Arthur Schopenhauer
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Arthur Schopenhauer
Arthur Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione I, 1 “Il mondo è la mia rappresentazione”: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, anche se l’uomo soltanto è capace di accoglierla nella sua coscienza riflessa e astratta: e quando egli fa veramente questo, la meditazione filosofica è penetrata in lui. Diventa allora per lui chiaro e certo che egli non conosce né il sole né la terra, ma sempre soltanto un occhio, che vede un sole, una mano, che sente una terra; che il mondo, che lo circonda, non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre soltanto in rapporto ad un altro, a colui che lo rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori, è proprio questa: perché essa è l’espressione di quella forma d’ogni possibile ed immaginabile esperienza, che è piú universale di tutte le altre, piú del tempo, dello spazio e della causalità; dato che tutte queste presuppongono appunto quella. E se ciascuna di queste forme, che noi abbiamo riconosciute tutte come altrettanti particolari modalità del principio di ragione, vale solo per una particolare classe di rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di tutte quelle classi, è quell’unica forma sotto la quale qualsivoglia rappresentazione, di qualsiasi natura, astratta o intuitiva, pura o empirica, è possibile e pensabile. Nessuna verità è dunque piú certa, piú indipendente da ogni altra, meno bisognosa di una prova, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, cioè questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una parola: rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente, cosí per ogni passato e per ogni futuro, per ciò che è piú lontano come per ciò che è vicino: perché vale anche per il tempo e lo spazio, nei quali soltanto tutto viene distinto. Tutto quanto appartiene e può appartenere al mondo, ha inevitabilmente per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione. [...] Solo dunque dal punto di vista indicato, ossia in quanto è rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro. Che, tuttavia, questa considerazione, nonostante la sua verità sia arbitraria, risulta evidente a ciascuno in virtú dell’intima riluttanza che egli prova a concepire il mondo soltanto come sua mera rappresentazione; anche se a questo concetto egli non può certo mai sottrarsi. I, 5 Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o piú precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve cosí il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe quindi essere formulata cosí: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione: fra questi e quello è adunque rotto il ponte, e in base a ciò si distinguono tra loro. [...] L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto. [...] Calderon infine era preso cosí profondamente da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno. Dopo tutti questi passi di poeti sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine. La vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è invero senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve quindi considerare solo come un’unica pagina piú lunga. Anche se, dunque, i singoli sogni sono distinti dalla vita reale in quanto non entrano in quella connessione dell’esperienza, che costantemente continua per tutta la vita; anche se il risveglio rivela questa differenza; tuttavia è proprio quella connessione dell’esperienza che già appartiene, come sua forma, alla vita reale ed il sogno stesso mostra anch’esso una connessione, che si trova a sua volta in se stesso. Se, dunque, per giudicare scegliamo un punto di riferimento esterno ad entrambi, non troviamo nella loro essenza nessuna distinzione precisa e siamo cosí costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno. I, 34 Quando, sollevati dalla potenza dello spirito, rinunciamo a considerare le cose secondo la maniera volgare e cessiamo di ricercarne soltanto le reciproche relazioni, il cui ultimo termine è sempre la relazione con la nostra volontà, secondo gli aspetti del principio di ragione; quando non consideriamo piú il dove, il quando, la causa e la finalità delle cose, ma unicamente ciò che esse sono; quando non permettiamo che s’impadroniscano della coscienza il pensare astratto, i concetti della ragione; ma, al contrario, dedichiamo tutta la forza del nostro spirito all’intuizione, sprofondandoci in essa, e lasciamo che tutta la nostra