con l’autore dell’abuso sessuale, anche se quest’ultimo viene considerato colpevole del reato contestatogli. Per esempio dai dati rilevati dalla ricerca emerge che 18 minori sono rimasti, o tornati, nella stessa abitazione con l’autore dell’abuso sessuale dopo la segnalazione; in pochi casi questa decisione si giustifica con il fatto che le accuse formulate si erano rivelate non corrispondenti a verità, mentre nella maggior parte dei casi invece la convivenza fra vittima e autore dell’abuso si è verificata in seguito alle ritrattazione delle accuse contro il genitore abusante oppure anche solo a seguito della richiesta del minore. Anche in questo caso si è prodotto nell’operatore un blocco della capacità d’identificazione affettiva con l’adolescente vittima. Le sorelle e i fratelli delle vittime di incesto non vengono quasi mai allontanati dal nucleo famigliare incestuoso. Nei casi esaminati dalla ricerca nessun minore non direttamente vittima di abuso sessuale è stato allontanato dal nucleo familiare in quanto considerato “a rischio” per il ripetersi dell’abuso. Con questo atteggiamento le istituzioni possono creare in alcuni casi le condizioni necessarie o predisponenti affinché degli altri abusi sessuali vengano commessi in futuro sulle sorelle e sui fratelli delle attuali vittime di un abuso sessuale intrafamiliare. É cosa risaputa (Gulotta e Vagaggini, 1981, Franchini e Introna, 1982) che i reati sessuali sono fra quelli che hanno i maggiori indici di recidività. Ciò significa che vi sono altissime probabilità che un uomo che ha violentato una donna, o una bambina, commetta altri reati sessuali su altre vittime. Lasciare delle figlie minori nella stessa casa con un tale individuo, senza creare i presupposti per impedire il ripetersi dell’abuso (con una psicoterapia dell’autore e della famiglia, per esempio) è senza dubbio un atto di trascuratezza e di grave negligenza da parte delle istituzioni. Anche se l’autore dell’abuso sessuale non dovesse essere condannato presso il Tribunale Ordinario, se in sede di Tribunale per i Minorenni il giudice crede che davvero in quella famiglia si sia verificato un abuso sessuale non dovrebbe permettere che, allontanando la vittima, le stesse violenze possano ripetersi sulle sorelle o i fratelli. Esistono del resto specifiche norme giuridiche che consentono al giudice di allontanare i minori da casa se la situazione si configura come “pregiudizievole”. 4.2. Rimozione Spesso gli operatori riescono a vedere il problema relativo ad un abuso sessuale, ma non riescono a “conservarlo” nella mente al fine di poterlo affrontare e rielaborare: la complessità e l’incertezza della situazione, l’impossibilità di risposte immediate e risolutive potrebbero produrre intollerabili vissuti di dolore e di impotenza negli operatori. Da qui l’esigenza di “dimenticare”, di allontanare il problema dalla consapevolezza. 4.3. Razionalizzazione Per difendersi dal contatto con il dolore proprio e altrui gli operatori possono ricorrere a giustificazioni razionali e scientifiche, o meglio, apparentemente tali, per dimostrare a se stessi e agli altri che il caso “in fondo non è poi così grave”. Possono inoltre fare riferimento al patrimonio della prassi istituzionale, all’interpretazione dei compiti, alla definizione dei ruoli per argomentare che tocca a qualcun altro affrontare il problema. Il giudice affermerà allora che non ci sono prove sufficienti, l’insegnante dimostrerà che non è corretto mettersi contro le famiglie, l’operatore sociale sosterrà che ha già fatto la segnalazione, il neuropsichiatra infantile dirà che occorre attendere la motivazione della madre a chiedere aiuto, il pediatra farà una lettura rassicurante dei sintomi del bambino e lo psicologo avrà sempre a disposizione l’interpretazione per cui si tratta comunque di “fissazioni edipiche”. Spesso gli operatori non credono alle parole dei bambini che accusano i genitori di reati sessuali, appoggiandosi a teorie difensive elaborate in chiave adultocentrica da criminologi, psichiatri, psicoanalisti, medici, giudici etc.. Lo scetticismo e la razionalizzazione portano molti operatori a non fare accertamenti o indagini su accuse rivolte da minorenni, ignorando la segnalazione di abuso sessuale o considerandola aprioristicamente falsa. 4.4. Scissione Nella contrapposizione assoluta tra il positivo e il negativo gli operatori si collocano dalla parte del bene, evitano qualsiasi messa in discussione del proprio operato e pongono dalla parte del male il genitore abusante o il suo nucleo familiare. Questi ultimi vengono così demonizzati e considerati, in modo aprioristico o non sufficientemente verificato, privi totalmente di risorse positive e quindi sono diagnosticati come irrecuperabili, e di conseguenza abbandonati a loro stessi. A volte il minore viene allontanato, temporaneamente o definitivamente, dal nucleo famigliare, a volte invece la famiglia, incluso il minore vittima di abuso, viene di fatto abbandonata a se stessa in quanto è considerato inutile ogni intervento sociale o terapeutico finalizzato ad un cambiamento. A ben vedere la negativizzazione della famiglia e l’attribuzione ad essa di un carattere di irrecuperabilità consente agli operatori di risparmiare una notevole quota di sofferenza, di ansia, di rabbia, di impotenza che essi necessariamente dovrebbero imparare a tollerare se proseguissero nell’approfondimento della conoscenza e del contatto con quella situazione familiare. 4.5. Idealizzazione dei genitori La famiglia viene idealizzata e l’operatore si illude che essa possa cambiare quasi magicamente, in assenza di aiuti terapeutici o sociali. Anche questo meccanismo di difesa ha un evidente effetto di risparmio di energie mentali. Spesso le madri delle vittime vengono idealizzate dagli operatori, cioè le loro qualità positive vengono sopravvalutate, mentre non vengono tenuti adeguatamente in considerazione i loro limiti.