coscienza sia riempita dalla tranquilla contemplazione dell’oggetto naturale, che ci sta dinanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edificio o qualche altra cosa; quando, secondo un’efficace espressione, ci perdiamo completamente in quell’oggetto, ossia dimentichiamo la nostra individualità, la nostra volontà e non rimaniamo nient’altro che soggetto puro, chiaro specchio dell’oggetto; come se l’oggetto solo esistesse, senza che nessuno lo percepisse, e non è piú possibile distinguere colui che intuisce dall’intuizione stessa, poiché sono diventati una sola cosa essendo l’intera coscienza riempita e posseduta da una sola immagine intuitiva; quando dunque l’oggetto si è in tal modo liberato da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto si è liberato da ogni relazione con la volontà: allora ciò che viene cosí conosciuto non e piú la cosa particolare in quanto tale, ma è l’idea, l’eterna forma, l’immediata oggettità della volontà in quel grado: perciò appunto non è piú l’individuo quello che è rapito in tale intuizione: proprio l’individualità infatti si è annullata: egli è invece puro soggetto della conoscenza, liberato dalla volontà, dal dolore, dal tempo. [...] Il puro soggetto della conoscenza e l’idea, che ne è il correlato, si trovano fuori da ogni forma del principio di ragione: il tempo, il luogo, l’individuo che conosce e l’individuo che viene conosciuto non significano nulla per essi. Non appena accade che un individuo conoscente si elevi, come abbiamo detto, a puro soggetto del conoscere, innalzando in tal modo l’oggetto conosciuto a idea, si mostra integro e puro il mondo come rappresentazione e si effettua la completa oggettivazione della volontà, dato che di questa adeguata oggettità è solo l’idea. Questa racchiude in sé tanto l’oggetto quanto il soggetto, dato che entrambi ne sono l’unica forma: in essa, però, soggetto e oggetto si trovano in perfetto equilibrio: come l’oggetto qui altro non è se non la rappresentazione del soggetto, cosí anche il soggetto, che tutto si perde nell’oggetto intuito, è divenuto tutt’uno con l’oggetto, in quanto l’intera conoscenza altro non è se non la piú limpida immagine di esso. I, 38 Nella contemplazione estetica abbiamo ritrovato due inseparabili elementi: la conoscenza dell’oggetto, non come cosa singola, ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta questa specie di oggetti; e la coscienza del soggetto conoscente, non come individuo, ma come soggetto della conoscenza puro, libero dalla volontà. [...] Finché dunque la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché siamo abbandonati all’impulso dei desideri, col suo perenne sperare e temere, finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa duratura felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia o in fuga, che temiamo sventura o ci affatichiamo per la gioia, essenzialmente è la stessa cosa: la preoccupazione della volontà con le sue continue esigenze, sotto qualsiasi aspetto, riempie e agita senza posa la coscienza; e senza pace nessun reale benessere è mai possibile. Il soggetto del volere è cosí senza tregua legato alla volgente ruota di Issione, attinge sempre col vaglio delle Danaidi, è Tantalo che in eterno si strugge. Quando però una causa esteriore, o una disposizione interna ci trae all’improvviso fuori dall’infinita corrente del volere e sottrae la conoscenza alla schiavitú della volontà, e quando l’attenzione non è piú rivolta ai motivi del volere, ma percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente oggettivo, immergendosi tutta in esse, in quanto esse sono mere rappresentazioni e non motivi: allora sopraggiunge, improvvisa e spontanea, quella pace che, sempre dapprima cercata sulla via del volere, ognora sfuggiva, e noi siamo allora perfettamente felici. È quello stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene e come condizione degli dèi: perché noi siamo, in quell’istante, liberati dal vile impulso della volontà, e celebriamo, noi forzati lavoratori della volontà, il nostro giorno di festa: la ruota di Issione si arresta. Questo è appunto lo stato, da me piú sopra descritto come necessario per la conoscenza dell’idea in quanto pura contemplazione, assorbimento nell’intuizione, smarrimento di sé nell’oggetto, oblio di ogni individualità, abolizione della conoscenza legata al principio di ragione, che afferra soltanto relazioni; è lo stato, in cui immediatamente e inseparabilmente il singolo oggetto intuito si eleva all’idea della sua specie, l’individuo conoscente si eleva a puro soggetto del conoscere libero dalla volontà, ed entrambi, in quanto tali, non si trovano piú nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. È indifferente, allora, se il sole che tramonta si veda da un carcere o da un palazzo I, 54 Chi è oppresso dal peso della vita, chi vorrebbe e afferma la vita, ma ne aborre i tormenti, e soprattutto non riesce a tollerare piú a lungo il duro destino, che proprio a lui è capitato: questi non deve sperare una liberazione dalla morte, e non può salvarsi col suicidio; solo con un falso miraggio lo attrae l’oscuro, freddo Orco, come porto di quiete. La terra si volge dal giorno verso la notte; l’individuo muore; ma il sole arde senza interruzione in eterno meriggio. Alla volontà di vivere è assicurata la vita: la forma della vita è un presente senza fine; non importa che nascano e periscano nel tempo gli individui, fenomeni dell’idea, simili a sogni fugaci. Il suicidio ci appare già da questo come un’azione inutile e quindi stolta: quando saremo proceduti piú oltre nella nostra indagine, ci si presenterà in una luce ancor piú sfavorevole. I, 57 Ma il presente si trasforma continuamente in passato fra le sue mani: l’avvenire è del tutto incerto e sempre breve. È dunque la sua esistenza, anche se esaminata soltanto dal punto di vista formale, un continuo precipitare del presente nel morto passato, un continuo morire. Ma ora guardiamola anche dal punto di vista fisico; è chiaro che, come il nostro camminare non è notoriamente nient’altro che un cadere continuamente trattenuto, cosí la vita del nostro corpo è soltanto un morire continuamente trattenuto, una morte sempre rinviata: nello stesso modo, infine, l’attività del nostro spirito è una noia continuamente allontanata. Ciascun respiro allontana la morte sempre incalzante, con la quale in questo modo noi lottiamo ogni secondo; e cosí di nuovo a maggiori intervalli con ciascun pasto, ciascun sonno, ciascun riscaldamento, e cosí via. Alla fine la morte deve vincere: è ad essa, infatti, che apparteniamo, per il semplice fatto di essere nati; essa gioca soltanto un po’ di tempo con la preda, prima di inghiottirla. Nel frattempo continuiamo la nostra vita con grande interesse e molta cura, fin quando è possibile, come si gonfia il piú a lungo e il piú ampiamente che si può una bolla di sapone, pur con la ferma certezza che scoppierà. La vita dei piú altro non è se non una continua battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Quello poi che li fa continuare in questa battaglia cosí difficile non è tanto l’amore per la vita, quanto la paura della morte, di quella morte che tuttavia sta inevitabile sullo sfondo, e può giungere ad ogni momento. La stessa vita è un mare pieno di scogli e di vortici, che l’uomo si sforza di evitare con la massima cura e prudenza; pur sapendo che, anche quando, con ogni sforzo e abilità, riesca a scamparne, proprio per questo egli indirizza il suo timone in linea retta verso il piú grande, totale, inevitabile e irreparabile naufragio: verso la morte: questa è la méta finale del faticoso viaggio, molto peggiore per lui di tutti gli scogli, ai quali è sfuggito. I, 71 Ciò che viene universalmente supposto come positivo, ciò che noi chiamiamo l’ente, e la cui negazione è espressa nel concetto del nulla nel suo significato piú generale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità e specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo siamo poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in generale, come uno dei suoi aspetti: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi tutto ciò che da questo punto di vista esiste deve essere posto in un “dove” e in un “quando”. Negazione, soppressione e conversione della volontà significa anche soppressione e scomparsa del mondo, che la rispecchia. Non vedendo piú la volontà in questo specchio, invano ci domandiamo dove si sia rivolta, e ci lamentiamo allora perché essa non ha piú né “dove” né “quando”, ed è svanita nel nulla. Se fosse possibile per noi un punto di vista rovesciato, i segni si invertirebbero e comprenderemmo che ciò che per noi è l’ente è il nulla, e il nulla è l’ente. Sino a che, però, noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può da noi essere conosciuto solo negativamente, in quanto l’antico principio di Empedocle, che il simile può essere conosciuto soltanto dal simile, ci esclude ogni possibilità di conoscenza, come, al contrario, si fonda su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Il mondo è infatti l’autoconoscenza della volontà. Se tuttavia si volesse ancora insistere nel pretendere in qualche modo dalla filosofia una cognizione positiva di ciò, che essa può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non avremmo altra possibilità che richiamarci a quello stato, di cui hanno fatto esperienza tutti coloro, che sono pervenuti alla totale negazione della volontà, che ha avuto i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e cosí di seguito; ma questo stato non può essere chiamato una vera e propria conoscenza, perché non ha piú la forma del soggetto e dell’oggetto, ed è inoltre accessibile solo all’esperienza personale e incomunicabile. Noi, invece, che ci atteniamo al campo della filosofia, non possiamo che accontentarci della conoscenza negativa, paghi di aver toccato il confine estremo della positiva. Abbiamo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo niente altro che l’oggettità della volontà; abbiamo seguito questa oggettità dall’impulso inconscio delle forze oscure della natura sino alle piú lucide azioni dell’uomo, non vogliamo certo arretrare dinanzi alla conseguenza, che con la libera negazione e con la rinuncia della volontà vengono soppressi anche tutti quei fenomeni e quel continuo incalzare e spingere senza fine e senza sosta, in tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e pel quale il mondo consiste, viene soppressa la varietà delle forme, che di grado in grado si succedono, viene totalmente soppresso, con la volontà, il suo fenomeno, vengono ancora soppresse le forme generali del fenomeno, tempo e spazio, e finalmente la prima forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Nessuna volontà: nessuna rappresentazione, nessun mondo. Dinanzi a noi non resta in verità che il nulla. Ma ciò che si ribella contro questo dissolversi nel nulla, la nostra natura, e proprio nient’altro che la volontà di vivere, che è noi stessi, come è il nostro mondo. Il fatto che noi abbiamo tanto in orrore il nulla, non è se non un’altra manifestazione che noi avidamente bramiamo la vita, che nient’altro siamo se non questa volontà, che nient’altro conosciamo se non essa. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra miseria e limitatezza verso coloro, che hanno superato il mondo e nei quali la volontà, pervenuta alla piena conoscenza di sé, ha ritrovato se stessa in tutte le cose e quindi ha liberamente rinnegato se stessa; verso coloro, che ormai attendono soltanto di vedere svanire col corpo l’ultima traccia della volontà, che lo anima; allora, in luogo dell’incessante incalzare e spingere, in luogo del perenne passaggio dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore, in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, di cui è costituito quel sogno che è la vita di ogni uomo che ancora vuole, ci appare quella pace, che sta piú in alto di ogni ragione, quella totale quiete dell’animo, simile alla calma del mare, quel profondo riposo, imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e sicuro vangelo: solo la conoscenza è rimasta, la volontà si è dissolta. E noi volgiamo lo sguardo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale si mostra in piena luce, per contrasto, la miserevolezza e perdizione del nostro. Eppure questa considerazione è la sola che ci possa consolare durevolmente quando da un lato abbiamo riconosciuto che il dolore insanabile l’affanno senza fine sono essenziali al fenomeno della volontà, al mondo, è dall’altro vediamo che con la soppressione della volontà si dissolve il mondo, e che dinanzi a noi non rimane che il vuoto nulla. In tal modo, dunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che invero raramente ci è dato di incontrare nella nostra esperienza, ma che ci vengono posti sotto gli occhi dalle loro storie e, col suggello dell’intima verità, dall’arte, dobbiamo discacciare la tetra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo ad ogni virtú e santità e che noi temiamo, come i bambini le tenebre, e non già, come fanno gli indiani, eluderlo con miti e parole prive di senso, come il riassorbimento in Brahma o il Nirvana dei buddisti. Noi vogliamo piuttosto dichiararlo liberamente: ciò che rimane dopo la totale soppressione della volontà è certo, per tutti coloro che della volontà sono ancora pieni, il nulla. Ma al contrario per coloro nei quali la volontà si è spontaneamente rovesciata e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla.